il nuovo incontro dei movimenti popolari con papa Francesco

i poveri della terra si incontrano ancora con papa Francesco

La lotta dei poveri per Terra, Casa e Lavoro. Il nuovo incontro dei movimenti popolari con papa Francesco

la lotta dei poveri per Terra, Casa e Lavoro

il nuovo incontro dei movimenti popolari con papa Francesco

Claudia Fanti 

 

Se è un compito di enorme portata quello di trasformare un pianeta ferito e inospitale in una casa accogliente in cui non vi sia più «nessun contadino senza terra, nessuna famiglia senza casa, nessun lavoratore senza impiego», i movimenti popolari di tutto il mondo sanno almeno, e non da oggi, di poter contare sul chiaro e deciso sostegno di papa Francesco. Ed è proprio con lui, il loro più potente alleato, che potranno nuovamente riunirsi il prossimo 5 novembre – evento culminante del Terzo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP) –, a due anni dal primo storico incontro in Vaticano (nell’ottobre del 2014), quando più di 100 delegati – appartenenti a quella ricca galassia di forme di auto-organizzazione riconducibili in vario modo alla categoria dell’economia informale – erano stati invitati a Roma per iniziativa del papa stesso, il quale, «coerente con la sua opzione per i poveri», aveva voluto, secondo le parole di Frei Betto, «sentire coloro che li rappresentano». Vale a dire – come ha spiegato mons. Silvano Tomasi, del Pontificio Consiglio Gustizia e Pace, durante la conferenza stampa di presentazione del III EMMP svoltasi oggi presso la Sala Stampa della Santa Sede – riportare al centro quanti sono da sempre relegati in periferia, invitandoli, una volta tanto, non solo ad ascoltare, ma soprattutto a parlare e a confrontarsi, indipendentemente da ogni appartenenza confessionale, e ancor di più ad auto-organizzarsi, unendo le loro forze per combattere le cause dell’esclusione e iniziare a edificare quell’altro mondo ritenuto possibile eppure sempre drammaticamente lontano. È proprio questa, del resto – come ha evidenziato durante la conferenza stampa il membro del Comitato organizzativo dell’incontro Juan Grabois – l’«idea soggiacente al concetto di movimento popolare»: i poveri, secondo quanto sottolineato dallo stesso papa Francesco durante l’incontro del 2014, «non si limitano a subire l’ingiustizia, ma si organizzano e lottano contro di essa». Cosicché ciò che ha fatto papa Francesco, ha proseguito Grabois, è stato «porre sotto gli occhi del mondo una realtà coperta dal silenzio: esiste un’enorme quantità di organizzazioni, grandi e piccole, che sono costituite, organizzate e guidate dagli esclusi, i quali non si rassegnano alla miseria che è stata loro imposta e resistono in un’ottica di solidarietà all’attuale paradigma tecnocratico».

Convocato dal Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, dalla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali e da esponenti dei movimenti stessi (un comitato organizzativo composto da Joao Pedro Stédile del Movimento dei Senza Terra-Via Campesina, da Juan Grabois della Confederazione dei Lavoratori dell’Economia Popolare dell’Argentina, dalla spagnola Xaro Castelló del Movimento Mondiale dei Lavoratori Cristiani e dall’indiano Jockin Arputham di Slum Dwellers International), il primo Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari era stato pensato come un punto di partenza nel processo di costruzione di una sorta di coordinamento delle organizzazioni popolari, con il sostegno della Chiesa. E si era proposto di individuare le cause strutturali dell’esclusione e i modi per combatterle, partendo da tre grandi tematiche: Terra, Casa, Lavoro. Un processo che ha poi fatto tappa nel 2015 a Santa Cruz de la Sierra, dove, durante il viaggio del papa in Bolivia, 1.500 rappresentanti di organizzazioni provenienti da 40 Paesi hanno nuovamente avuto la possibilità di incontrarsi con lui, impegnandosi ad approfondire gli stessi tre grandi temi del precedente incontro. E che ora fa ritorno in Vaticano, dove, dal 2 al 5 novembre, si svolgerà il terzo incontro, con l’obiettivo di aggiungere un nuovo tassello al cammino di costruzione di un rinnovato protagonismo degli esclusi nella lotta per la Terra, la Casa, il Lavoro; di promozione di un dialogo fra le organizzazioni e i movimenti popolari a livello internazionale e locale; di lotta a favore dei cambiamenti strutturali proposti da papa Francesco nella Evangelii gaudium e nella Laudato si’, di rafforzamento della cooperazione tra la Chiesa (a livello mondiale, nazionale, regionale) e le organizzazioni popolari, al di fuori di ogni approccio assistenzialista e paternalista.

In riferimento alla metologia tradizionale latinoamericana del vedere, giudicare e agire, ha affermato Juan Grabois, «si potrebbe dire che il primo incontro è servito a conoscere le nostre realtà (vedere)», a capire, cioè, che le lotte per la Terra, la Casa, il Lavoro sono le stesse in tutto il mondo; il secondo è stato dedicato al «discernimento collettivo» su «cosa sta avvenendo (giudicare)», su una realtà costituita da «situazioni di ingiustizia strutturale legate da un “filo invisibile” che è possibile spezzare solo attraverso un programma di radicale trasformazione» (sintetizzato nella Carta di Santa Cruz de la Sierra, sottoscritta da oltre 500 organizzazioni di tutto il mondo); e, infine, questo terzo dovrà concentrarsi sulle «concrete proposte di cambiamento (agire)».

Tenendo ferme le ormai note parole chiave – «la lotta per le 3 “T” (Tierra, Techo, Trabajo) continua a essere il cuore dei nostri incontri», ha sottolineato Grabois – la riflessione si centrerà stavolta in particolare su tre grandi temi: territorio e beni naturali, nell’ottica di quell’Ecologia intregrale su cui si è soffermato papa Francesco nella Laudato si’; popoli e democrazia (cioè la natura delle istituzioni democratiche e «la loro incapacità di limitare il potere arbitrario dei poteri forti»); rifugiati e sfollati (un dramma, questo, per il quale il papa, ha evidenziato Grabois, ha sempre mostrato una particolare preoccupazione e in cui «le contraddizioni del sistema si esprimono in maniera particolarmente brutale»). E, rispetto all’incontro del 2014, vi sarà un’importante novità: l’evento conclusivo del 5 novembre, quello che culminerà con il discorso di papa Francesco, sarà esteso a un grande ventaglio di movimenti italiani (Libera, Miseria Ladra, la Campagna Stop Ttip, Attac Italia, Mondeggi Bene Comune, Forum italiano dell’acqua, Contratto Mondiale dell’Acqua, Arci, Agesci, Azione Cattolica, Chiesa di tutti Chiesa dei poveri, Pax Christi, Amig@s MST-Italia, Rete Radié Resch, solo per citarne alcuni), i quali, per volontà esplicita del papa, che ha messo per questo a disposizione l’aula Paolo VI (con una capienza di 7.000 persone), potranno così dialogare e confrontarsi con i circa 200 delegati dei movimenti popolari internazionali, più diversi altri invitati all’Incontro, dall’ex-presidente uruguaiano José Mujica a don Luigi Ciotti. Un’opportunità, per le organizzazioni italiane, afflitte da un calo generalizzato di partecipazione e da una frammentazione sempre più evidente e drammatica, per iniziare a riallacciare un dialogo di cui in tanti lamentano la mancanza, in vista del possibile avvio di una nuova stagione di lotte a livello italiano e internazionale.

* Un’immagine della conferenza stampa. Foto di Claudia Fanti

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l’incontro storico di papa Francesco coi luterani in Svezia a 500 anni dalle ‘tesi’ diLutero

il papa dai luterani in Svezia


Riccardo Maccioni

piccola guida al viaggio «ecumenico» di Francesco, in programma il 31 ottobre e il 1° novembre

cosa significa? È davvero una visita storica?

una riflessione di E. Bianchi

Ritratto di Martin Lutero di Lucas Cranach (1529)

ritratto di Martin Lutero di Lucas Cranach (1529)

Perché il Papa va in Svezia?
La visita di Francesco nel Paese scandinavo sarà molto breve, un giorno e mezzo appena. Toccherà due località, peraltro molto vicine l’una all’altra, cioè Lund e Malmö. A Lund in particolare il Papa parteciperà a una commemorazione “ecumenica” congiunta per l’avvio delle celebrazioni per il 500° anniversario, che cadrà nel 2017, della Riforma di Lutero. La principale ragione del suo viaggio è proprio questa.il papa

Perché la data del 31 ottobre?
Il 31 ottobre è un giorno che simbolicamente ogni anno richiama la nascita della Riforma, l’avvio dello strappo di Lutero. Si ricorda infatti il 31 ottobre 1517 quando il monaco agostiniano affisse le famose 95 Tesi sul portale della chiesa del castello di Wittenberg, in Germania. In realtà non è certo che i fatti siano andati esattamente così. Molti storici ritengono infatti che Lutero abbia mandato le sue Tesi al vescovo locale e che la sua pubblicazione fosse stata pensata per avviare una discussione.

Leggi il PROGRAMMA del viaggio

Cosa voleva Lutero?
Alla base della sua decisione c’era la critica verso una Curia Romana ritenuta corrotta e troppo legata ai beni materiali. L’occasione dello strappo, il “casus belli” si potrebbe dire, fu il cosiddetto “commercio” delle indulgenze. Ai fedeli veniva infatti assicurato che, grazie a una donazione in denaro o in un’opera religiosa, si potesse ottenere la remissione parziale o totale delle “pene temporali” per i peccati «già rimessi quanto alla colpa», vale a dire confessati. Lutero vedeva in questo un mercanteggiamento della grazia di Dio, la diffusione dell’idea che fosse possibile “comprarsi la salvezza”, e per dir di più a buon mercato.

La Riforma è nata in Germania, perché il Papa va a Lund?
Perché la Federazione luterana mondiale, che riunisce la maggior parte delle Chiese luterane, quelle che si ispirano direttamente a Lutero, fu fondata settant’anni fa proprio a Lund. La “scelta svedese” vuol essere anche il segno, il riconoscimento che la ricerca di unità tra le diverse confessioni cristiane non è legata solo a un passato da riconciliare ma guarda avanti. La scelta di Lund dimostra che la Chiesa luterana non esiste solo in Germania ma è una realtà globale.

Il Papa in Svezia vedrà anche i cattolici?
Certamente, e non potrebbe essere altrimenti. L’attenzione alla piccola comunità cattolica locale sarà un elemento costante della visita in terra scandinava. In particolare, Francesco, che è il secondo Papa a visitare la Svezia dopo Giovanni Paolo II nel 1989, il 1° novembre celebrerà la Messa nello Swedbank Stadion di Malmö.

La scelta del Papa di andare in Svezia è un evento isolato?
Molti, luterani e non solo, hanno visto nella decisione di Francesco un gesto profetico. Tuttavia pur essendo estremamente coraggioso e significativo, questo viaggio non sarebbe stato possibile, senza un lungo cammino di riavvicinamento tra cattolici e luterani. Un itinerario di riconciliazione che ha avuto il suo momento centrale nella firma, era il 1999, della Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione. È datato invece 2013 il documento, anche questo preparato insieme, “Dal conflitto alla comunione”. Durante la celebrazione ecumenica svedese inoltre, i partecipanti seguiranno la “Common prayer” (“Preghiera comune”), una guida liturgica cattolico-luterana di recente pubblicazione.

Il viaggio del Papa è definito ecumenico. Cosa significa?
Con il termine ecumenismo, da cui “ecumenico”, si intenda la ricerca di unità tra chi, pur professando la comune fede in Cristo, appartiene a confessioni e Chiese differenti. Diversità che in alcuni casi significano posizioni dottrinali anche molto distanti tra loro. Comunemente si data l’avvio dell’impegno ecumenico, e fu in ambito protestante, all’inizio del XX secolo, nel 1910. La Chiesa cattolica ha fatto il suo ingresso ufficiale nel movimento ecumenico con il Concilio Vaticano II. In particolare il decreto sull’ecumenismo, l’Unitatis redintegratio, è del 1964.

il viaggio di Francesco e la cultura dell’incontro

di Enzo BianchiBianchi

Cinque secoli sono passati da quel giorno in cui un monaco agostiniano affisse sulla porta della chiesa del castello di Wittenberg il suo “manifesto” che chiedeva una riforma della vita e della dottrina allora dominante nella chiesa cattolica. Iniziava in quel giorno una “protesta” che aveva come fine il ritorno al vangelo: Martin Lutero — un uomo “morsicato” da Dio e assetato di una salvezza misericordiosa — scoperto che l’amore di Dio non deve mai essere meritato, diventò la voce possente, tesa a ridare il primato alla Scrittura, alla grazia-amore gratuito di Dio e a Cristo, Signore della sua chiesa.

Il bisogno di una riforma della vita della chiesa romana era da decenni avvertito con dolore e manifestato anche da alti rappresentanti della curia romana — quali i cardinali Chieregati, Pole e Contarini — oltre che da molti umanisti come Erasmo e altri testimoni presenti nelle diverse aree europee, tuttavia avevano sempre prevalso una sordità e una mancanza di volontà nel mutare atteggiamenti e costumi, soprattutto nella vita dei prelati e del clero. E così, a poco a poco, accadde l’irreparabile: lo scisma della cristianità occidentale tra cattolici e protestanti, il dramma più lacerante nella storia della cristianità occidentale perché ben presto la chiesa cattolica si vide privata di molte membra nel Nord Europa. Lutero non prevedeva né voleva quella frattura, ma la sordità di Roma e soprattutto gli interessi della politica dei regnanti portarono in modo accelerato all’elaborazione di due vie cristiane diverse, non nella confessione battesimale trinitaria di Cristo Signore, ma nella forma della chiesa. Sono passati cinque secoli e non possiamo tacere la tragedia, fatta non solo di scomuniche reciproche, ma anche di guerre, di roghi e di torture che manifestarono come quelle chiese, pur di difendere la propria verità, facessero ricorso a mezzi in contraddizione radicale con quel vangelo che ciascuna di esse professava di voler difendere e conservare puro. Cinque secoli di cammino percorso gli uni senza gli altri, con sviluppi teologici e anche violenze concrete gli uni contro gli altri, con concorrenza missionaria e permanente ostilità, sicché il cristianesimo in Occidente appare da allora irrimediabilmente lacerato. Solo all’inizio del secolo scorso, a motivo degli ostacoli incontrati nella missione delle chiese nei Paesi coloniali, dovuti alla divisione, si è cominciato a percepirne lo scandalo. Da allora si è intrapreso un lungo cammino, accelerato per i cattolici dal concilio Vaticano II. E oggi, a che punto siamo nei rapporti tra i cattolici e i “protestanti”, cioè i cristiani nati dalla riforma e distinti in chiese e comunità ecclesiali? Va riconosciuto che papa Francesco, proprio nei confronti dei protestanti, ha segnato un atteggiamento nuovo anche rispetto alle proprie posizioni del passato, un atteggiamento peraltro non condiviso da una parte dei cattolici stessi. Non a caso la sua partecipazione alla “commemorazione” della riforma ha posto e pone dei problemi. Se infatti la celebrazione era prevista da anni nel mondo protestante ed è stata preparata anche da un documento redatto da una commissione teologica bilaterale cattolico-luterana che invita a passare “Dal conflitto alla comunione”, ci si è tuttavia interrogati fino allo scorso anno sulla possibilità e l’opportunità che anche la chiesa cattolica partecipasse a tale evento. È infatti pensiero consolidato nel mondo cattolico che i protestanti hanno abbandonato la chiesa cattolica per altre vie e che, di conseguenza, non hanno conservato la tradizione della chiesa universale. Si può festeggiare insieme un evento che è stato inimicizia tra fratelli, rottura, divisione, contraddizione alla volontà dell’unico Signore? Ma papa Francesco, con la sua capacità di porre gesti profetici, ha manifestato la volontà di prendere parte oggi alla memoria celebrata a Lund in Svezia dove cinquant’anni fa iniziarono i dialoghi di riconciliazione tra chiesa luterana e chiesa cattolica. Alla sua audacia ha risposto l’altrettanto sofferta e coraggiosa decisione della Federazione luterana mondiale di accogliere l’inattesa richiesta e invitare formalmente il papa. E così l’apparentemente impossibile, con papa Francesco è diventato possibile: cattolici e protestanti possono stare insieme davanti al Signore, confessare la fede nella sua qualità di Risorto vivente e salvatore del mondo, ringraziarlo perché ha
dato oggi ai suoi discepoli di comprendere insieme che il vangelo ha il primato nella vita di ogni cristiano e che la chiesa abbisogna sempre di essere riformata per essere il corpo di Cristo nella storia. Le divisioni per ora permangono e paiono lontane dalla ricomposizione, anche perché nel frattempo cattolici e protestanti hanno elaborato aspettative e forme diverse dell’unità ricercata. Se molti protestanti pensano alla comunione tra le chiese come diversità che si accettano reciprocamente, la chiesa cattolica e la chiesa ortodossa conservano dell’unità il concetto tradizionale: unità non solo nel battesimo, ma anche nella fede e nella celebrazione eucaristica, unità sinfonica plurale sì, ma compaginata dai vescovi successori degli apostoli e presieduta nella carità dal vescovo di Roma, successore di Pietro. Oggi siamo tutti convinti che l’elemento decisivo resta il battesimo, la vita di fede conforme al vangelo: e questo lo possiamo affermare insieme. Le diffidenze reciproche ancora esistono e sono sovente alimentate ed espresse soprattutto dove e quando si accende un conflitto di etiche. Per molti aspetti, infatti, il fossato tra cattolici e protestanti si è fatto più profondo in questi anni, proprio sui temi della morale sessuale. Ma nell’approfondimento della fede ci sono stati passi significativi di profonda convergenza su alcune verità, come la giustificazione attraverso la fede, cioè il riconoscimento che Dio rende giusto il peccatore gratuitamente, per l’abbondanza del suo amore che non va mai meritato. Questo, unitamente alla forza dirompente dell’“ecumenismo del sangue”, cioè la testimonianza offerta dai martiri di ogni chiesa, ha reso possibile ciò che fino a pochi decenni fa pareva utopia: il volto di Dio testimoniato insieme dai cristiani risplende di luce evangelica, meno deformato dalle antiche rivalità tra confessioni contrapposte. In ogni caso papa Francesco pratica testardamente la cultura dell’incontro, del dialogo, della vicinanza concreta all’altro e li rinnova ogni giorno in questo mondo sempre più segnato da scontri, distanze, innalzamenti di muri, esclusione del diverso.

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nonostante tutto i costruttori di muri sono da aiutare

“aiutiamo i costruttori di muri e barricate”

Tonio Dell’Olio

 

Tonio Dell'Olio

Mi commuove quella notiziola secondaria relegata in un trafiletto scarno di un solo organo d’informazione che racconta della colletta dei cristiani di Erbil in Iraq per i terremotati italiani. Sono riusciti a raccogliere ventimila dollari e li hanno consegnati al Nunzio Apostolico perché li invii alla Caritas Italiana.
Perché alla fine resta vero che il dovere della solidarietà viene compreso soprattutto da chi ha sperimentato la precarietà sulla propria pelle.

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Chi invece erge muri e barricate, di fatto si costruisce una prigione, si chiude dentro un presunto paradiso artificiale separandosi dal mondo. Si condanna a una solitudine collettiva o a un egoismo sterile.
È urgente fare qualcosa per loro, tendergli la mano per salvarli da una morte certa, da asfissia dell’anima. Giudicarli è operazione superficiale quanto sterile. Più faticoso (ma forse più responsabile e fecondo) sarebbe accoglierli, ascoltare attentamente le loro ragioni, conoscere le loro storie e le loro fatiche.

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Esattamente come chiederei di fare a tutti i costruttori di muri verso gli stranieri che respingono. Resto ancora convinto che se solo i barricatori di Goro e di Gorino avessero permesso almeno a una delle donne che hanno respinto di raccontare le condizioni da cui sono state costrette a scappare, cosa hanno dovuto affrontare per giungere da noi, quali progetti, affetti, tradizioni si sono lasciati alle spalle, non esiterebbero a rimuovere i pancali e a far loro spazio nella propria casa.

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il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IL FIGLIO DELL’UOMO ERA VENUTO A CERCARE E A SALVARE CIO’ CHE ERA PERDUTO

commento al vangelo della domenica trentunesima del tempo ordinario (30 ottobre 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Lc 19,1-10

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».  Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

Il vangelo di Luca si è aperto con l’affermazione che nulla è impossibile a Dio. Non esistono casi disperati, non esistono persone che, qualunque sia la loro situazione, la loro condizione, possano essere esclusi dall’amore di Dio. Eppure nel vangelo ci sono due categorie che sembrano essere escluse dall’amore di Dio, dalla salvezza, la prima è quella dei pubblicani, gli esattori delle imposte, che erano considerati trasgressori di tutti i comandamenti; persone impure per le quali non c’era alcuna speranza di salvezza.
E l’altra esclusione viene da parte di Gesù che esclude tassativamente la presenza di ricchi nella sua comunità. Gesù l’ha detto chiaramente “E’ più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”.
La comunità di Gesù è composta da signori e non da ricchi. Qual è la differenza? Il ricco è colui che ha e trattiene per sé, il signore è colui che dà e condivide con gli altri.
Ebbene l’evangelista ci presenta nel capitolo 19, nei primi dieci versetti, un caso disperato, che sembra senza soluzione. Ma vediamo.
In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo…. Ironia della sorte, in ebraico Zaccai significa puro, ma vedremo che è la persona più impura. Capo dei pubblicani e ricco. Ecco, ha le due caratteristiche che lo escludono dalla salvezza. Non solo è un pubblicano, un esattore delle imposte, ma è il capo. E addirittura è ricco. Quindi dal punto di vista della società religiosa è un escluso da Dio, ma anche per Gesù non può appartenere alla sua comunità. Quindi è un caso disperato.
Cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. L’evangelista non vuole darci una indicazione folcloristica sull’altezza o meno di questo personaggio, il termine che adopera per “piccolo”, cioè  micros, significa che non è all’altezza di Gesù. Perché non è all’altezza di Gesù? Per l’attività che fa, un’attività che lo porta ad ingannare e derubare gli altri, quindi a fare del male e soprattutto perché è ricco. I ricchi non sono all’altezza di Gesù.
Allora corse avanti. Ecco il primo dei cambiamenti che c’è in questa persona. E’ un capo dei pubblicani, è una persona che venisse disprezzata, è temuta e riverita. E lui si mette a correre. Correre in quella cultura è qualcosa di disonorevole perché non si corre mai.
E, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. Il sicomoro è una pianta tipica della zona, ne mostro uno nell’immagine, che si trova nella città di Gerico in ricordo di questo episodio. E’ una grande piante. Ebbene Zaccheo pensa che per vedere Gesù deve salire, invece Gesù lo inviterà a scendere.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: “Zacchèo, scendi subito”. Lui pensava secondo la mentalità religiosa che per avvicinarsi a Dio bisognasse salire, invece Gesù lo inviata a scendere. “Perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Il verbo “dovere” adoperato dall’evangelista è un verbo tecnico con il quale gli evangelisti affermano la volontà divina. Quindi questo doversi fermare a casa di Zaccheo fa parte della volontà di Dio, del piano di salvezza, di questo Dio che a tutti è venuto a proporre il suo amore.
Scese in fretta (prima corre ora di nuovo in fretta) e lo accolse pieno di gioia. Qual è il motivo della gioia? Non è soltanto dell’accoglienza della figura di Gesù. La gioia gli viene da quello che sta per fare. Gesù, in un’espressione che è contenuta negli atti degli apostoli dirà: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. E Gesù aveva proclamato beati quelli che fanno la scelta della povertà, della condivisione. Ecco il motivo della gioia di Zaccheo.
Ma, alla gioia, all’allegria di Zaccheo, corrisponde il malumore degli altri. Vedendo ciò, tutti  (nessuno escluso) mormoravano: “È entrato in casa di un peccatore!”. I peccatori vanno ammoniti, vanno rimproverati e soprattutto vanno evitati. E’ impensabile che una persona pura entri in casa di una persona impura perché viene contagiato da questa sua impurità. Gesù mostra che non è vero che l’uomo peccatore si deve purificare per essere degno di accoglierlo, ma è accogliere il Signore quello che purifica.
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: “Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri”, quindi lui che era ricco, già non era più ricco, perché la metà di quello che ha lo dà ai poveri. E’ l’accoglienza della beatitudine di Gesù.
“E, se ho rubato a qualcuno (certo che ha rubato), restituisco quattro volte tanto”.  Zaccheo fa molto di più di quello che era previsto nella legge. Infatti nel libro del Levitico, al capitolo 5, si legge che il colpevole doveva restituire sì quello che ha rubato con l’aggiunta di un quinto. Lui fa molto di più. Dice “Io restituisco quattro volte tanto”. Che cosa è successo? Era ricco, ora non lo è più, però adesso è nella beatitudine, nella felicità e nella gioia.
Gesù gli rispose: “Oggi per questa casa è venuta la salvezza”. Gesù è stato indicato in questo vangelo all’inizio come il salvatore e per la prima e unica volta, appare il termine “la salvezza”. “Perché anch’egli è figlio di Abramo.” La gente pensava che, per la sua condotta, fosse una persona esclusa, un impuro, un maledetto. No, è un figlio di Abramo. “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto”.
Il figlio dell’Uomo non attende che i peccatori vengano a lui pentiti, ma è lui che va incontro a questi peccatori per comunicare vita. Perché Gesù dice: “Salvare ciò che era perduto?” Perché la ricchezza distrugge le persone. La vita si ottiene dando e non accumulando. Questa è la buona notizia portata da Gesù, quindi per lui non esistono casi impossibili, casi disperati.

 

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“quel rifugiato che puzza e cambia il cuore al tassista”

il racconto del papa all’udienza generale dedicato alle migrazioni

  egoismo, barriere e muri aiutano i traffici criminali

siamo tutti  chiamati all’accoglienza

papa Lesbo

iacopo scaramuzzi 

Una donna armena, un rifugiato che «puzza» e un tassinaro romano, inizialmente diffidente, a cui il racconto dello straniero «profuma» l’anima cambiandogliela. Papa Francesco ha dedicato al tema dell’immigrazione l’udienza generale in piazza San Pietro, a partire dalle parole di Gesù sugli stranieri («Ero straniero e mi avete accolto, ero nudo e mi avete vestito»): la «chiusura» – i muri e le barriere, l’istintivo egoismo – «finisce per favorire i traffici criminali», ha detto, «tutti siamo chiamati ad accogliere i fratelli e le sorelle che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla violenza e da condizioni di vita disumane».

Poi, per illustrare il concetto nei giorni in cui in Italia e in Europa è forte la polemica sul tema dell’immigrazione, ha raccontato a braccio una «storia piccolina», quasi un apologo, che non condanna la diffidenza nei confronti degli stranieri ma mostra come il cuore può cambiare.

«Alcuni giorni fa è successa una storia piccolina», ha detto il Papa: «C’era un rifugiato che cercava la strada e la signora gli si avvicinò: lei cerca qualcosa? Era senza scarpe quel rifugiato. Lui ha detto:io vorrei andare a San Pietro e entrare nella porta santa. E la signora pensò: non ha scarpe, come fa… e chiamò un taxi.
Ma quel migrante, quel rifugiato puzzava. E l’autista del taxi quasi non voleva che salisse… ma alla fine lo ha fatto salire, la signora e il rifugiato accanto a lei.
E la signora gli domandò della sua storia di rifugiato e migrante, il percorso del viaggio, dieci minuti fino ad arrivare qui», a San Pietro.

«Quest’uomo raccontò la sua storia di dolore, di guerra, di fame e perché era fuggito dalla sua patria per migrare qui. Quando sono arrivati la signora apre la borsa per pagare il tassista e il tassista, che all’inizio non voleva che questo migrante salisse perché puzzava, ha detto alla signora: no signora, sono io che devo pagare lei, perché lei mi ha fatto sentire una storia che mi ha cambiato il cuore.

Questa signora – ha proseguito il Papa – sapeva cosa era il dolore di un migrante perché aveva il sangue armeno e sapeva la sofferenza del suo popolo.

Quando noi facciamo una cosa del genere all’inizio ci rifiutiamo perché ci dà un po’ di incomodità, “puzza”… ma alla fine – ha concluso Francesco – la storia ci profuma l’anima e ci fa cambiare: pensate a questa storia e pensate a cosa possiamo fare per i rifugiati».

Il Papa ha proseguito, all’udienza di oggi, il ciclo di catechesi sulle opere di misericordia corporale, nel quadro del Giubileo che termina il 20 novembre, soffermandosi, in particolare, su quanto Gesù dice secondo il Vangelo di Matteo: «Ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito»:

«Nei nostri tempi – ha detto il Papa – è quanto mai attuale l’opera che riguarda i forestieri. La crisi economica, i conflitti armati e i cambiamenti climatici spingono tante persone a emigrare. Tuttavia, le migrazioni non sono un fenomeno nuovo, ma appartengono alla storia dell’umanità».
«E’ mancanza di memoria storica pensare che esse siano proprie solo dei nostri anni», ha detto il Papa ricordando i «tanti esempi concreti di migrazione» presenti nella Bibbia, fino alla fuga in Egitto della sacra famiglia. «La storia dell’umanità è storia di migrazioni: ad ogni latitudine, non c’è popolo che non abbia conosciuto il fenomeno migratorio», ha proseguito il Papa, secondo il quale «nel corso dei secoli abbiamo assistito in proposito a grandi espressioni di solidarietà, anche se non sono mancate tensioni sociali.papa

Oggi,il contesto di crisi economica favorisce purtroppo l’emergere di atteggiamenti di chiusura e di non accoglienza. In alcune parti del mondo sorgono muri e barriere. Sembra a volte che l’opera silenziosa di molti uomini e donne che, in diversi modi, si prodigano per aiutare e assistere i profughi e i migranti sia oscurata dal rumore di altri che danno voce a un istintivo egoismo.

Ma la chiusura – ha rimarcato il Papa – non è una soluzione, anzi, finisce per favorire i traffici criminali. L’unica via di soluzione è quella della solidarietà».
Anche oggi, ha detto il Papa citando in particolare la figura di santa Francesca Cabrini e il suo impegno a fianco dei migranti verso gli Stati Uniti d’America, «le diocesi, le parrocchie, gli istituti di vita consacrata, le associazioni e i movimenti, come i singoli cristiani, tutti – ha insistito il Papa – siamo chiamati ad accogliere i fratelli e le sorelle che fuggono dalla guerra, dalla fame, dalla violenza e da condizioni di vita disumane.
Tutti insieme siamo una grande forza di sostegno per quanti hanno perso patria, famiglia, lavoro e dignità». In particolare, l’evangelico «vestire chi è nudo» vale, in particolare, per le «donne vittime della tratta gettate sulle strade», o «agli altri, troppi modi di usare il corpo umano come merce, persino dei minori.
E così pure – ha proseguito il Papa – non avere un lavoro, una casa, un salario giusto, o essere discriminati per la razza o per la fede, sono tutte forme di “nudità”, di fronte alle quali come cristiani siamo chiamati ad essere attenti, vigilanti e pronti ad agire».

«Cari fratelli e sorelle, non cadiamo nella trappola di rinchiuderci in noi stessi, indifferenti alle necessità dei fratelli e preoccupati solo dei nostri interessi», ha detto il Papa.papa3

«E’ proprio nella misura in cui ci apriamo agli altri che la vita diventa feconda, le società riacquistano la pace e le persone recuperano la loro piena dignità. E non dimenticate– ha concluso – quella signora, quel migrante che puzzava e il tassista al quale il migrante aveva cambiato l’anima».

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lo ‘straniero’ non esiste

e comunque “ero straniero e mi avete accolto”

 

ACCOGLIENZA

La visione del “Giudizio finale” nel Vangelo di Matteo fa parte della cultura universale. Ci ha pensato Michelangelo, con il magnifico affresco della Cappella Sistina, capolavoro assoluto dell’arte, a fissarla indelebilmente nella mente di ciascuno.

Di qua gli eletti, di là i dannati, nel mezzo Cristo giudice. Sono le parole di Gesù il metro con cui misurare il destino dell’umanità: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi“. Tutto qui: sei azioni concrete per avere in eredità il Regno.

La parabola è tanto chiara quanto antica. In fondo è il cuore della nonviolenza attiva. Se accogli e ti apri al prossimo, ognuno vivrà meglio. Il luogo dove sperimentare questa verità è la “casa comune”, il mondo in cui viviamo, che diventa Terra promessa, Regno di Dio, se i sei precetti (opere di misericordia corporale, dice la dottrina) vengono rispettati; se invece per paura o egoismo le sei buone azioni vengono disattese, la casa comune diventa un supplizio, un inferno (“ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato: via da me, maledetti!”).

Qui non c’entra l’essere credenti o atei, religiosi o laici, è l’esperienza concreta che ci dice chiaramente quanto sia vero l’insegnamento contenuto nel Vangelo di Matteo: la salvezza o la condanna non sono un premio o un castigo che arrivano dal cielo o dal divino, ma sono la conseguenza pratica, logica, inevitabile, frutto delle nostre scelte e della nostre azioni.

L’Europa di oggi lo sta sperimentando, sta vivendo questa prova decisiva di masse “straniere” che arrivano da lontano e chiedono di entrare. Si può tentare di chiudere la porta (muri, fili spinati, leggi escludenti, respingimenti, ecc.) ma verrebbe fatalmente sfondata, oppure tenerla aperta (governare il fenomeno con politiche di accoglienza, di cooperazione, creazione di opportunità, libertà di movimento, ecc.).

Il vecchio continente si gioca su questo il proprio futuro: se si chiude sarà condannato al declino. La fuga in atto dall’Africa e dal Medio Oriente ha cause ben precise, anche storiche, che sono di origine economica, un’economia distorta che uccide e provoca guerre. Il movente sono le materie prime e le fonti energetiche: non solo petrolio e gas, ma anche oro, uranio, coltan e altri minerali preziosi necessari all’elettronica. Dopo le conquiste e le colonie dei secoli scorsi, oggi assistiamo ad una nuova depredazione in atto, cui questa volta partecipa anche la Cina.

Territori impoveriti, deviazioni di bacini acquiferi, immissioni di gas serra in atmosfera, hanno causato variazioni climatiche, surriscaldamento, desertificazioni che aggiungono profughi ambientali ai profughi politici, profughi di guerra, profughi economici.

La geo-politica mondiale ha bisogno di essere difesa militarmente con le armi. Il nostro paese, schierato politicamente con l’alleanza atlantica, ma proiettato geograficamente nel Mediterraneo, ha un ruolo importante come accesso all’Europa per milioni di persone.

Siamo pienamente coinvolti, nel bene e nel male. Da una parte facciamo salvataggi, dall’altra esportiamo bombe. E dunque, in definitiva, piantiamo semi di guerra e raccogliamo rifugiati. Dentro alla grande storia delle migrazioni di oggi, ci sono milioni di storie individuali. Storie annegate in fondo al mare (saremo mai perdonati per questo?), o storie di salvezza e di speranza.

Ci vuole un punto di vista particolare per superare la paura, per scoprire storie positive, per mettere in relazione competenze e progetti. L’immigrazione coinvolge i temi dei diritti, dell’ambiente, della pace. Il forestiero che chiede ospitalità è una sfida alla nonviolenza: ci dice che sulla terra nessuno deve essere escluso.

 

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superare una teologia mummificata e lontana dalla vita – se lo dicono anche i vescovi italiani …

monsignor Galantino:

la teologia deve

“uscire,

annunciare,

abitare,

educare e

trasfigurare”

Galantino

“Uscire dall’autoreferenzialità; annunciare la credibilità della fede che la informa; abitare spazi civili e sociali dai quali spesso si trova marginalizzata; educare a uno sguardo attento e critico sul ‘Dio per l’uomo’, sull’uomo stesso e sul mondo; trasfigurare la speculazione e il pensiero stesso per farne voce di una bellezza quasi sacramentale: quella della Parola che risuona, incessantemente, nelle parole umane”. Concludendo il suo intervento all’incontro di apertura del ciclo annuale di conferenze della Pontificia Università Gregoriana, monsignor Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha preso in prestito le cinque “vie” del Convegno ecclesiale nazionale di Firenze per declinare il ruolo della teologia nella cultura contemporanea. “La teologia – la sua tesi di fondo – ha pieno diritto di parola in quella delicata operazione che è la legittimazione di un umanesimo in cui vi sia spazio per ricomporre i molti tratti di un’umanità dispersa nell’unico mosaico del volto di Cristo”. “Non si tratta di un’operazione ideologica o mossa da tendenze proselitistiche, né è in discussione la rispettabilità di opinioni e fedi diverse”, ha puntualizzato il vescovo: “Ad essere implicata è piuttosto la plausibilità di un pensiero cristiano sul fatto umano”

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barricate italiane di fronte alla disperazione

barricate a Gorino

mons. Perego (Migrantes)

“un episodio preoccupante che mostra come l’aria di chiusura sta arrivando anche da noi”Perego

“Dodici donne e otto bambini, donne sole e con i propri figli hanno trovato all’arrivo al comune di Gorino nel ferrarese – meno di 4mila abitanti, 1,6% di immigrati – la strada sbarrata e, soprattutto, le porte chiuse dell’ostello dove dovevano essere ospitati. È un episodio preoccupante, che avviene in una terra dove la solidarietà era sempre stata un elemento fondamentale anche perché dimostra una cattiva informazione sulle storie e le tragedie di chi sbarca; preoccupante infine perché dimostra l’incapacità delle istituzioni di preparare una comunità all’accoglienza, continuando ad improvvisare gli arrivi”. goro

A dirlo oggi il direttore generale della Fondazione Migrantes, monsignor Giancarlo Perego, commentando la protesta degli abitanti di Gorino, scesi in strada per impedire l’accesso in paese a 12 donne e 8 bambini, che il prefetto di Ferrara aveva destinato all’ostello del paese. goro2

“L’episodio – ha aggiunto monsignor Perego – è un segnale che dimostra come l’aria di chiusura e di ‘muri’ che si respira in altri Paesi europei sta arrivando anche nelle nostre città e nei nostri paesi, al punto tale che una Valle, con una delle oasi naturali del Po a protezione di flora e fauna, oggi arriva a non essere in grado di fare un gesto di ospitalità per proteggere donne e bambini in fuga da guerre, disastri ambientali e violenze. La nostra democrazia come la nostra sicurezza non si può difendere rifiutando il diritto all’ospitalità. In quelle famiglie in cammino ritroviamo in modi diversi la storia di fuga della famiglia di Nazareth”.
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abiamo impoverito sfacciatamente l’Africa per secoli e ora ergiamo muri per difenderci dal grido dei suoi disperati

così dopo secoli di sfruttamento l’Europa sbarra le porte all’Africa

di Antonio Maria Costa
in “La Stampa” del 24 ottobre 2016

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Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse – umane, minerarie, agricole – inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a Oriente verso il Golfo e l’Asia, e a Occidente verso le Americhe. Schiavi tre su quattro

Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà. Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse – umane, minerarie, agricole – inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a Oriente verso il Golfo e l’Asia, e a Occidente verso le Americhe. Schiavi tre su quattro Nel ’600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni.

antonio-maria-costa Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcol, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del ’700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica). All’inizio dell’800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento antischiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non è la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H. M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie. L’occupazione Entrano anche in gioco interessi individuali – anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. «Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù», scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa. Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei
confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora. La II guerra mondiale Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri – inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umano drammatico. Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo.

migranti bambini1La situazione oggi Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); dallo Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vicepresidente il figlio Mangue – un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese «The Economist» elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore «piglia tutto», dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media. A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltan, niobio, tantalio e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica.

migranti bambini Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti. Fuga verso l’Occidente A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche – decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento – com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’Olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea.

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Dio non si manifesta solo nell’amore eterosessuale ma in tutto ciò che è vero amore

La relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa al plurale . Nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.

una riflessione della pastora valdese Lidia Maggi:Lidia Maggi

Che cosa distingue il legame che unisce una coppia sposata da una che sceglie di convivere? Oltre al rapporto giuridico che tutela l’una invece dell’altra, confesso che, qualche volta, fatico a cogliere la differenza sostanziale nella qualità della relazione, soprattutto sui lunghi tempi.

E’ la mancanza del contratto matrimoniale a rendere meno sacro quel legame? La convivenza è una forma di amore di seconda scelta?

Ho incontrato coppie di sposi e di conviventi che vivono il loro rapporto d’amore nella dedizione più profonda. Difficile distinguere. E se non sono in grado di comprendere appieno la differenza del legame, come spiegarla a chi legge e, soprattutto, alle generazioni future, ai miei stessi figli?

Non sono la persona giusta per fare un’apologia del matrimonio, nonostante sia ministro di una chiesa. Un tempo non la pensavo così, ero convinta che, attraverso quel rito celebrato davanti a Dio e alla comunità riunita, si stabilisse un legame unico, irripetibile, che nessuna altra forma di unione poteva eguagliare. Sentivo la differenza tra sposati e conviventi non solo legata all’aspetto giuridico dell’unione.

La vita e l’esperienza mi hanno resa più cauta nei facili distinguo. Mi capita di sposare giovani coppie, di accompagnarle nella preparazione alla celebrazione, così come ascolto fatiche e gioie di coppie che non sono legalmente sposate.

L’amore è amore

E’ proprio nell’ascolto delle storie più diverse che inizio a maturare la convinzione che l’amore è amore, che ci piaccia o no, anche se questo si esprime in una modalità diversa da quella convenzionale. Questo significa pure che può essere considerato vero amore anche quello che unisce due persone dello stesso sesso, l’amore omosessuale.

Mi rendo conto che rifletto su questo tema leggendo la realtà con le mie lenti protestanti: nelle chiese luterane e riformate il matrimonio non è un sacramento. Ciò non significa che non sia sacro l’amore che unisce due persone. Sacra è infatti la relazione, perché questa è metafora del legame che unisce Dio all’umanità.

Il Dio biblico si rivela come un TU che chiama, che si lega ad una storia particolare. E’ sempre il Dio di qualcuno: il Dio di Abramo e di Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe e di Lia e Rachele, il Dio di Gesù: il mio e il tuo Dio. Il rapporto con Dio può essere molto intimo, ma non può mai diventare fusionale, altrimenti Dio si riduce a un idolo.

Dio è l’Altro che cammina con l’umanità senza (con)fondersi in essa. Questo gioco di intimità e alterità noi lo conosciamo in modo particolare nella relazione affettiva.

Il sacramento dell’amore

In questo senso la relazione amorosa è “sacramento”: essa rimanda alla realtà più grande che è il rapporto tra Dio e l’umanità. E, coerentemente alla testimonianza biblica, lo fa “al plurale”. Il “singolare” della scelta matrimoniale finora è stato difeso in quanto scelta definitiva, legame indissolubile. Ma nel presente il paradigma della definitività non appare più legato al matrimonio.

Non sono una sociologa; ma dal mio limitato osservatorio pastorale vedo che la tenuta del legame di coppia, come pure la sua rottura, si verifica sia per gli sposati che per i conviventi.

La definitività non appare più prerogativa esclusiva del matrimonio. Si dice anche che solo il matrimonio sarebbe in grado di esprimere il risvolto pubblico della scelta di coppia, non relegandolo a faccenda privata. Il problema è reale e, a mio giudizio, va inquadrato nella questione di più ampio respiro che oggi non abbiamo più momenti simbolici che dicano i passaggi decisivi dell’esistenza.

Sono venuti meno nella nostra società i cosiddetti riti di iniziazione. Ma anche in questo caso, non è detto che il matrimonio sia in grado di assolvere a questa funzione. O meglio, che sia l’unico modo per esprimere il momento pubblico della vita di coppia.

Chissà se le chiese, in futuro, saranno in grado di proporre un gesto che conferisca senso “iniziatico” e valore pubblico alla relazione amorosa della coppia, non necessariamente col linguaggio giuridico del “io prendo te, io mi impegno per sempre”, ma anche con quello differente del “io inizio con te un cammino”.

Dai frutti vi riconosceranno

In fondo, anche per le coppie vale il doppio sguardo che i credenti accendono sull’esperienza della fede cristiana. Ovvero: osservandola dalle “radici” oppure dai “frutti”.

Se finora la preoccupazione delle chiese si è concentrata sulle radici, sul porre un gesto pubblico, ufficiale, sacramentale quale la celebrazione del matrimonio, perché non provare a guardare anche ai frutti?

Ci sono persone sposate che hanno trasformato la loro unione in una prigione eppure continuano a rimanere assieme; coppie che, invece, hanno trovato nel matrimonio il terreno fertile per far crescere la relazione d’amore. Lo stesso vale anche nelle convivenze. Ho incontrato persone che, pur non essendo legalmente sposate, non riescono a separarsi anche quando ormai la convivenza è usurata e l’antico terreno fertile dell’amore è diventato un campo di battaglia. Da questo punto di vista lo sguardo si posa sia su convivenze riuscite che su quelle malate, sia sui matrimoni di interesse che su matrimoni che tengono e testimoniano una ricca relazione affettiva.

Ogni storia d’amore è originale

Tutto ciò per affermare: le storie sono singolari e difficilmente giudicabili a priori. Alla scuola delle Scritture impariamo non il giudizio sui principi ma l’ascolto attento e non giudicante, capace di discernere ogni singola storia, evitando le semplificazioni generiche.

Su questo tema ho molto apprezzato gli interventi comparsi su queste pagine di coloro che mi hanno preceduto. Mi interpella l’acutezza di Battista Borsato che ci propone, in controtendenza, una possibile lettura positiva della convivenza come “segno dei tempi”. Egli vede in questo fenomeno la possibilità che la Chiesa si interroghi su come ha gestito la ministerialità degli sposi, considerandoli di fatto persone immature, da governare con istruzioni chiare su come gestire la sessualità, la procreazione, l’educazione dei figli.

Chi sceglie di convivere, consapevolmente o meno, si sottrae a questo controllo rivendicando totale autonomia su scelte così intime come la gestione della sessualità.

Ho trovato poi stimolante la riflessione di Luisa Malesani Benciolini sul rapporto tra matrimonio e sessualità. Le convivenze mettono a nudo le debolezze di alcuni automatismi legati all’immaginario religioso sul matrimonio, come l’indissolubilità e il sesso. Mi riconosco pienamente nelle riflessioni e nelle domande che i due articoli sollevano.

Convivenze sì, convivenze no

Ciò che più ho apprezzato di questi due autori è il tentativo di uscire fuori dai grandi modelli interpretativi del fenomeno delle convivenze per proporre i necessari distinguo e mettersi in ascolto delle singole storie.

Esiste ancora oggi una campagna negativa sulle convivenze che tende a semplificare colpevolizzando i giovani, accusati di non essere in grado di fare scelte per la vita. Tale propaganda viene arginata da chi prova a cogliere il positivo in chi convive, mettendo in luce quei cambiamenti dei modelli sociali e culturali (come l’emancipazione della donna) che hanno portato a mutamenti nella struttura familiare, fino alla necessità di parlare di famiglie al plurale.

Convivenze sì, convivenze no. Ciò che trovo stretto in questo gioco di schieramenti è che, in fondo, i modelli interpretativi affrontano la questione in modo generico, non riuscendo ad essere validi per tutti. Ogni convivenza ha una sua motivazione.

Oltre ai modelli interpretativi ci sono le singole storie.

Le crociate etiche delle chiese

In Italia, su temi etici, sulle questioni fondamentali della vita, quelle su cui dovremmo muoverci con estrema cautela, richiamando innanzitutto ad un ascolto prolungato (come recita il sottotitolo della rivista), le chiese hanno ingaggiato una battaglia sui principi, dove l’ascolto viene giudicato quale giustificazione di un pericoloso atteggiamento relativista.

Queste chiese, portatrici di una sapienza delle relazioni d’amore, secondo la quale la fede si esprime col linguaggio della relazione d’amore, rischiano di non saperla più dire. E i giovani, che non odono più un discorso sapienziale ma solo divieti e lacci, si ritrovano a staccare l’audio di fronte ad una parola giudicante, che pretende di controllare ed incasellare la relazione amorosa.

Di fatto, le chiese, preoccupate di definire lo status della coppia, di catalogarla sotto una precisa voce del registro parrocchiale, si dimostrano succubi dell’attuale clima culturale, dove tutto è messo in discussione e alle agenzie etiche religiose viene assegnato il compito di fornire punti fermi. La presunta fedeltà all’evangelo si riduce così alla reazione emotiva di fronte ad uno scenario nuovo e sfuggente.

Come cambierebbe il discorso se le chiese sapessero dire: ti ascolto, per me tu sei un volto, un nome, la tua storia è singolare; invece che preoccuparsi di iscrivere in una categoria (sposati/conviventi) le diverse storie affettive!

Guarda e ascolta: noi siamo storie!

Oggi, in Italia, assistiamo ad uno scontro ideologico sulla pelle delle coppie. Ma la Scrittura ci insegna a smarcarci da queste semplificazioni, non prive di secondi fini, e a guardare in faccia le persone. Il pastore di cui parla l’evangelo chiama per nome le sue pecore; non le divide per categorie.

L’evangelo può tornare a risuonare per le coppie solo se chi l’annuncia recupera uno sguardo non giudicante ed è capace di un ascolto prolungato. E’ lo sguardo che Gesù posa sul giovane ricco: “fissatolo lo amò”; è l’ascolto in profondità che ha segnato il dialogo con la samaritana e con i tanti che si sono sentiti interpellare da parole di vita.

Forse, alla luce di un serio riconoscimento delle forme di amore al di fuori del matrimonio, è tempo di interrogarci su come parliamo del matrimonio, di fare i conti con l’ambiguità di un “sacramento” troppo spesso celebrato da una religione civile.

Le persone oggi possono scegliere di vivere l’amore attraverso un gesto iniziale pubblico, solenne, sacramentale oppure no, perché le alternative al matrimonio esistono e sono percorribili.

Questa nuova libertà, invece di paralizzarci e allarmarci, può spingere a maturare una maggiore consapevolezza nella forza simbolica e nella pluralità delle forme espressive con cui si sceglie di accogliere e amare l’altro davanti a Dio, alla società e alla comunità riunita.

Segni che non rendono immuni dai possibili fallimenti; ma, pur nella fatica, possono dare vigore e offrirsi come memoriale, soprattutto quando le motivazioni iniziali vengono meno e l’alba di un nuovo giorno sembra troppo lontana.

tratto da “Matrimonio” (15/06/2011)

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