intervista al teologo J. Moltmann: mi comprendo come un cristiano evangelico cattolico: in questo senso sono in comunione con i cristiani romani cattolici”

Jürgen Moltmann

la chiesa esiste solo al singolare


dal 25 al 28 ottobre 2017, il teologo riformato Jürgen Moltmann (fecondo autore tra gli altri di Teologia della speranza, Il Dio crocifisso, La Chiesa nella forza dello Spirito…) è stato presente a Bose in occasione del seminario su «La Riforma in prospettiva ecumenica» organizzato congiuntamente dall’Istituto biblico teologico Sant’Andrea di Mosca e dal Monastero di Bose. In margine a quell’incontro, Finestra ecumenica ha intervistato il grande pensatore tedesco di Tübingen, novantunenne, sul cammino verso l’unità tra le chiese.

 
Professor Moltmann, l’ecumenismo per lei non è solo un’idea, ma un’esperienza attiva. Ricordiamo in particolare la sua ventennale partecipazione alla commissione Fede & Costituzione del Consiglio ecumenico delle chiese, o la sua lunga collaborazione nel direttivo della rivista Concilium. Sulla base di queste esperienze, come descriverebbe l’ecumenismo? Che definizione ne dà?
 
Si tratta dell’unità visibile della chiesa! L’unità invisibile è già istituita, attraverso la preghiera sacerdotale di Gesù: «Che tutti siano uno» (Gv 17,21). Sono convinto che Dio ha esaudito la preghiera di Cristo: l’unità invisibile è dunque già realizzata. Per questo sono del tutto tranquillo e non spingo per l’unità visibile: ci verrà regalata un giorno.
 
Parla dell’unità della chiesa, e non dell’unità delle chiese o dei cristiani.
 
Sì, l’unità della chiesa, perché la chiesa esiste solo al singolare. «Credo la chiesa una, santa, cattolica e apostolica»: è quanto affermiamo nel Simbolo di Nicea. Le chiese locali sono una manifestazione di questa chiesa una.
 
Anche le diverse chiese confessionali allora sono da intendere come espressioni diversificate di quest’unica chiesa, dell’Una Sancta?
 
Certamente. Io stesso mi comprendo come un cristiano evangelico cattolico. In questo senso sono in comunione con i cristiani romani cattolici. Si tratta di un’unità invisibile, di un’unità nello Spirito. Abbiamo una comunione attraverso il battesimo, nel riconoscimento del battesimo amministrato nelle diverse chiese, e la comunione eucaristica ci sta ancora davanti, ma è vicina. Secondo me, in realtà, è già stata affermata nella dichiarazione di Lima su Battesimo, eucaristia, ministero (1982), del Consiglio ecumenico delle chiese, ma ugualmente nella Concordia di Leuenberg (1973), che unisce le chiese evangeliche europee e che anche dei teologi cattolici possono sottoscrivere. Un punto tuttavia rimane aperto: quello che riguarda il ministero, il servizio nella chiesa. Anche questo nodo potrebbe essere sciolto.
 
Che cosa manca per arrivarci?
 
La pazienza e una fede salda!
 
Suggerisce di realizzare l’intercomunione, cioè condividere la comunione eucaristica, e di discutere solo in un secondo tempo delle cose che ci dividono?
 
Sì, la comunità di fede appare quando le persone sentono l’invito di Cristo: «Siate riconciliati con Dio», e vengono insieme alla tavola dell’altare dove Cristo le aspetta. È Cristo che invita e dà il proprio corpo e il proprio sangue: non celebriamo nel nostro nome proprio o nel nome di una chiesa, ma nel nome di Gesù Cristo. La Cena del Signore è inseparabile da quanto è avvenuto sulla croce, sul Golgota. Lì, cattolici, protestanti, ortodossi non sono divisi: lì i peccatori sono perdonati, le vittime ritrovano i loro diritti, gli afflitti sono consolati e i disperati trovano nuova speranza. Come possiamo mantenere le separazioni gli uni dagli altri se insieme siamo riconciliati con Dio? La mia proposta è allora che dopo avere condiviso la comunione in comune, dovremmo rimanere insieme e discutere di quanto ci è successo nell’eucaristia, di quello che vi abbiamo vissuto. La comprensione viene dopo l’esperienza. La pratica è prima, la teologia seconda. In fondo, è come nella vita quotidiana: dopo avere mangiato e bevuto insieme, si è più distesi e più disposti al dialogo…
 
Ha scritto che il concetto di «diversità riconciliata» elaborato dalle chiese luterane è «il sonnifero dell’ecumenismo». Ci può spiegare cosa intende?
 
Nell’«ecumenismo ginevrino», portato avanti dal Consiglio ecumenico delle chiese, avevamo insistito sul rinnovamento delle chiese e l’unità della chiesa. La nozione di «diversità riconciliata» proviene dalla Federazione luterana mondiale, la quale non prevede più il rinnovamento delle chiese. Si finisce per addormentarsi, ammettendo la diversità senza più prendere atto dei cambiamenti, delle riforme, che sono esigiti in vista della visibilità dell’unità. La massima dell’ecumenismo che mi ha sempre convinto recita: «Più ci avviciniamo a Cristo, più ci avviciniamo gli uni agli altri». E questo movimento in avanti, verso Cristo, non è più presente nel concetto della diversità riconciliata, perché tutto vi rimane statico, il movimento è escluso.
 
Quale riforma nella chiesa è necessaria oggi, a cinquecento anni dall’inizio della Riforma protestante, per concretizzare un tale rinnovamento?
 
La Riforma del XVI secolo si proponeva di essere una riforma dell’unica chiesa, per questo la Riforma è imperfetta e incompiuta finché durerà la separazione tra le chiese evangeliche e la chiesa cattolica.
 
Nel XVI secolo sono stati soprattutto gli interventi dei poteri politici a intralciare questa riforma. Anche oggi i fattori politici ritardano o impediscono il cammino verso l’unità. Una «riforma per l’unità» che cosa dovrebbe dire o rispondere oggi alla comunità politica più ampia?
 
L’unità della chiesa, di ogni chiesa, non è fine a se stessa, ma è un fermento per l’unità di tutto il genere umano. E questa umanità unificata dovrebbe saper ascoltare il grido della terra… Se noi non pensiamo l’unità cristiana nell’orizzonte più ampio dell’unità e della cura del mondo in cui viviamo, cadiamo nella trappola della religione civile, dei nazionalismi, dell’alleanza con il potere, che anche oggi – lo vediamo bene – ostacolano l’unità tra i cristiani. Ogni chiesa dovrebbe manifestare l’universalità del cristianesimo che è presente in ogni tradizione, e mostrare come questa sua cattolicità sia al servizio dell’umanità intera.
 
La complementarietà tra «unità» e «cattolicità» dovrebbe essere maggiormente presa in considerazione?
 
Quando si parla di «unità», si ha in mente l’unità interna della chiesa. La nozione di «cattolicità» porta a vedere l’orizzonte esterno. Ora è il Regno di Dio a essere cattolico. E la chiesa è un’anticipazione del Regno di Dio nella storia di questo mondo. La cattolicità è una qualità derivata della chiesa. Per questo, la chiesa riconosce Israele come prima anticipazione del Regno di Dio e spera nella redenzione di Israele allo spuntare del Regno di Dio. Invito così a una riforma della speranza, in cui le chiese non si identifichino con il Regno, né lo riconoscano nei poteri del mondo, ma insieme tra loro e con il popolo della prima alleanza sperino e attendano la venuta di Cristo.
 
Nel suo lavoro teologico, si rifà volentieri alla «pericoresi» delle tre persone della Trinità. Quest’idea della comunione relazionale tra Padre, Figlio e Spirito santo si può anche applicare alla comunione tra le chiese?
 
L’unità della Trinità è il fondamento per l’unità della chiesa. Cipriano l’aveva già riconosciuto nel III secolo. Questo implica di riconoscere la Trinità come una Trinità sociale, e non come una Trinità psicologica. La chiesa, la comunione dei credenti, è l’immagine della Trinità. Un teologo russo ha affermato: «La Trinità è il nostro programma sociale». Lo ritengo corretto: infatti la piena unità del Dio trino è l’archetipo della comunione della creazione. Non solo degli umani, ma anche della comunione di tutto il creato.
 
Tornando alla collaborazione che ha avuto per lunghi decenni con cristiani di diverse confessioni, ci può dire cosa le ha insegnato?
 
Mi ha infinitamente arricchito. Ho riconosciuto una comunione nello Spirito santo o in Cristo con tutte le chiese, sia nell’ortodossia, sia nel mondo cattolico, ma anche nelle chiese pentecostali. In tutte le chiese ho ritrovato l’opposizione tra tradizionalismo e innovazione, rinnovamento. Ci sono dei fondamentalisti nelle chiese protestanti, dei tradizionalisti nella chiesa cattolica; le chiese pentecostali conoscono il contrasto tra coloro che trovano ispirazione nella fede e quelli che spingono per la missione. Le controversie oggi non si svolgono più lungo i confini confessionali. Solo raramente, ormai, le posizioni teologiche divergenti hanno qualche cosa in comune con quei confini. Ma con una nuova teologia possono nascere nuove forme di comunione.

negli USA un ecumenismo che perdica la guerra spirituale

ecumenismo dell’odio negli Usa

Un momento dell'incontro fra il Papa e il presidente statunitense Trump in Vaticano lo scorso 25 maggio

un momento dell’incontro fra il Papa e il presidente statunitense Trump in Vaticano lo scorso 25 maggio

 

un ecumenismo che predica la ‘guerra spirituale’ si sta diffondendo negli Usa:

Manicheismo 
“Negli Stati Uniti, il manicheismo politico-religioso è nato perché il linguaggio teologico ed ecclesiale, negli ultimi trent’anni specialmente, è divenuto molto polarizzato, a causa del sistema politico basato su due partiti. Quindi, su alcune questioni il laicato cattolico tende a identificarsi, anche dal punto di vista religioso, con i cattolici-repubblicani di un partito o i cattolici-democratici dell’altro. E’ un fenomeno che deriva dal sistema politico americano, ma anche dal carattere militante del suo cristianesimo, inclusa la Chiesa cattolica”. Massimo Faggioli, storico del cristianesimo, docente alla Villanova University di Philadelphia, commenta e spiega il saggio su “Fondamentalismo evangelicale e integralismo cattolico” apparso sulla rivista ‘La Civiltà Cattolica’, un articolo che ha suscitato un ampio dibattito.

 

Una politica soggetta alla religione 
“Gli Usa sono un paese fondato da una comunità di cristiani molto credenti, convinti che fosse necessaria una rifondazione sociale e politica totale per vivere insieme sotto il controllo della religione”, spiega Faggioli. “La Chiesa cattolica ha un atteggiamento più cauto rispetto all’idea del dominio della religione sulla politica, ma negli ultimi anni negli Usa, c’è stata una migrazione d’idee e di persone dalle Chiese protestanti americane verso il cattolicesimo. C’è stata una grande massa di conversioni, anche fra intellettuali importanti, e questi convertiti hanno portato con loro questa idea protestante, essenzialmente calvinista e americana, per cui la politica è soggetta alla religione ed è difficile pensare a una separazione o a una distinzione fra questi due ambiti”. “L’articolo de La Civiltà cattolica, quindi, – continua lo storico – punta in modo corretto la sua attenzione su questo fenomeno, che definisce ‘Fondamentalismo evangelicale’, che è intellettualmente molto interessante, ma provoca alcuni problemi che vanno analizzati, come correttamente fa la rivista dei gesuiti”.

Letteralismo biblico
“Si parla in questo caso di ‘fondamentalismo’ perché è un tipo di cristianesimo che si basa sul testo biblico, sulla scrittura, in modo fondamentale. Cioè ritrova nella Scrittura alcuni passaggi letterali che fondano o rifondano una società, una civiltà o una legislazione, in modo diretto, non mediato dal Magistero della Chiesa, com’è per i cattolici. Questa dinamica è tipicamente americana – spiega Faggioli –  perché il letteralismo biblico in sé è un fenomeno estraneo al cattolicesimo che è più orientato sulla Tradizione della Chiesa piuttosto che direttamente sulla Scrittura. Negli Usa, invece, questa vicinanza alla tradizione calvinista-protestante ha fondamentalizzato alcuni cattolici”.

La Teologia della prosperità 
“Un altro effetto di questo fondamentalismo evangelicale è la ‘Teologia della prosperità’. Si tratta di un messaggio religioso diffuso negli Usa da alcune chiese cristiane neo-protestanti, secondo cui l’amore di Dio si rivela agli individui che sono in buona salute fisica e sono ricchi. Cioè, se uno è sano, è ricco e felice è un segnale che è amato da Dio. Questa è una teologia che è chiaramente eretica o aberrante, ma è molto importante in alcune Chiese protestanti – non solo degli Usa ma anche dell’America Latina e dell’Africa – e trova spazio, anche se in un modo diverso, all’interno del cattolicesimo americano. Questo è un fenomeno preoccupante perché è una diretta negazione del messaggio sociale della Chiesa cattolica sui poveri e la giustizia. C’è dunque un conflitto fra quello che la Chiesa dice sulla giustizia sociale e sui poveri e il ‘Vangelo della prosperità’, secondo cui i poveri sono lontani da Dio. Una posizione che è esattamente il contrario di quella del Magistero”. “Questo articolo – aggiunge Faggioli – fa il punto al momento giusto, perché il fenomeno Trump è l’elevazione della Teologia della prosperità a programma politico”.

I legami con l’ascesa di Trump 
“Il fenomeno dell’elezione di Trump è indubbiamente legato anche al diffondersi di questa teologia. E’ un fatto che i pastori invitati dal presidente americano all’inaugurazione della sua amministrazione, il 20 gennaio scorso, fossero i più importanti rappresentanti della teologia della prosperità negli Usa. Anche all’interno della Chiesa cattolica statunitense, le posizioni contro la Chiesa dei poveri o il messaggio sociale di Papa Francesco sono un effetto delle infiltrazioni di questa teologia. Ed è un fenomeno particolare che non si verifica, mi pare, in altre comunità cattoliche nel mondo”.

L’ecumenismo della trincea
“La Civiltà Cattolica – continua Faggioli – a proposito di questa fusione tra Fondamentalismo evangelico e Cattolicesimo integralista giunge a parlare di ecumenismo fondamentalista e lo definisce ‘dell’odio’. Il motivo sta nel fatto che è un tipo di ecumenismo che non si preoccupa di creare dei ponti con i lontani, ma di identificare i lontani come nemici comuni sia ai cattolici che ai protestanti. E tra questi annovera i musulmani, in alcuni casi addirittura gli ebrei – con una sorta di antisemitismo – e non è quindi finalizzato al dialogo. L’articolo lo chiama ‘ecumenismo dell’odio’, ma sono proprio i sostenitori di questo tipo di fenomeno a definirlo ‘ecumenismo della trincea’. In questa visione il mondo è in guerra contro di noi e noi cristiani di diverse confessioni dobbiamo organizzarci per combattere questa guerra. E’ inutile dire che si tratta di un ecumenismo totalmente diverso da quello che Papa Francesco chiama l’ecumenismo ‘del sangue’, cioè del martirio. E’ un ecumenismo molto diverso che negli Usa ha un rilievo teologico, culturale e politico abbastanza importante, specialmente con la presidenza Trump”.

Netto contrasto col Magistero 
“E’ un fatto oggettivo che questo ecumenismo che predica la ‘guerra spirituale’, che si sta diffondendo negli Usa, sia in diretto contrasto con il Magistero del Papa. Si fa spazio con diversi linguaggi: ma, per esempio, molte delle recenti conversioni dalle Chiese evangelicali a quella cattolica, negli Usa, nascono nel riconoscimento di quest’ultima come una Chiesa più forte e cioè capace di combattere il nemico: in quella visione gli asiatici, i musulmani e altri. E’ una visione ideologica che accomuna diverse chiese che si ritrovano sulla stessa lunghezza d’onda ma non è quella del Magistero cattolico degli ultimi cinquant’anni”.

(Fabio Colagrande)

il discorso di p. E. Bianchi per il premio del suo ecumenismo

l’orizzonte della condivisione

di Enzo Bianchi

 
l’intervento del priore di Bose in occasione del conferimento del Premio intitolato a Emmanuel Heufelder (1898-1982) per l’impegno ecumenico

Icona dello Spirito Santo,

il monachesimo è una vivente epiclesi ecumenica.

(Paul Evdokimov)

 
Introduzione
 
Vorrei innanzitutto esprimere il ringraziamento più vivo per questo premio che viene oggi conferito a me e alla comunità monastica di Bose, di cui davvero non siamo degni, e la mia profonda gioia di essere qui in mezzo a voi!
 
Mi sono chiesto a lungo quale argomento trattare in questa felice occasione, mi sono consultato con alcuni di voi, amici da anni del Monastero di Bose, e penserei di proporvi, con umiltà, alcune riflessioni sul rapporto tra monachesimo e dialogo ecumenico.
 
Per analizzare il rapporto tra monachesimo e dialogo ecumenico, è necessario innanzitutto riconoscere che proprio il monachesimo – questa via radicale di sequela di Cristo per ducatum evangelii (Regula Benedicti Prologo 21), «sotto la guida del Vangelo», questa via che è stata definita «di perfetta carità» – in verità fino ai tempi recenti è stato spesso una contraddizione a ogni possibile rappacificazione tra cristiani e tra chiese.
Solo dalla fine del XIX e soprattutto dall’inizio del XX secolo, da quando cioè l’ecumenismo è apparso come una possibile via di comunicazione e riconciliazione tra le chiese, anche i monaci hanno iniziato ad assumerlo come un segno dei tempi, lasciando che la prospettiva ecumenica ispirasse la struttura, la preghiera e la vita spirituale delle loro comunità. Oggi, a distanza di oltre un secolo da questi inizi, c’è la chiara coscienza che monachesimo e dialogo ecumenico non possono essere letti e compresi l’uno senza l’altro: si fa dunque sempre più evidente che nel cammino di riconciliazione tra chiese proprio il monachesimo costituisce una via privilegiata, perché consente addirittura una vita comune in cui è possibile non solo la conoscenza ma il vivere insieme riconciliati, in attesa e nella ricerca paziente dell’unità piena in una chiesa plurale, una chiesa di chiese capaci di riconoscersi in un’unica confessione di fede.
 Bianchi
1. La vita monastica come luogo ecumenico
 
Una premessa si impone: il monachesimo costituisce un fenomeno umano prima ancora che cristiano. Presente in tutte le grandi religioni, anche in quelle come l’islam che hanno cercato di negarlo di fatto, si nutre di un’antropologia propria: il celibato, la vita interiore in comune o nella solitudine, la ricerca dell’assoluto, l’ascesi nelle differenti forme sono tutti elementi di una vita così segnata nella carne, nel corpo, in tutta la persona, che di fatto inducono alla consapevolezza di una somiglianza, di una «monotropia» (cf. Sal 67 [68],7 LXX) tra quelli che li vivono pur in contesti religiosi differenti.
 
Proprio per questo il dialogo interreligioso è praticato soprattutto nei monasteri, e a partire dalla seconda metà degli anni ’60 del secolo scorso cresce e si intensifica in modo poco appariscente ma intenso e profondo, soprattutto attraverso la pratica dell’accoglienza reciproca e delle soste nei monasteri, fino alla condivisione della vita quotidiana e di alcune pratiche ascetiche. Questa qualità di fenomeno antropologico non andrebbe dunque minimizzata o tralasciata, perché è anche grazie ad essa che il monachesimo appare un fenomeno pan-cristiano: essendo nuovamente presente in tutte le chiese, costituisce già di per sé una realtà condivisa, dotata di una vocazione a unire e non a dividere.
 
Ma ci sono anche altre ragioni che rendono il monachesimo un eminente luogo ecumenico.
 
a) Innanzitutto il monachesimo risale a monte delle divisioni della chiesa …
 Di conseguenza nel monachesimo restano come impressi indelebilmente i caratteri della chiesa indivisa, caratteri teologico-patristici, liturgici ed ecclesiologici. Come dimenticare che la testimonianza carismatica del monachesimo nei tempi della chiesa indivisa era inserita nella koinonía della chiesa locale, il cui cuore era l’eucaristia presieduta dal vescovo? E come dimenticare che la vita monastica era vita di semplici battezzati, vita laicale, nient’altro che una diaconia tra le numerose presenti in una determinata chiesa, una diaconia i cui membri si professavano impegnati semplicemente a vivere e sviluppare in modo «altro» la vocazione battesimale? Finché c’è stata unità delle chiese, uno è stato il monachesimo, e la sua espressione occidentale ha sempre riconosciuto la propria fonte nel monachesimo orientale dei padri del deserto, di Pacomio, di Basilio, percependolo come sua radice e come «orientale lumen» (cf. Guglielmo di Saint-Thierry, Lettera d’oro 1,1).
 
Esiste dunque questa prima ragione per fare del monachesimo un luogo ecumenico, ed è una ragione inscritta nella sua origine, una ragione che porta ogni comunità a dire alla chiesa unita: «In te le nostre fonti!» (Sal 87,7). …
b) In secondo luogo, il monachesimo è sorto in vista di una radicale sequela di Cristo, dunque come via di santità, ed è certo che la santità perseguita nella vita monastica, anche se in confessioni diverse, è azione di unità; anzi, usando l’espressione coniata da san Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum, è «sursum actio» (I,1,14), è l’azione per eccellenza, quella più efficace in vista dell’unità. …
La coscienza che la santità unisce al di là delle barriere confessionali è condivisa da tutte le chiese, e tutti sottoscriverebbero le parole del metropolita ortodosso Evloghij (Georgevskij, 1868-1946): «Uomini come san Francesco d’Assisi e san Serafim di Sarov nella loro vita hanno già realizzato l’unità della chiesa», o di p. Porfyrios di Kafsokalìvia: «Raggiungeremo certamente l’unità dei cristiani quando avremo vinto l’egoismo dentro di noi, per non amare altri che il Signore Gesù, e in lui i nostri fratelli». Di fronte alla santità ci si accorge che i muri confessionali non salgono fino al cielo e che la parádosis del carisma monastico, vera trasmissione dello Spirito santo, è passata nelle diverse chiese. Oggi poi, dopo l’esperienza del XX secolo, siamo consapevoli della santità manifestata dai martiri – non pochi dei quali erano monaci – che sotto i regimi totalitari hanno dato la vita per Cristo e per i fratelli perseverando nella fede. Sì, è stata vissuta nel martirio una comunione più profonda di quella visibile!
 Bianchi
L’“ecumenismo del sangue” (laddove sono oggetto di persecuzione, i cristiani lo sono insieme!) non è un ecumenismo minimalista (come alcuni suoi critici ritengono), poiché l’esperienza del martirio è l’esperienza suprema che esprime il cuore della fede cristiana, che impone ai cristiani di convertire il proprio modo di pensare l’ecumenismo e l’unità (all’ecumenismo del sangue, come ha ricordato il patriarca Yuhanna di Antiochia, deve essere associato un ecumenismo del pentimento e della conversione: conversione che significa orientamento della mente e del cuore a ciò che Dio fa e vuole fare). Nel martirio infatti vediamo come l’unità non sia qualcosa che costruiamo noi, con le nostre forze: è Dio che l’ha già realizzata nei martiri per mezzo del suo Spirito; riconoscere il martirio dell’altro (dell’altra chiesa) significa de facto riconoscere lo Spirito “che soffia dove vuole”, al di là dei confini visibili della propria chiesa. Di questo occorre essere maggiormente consapevoli e trarne le conseguenze per il cammino ecumenico. Si tratta di convertirsi da un ecumenismo che pretende di costruire l’unità a partire dalle divisioni, a un ecumenismo che accoglie l’unità dal futuro di Dio per superare le divisioni che noi uomini abbiamo realizzato nel passato!
 
Santità dunque come forza di convergenza, di comunione e testimonianza comune: chi può dimenticare, per es., ciò che rappresenta oggi in occidente – nell’occidente cattolico e riformato – un santo come il monaco ortodosso Silvano dell’Athos? E come dimenticare che nella chiesa ortodossa della Panaghìa di Kritsa a Creta si può ammirare un antico affresco raffigurante Francesco d’Assisi con la scritta Ho Haghios Frankìskos? Se i monaci e le monache rispondono davvero alla loro vocazione di unificazione interiore, di comunione vissuta, di riconciliazione sempre rinnovata, di misericordia continua – solo di questo infatti si dovrebbe nutrire la loro vita quotidiana! –, allora saranno servitori di unità, ministri e servi della comunione anche ecclesiale. «I santi – diceva ancora il metropolita Evloghij – sono cittadini della chiesa una e universale e abbattono i muri di separazione eretti da cristiani non fedeli al comandamento nuovo»…
 
c) Un’altra ragione che fa del monachesimo un luogo ecumenico, è il dato che la vita monastica si vuole in ogni tempo vita di conversione, di ritorno alle fonti, al Vangelo. Non è un caso che si attribuisca al padre dei monaci, Antonio, ormai anziano di anni e di vita monastica, un apoftegma in cui egli afferma: «Oggi stesso io ricomincio!», cioè: «Anche oggi provo nuovamente a convertirmi, a ritornare al Signore!». Proprio per questa dinamica la vita monastica, in oriente come in occidente, è caratterizzata dal sopraggiungere di «riforme», come se la sua profonda dinamica consistesse in una successione di riforme senza fine. Conversione e riforma fanno parte del cammino personale e comunitario del monachesimo, sicché questo deve essere costantemente rinnovato. È vero che l’adagio suona «ecclesia semper reformanda», ma questo si è concretizzato poche volte nella storia della chiesa, e talora con una lentezza tale da vanificare gli sforzi. Nella vita monastica invece si può dire che ogni secolo – e a volte addirittura ogni generazione – ha conosciuto una riforma in cui si è cercato di ripartire da capo, di ricominciare in un’obbedienza e in una fedeltà al Vangelo più profonde.
 
Davvero nel monachesimo, nonostante le contraddizioni dei suoi membri, lavora il fermento della parola di Dio, e così, di riforma in riforma, la diaconia della vita monastica accompagna la chiesa. …
 
d) Infine, scorgo un’altra ragione che fa del monachesimo un luogo ecumenico, ed è quella dell’essere un’epiclesi, un’invocazione continua dello Spirito, vissuta nelle chiese. Questa definizione di monachesimo come «epiclesi» è propria di Paul Evdokimov, ma sovente la si ritrova sotto la penna di Olivier Clément: vita assunta per ispirazione dello Spirito santo, è vita che può essere vissuta solo con il suo continuo aiuto e nel suo incessante dinamismo. Per questo la vita del monaco è ritmata dal ruminare la parola di Dio durante il giorno e la notte, e la comunità monastica appare innanzitutto come un luogo di ascolto: la stessa Regula Benedicti non si apre forse con «Obsculta, o fili…» e con l’invito all’ascolto della voce di Dio e di ciò che lo Spirito dice alle chiese (Prol. 1-13; cf. Sal 95,8; Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13.22)? La vita monastica è veramente epiclesi in atto, invocazione della discesa dello Spirito santo che nella Pentecoste è stato forza di unità plurale, comunione nella distinzione dei doni e nella differenza delle energie (cf. At 2,1-13).
 
In questa epiclesi – che è anche invocazione perché tutti i fratelli e le sorelle ricevano lo Spirito per essere più fedeli a Cristo e raggiungere la statura del cristiano maturo (cf. Ef 4,13) – l’anelito, il desiderio di comunione non può essere assente. E se il monachesimo è «accoglienza di Cristo che viene» (Olivier Clément), questa non si esaurisce in una dimensione soltanto escatologica, ma si invera nell’accoglienza di colui che viene: «ero forestiero e mi avete ospitato» (Mt 25,35). Accoglienza di chi giunge anche inaspettato, non annunciato, accoglienza di chi diventa fratello anche se per la sua provenienza fosse ostile, accoglienza che non chiede la confessione di appartenenza… I monasteri dovrebbero avere impresse sulle loro porte e nei cuori dei loro membri le parole scritte da Angelo Roncalli nel 1934, quando era nunzio in Bulgaria: «Se qualcuno passa dinanzi alla mia casa di notte, costui troverà alla mia finestra un lume acceso: bussa, bussa! Non ti domanderò se sei cattolico o ortodosso, fratello: entra! Due braccia fraterne ti accoglieranno, un cuore caldo di amico ti farà festa». In quegli anni di inizio secolo pochissimi erano sentinelle vigilanti, ma Dio preparava un’ora, quella del Concilio, in cui li avrebbe svegliati e invitati a scorgere i nuovi segni dei tempi attraverso papa Giovanni!
 
Accoglienza dell’altro, del diverso, dello sconosciuto, e riconoscimento della sua qualità di fratello nella fede quando è cristiano sono attestati ovunque oggi nella vita monastica. …
 
Davvero quando dei monaci di diverse confessioni si incontrano in fraternità, sovente accade l’evento della comunione, anzi dell’intercomunione vera, profonda, non sacramentale ma nello Spirito santo: ci si sente uno, non esistono più barriere confessionali, ci si sente monaci fratelli che condividono la stessa esperienza e si riconoscono, nel senso forte del termine, in una stessa grazia, in uno stesso spirito, in una stessa ricerca con un unico fine: l’acquisizione dello Spirito santo per essere trasfigurati in Cristo e prendere parte al Regno di Dio.
 
2. La profezia dell’ecumenismo nel monachesimo
 
Sovente oggi si parla con estrema facilità di ecumenismo come profezia della vita monastica. Su questo tema voglio restare discreto e usare poche parole, perché con troppa enfasi in questi ultimi decenni si invoca tale qualità profetica per ritrovare un’identità in molti casi smarrita. I monaci non hanno qualità profetica ex officio, ma la loro testimonianza può diventare profetica se è radicale obbedienza al Vangelo e ai segni dei tempi. Quando i monaci non pretendono di camminare alla luce della visione ma sanno vivere nella fede (cf. 2Cor 5,7); quando riguadagnano la consapevolezza della provvisorietà e dell’incompletezza di ogni forma vitae; quando hanno l’audacia di far prevalere sempre l’agape e la riconciliazione nei conflitti in cui sono coinvolti; quando accettano la loro marginalità e la loro debolezza come un dono e non come una perdita da colmare al più presto, allora appare anche in loro la profezia.
 
Paolo VI nella Evangelii nuntiandi (nr. 69) indicava nell’incarnazione radicale delle beatitudini il carattere profetico della vita monastica e religiosa, ma questo significa vita povera, umile, mite, affamata di giustizia, operatrice di pace, financo perseguitata e osteggiata a causa di Cristo (cf. Mt 5,3-12)… E Giovanni Paolo II ha chiesto come profezia ai religiosi «l’esplorazione di vie nuove per mettere in pratica il Vangelo nella storia in vista del regno di Dio» (Vita consecrata 84), arrivando ad affermare che la stessa vita fraterna, la vita comune vissuta in un unico intento «è profezia in atto» (ibid. 85). Occorre essere chiari: la vita monastica può ricevere e vivere il dono della profezia come tutte le altre vocazioni ecclesiali: sta a ciascuno dei suoi membri accoglierlo e viverlo attraverso la conversione quotidiana. Certo, una vita contrassegnata dal radicalismo evangelico, dal celibato che annuncia che questo mondo passa e dalla vita comune che dà un segno della comunione del Regno può avere qualità escatologica e dunque profetica: ma il dono della profezia è grande e fragile!
 
Anziché vantare una qualità della vita monastica, preferisco mettere in evidenza un dato di fatto: nel XX secolo l’ecumenismo è certamente stato profezia in alcune forme di vita monastica nate per la risposta obbediente a Dio e ai segni dei tempi da parte di alcuni uomini e donne che, da vere sentinelle, hanno atteso, spiato, destato l’aurora. Non posso far altro che pronunciare nomi e nulla più, ma il semplice nominare questi testimoni significa renderli presenti in mezzo a noi: essi sono nella comunione dei santi e con essi noi viviamo l’ecumenismo. Senza di loro il dialogo ecumenico praticato oggi tra le chiese sarebbe certamente meno audace e più povero. Ascoltiamo pertanto i loro nomi … sì, noi siamo «avvolti da una grande nube di testimoni» (Eb 12,1) ecumenici che hanno rinnovato la vita monastica, semper reformanda, ascoltando i segni dei tempi che chiedevano riconciliazione.
 
Conclusione
 
A conclusione di questo breve intervento, non posso non indicare un orizzonte profetico per la vita monastica, un orizzonte tanto più urgente quanto più «invernale» si è fatta la situazione ecumenica: è l’orizzonte della condivisione di vita da parte di appartenenti a confessioni cristiane diverse non ancora riconciliate. Per questo sono necessari sì tanto coraggio, audacia evangelica, parrhesia, ma anche tanta capacità di spogliarsi delle ricchezze confessionali non essenziali alla sequela Christi, molta sottomissione reciproca, capacità di fare due miglia con chi ci chiede di farne uno (cf. Mt 5,41); ci vuole il fuoco interiore, la passione della comunione che cerca l’unità plurale, indicando in avanti un’unità che va raggiunta insieme.
 
In ambito cattolico, qua e là questa vita monastica interconfessionale inizia a mostrare un volto in cui l’ecumenismo ridiventa profezia del monachesimo in una nuova forma: vivere insieme la stessa vocazione, lo stesso ministero, anche se le chiese cui si appartiene non vivono ancora la comunione visibile… Per lo Pseudo-Dionigi, il monaco «è colui che è unificato o in via di unificazione». Cercando di ritrovare in sé l’unità perduta a causa del peccato, il monaco è predisposto a cercare l’unità con gli altri. Non c’è infatti possibilità di unità tra fratelli e tra chiese se non c’è unità interiore.
 
Che lo Spirito santo, lui che è la comunione (cf. 2Cor 13,13), susciti questa nuova Pentecoste per il monachesimo: allora ci sarà realmente profezia per la chiesa e per il mondo!

l’ecumenismo della vita al di là di tutte le barriere ideologiche

Punjab

musulmani finanziano la costruzione di una chiesa cattolica

Tonio Dell’Olio
Contadini musulmani che contribuiscono ad una raccolta fondi per la costruzione di una chiesa cattolica. È il grande gesto di generosità di cui sono protagonisti gli abitanti di Khalsabad, chak (villaggio in lingua urdu) del Punjab, situato vicino a Gojra. Lì le famiglie cristiane sono solo otto, e la cappella di fango che usavano come luogo di culto è stata distrutta dalle piogge monsoniche dell’ultimo anno. Costretti a pregare in casa, i cattolici hanno deciso di fondare una nuova chiesa e hanno chiesto aiuto alla cittadinanza

“Ho saputo di questo progetto in un incontro comunitario il mese scorso – afferma Dilawar Hussain, negoziante musulmano –. Anche una chiesa è una casa di Allah, la preghiera è ciò che conta. Noi veneriamo lo stesso Dio”. Hussain ha donato 10mila rupie (95 dollari) per la costruzione del nuovo luogo di culto, mentre un uomo d’affari locale ha deciso di devolvere 30mila rupie alla commissione del villaggio che si occupa dei lavori. Per ora sono stati eretti i muri esterni della struttura. “Questo è dialogo della vita”, afferma p. Aftab James Paul commentando le donazioni. Il sacerdote è assistente parroco della chiesa di San Fedele a Khushpur e Khalsabad è uno dei 56 villaggi a cui fa visite pastorali: “Un altro fedele musulmano ha donato 2mila rupie la domenica di Pasqua”, fa sapere. P. Paul, che per nove anni ha guidato la commissione della diocesi di Faisalabad per il dialogo interreligioso, afferma che non è la prima volta in cui i musulmani aiutano la costruzione di un luogo di culto cattolici. Nel 2005 fu finanziata una chiesa nel sotto distretto di Gojra Tehnsil. L’area, però, divenne famosa solo nel 2009 per un episodio negativo: a seguito di sospetti di blasfemia, 10 cristiani furono uccisi, almeno sette dei quali arsi vivi. Quattro chiese furono distrutte nell’attacco. “Abbiamo troppi pregiudizi – afferma il sacerdote – e lasciamo che le azioni di pochi facciano ricadere la colpa su tutti i fedeli dell’islam”.

fonte: Kamran Chaudhry in AsiaNews.it

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