il commento al vangelo della domenica

 NESSUNO HA UN AMORE PIU’ GRANDE DI QUESTO: DARE LA VITA PER I PROPRI AMICI 

commento al vangelo della domenica sesta di pasqua (10 magio 2015) di p. Alberto Maggi 

p. Maggi

 

 

 

 

Gv 15, 9-17

 

 

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».

Il segno distintivo di un credente, di un cristiano, è una gioia piena, traboccante, da poter essere comunicata agli altri. E Gesù, in questo brano del Vangelo, ce ne dice il perché.
Vediamo. Scrive l’evangelista: “Come il Padre ha amato me”. Dio ha amato il figlio, Gesù, comunicandogli il suo spirito, cioè la sua stessa capacità d’amore. “Anch’io ho amato voi”, lo spirito, l’energia, la capacità, la forza d’amore che Gesù ha ricevuto dal Padre, lui la comunica a quanti lo accolgono. “Rimanete nel mio amore”; l’amore Gesù lo ha manifestato nel capitolo 13 lavando i piedi ai suoi discepoli. Il servizio è l’unica garanzia di rimanere nell’amore del Signore. L’amore del Signore, è vero, è credibile, quando si trasforma in atteggiamenti di servizio nei confronti degli altri. L’amore, quindi, non rimane un sentimento, ma un atteggiamento concreto che rende più bella, più leggera la vita dell’altro.  
E qui Gesù afferma “Se osserverete i miei comandamenti”. Lui ha lasciato un unico comandamento, “Amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”. Le attuazioni pratiche, concrete di questo unico comandamento, quindi tutte le volte che questo comandamento diventerà realtà attraverso forme nuove, inedite, di servizio, di collaborazione, di condivisione, di generosità, questo per Gesù equivale ai ‘comandamenti’.
Ed ecco l’annunzio di Gesù “Vi ho detto queste cose”, cos’è che Gesù ha detto? Qui siamo al cap. 15, alla metà, nella prima metà Gesù ha paragonato il Padre al vignaiolo. Qual è l’interesse del vignaiolo? Che la vigna porti sempre più frutta abbondante. Quindi è il vignaiolo che ci pensa, che cura, protegge, elimina quegli elementi nocivi che impediscono al tralcio di portare più frutto. Allora “vi ho detto queste cose”, quali sono queste cose che Gesù ha detto? Di non preoccuparsi di nulla; l’unica preoccupazione del credente, del tralcio, è di portare più frutto, e amare sempre di più. Alla sua vita non ci deve pensare perché ci pensa – e qui il cambio è favorevole al credente – ci pensa direttamente il Padre. Quindi l’invito di Gesù è di camminare nella vita sentendo sempre alle proprie orecchie un Padre che ti sussurra: “Non ti preoccupare, fidati di me”.
Questa è la radice della gioia; “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia” – è la gioia stessa di Gesù, e Gesù è Dio, quindi una gioia divina – “sia in voi e la vostra gioia sia piena”. La caratteristica del credente è la gioia, una gioia che non dipende dalle circostanze della vita, se le cose mi vanno bene o mi vanno male, se gli altri mi vogliono bene o non me ne vogliono, questa gioia è interiore e viene da questa profonda esperienza. Il Padre si occupa di me perché io ho deciso di occuparmi degli altri.
Quindi l’esperienza di sentirsi profondamente amato, questa è la fonte della gioia.
E, torna a ripetere Gesù, “Questo è il mio comandamento”. Gesù sottolinea che è il SUO comandamento, per contrapporlo a quelli di Mosè. La norma di comportamento nella comunità di Gesù è l’unico comandamento, quello dell’amore e, infatti, ripete “che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amato”.
E aggiunge: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. Qui non significa soltanto il gesto estremo, supremo, del dono fisico della vita per un altro, ma tutta la vita dell’individuo orientata al bene dell’altro. Quindi tutta l’esistenza dell’individuo è orientata verso il bene dell’altro.
A questo punto Gesù – ed è la prima volta nel Vangelo – dichiara che i suoi discepoli sono i suoi amici: “Voi siete miei amici”. Mosè, il servo di Dio, aveva instaurato una relazione fra dei servi e il loro Signore, basata sull’obbedienza, Gesù, che è il Figlio di Dio, propone un’alleanza non tra dei servi, ma tra dei figli, e non con un Signore, ma con un Padre. Quindi la proposta che ci fa Gesù è una relazione di Figli con il Padre basata sulla somiglianza. Bene, questa relazione porta all’amicizia con Gesù. E Gesù in maniera enfatica dice “Non vi ho mai chiamato servi” – la traduzione dice “non vi chiamo più servi”, ma in realtà Gesù MAI ha chiamato i suoi discepoli ‘servi’, il testo greco è enfatico dice “no, non vi ho mai chiamato servi!”
La relazione di Gesù con i suoi discepoli non è quella del Maestro con dei servi, ma una relazione di amicizia. E, alla conclusione di questo brano, “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi perché 2
andiate e portiate frutto”. Il ‘portare frutto’ è condizionato dall’ ‘andare’. Non è un rimanere statici, rimanere fermi ad attendere che gli altri vengano da noi, ma è ‘andare’. E dove bisogna andare? Seguire Gesù. E Gesù è il santuario visibile dell’amore di Dio che si dirige verso gli esclusi da Dio. Quindi tutte quelle persone che dalla religione si sentono escluse e si sentono rifiutate, questo è il campo della missione del credente.
E’ lì che si porta molto frutto. Se c’è questo, ci assicura Gesù, tutto quello che chiederemo al Padre, nel suo nome – nel nome non significa usare la formula ‘per Cristo nostro Signore’, ma nella misura in cui ci identifichiamo con lui e che assomigliamo a lui – stiamo sicuri che il Padre ce lo concede.
Questa è la radice e la fonte della gioia.

 

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la visione teologica di papa Francesco

«papa Francesco: visione e teologia di un mondo aperto»

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

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pubblicazione del testo della Lectio Magistralis tenuta  dal cardinale Segretario di stato Pietro Parolin a Padova, nella Facoltà Teologica del Triveneto, nel decimo anno della fondazione

 

Eccellenze,

Autorità accademiche, civili e militari,

Docenti e studenti,

Personale tecnico-amministrativo e volontari,

Signori e Signore,

Cari Amici,

 

Sono lieto di prendere la parola in occasione di questo dies academicus della Facoltà Teologica del Triveneto, vivamente grato dell’invito che mi è stato rivolto di celebrarne con voi il decennale. 

 Dopo una partenza “in sordina”, la Facoltà Teologica si è ormai imposta come fucina di preparazione di sacerdoti, religiosi e laici.  Espressione delle Chiese locali della Regione conciliare e da esse sostenuta, rappresenta una risorsa significativa per far giungere la proposta del Vangelo – quella “vita” e quella “vita in abbondanza” che Gesù è venuto a darci con la sua esistenza terrena, la sua morte e la sua risurrezione (cfr. Gv. 10,10) – al mondo e agli uomini di oggi.  Sue finalità, infatti, sono, da una parte sostenere la comunicazione e la pratica ecclesiale della fede, e, dall’altra, corroborare la testimonianza vissuta e argomentata del credente e della comunità cristiana in modo da offrire, nello stile dell’incontro e in una visione aperta, punti di vista ispirati al Vangelo, che, dialogando con le altre istanze presenti nella società, la aiutano a diventare sempre più ambiente in cui viene riconosciuta, rispettata e promossa la dignità di ogni uomo e di tutto l’uomo.

 In questa prospettiva, è pertanto di vitale importanza confrontarsi con le nuove realtà, cioè quei segni dei tempi che domandano alla Ciesa di affrontare le grandi questioni del mondo contemporaneo e dei rapporti che al suo interno nascono, si sviluppano e, purtroppo, spesso si contrappongono.

 Come dimenticare che già cinquantanni or sono, a conclusione dell’esperienza conciliare, la Gaudium et Spes indicava nel rapporto Chiesa-mondo il nuovo ambito di riferimento per la teologia? Una sfida che chiama i teologi nel rispetto dei metodi e delle esigenze proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca” (GS 62). Con una consapevolezza, ad un tempo metodologica e dottrinale: “altro è … il deposito o le verità della fede, altro è il modo con cui vengono espresse, a condizione tuttavia di salvaguardarne il significato e il senso profondo” (ib.).

 

Questo indirizzo essenziale scandito dal Vaticano II impone anche oggi – come ha indicato di recente la Commissione Teologica Internazionale – un attento discernimento che coinvolge la teologia e quindi il teologo che, chiamato a scoprire la parola che cresce come un seme nel terreno della vita del popolo di Dio e, dopo aver determinato che un particolare accento, desiderio o atteggiamento provengono effettivamente dallo Spirito, e corrispondono dunque al sensus fidelium, deve integrarla nella propria ricerca” (Commissione Teologica Internazionale, Il sensus fidei nella vita della Chiesa, 2014, 82).

 Seguendo un tale approccio le riflessioni che seguono vogliono solo cercare di individuare nel magistero di Papa Francesco i modi di annuncio della “buona Novella a tutte le genti” e, di conseguenza, le forme di presenza del popolo di Dio in un mondo che ha nella dimensione globale una componente essenziale del vivere sociale. Una dimensione, però, che ormai non nasconde più un evidente paradosso: ogni persona è diventata parte di un processo che si dice “aperto”, ma che non è in grado di eliminare preclusioni ed esclusioni. Per questo Papa Francesco non si stanca di leggere il mondo, con le sue vicende e i suoi protagonisti, con un intento che è critico ma parimenti costruttivo perché, se costante è l’obiettivo finale di “non escludere”, altrettanto presente è il richiamo alla “necessità del dialogo” quale metodo che appartiene anche alla ricerca teologca.  

Infatti, il mondo che Papa Francesco descrive e interpreta è un mondo aperto, dove in principio non esistono situazioni o abitudini precostituite, ma è un mondo di relazioni e di dialogo, due aspetti che sono per lui una regola di vita. Teologi e non, ci troviamo di fronte ad un approccio che può essere applicato alla geopolitica, come pure alla teologia, alla sua ricerca e al suo insegnamento. La teologia, infatti diviene per il Papa espressione di una Chiesa che è ‘ospedale da campo’, che vive la sua missione di salvezza e guarigione nel mondo” (Lettera del Santo Padre Francesco al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015).

 Questo Papa che viene da lontano, dalla fine del mondo come ha detto il giorno della sua elezione, guarda l’Europa e il mondo con uno sguardo diverso, decentrato e lontano da quella visione che accompagna la tradizionale lettura teologica. Egli non appartiene né all’Oriente né all’Occidente, come pure non proviene dal cuore del sistema internazionale: per questo il suo insegnamento decentra la nostra abituale prospettiva e per certi versi stravolge il nostro modo di vedere il mondo e la Chiesa. Da buon gesuita, egli esercita il suo discernimento e si pone alla ricerca della volontà di Dio per scrutarla e così prepararsi a prendere decisioni sulla terra: che cosa c’è di più geopolitico e teologico allo stesso tempo?

 

Permettetemi allora di introdurvi in questo “mondo aperto” di Papa Francesco. Poi cercherò di individuare come l’insegnamento della teologia può soddisfare le esigenze di questo mondo, per ritornare a considerare la missione della Chiesa e della Santa Sede.

 

1.         Un mondo aperto

 

Dati statistici, indici demografici, scenari economici e logiche politiche ci danno ormai piena coscienza di non vivere più in un mondo diviso tra Est e Ovest o tra Nord e Sud, ma piuttosto in una realtà multipolare dove le differenze non sono scomparse. Penso in particolare a quel divario che facilmente cogliamo tra i Paesi avanzati e altri di più recente indipendenza che si manifesta, ad esempio, nel diverso grado di sviluppo, nella disponibilità di tecnologia, nella speranza di vita delle popolazioni. Sempre più spesso, però, molti Paesi cosiddetti del Sud si pongono ormai come Nazioni emergenti dove strati di popolazione vivono in condizioni non diverse da quelle dei Paesi più ricchi. Ad una lettura superficiale – quella che per il teologo non disvela la profondità fenomenologica delle situazioni – sembra quasi che le vecchie divisioni del passato siano finalmente superate. Invece, rimangono presenti le chiusure e le esclusioni che per Papa Francesco possono essere superate riscoprendo un’autentica misericordia che “ci renda più aperti al dialogo per meglio conoscerci e comprenderci; elimini ogni forma di chiusura e di disprezzo ed espella ogni forma di violenza e di discriminazione” (Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia, 11 aprile 2015, 23).  

Una tale concezione così articolata della misericordia non è solo un atteggiamento pastorale ma è la sostanza stessa del Vangelo di Gesù” (Francesco, Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015). La centralità della misericordia diventa il modo per comprendere la multipolarità sempre più ampia che caratterizza il nostro mondo, non più dominato dalla contrapposizione tra Atene e Roma, oppure tra Mosca e Washington, ma caratterizzato da una moltitudine di capitali da Pechino a San Francisco, da San Paolo a San Pietroburgo. La multipolarità, infatti, è espressa da una rete globale che avvolge il settore degli affari, della finanza, della religione e delle decisioni politiche: basti pensare ai cosiddetti Vertici che mettono ormai attorno ad un tavolo i leader mondiali dell’industria, della finanza, della politica o delle religioni.  

Per descrivere questo processo Papa Francesco propone nell’Evangelii Gaudium l’immagine di una sfera, dove tutti i punti sono più o meno alla stessa distanza dal centro ed esercitano il medesimo ruolo nella gestione del pianeta. Una struttura così articolata dovrebbe portare ad una globalizzazione egualitaria e uniforme: tutti i Paesi tendono all’omogeneità e presentano le stesse dinamiche culturali, commerciali e politiche, che magari ruotano attorno alla realtà o all’obiettivo della democrazia. Lo notiamo ad esempio già nei centri urbani delle grandi città che tendono ad assomigliarsi, percorsi da arterie commerciali in cui si trovano le stesse catene di negozi e sono in vendita i medesimi marchi.  

All’immagine pur suggestiva della sfera, però, Papa Francesco preferisce sostituire piuttosto quella del poliedro. Ciascuna superficie del poliedro, infatti, conserva la sua unicità e la sua identità che ne determina la differenza rispetto alle altre. Ne consegue che la tutela dell’identità è un fatto essenziale, anzi è normale difenderla perché all’identità è legata la dignità della persona umana e la sua unicità. In proposito Papa Francesco ci offre alcune immagini per comprendere il valore del rapporto identità-dignità.  

La prima riguarda l’identità cristiana: che è quell’abbraccio battesimale che ci ha dato da piccoli il Padre, ci fa anelare, come figli prodighi – e prediletti in Maria –, all’altro abbraccio, quello del Padre misericordioso che ci attende nella gloria” (Evangelii Gaudium,144). Se il modello di questa  identità è il “donarsi di Gesù sulla croce” (ib. 269), il fine è la necessaria relazione del cristiano con ogni prossimo: “Affascinati da tale modello, vogliamo inserirci a fondo nella società, condividiamo la vita con tutti, ascoltiamo le loro preoccupazioni, collaboriamo materialmente e spiritualmente nelle loro necessità, ci rallegriamo con coloro che sono nella gioia, piangiamo con quelli che piangono e ci impegniamo nella costruzione di un mondo nuovo, gomito a gomito con gli altri” (ib.). E qui è evidente la continuità con l’incipit della Gaudium et Spes e in particolare con l’affermazione che la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia” (GS, 1).  

La seconda immagine descrive il senso dell’identità individuale che trova compimento solo nell’appartenenza alla comunità, poiché il tutto è superiore alla parte: “una persona che conserva la sua personale peculiarità e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità, non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili” (Evangelii Gaudium, 235). Qui è ben presente la realtà di quell’unico Popolo di Dio di cui parla la Lumen Gentium, dove le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità” (LG, 13).  

  Una terza immagine  è relativa all’identità politica e istituzionale che Papa Francesco vede come strumento per eliminare la fragilità del modello socioeconomico in cui siamo immersi e che si difende di fronte all’arrivo dell’altro. Si tratta dell’invito ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali. Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!” (Evangelii Gaudium, 210). Un indicatore che si collega all’auspicio del Vaticano II di operare in una società non più chiusa, ma dalle differenze ormai molteplici: “La giustizia e l’equità richiedono similmente che la mobilità, assolutamente necessaria in una economia di sviluppo, sia regolata in modo da evitare che la vita dei singoli e delle loro famiglie si faccia incerta e precaria” (GS, 66).

 

Da questo quadro ricaviamo che l’identità è essenziale perché contraddistingue il nostro essere cristiani, dà l’immagine esatta del Popolo di Dio, crea la relazione tra le persone. Dunque, non dovrebbe essere motivo di isolamento o per chiudersi in se stessi o nel proprio gruppo, perché il rischio è di congelarla e farla diventare rigida eliminandone il necessario divenire. Al contrario, ogni identità diventa viva e vera quando si pone in relazione con le altre e si apre al dialogo. Questo presuppone che sia ben delineata nella sua natura e definita nei suoi contenuti, perché si può dialogare quando sappiamo chi siamo.  

Ed ecco il dialogo, strumento della misericordia, che diventa allora la via maestra per favorire la comprensione tra le diversità e costruire la pace in mezzo a visioni e modi di vivere ed agire contrapposti. Sul dialogo dobbiamo insistere, trattandosi di un punto che è stato sviluppato in continuità da Papa Francesco sin dal suo insediamento al Soglio di Pietro come qualcosa che appartiene al mondo reale, alla quotidianità delle persone e non è legato ad un’idea o ad una teoria del dialogo. Infatti, se nell’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium troviamo l’affermazione che dovere di tutta la Chiesa è di porsi in una condizione di dialogo  nei diversi ambiti ad intra e ad extra che caratterizzano la sua missione (nn. 241-258), il Papa non manca di precisare che deve trattarsi di un dialogo strutturato che esige pazienza e umiltà che accompagnano uno studio approfondito, poiché l’approssimazione e l’improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo” (Francesco, Discorso al Pont. Istituto di Studi Arabi e di Islamistica, 24 gennaio 2015). Ed ecco che il dialogo tra la fede, la ragione e la scienza, il dialogo interreligioso, il dialogo sociale, il dialogo nei rapporti tra le Nazioni acquistano specificità e rilevanza sia per i modi di attuazione che per i membri della Chiesa e le istituzioni ecclesiali che debbono realizzarli.  

Cerchiamo allora di individuare i contenuti essenziali del dialogo, anche per superare quei dubbi che possono comparire circa la validità del dialogo rispetto al  metodo teologico; o a quelli che affiorano anche nei livelli istituzionali, anche alti, che ne contestano il realismo politico, come pure nelle critiche più o meno velate di settori dell’opinione pubblica.  

In primo luogo la finalità che Papa Francesco ci precisa è la edificazione di una società giusta: È tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni” (Evangelii Gaudium, 239 ).

Poi gli ostacoli al dialogo, di cui Papa è consapevole quando dice: “Riconosciamo che una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali” (ib. 61). “La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti a comprendere quelle dell’altro” e “sapendo che il dialogo può arricchire ognuno” (ib. 251). Ecco allora che il dialogo diventa costruttivo.

 

Quindi i soggetti, e cioè quegli attori che attribuiscono al dialogo un valore aggiunto che va oltre il solo comunicare, anche le verità di fede: Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo” (ib. 142). Per ognuno dei suoi protagonisti il dialogo diventa un atteggiamento di apertura e di volontà, di benevolenza e di rispetto per colui con cui dialoghiamo, un silenzio interiore che permette di ascoltare l’altro.  

Infine, proseguendo nel suo insegnamento Papa Francesco fa emergere il metodo del dialogo che, se condotto seriamente, lungi dall’essere soltanto uno scambio di idee deve corrispondere ad un vero cambiamento, perché “la realtà è superiore alle idee” e pertanto sono da evitare le diverse forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi senza saggezza” (ib. 231). Anche nella ricerca teologica se si tralascia il senso e la portata della tradizione della Chiesa, le idee sono sempre  minacciate da derive, da sofismi di qualsiasi tipo, mentre la realtà non sbaglia. Ed è qui che riconosciamo l’importanza del principio dell’Incarnazione, intorno a cui ruota tutta la storia della salvezza.  

Così questo mondo aperto è fatto di molteplici attori ognuno dei quali è portatore di una propria identità, di una specifica cultura, di una diversa storia. La globalizzazione non deve ridurre queste differenze, perché significherebbe toccare qualcosa di molto profondo nell’identità dei popoli e delle culture. Essa deve rispettare l’identità, perché la dignità umana è compresa in questa identità. Ora questa dignità umana fonda tutto il pensiero della Chiesa sull’uomo e sulla sua esistenza in una comunità. Il Papa lo ha ribadito con forza a Strasburgo a fine novembre davanti al Parlamento Europeo: “La nostra storia è caratterizzata dalla inequivocabile centralità della promozione della dignità umana” (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014).  

Rispettare le identità, però, non significa metterle in concorrenza o in contrapposizione. A dialogare tra loro e ad interagire sono delle identità aperte che tra di loro non innalzano muri, né instaurano una competizione, ma piuttosto operano per uno scambio: il mondo aperto è un mondo di relazioni, di confronto, come pure di divergenze e di conflitti. Ma queste differenze sono la ricchezza delle Nazioni quando sono oggetto di un dibattito ragionevole e di una discussione leale. Ed ecco che globalizzare in modo originale – sottolineo questo: in modo originale – la multipolarità comporta la sfida di un’armonia costruttiva, libera da egemonie che, sebbene pragmaticamente sembrerebbero facilitare il cammino, finiscono per distruggere l’originalità culturale e religiosa dei popoli” (Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014).  

Non sfugge che in questo momento storico ad alimentare le differenze sono costantemente le nuove migrazioni, in un mondo pieno di conflitti che causano spostamenti di migliaia di persone spesso in fuga dalla violenza, dalla morte per fame o dalla mancanza di un futuro umanamente dignitoso. Papa Francesco descrive questo fatto con un forte realismo: A volte non si va tanto in cerca di un futuro migliore, ma semplicemente di un futuro, poiché rimanere nella propria patria può significare una morte certa” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). Il Papa in quel contesto ha lanciato un appello alla nostra apertura e alla nostra capacità di accoglienza: È dunque necessario un cambio di atteggiamento nei loro confronti, per passare dal disinteresse e dalla paura ad una sincera accettazione dell’altro” (ib.). Egli chiama così tutti i credenti e tutti gli uomini di buona volontà a mostrare la loro umanità nell’accoglienza, come gesto concreto e solidale, non di sola assistenza o momentaneo aiuto. Torna alla mente ciò che Gesù ha detto nel Vangelo di Matteo, e che resta anche per noi una questione essenziale: Tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me (Mt, 25,45).   

La visione di Papa Francesco sul mondo aperto è così applicata al nostro rapporto con l’immigrato. Non possiamo chiuderci su noi stessi per puro egoismo: il dolore e i problemi dell’altro sono un invito al dialogo con lui. Il Papa anche in questi ultimi giorni si è rivolto in particolare all’Italia, che è direttamente impegnata di fronte a questa realtà, anzi ne è per tanti aspetti soverchiata, perché nel perdurante clima di incertezza sociale, politica ed economica il popolo italiano non ceda al disimpegno e alla tentazione dello scontro, ma riscopra quei valori di attenzione reciproca e solidarietà che sono alla base della sua cultura e della convivenza civile, e sono sorgenti di fiducia tanto nel prossimo quanto nel futuro, specie per i giovani” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). Non si tratta di una semplice apertura materiale, pur necessaria ed impellente davanti a tragedie che di umano hanno ormai solo le vittime, ma di farsi portatori di istanze etiche capaci di trasformarsi in azioni politiche necessariamente condivise. E una condivisione che travalica i confini nazionali per esigenze di mezzi e di coordinamenti, ma che va oltre gli stessi legami europei trattandosi di una realtà le cui cause sono determinate da una Comunità internazionale in cui i responsabili, Stati e Istituzioni intergovernative, sono preoccupati di garantire equilibri sempre più precari piuttosto che puntare ad una stabilità e costruire situazioni pacifiche. Una onesta lettura della realtà, ci dice che i mezzi da adottare debbono rispondere a concreti obiettivi di giustizia e alle esigenze di una umanità lacerata nei suoi rapporti dalla legge del più forte e non dalla forza delle legge, e che vede ancora le sue istituzioni, a tutti i livelli, operare con idee, strumenti e regole che appartengono al passato e non in grado di fronteggiare fenomeni nuovi e sempre più impellenti.  Un’esigenza che se ignorata a livello istituzionale, non sfugge ad ogni persona, anche la più semplice, che si senta parte della famiglia umana. Secondo Papa Francesco per camminare verso il futuro serve il passato, necessitano radici profonde, e serve anche il coraggio di non nascondersi davanti al presente e alle sue sfide. Servono memoria, coraggio, sana e umana utopia” (Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014).   

È il bello di questa umanità chiamata a incontrare e a sostenere l’ignoto, a rispondere a bisogni nuovi e vecchi con la necessaria disponibilità di sentirsi famiglia. Papa Francesco lo esprime in un modo che è nel contempo sostanziale e semplice quando parla della Sacra Famiglia: “questa comunità aperta in cui c’è spazio per tutti, poveri e ricchi, vicini e lontani” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2014), riecheggiando l’invito rivolto da San Giovanni Paolo II di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: In un’autentica famiglia non c’è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della ‘famiglia delle nazioni’, i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli” (San Giovanni Paolo II, Discorso all’ONU, 5 ottobre 1995, 14).

 

In questa visione del mondo di oggi, c’è un altro aspetto importante che Papa Francesco sottolinea: l’uomo non può vivere senza solidarietà che intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita” (Evangelii gaudium, 240). La solidarietà, dunque, diventa la garanzia di una umanità che è alla ricerca di una reale giustizia e di un maggiore benessere non può dimenticare gli ultimi, né abbandonare coloro che non riescono a mantenere i ritmi di un’efficienza spesso esasperata. Qui può essere interessante notare che nella visita alle Istituzioni di Strasburgo, nel novembre scorso, Papa Francesco ha fatto riferimento all’integrazione europea come interessante veicolo di solidarietà perché esso lega i Paesi del Continente tra loro in una architettura costruita sulla solidarietà, anche se tale modello non è privo di vincoli per ogni Stato. Esso, infatti, crea quella “solidarietà di fatto” in grado di creare le condizioni perché tra i Paesi “prevalga l’aiuto vicendevole e si possa camminare, animati da reciproca fiducia” (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014).   

Questo tema della solidarietà, ampiamente approfondito da San Giovanni Paolo II nella sua enciclica Sollicitudo rei socialis e riportato nel suo significato originario di “virtù cristiana”, viene applicato da Papa Francesco alla odierna globalizzazione, come condizione per costruire la pace. Questo è stato il tema del suo discorso al Corpo Diplomatico nel gennaio 2015, partendo dal richiamo: Desidero far risuonare con forza una parola a noi molto cara: pace!”. La riflessione sulla relazione pace-solidarietà trova alcune ragioni che non solo la possono motivare, ma consentono di sottoporla all’attenzione della ricerca teologica.   

Anzitutto il costante riferimento nella dottrina della Chiesa e del suo insegnamento sociale volto a collegare il tema della pace alla questione della povertà avendo come riferimento sia la centralità della persona sia la lettura del dato reale di ordine economico-sociale. È quanto mostra la riflessione iniziata nella fase storica contemporanea con l’Appello ai Popoli belligeranti e ai loro reggitori di Benedetto XV di fronte agli orrori della Prima Guerra Mondiale, di cui stiamo vivendo il centenario e che proprio nelle terre venete ha avuto il suo epicentro di distruzione e di morte. Papa Della Chiesa nel denunciare quella “inutile strage”, ricordava alle Potenze del tempo che “l’equilibrio del mondo e la prospera e sicura tranquillità delle Nazioni riposano su la mutua benevolenza e sul rispetto degli altrui diritti e dell’altrui dignità, assai più che su moltitudine di armati e su formidabile cinta di fortezze” (Benedetto XV, Esortazione Apostolica Allorché fummo chiamati, 28 luglio 1915).   

In secondo luogo c’è la continuità di riflessione sviluppata da San Giovanni XXIII in particolare con la Pacem in Terris, e, qualche anno più tardi, dal Beato Paolo VI con la Populorum Progressio. Entrambi i testi presentano un contributo specifico all’aspirazione alla pace e al suo legame con la crescita economica e la cooperazione allo sviluppo, quali altrettanti traguardi della Comunità delle Nazioni in vista del bene comune della famiglia umana.   

La riflessione di Papa Francesco sulla guerra inserisce due elementi nuovi. Quanto alle cause remote insiste sull’indifferenza, sintetizzata  da quell’interrogativo definito “il motto beffardo della guerra”: “A me che importa?” (Omelia al Sacrario Militare di Redipuglia, 13 settembre 2014, alla celebrazione in occasione del centenario della I guerra mondiale). Circa le cause immediate richiama l’esistenza oggi di una “guerra combattuta ‘a pezzi’, con crimini, massacri, distruzioni” che non è un caso perché “dietro le quinte ci sono interessi, piani geopolitici, avidità di denaro e di potere, c’è l’industria delle armi” (ib.). Di qui la convinzione che per fermare la guerra e creare condizioni di pace è necessaria una “nuova collaborazione sociale ed economica, libera da condizionamenti ideologici, che sappia far fronte al mondo globalizzato, mantenendo vivo quel senso di solidarietà e carità reciproca” (Discorso al Consiglio d’Europa, 25 novembre 2014). Purtroppo, la realtà è tutt’altra: egli osserva “con dolore le conseguenze drammatiche di [una] mentalità del rifiuto e della cultura dell’asservimento (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015) che evoca e sostiene la guerra “combattuta a pezzi” (ib.) a fronte della quale si colloca l’invito a intraprendere un sincero cammino di fiducia reciproca e di riconciliazione fraterna che permetta di superare l’attuale crisi (ib.).  La fraternità vista come antidoto alla guerra e come categoria per determinare il superamento di quell’egoismo quotidiano, che è alla base di tante guerre e tante ingiustizie: molti uomini e donne muoiono infatti per mano di fratelli e di sorelle che non sanno riconoscersi tali, cioè come esseri fatti per la reciprocità, per la comunione e per il dono” (Francesco, Messaggio per la XLVII Giornata Mondiale della Pace, 1º gennaio 2014, 2).   

Nel mondo aperto, per Papa Francesco questa fraternità, profonda e reale che non è privilegio dei cristiani ma accomuna ogni popolo, diventa un modo consapevole di rendere visibile il progetto di Dio sulla famiglia umana e sul mondo. Un progetto che non esclude le periferie, anzi le fa diventare centrali. L’attenzione alle periferie, costante nell’insegnamento de Papa, si pone come un interessante paradigma che permette di cogliere ancora meglio l’idea del mondo aperto. La vita sul pianeta non può semplicemente ruotare intorno a modelli di sviluppo più dinamici che per la loro natura sono ritenuti efficienti. Avvalorare tale convinzione  significherebbe prendere atto di una posizione dominate, quasi una logica di potere da cui discende l’emarginazione dei più deboli o di quanti non sono in grado di rispondere alle aspettative del modello. Il Vangelo ha una logica inversa visto che gli ultimi saranno i primi e i più poveri sono al centro delle attenzioni di Cristo e dei suoi seguaci: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mt 26,11). Questo è il paradosso del Vangelo in cui il pastore lascia le novantanove pecore per cercare quella che si è perduta. E come la pecorella smarrita resta il cuore delle preoccupazioni del pastore, così le periferie devono essere al centro delle preoccupazioni dei Paesi che per condizione sociale, politica, economica, territoriale sono i protagonisti del sistema internazionale, come pure delle Istituzioni internazionali  chiamate a programmare e gestire la cooperazione e delle sue azioni. Solo inglobando le periferie è possibile attivare programmi e azioni ispirati dalla solidarietà e non finalizzati all’assistenza.   

Si tratta di una scelta teologica che ha delle conseguenze politiche e sociali che scuotono un ordine economico incentrato sul mercato come ci ricordano le analisi dell’Evangelii Gaudium. Il Papa l’ha ripetuto ancora nel corso del suo intervento alla FAO quando ha affermato che l’affamato “ci chiede dignità, non elemosina” (Discorso alla II Conferenza Internazionale sulla Nutrizione, 21 novembre 2014).

 

2.     Un insegnamento della teologia aperto sulla realtà del mondo

 

Una riflessione analoga può essere fatta nel contesto delle questioni teologiche che a voi interessano particolarmente e costituire un impegno sia nell’otium della ricerca che nella missio dell’insegnamento. Infatti “in questo tempo la teologia deve farsi carico anche dei conflitti: non solamente quelli che sperimentiamo dentro la Chiesa, ma a anche quelli che riguardano il mondo intero e che si vivono lungo le strade dell’America Latina. Non accontentatevi di una teologia da tavolino. Il vostro luogo di riflessione siano le frontiere. E non cadete nella tentazione di verniciarle, di profumarle, di aggiustarle un po’  e di addomesticarle. Anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini” (Francesco, Lettera al Gran Cancelliere della Pontificia Universidad Católica Argentina nel centesimo anniversario della Facoltà di Teologia, 3 marzo 2015).   

Una teologia così concepita non può prescindere da un tempo e da uno spazio preciso che è il mondo reale. Dio, infatti, non parla in astratto, ma alle persone concrete che vivono in una data epoca e in un contesto più o meno permeabile all’incontro con Lui e disponibile a vivere la sua Parola. Nessuna particolare epoca ha il privilegio della verità, e Papa Francesco ci ricorda che la stessa Chiesa ha bisogno di crescere nella sua interpretazione della Parola rivelata e nella sua comprensione della verità” (Evangelii Gaudium, 40). Pertanto il teologo deve saper ascoltare se vuole poter parlare.

 

Attraverso il dialogo con il mondo reale, il teologo è in grado di integrare le questioni del mondo utilizzando l’epistemologia che è propria delle scienze sociali e umane. Egli non può agire come se esse non esistessero. I dibattiti sulla coscienza e i suoi diritti, quelli sulla libertà e la responsabilità devono essere capaci di acquisire tutte le dimensioni psicologiche e sociologiche che hanno contribuito al progresso della nostra conoscenza dell’animo umano e del suo funzionamento. Se è imprescindibile il principio che le scienze non impongono nulla in maniera diretta alla teologia, altrettanto evidente è che esse illuminano il cammino della ricerca teologica. Questo permette al teologo di interrogarsi e rispondere anche di fronte ai complessi e rapidi cambiamenti culturali che richiedono di prestare “una costante attenzione per cercare di esprimere le verità di sempre in un linguaggio che consenta di riconoscere la sua permanente novità” (ib., 40); come pure consente al credente di essere più vicino all’integralità del messaggio evangelico e al fine ultimo di quella ricerca di Dio che l’esperienza di fede gli domanda: tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli” (Dich. Dignitatis Humanae, 1). Ciò significa seguire e restare ancorati a quella tradizione che misura il cammino intrapreso dalla Chiesa per proseguire nell’annuncio della Buona Novella a tutte le genti. Tuttavia nella prospettiva del Concilio Vaticano II, la tradizione è un elemento centrale per la riflessione teologica se confrontata alla realtà dei nostri tempi e alle aspirazioni degli uomini di oggi: Le parole di Dio infatti, espresse con lingue umane, si son fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo” (Cost. Dogm. Dei Verbum, 13).  

Un’altra dimensione che la riflessione teologica di oggi non può tralasciare è la necessaria apertura alle altre religioni. Questo è particolarmente evidente per i cristiani separati, poiché la divisione è una sorta di offesa fatta a Dio e al Vangelo. Tocca a noi di lavorare per ricomporre queste fratture e nell’incontro con i nostri fratelli in Cristo dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel volto dell’unico Dio” (Evangelii Gaudium, 240).   

Analoghe sono le preoccupazioni per le religioni non cristiane che rappresentano delle vie di ricerca percorse da molti uomini, il cui rispetto, come sostiene il Vaticano II, rientra nella prospettiva di salvaguardare quel fondamentale diritto di ogni persona a “cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione” (Dignitatis Humanae, 2). Gli esseri umani, però, non potranno soddisfare un tale obbligo “in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna” (ib.). Di fronte ad esse al cristiano è richiesto di conoscere bene le tradizioni nazionali e religiose degli altri, lieti di scoprire e pronti a rispettare quei germi del Verbo che vi si trovano nascosti” (Decr. Ad Gentes, 11).   

La sfida di queste ricerche d’unità riguarda innanzitutto una preoccupazione teologica sullo status della verità, il ruolo della ricerca teologica e la pratica autentica che i diversi credi domandano. Essere un vero cristiano, un eccellente buddista, un buon musulmano non può che condurre ad un dialogoper invitare a degli interrogativi reciproci sulle pratiche di ciascuno ed evitare le derive fondamentaliste che sono oggi una forte tentazione. Tornerò in seguito su questo punto, per ora è sufficiente precisare che l’obiettivo ultimo – che dovrebbe interessare la riflessione teologica – è di permettere alla religione di avere un impatto sulla realtà sociale e politica dei nostri tempi, distinguendo i diversi modi di viverla ed evitando di emulare quanti esprimono grossolane e poco accademiche generalizzazioni quando parlano dei difetti delle religioni e molte volte non sono in grado di distinguere che non tutti i credenti – né tutte le autorità religiose – sono uguali” (Evangelii Gaudium, 256).   

Il dialogo, dunque, diventa strumento costruttore di pace tra le religioni, come ha ripetuto Papa Francesco in Albania riferendosi al modo in cui quel Paese è stato in grado di trovare un equilibrio pacifico tra le diverse comunità e religioni. Egli ha sottolineato che il clima di rispetto e fiducia reciproca tra cattolici, ortodossi e musulmani è un bene prezioso per il Paese e acquista un rilievo speciale in questo nostro tempo nel quale, da parte di gruppi estremisti, viene travisato l’autentico senso religioso e vengono distorte e strumentalizzate le differenze tra le diverse confessioni, facendone però un pericoloso fattore di scontro e di violenza, anziché occasione di dialogo aperto e rispettoso e di riflessione comune su ciò che significa credere in Dio e seguire la sua legge” (Discorso nell’incontro con le Autorità albanesi, 21 settembre 2014).   

Il medesimo concetto è stato successivamente ribadito in occasione del suo viaggio in Turchia, all’arrivo ad Ankara, quando il Papa ha ricordato che  “è fondamentale che i cittadini musulmani, ebrei e cristiani – tanto nelle disposizioni di legge, quanto nella loro effettiva attuazione –, godano dei medesimi diritti e rispettino i medesimi doveri. Essi in tal modo più facilmente si riconosceranno come fratelli e compagni di strada, allontanando sempre più le incomprensioni e favorendo la collaborazione e l’intesa. La libertà religiosa e la libertà di espressione, efficacemente garantite a tutti, stimoleranno il fiorire dell’amicizia, diventando un eloquente segno di pace” (Discorso nell’incontro con le Autorità della Turchia, 28 novembre 2014).   

Chiaramente oggi questo sforzo per la promozione dei diritti e dei doveri di tutte le religioni deve essere compiuto anche in situazioni molto critiche, in particolare nelle situazioni di conflitto in cui le cause vengono attribuite al fattore religioso anche se esso è presente il più delle volte solo nominalmente. Il dialogo interreligioso è costruttore di pace e cioè artefice di un’opera di grande respiro che potrebbe iniziare nella didattica e nello studio delle Facoltà di Teologia se esse saranno in grado di farne strumento non di contrapposizione, ma di ricerca della verità.   

Il pensiero di Papa Francesco domanda ai teologi di tenere in mente due principali preoccupazioni. In primo luogo, il rapporto tra la parola e le opere: la parola della teologia ha un peso sulle opere intraprese da tutta la Chiesa. Cosa ne sarebbe di una parola sui poveri, soggetto così importante per Papa Francesco, se la Chiesa non fosse così fortemente concentrata su un’opera di solidarietà verso i più poveri? La credibilità della teologia si basa sulla testimonianza delle opere dei cristiani che ha come presupposto una vera conversione del cuore. Parafrasando San Paolo, il teologo potrebbe dire che se manca la carità le sue dichiarazioni, i suoi studi sarebbero un inutile cembalo sonante ed una perdita di tempo.   

La seconda preoccupazione concerne l’effettivo cambiamento paradigmatico è operato da Papa Francesco nel suo rapporto con la compassione, quella attenzione all’altro che “comprende, assiste e promuove” (Evangelii Gaudium, 179). Sono l’amore e la compassione che controllano la nostra vita cristiana: il criterio teologico non sta nella legge o nei precetti, ma in quell’amore verso Dio e verso il prossimo che Cristo pone al vertice della legge. Ciò non mette in discussione la legge, ma la guarda da un’altra prospettiva, quella dell’amore, appunto. In questo, il Papa si basa sul Vangelo stesso, in cui Gesù ha più volte manifestato il suo distacco verso i maestri della legge e la sua volontà di impegnarsi a favore dei più poveri e degli emarginati. Se egli ha indetto un Anno Giubilare straordinario sulla Misericordia, è bene che tutta la Chiesa rifletta e approfondisca questa realtà viva del Vangelo: la misericordia di Dio non è un’idea astratta, ma una realtà concreta con cui Egli rivela il suo amore come quello di un padre e di una madre che si commuovono fino dal profondo delle viscere per il proprio figlio. È veramente il caso di dire che è un amore ‘viscerale’. Proviene dall’intimo come un sentimento profondo, naturale, fatto di tenerezza e di compassione, di indulgenza e di perdono” (Francesco, Misericordiae Vultus, 6).   

Papa Francesco non è meno attento al peccato presente in questo mondo: Non possono lasciarci indifferenti i volti di quanti soffrono la fame, soprattutto dei bambini, se pensiamo a quanto cibo viene sprecato ogni giorno in molte parti del mondo, immerse in quella che ho più volte definito la ‘cultura dello scarto’. Purtroppo, oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani, che vengono ‘scartati’ come fossero ‘cose non necessarie’”. (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 13 gennaio 2014). Il problema è che tutte queste violenze nel mondo hanno come origine una cultura del rigetto dell’umano che è considerato come un rifiuto: “Tutti i conflitti militari rivelano il volto più emblematico della cultura dello scarto a causa delle vite che deliberatamente vengono calpestate da chi detiene la forza” (Discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 12 gennaio 2015). Sconfiggere il male e superare il peccato significa credere nell’azione misteriosa del Signore Risorto e del suo Spirito, certi che: Se pensiamo che le cose non cambieranno, ricordiamo che Gesù Cristo ha trionfato sul peccato e sulla morte ed è ricolmo di potenza” (Evangelii Gaudium, 275)

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Un quadro composito, di fronte al quale sorge l’interrogativo: la teologia di oggi come potrebbe non essere interrogata dai numerosi progressi e nel contempo dalle tragedie estreme della nostra modernità? Il peccato ha assunto un volto globale e più violento che mai, disprezzando la dignità umana, nonostante viviamo un tempo in cui siamo così attenti alla persona umana.

 

3.          Tra il “soft power” della Santa Sede e la sua missione

 

La missione evangelizzatrice della Chiesa cattolica non è mai lontana dalla diplomazia della Santa Sede. Peraltro è questa missione della Chiesa che giustifica un apparato diplomatico così sviluppato con una evidente funzione ecclesiale. Lo strumento diplomatico è veicolo di comunione tra il Vescovo di Roma e i suoi Confratelli nell’episcopato a cui è affidato il governo delle Chiese locali; come pure consente di garantire la vita di quelle Chiese locali rispetto alle Autorità civili. Ma seguendo un immagine cara a Papa Francesco, la diplomazia pontificia è anche lo strumento che consente al Pastore universale di “raggiungere le periferie” del suo gregge e gli ultimi della famiglia umana. Ad essa guardano credenti – e non solo battezzati – vittime di limitazioni alla loro fede, o le molteplici istituzioni ecclesiali desiderose di quel vitale contatto con il governo centrale della Chiesa da cui attingono indicazioni, sostegno e finanche credibilità.   

Coloro che hanno posto il loro ministero sacerdotale ed episcopale al servizio diplomatico della Santa Sede conoscono bene le ragioni ecclesiali del loro impegno  nelle quali il teologo ritrova in pienezza quella dimensione della collegialità esposta dalla Lumen Gentium e quel desiderio di portare l’annuncio del Vangelo in tutti gli angoli della terra. Come ha detto Paolo VI nella sua grande lettera Enciclica Evangelii Nuntiandi, l’evangelizzazione passa attraverso la spiegazione e la promozione dei valori evangelici, così come mediante un annuncio diretto. Ma non vi può essere alcun annuncio senza questa promozione.   

La prima missione è quella di superare ogni tentazione di restare rinchiusi nella propria dimensione e di essere quella “Chiesa in uscita” che significa abbandonare sicurezze e posizioni acquisite: uscire dalla propria comodità e avere il coraggio di raggiungere tutte le periferie che hanno bisogno della luce del Vangelo” (Evangelii Gaudium, 20). Una luce che può contribuire a superare ostacoli e ogni forma di violenza.   

Papa Francesco parla costantemente dei pericoli di tutti i fondamentalismi, che siano essi culturali, religiosi o teologici. Nel fondamentalismo esiste un pericolo grave per l’ordine politico, perché esso produce delle violenze indefinite. Tocca dunque alle religioni di interrogarsi e di partecipare alla costruzione della pace. Il Papa lo specificava al suo arrivo in Turchia: per raggiungere una meta tanto alta ed urgente, un contributo importante può venire dal dialogo interreligioso e interculturale, così da bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, che umilia gravemente la dignità di tutti gli uomini e strumentalizza la religione (Discorso in occasione dell’incontro con le Autorità ad Ankara, 28 novembre 2014).   

La chiusura in se stessi crea dei muri e delle frontiere: il Papa ha ricordato in occasione del 25º anniversario della caduta del Muro di Berlino, lanciando l’appello: Dove c’è un muro, c’è chiusura di cuore. Servono ponti, non muri! (Angelus, 9 novembre 2015).   

Egli soffre a vedere i muri che sono stati eretti tra le comunità in Medio Oriente dove i conflitti in atto rendono reale il pericolo della frammentazione di tutta la Regione e la fine di Stati costituiti sull’esperienza multi religiosi per far spazio a tante comunità religiose che escludono gli altri credenti. È per questo motivo che la Santa Sede lavora per garantire una costante comunicazione e collaborazione tra le diverse comunità, denunciando le violenze che sono ormai accadimento quotidiano nella regione. I muri sembrano quasi voler affermare che il dialogo è impossibile, che le differenze di credo sono incompatibili, dimenticando che una condizione di pace e il rispetto della vita sono elementi fondamentali per garantire una convivenza rispettosa della dignità di ogni persona, della sicurezza dei diversi popoli e dello statuto di ogni religione. Da questa convinzione nasce il motivo che ha indotto il Papa a chiedere che fosse fermata l’avanzata delle forze del cosiddetto Califfato nel nord della Siria.   

Ma al di là della denuncia di questi ostacoli, diventa sempre più necessario ricostruire. È per questo che il dialogo interreligioso è fondamentale e si presenta come il primo contributo diretto della Chiesa alla causa della pace. Se i Governi realizzano quella che è chiamata la “ragion di Stato” esercitando un “hard power” attraverso la potenza economico-finanziaria o le armi, la Santa Sede ha da portare a compimento una “ragion di Chiesa” mediante un “soft power” fatto di convinzioni e di comportamenti esemplari. Essa deve lavorare, anche mediante l’azione diplomatica, per creare più giustizia, la prima condizione della pace.   

Ho in precedenza ricordato la prospettiva di Benedetto XV, che ha fatto di tutto per scongiurare e poi per porre fine alla Prima Guerra Mondiale. Uno sforzo che Papa Francesco ha ricordato in occasione nel suo discorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 12 gennaio 2014: “Ovunque la via per risolvere le problematiche aperte deve essere quella diplomatica del dialogo. È la strada maestra già indicata con lucida chiarezza dal papa Benedetto XV allorché invitava i responsabili delle Nazioni europee a far prevalere ‘la forza morale del diritto’ su quella ‘materiale delle armi’”.   

Per questo dobbiamo saper edificare una mentalità e quindi una società sul lungo periodo. Questo è ciò che fanno molti missionari in ogni continente, quando si costruiscono scuole e ospedali, quando redigono grammatiche o dizionari, quando promuovono lo sviluppo economico e sociale a vantaggio delle persone e della loro dignità. Questo è ciò che fa Papa Francesco attraverso i suoi ripetuti appelli alla pace e alla misericordia, sia a Roma, che durante i suoi viaggi in Italia o nel mondo. Non è questo che fa del Papa la quarta figura più influente del mondo nel 2014, secondo il Magazine Forbes?   

Eppure questa straordinaria influenza mediatica di Papa Francesco non riesce a celare i problemi più profondi determinati dalle trasformazioni della nostra civiltà europea occidentale. Tra le tante ne prendo in considerazione due che mi sembrano in questa fase più immediate e problematiche.    

Prima di tutto il vuoto dell’anima che si percepisce in quella parte della gioventù europea che sembra aver dimenticato quei valori propri della civiltà cristiana e che l’argomentazione teologica ha potuto sviluppare rendendoli parte della cultura dell’antico Continente. Viene da chiedersi, ad esempio, cosa abbia spinto tanti giovani europei a partire alla volta della Siria per unirsi a quanti combattono usurpando il nome di Dio. La risposta a questo interrogativo potrebbe essere l’azione militare degli Stati e l’invio di truppe a combattere contro di loro. Ma ci vuole una risposta a lungo termine capace di colmare questo vuoto, questa solitudine percepita da molti giovani nei loro Paesi europei. La risposta a lungo termine sta nel prendersi cura di questi giovani che sono alla ricerca di un ideale e che vengono invece attratti dalla radicalità della violenza, facendo capire loro che ci sono altri modi per vivere la vita che non sia il partecipare ad una guerra. La Chiesa e la sua teologia hanno delle proposte da fare ascoltare e dei suggerimenti da dare?   

La seconda questione riguarda la volontà – e la determinazione in alcuni casi – di diversi Paesi europei di dare all’eutanasia lo status di diritto umano. Credo che su questa volontà della ragione umana di intervenire in uno dei processi fondamentali della vita, il rispetto dei tempi della vita e della morte, sia importante interrogarsi non solo con i principi e le argomentazioni della morale. Che cosa è questa pretesa della ragione a voler controllare il flusso del tempo? Da dove nasce questa ubris così potente da fondarsi su se stessa e di disporre di un potere illimitato che giunge a rifiutare ogni apertura nei confronti di chi pone delle obiezioni? Di fronte a questo vuoto esistenziale, di fronte a questa grande ubris, manchiamo forse anche della più piccola speranza che vada oltre la ragione per aprirci alla relazione, alla solidarietà, all’amore invece di rinchiuderci nella morte. Tutti gli studenti di teologia dovrebbero leggere e studiare le parole di Benedetto XVI nella sua enciclica Spe Salvi sulla possibilità di farsi guidare da qualcosa di grande, quella speranza che può spalancare la porta oscura del tempo, del futuro. Una speranza che sottolinea in particolare l’importanza della capacità di ascolto, questa apertura che ci permette di uscire da noi stessi per ricordarci che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro” (Spe Salvi, 48).  Così, oltre ogni chiusura, l’amore è sempre possibile.   

Papa Francesco chiarisce l’uso del termine speranza quando ci spiega che non è solo ottimismo (cfr. Omelia a Santa Marta, 29 ottobre 2013) o un atteggiamento psicologico certamente positivo, ma limitato a delle circostanze particolari. Essa, la speranza, è in realtà un “desiderio ardente” della rivelazione del Figlio di Dio. Papa Francesco lo ricorda ai giovani riuniti ad Aparecida  durante il suo viaggio in Brasile che questa speranza supera tutte le circostanze scoraggianti o d’isolamento, “le sensazioni di solitudine e di vuoto”. Ed aggiunge davanti a quella moltitudine di giovani: Il più forte è Dio, e Dio è la nostra speranza!” (Omelia nella Santa Messa alla Basilica del Santuario di Aparecida, 24 luglio 2013).    

Quello appena delineato può essere un interessante programma per gli studenti di teologia: spetta a loro formarsi per offrire un messaggio positivo a questi giovani, per rispondere alla chiusura dell’uomo affinché egli accetti di lasciarsi sorprendere invece di voler controllare e dominare tutto. Tutto questo richiede un’attenzione profonda, una vera meditazione della Parola di Dio, una comprensione della tradizione teologica della Chiesa, ma, allo stesso tempo, un ascolto del mondo, delle sue tragedie e dei suoi bisogni. Così potrete parlare con piena sincerità a questa gioventù e all’uomo moderno, suscitando in essi la loro parte migliore, la loro libertà, il loro impegno, la loro passione.

 

 
 
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un vescovo che cancella il vangelo

 UN PRETE APRE ALL’ACCOGLIENZA DEI MIGRANTI

IL VESCOVO LO SCONFESSA

il prete di frontiera invita all’accoglienza dei migranti, il vescovo lo sconfessa. Succede a Ferrara, nei giorni in cui il dibattito sulla questione immigrazione è più vivo che mai. Protagonisti don Domenico Bedin, impegnato nell’associazionismo sociale e direttore dell’ufficio Migrantes della diocesi; e il vescovo mons. Luigi Negri, ciellino.

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«Siamo in un momento cruciale della storia. In questi momenti bisogna schierarsi. Io mi schiero per l’accoglienza dei fratelli che sbarcano fortunosamente sulle nostre coste o sono ripescati», scrive don Bedin sul quotidiano La Nuova Ferrara (24/4). Discorso pragmatico più che “buonista” quello del prete ferrarese: «In un territorio economicamente fragile è opportuno continuare ad accogliere? Sono 400 e se diventassero 1.000? Ritengo che sia forse la più grande opportunità che ci poteva succedere», scrive Bedin. «Siamo vecchi e con una denatalità spaventosa, le nostre imprese non si rigenerano perché mancano i giovani, le case sono vuote o spessissimo con una persona anziana sola. Per salvare la vitalità dei nostri paesi dobbiamo avere il coraggio e l’ intelligenza di accogliere e trasformare il bisogno dei nostri fratelli migranti in opportunità anche per noi. Ma deve cambiare l’atteggiamento». Non più gruppi di migranti che «restano in una specie di limbo, quasi nascosti o tollerati, guardati da lontano o soltanto mantenuti fino al giorno del rilascio dei documenti… e poi ciao ognuno per la sua strada»: l’accoglienza deve diventare «proposta esigente e selettiva di impegno per recuperare distanze culturali o impostare nuove capacità professionali, linguistiche, operative. In un anno (tanto dura l’attesa dei documenti) si riesce a capire quale futuro ognuna di queste persone può avere tra noi. Quanti di questi ragazzi possono riprendere o iniziare gli studi oppure una professione utile alla nostra economia! Nel frattempo avviene quella selezione naturale circa la buona volontà e l’onestà che potrebbe far parte della valutazione del riconoscimento del permesso di soggiorno».

Un percorso inclusivo che però secondo don Bedin dovrebbe superare resistenze interne non trascurabili: «Questo – scrive ancora – prevede una lungimiranza e un’apertura culturale e del cuore da parte nostra che purtroppo non appartiene a quei Comuni o parrocchie che fanno di tutto per non avere immigrati nel loro territorio e che se costretti fanno ostruzione». «Altri – aggiunge – per fortuna la pensano diversamente, e allora organizziamoci spingendoci oltre le regole della normale amministrazione e diamo speranza a questa nostra terra che si prepara ad essere sempre più colorata. Lo sarà anche senza di noi… ma allora staremo in panchina. Lo dicevo all’inizio: bisogna scegliere».

Immediato non solo l’altolà, ma anche la censura del vescovo, che peraltro non era stato chiamato in causa: «L’arcivescovo Luigi Negri e la diocesi di Ferrara-Comacchio – si legge in una nota della Curia diocesana – sottolineano con forza che non hanno alcuna parte nelle dichiarazioni rilasciate sulla stampa locale da don Domenico Bedin, riguardo alle possibili politiche migratorie sul territorio ferrarese, poiché non sono di loro specifica competenza. Precisano altresì che non intendono rispondere di alcuna dichiarazione rilasciata fuori o all’insaputa dell’Ufficio stampa diocesano. L’arcivescovo e la diocesi inoltre, in perfetta coerenza con quanto realizzato finora, ribadiscono la loro piena disponibilità ad una proficua collaborazione con le autorità competenti per tutte le necessità sociali, incluse le politiche migratorie».

Non replica don Bedin: «Mi pare di aver espresso concetti molto laici, che non coinvolgono assolutamente l’autorità ecclesiastica». E chiude la polemica innescata dal vescovo: «Ho espresso un’opinione personale e sociale, che da quanto mi risulta non è diversa da quella della Chiesa». (luca kocci)

Fonte: Adista n. 17/2015
Link: http://www.adistaonline.it/index.php?op=articolo&id=54964

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il vescovo ci ha provato ma gli danno del rompico …. ni!

il vescovo di Lucca a fianco dei Rom: “basta discriminazioni”

la presa di posizione di monsignor Castellani dopo le discriminazioni alla Festa di primavera al centro sportivo Zappelli di Viareggio

Il vescovo di Lucca, Italo...

 L’arcivescovo di Lucca Italo Castellani ha voluto mandare un messaggio di solidarietà contro la discriminazione dei Rom durante la festa di primavera al centro sportivo “Vasco Zappelli”.

Monsignor Castellani ha così voluto inviare un messaggio di solidarietà alla comunità Rom, troppo spesso vittima di razzismo e protagonista, negli ultimi giorni, della cronaca visto che al campo in via Cimarosa a Torre del Lago è stata staccata l’acqua. Un messaggio di vicinanza da parte della chiesa di Lucca che è stato favorevolmente accolto dalla comunità.

ma povero vescovo: gli è andata decisamente male! e sì che in 10 anni credo che si tratti della prima parola o gesto che esprime in solidarietà agli zingari! pubblicata in internet la foto della sua solidarietà, si è scatenata una reazione estremamente negativa contro di lui: su ben 667 commenti solo una irrilevante manciata di questi è a suo favore a fronte di una valanga di reazioni pesantemente negative e insultanti verso il vescovo e verso, ovviamente, i rom nei cui confronti prende corpo  il più becero razzismo!
una domandina ai nostri vescovi: tutte quelle reazioni negative e razziste non sono state espresse da persone atee o lontane dalla fede, ma, c’è da scommetterci, da persone che la domenica magari vanno a messa, anche se non sempre, e poi nella loro quotidianità vivono questa forma di chiusura e di intolleranza e di razzismo: sono contenti così i nostri vescovi? perché non si sente un vescovo che grida forte che questo è l’opposto della fede cristiana e chi si esprime in questo modo deve subire la scomunica da questa e dalla comunità cristiana, non perché qualcuno autoritariamente li butta fuori ma perché da soli si autoescludono d alla comunità che si ispira al vangelo di Gesù?

questa la reazione al post della solidarietà del vescovo di Lucca ai rom attentamente osservata dal giornalista Danilo Fastelli de ‘il Tirreno’:

vescovo Italo

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si può fare a dare davvero una mano!

Padova: si commuove per gli sbarchi, a 90 anni offre la sua casa ai profughi. La generosità di Mara Gambato

PROFUGHI

  

 Commossa dalle immagini degli sbarchi e dalla notizia del naufragio di 800 persone nel Mediterraneo, una anziana novantenne di Rubano (Padova) ha deciso di lasciare la propria casa ai profughi che sbarcano in Italia, affittandola per metà prezzo a una cooperativa che si occuperà della gestione dei richiedenti asilo.

«Diciamo che ci sono persone che sono cristiane a parole e persone che lo sono nei fatti», ha commentato.

La storia è raccontata dal Corriere del Veneto:

Quando alla tv sono passate le scandalose immagini di quelle 800 vite perse in mare, i fotogrammi di una tragedia che ha fatto inorridire l’Italia intera, Mara Gambato non ha avuto grossi dubbi. Ha chiamato i nipoti, ha traslocato a Padova, in una casa di sua proprietà, e ha consegnato le chiavi della sua villetta di Sarmeola di Rubano ad una cooperativa che si occupa di accoglienza dei profughi. Un regolare contratto di affitto (la 90enne si è accontentata di circa la metà del valore di mercato) che per dieci profughi provenienti da Gambia e Guinea Bissau rappresenta molto più di una nuova casa. «Quando ha sentito alla tv di quelle 800 persone morte in mare – ha raccontato Sergio Ventura, il nipote che ha curato per conto dell’anziana l’affidamento dell’immobile alla cooperativa – e quando ha visto l’immobilismo dello Stato e delle istituzioni ha deciso di fare qualcosa».

 
 

A gestire l’accoglienza in quella casa di via Borromeo (così come in quella di corso Milano, a Padova, e in molte altre case della provincia di Padova) è «Percorso Vita onlus» di don Luca Favarin. «Quando l’ho incontrata mi ha parlato anche della guerra e degli italiani all’estero – ha spiegato don Luca – e poi della difficoltà di assistere immobile a quei drammi. La mia impressione è che vedendo la tragedia quotidiana dei profughi abbia in parte rivissuto le difficoltà patite da lei, dai suoi amici e coetanei. È la dimostrazione di un’altra cultura veneta, che purtroppo spesso viene oscurata dall’intolleranza di certi»

 
 

Proprio il sindaco di Padova, Massimo Bitonci (Lega Nord), si sta però mettendo di traverso all’iniziativa: “Per contrastare l’arrivo di nuovi
clandestini in case private impugneremo i contratti di affitto che le cooperative hanno stipulato o si apprestano a stipulare.
Dimostreremo che l’operazione pilatesca di Alfano è illegale e non può proseguire”.

Uno dei profughi arrivati nelle scorse settimane:
profughi

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in quale Dio credi? questo il vero problema!

Dio

Cosa volete che gliene importi, a Dio, della vostra obbedienza?
Pensate davvero che vi sia riconoscente se credete in lui?
Se gli portate rispetto o meno?
Credete seriamente che si compiaccia delle vostre preghiere, degli onori che gli riservate, dei vostri sacrifici o dei templi che innalzate per lui?
Siete convinti che Dio gioisca del sangue che spargete per lui?
Del sangue di chi non crede in lui, ma che lui ha creato?
Siete convinti che vi abbia eretto a giudici della vita altrui, quando lui per primo non se ne cura?
Siete convinti che sia questo ciò che sta a cuore a Dio?
Quanto e come pregate?
Cosa mangiate o non mangiate?
Come vi vestite?
Cosa leggete?
Cosa pensate?
In quale Dio credete?
Vi siete fatti un Dio a vostra immagine e somiglianza, Ecco cos’é!
Un Dio che s’arrabbia e maledice.
Un Dio che vuole il controllo che dovrebbe già avere.
Un Dio che vuole la guerra, il sangue, il dolore e la disperazione per il suo creato.
Un dio che Odia.
Questo non è un Dio.
Questo siete Voi.
Con tutte le vostre frustrazioni, le vostre insicurezze, i vostri rancori e la vostra incommensurabile paura. La paura di voi stessi. La paura di sparire.
Dio non è grande, Dio è di più: infinito, immenso, totale.
Dio è tutto.
Dio è ovunque.
Dio è chiunque.
Dio è sopra qualsiasi cosa.
Sopra l’odio, sopra il rancore e sopra la vendetta.
Dio è Amore.
Solo chi Ama compie la volontà di Dio.
Gli altri seguono solo la propria.
Convertitevi all’Amore e lasciate andare voi stessi.
 
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il primo caldo dà alla testa

una donna ha fatto causa contro tutti i gay della Terra in nome di Dio: “hanno infranto le regole morali e religiose”

 

GAY MEN

 

 Identificandosi come ambasciatrice di Dio e Gesù Cristo, una donna in Nebraska ha intentato una causa federale contro tutte le persone omosessuali del pianeta per aver infranto “le regole morali e religiose”.

Sylvia Ann Driskell di Auburn spiega, in una petizione scritta di 7 pagine consegnata alla Corte del Distretto di Omaha, che “l’omosessualità è un peccato e che gli omosessuali sanno che è peccato vivere una vita come omosessuali”, secondo quanto riporta il “Lincoln Journal Star”. “Perché altrimenti nasconderebbero il segreto(?)

L’Omaha World Herald riporta che la 66enne, che nella causa si rappresenta da sola, cita nella sua lettera piena di errori e puntualizzazioni sia il dizionario Webster come anche una serie di passaggi della Bibbia. La donna sfida il giudice del Distretto John M. Gerrard a non “giudicare Dio come un bugiardo”, e apostrofa i gay come “mentitori, imbroglioni e ladri” nel caso, che è stato chiamato semplicemente come “Driskell contro Omosessuali”.

“Non ho mai pensato che avrei visto il giorno in cui la nostra Grande Nazione del nostro Grande Stato del Nebraska sarebbe diventata così accondiscendente verso i comportamenti osceni di alcune persone”, ha scritto la donna. “E’ grazie all’indulgenza del Signore che non siamo arsi, perchè la sua compassione è infinita”.

Clicca qui per vedere la petizione completa.

La corte non ha emesso un mandato di comparizione, secondo quanto riporta la Nbc. Ovviamente, questo non ha impedito che innumerevoli scrittori gay di alto profilo rispondessero ironicamente alla causa.

Stevem Payne, del Daily Kos, ha detto che lui e suo marito, Brian, liquiderebbero la loro attività per un legale che difenda la causa che, ha suggerito scherzando, è materia per la Suprema Corte.

“Anticipiamo che l’ammenda chiesta a questa donna ci butterà sul lastrico”, ha detto scherzando.

Lo schietto autore e attivista per i diritti dei gay, lesbiche, bisessuali e transgender Dan Savage ha reagito in modo simile alla notizia, twittando:

Questo articolo è stato pubblicato su The Huffington Post Usa e tradotto dall’inglese.

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Gli zingari lo usano facebook? il C.C.I.T. 2015

 

ccit 2015

 il C.C.I.T. 2015 in Romania sull’uso, le opportunità e i rischi nell’utilizzo dei nuovi media da parte dei rom

 

Gli zingari, il popolo rom, utilizza facebook, conosce e usa i social media? Sicuramente più di quanto possiamo pensare e meglio di quanto possiamo immaginare. Ma era scontata e retorica questa domanda per il ‘Comitato Cattolico Internazionale per la evangelizzazione del popolo degli Zingari’ (C.C.I.T.) che, a conoscenza di questo, ha voluto dedicare quest’anno appunto al rapporto tra il popolo rom e i nuovi mezzi di comunicazione la propria riflessione annuale.

 

Si è svolto infatti nei giorni scorsi (24 – 26 aprile 2015) a Ciofliceni – Snagov in Romania, in un monumentale convento di frati carmelitani italiani (malinconicamente vuoto a cose normali!), con un intenso programma di lavoro, di dialogo e riflessione, il 39° incontro del C.C.I.T., rivivendo – con entusiasmo e gratitudine a Dio e ai rom – il proprio cammino quarantennale scandito ogni anno in un diverso paese europeo, come dialogo tra il popolo rom e gli operatori nella pastorale di evangelizzazione e missionarietà come incarnazione in questo popolo. Le sfide della comunicazione nelle comunità di zingari sono state appunto al centro di questo C.C.I.T. 2015.

40 candeline

Dopo il momento di preghiera del venerdì sera (24 aprile) che ha inteso rivivere la ricchezza spirituale dei 40 anni di cammino e condivisione del Comitato col popolo rom con tanto di lancio di palloncini e un buon bicchiere di ‘vino dell’amicizia’, il sabato (25 aprile) è stato vissuto con intensità di riflessione e dialogo con conferenze, comunicazioni e gruppi di lavoro.

Anche il Vaticano, come sempre peraltro, ha inteso far arrivare  il senso della propria solidarietà e partecipazione con un messaggio suorain cui molto opportunamente si sottolinea quanto grave e ingiusto sia il modo in cui dai media si veicola un’immagine negativa di questo popolo usando nei suoi confronti “il linguaggio … generalmente simile a quello riservato ai delinquenti comuni e ai protagonisti della cosiddetta ‘cronaca nera’”.

Il coordinatore pro-tempore p. Claude Dumas, lui stesso rom, Claudeha fin dalla introduzione ai lavori, evidenziato che “i giovani zingari utilizzano sempre più questi nuovi mezzi per comunicare tra loro … e vediamo fiorire su facebook dei passi interi della bibbia o del vangelo …”, anche se ne coglie subito lucidamente anche i rischi e i limiti: “c’è un rischio: il vangelo non è un prodotto formattato che si porta come un pacchetto o un ‘kit pronto per l’uso’ ”.

‘Le sfide della comunicazione nelle comunità zigane’ sono state analizzate dal professore dell’ordine dei gesuiti p. Florin-Joan Silaghi, mettendo in evidenza come con questi mezzi di comunicazione “gli zingari comunicano elementi di carattere personale che prima avevano l’abitudine di esprimere solo faccia a faccia … e, con l’aiuto di contenuti audio-visivi, comunicano affinità, orientamenti, gusti, desideri e molto spesso la loro appartenenza culturale, sociale o religiosa”.

I gruppi di lavoro e di approfondimento diversificati per aree geografico-linguistichegruppo hanno approfondito tutto questo arricchendolo delle esperienze concrete, della amicizia e della frequentazione quotidiana col popolo rom.

Significativa la presentazione da parte di p. Agostino Rota Martir di tre foto agostinoche da sole parlano il linguaggio chiaro della modificazione di usi e costumi, anche quelli più impegnativi e più coinvolgenti l’identità culturale stessa di questo popolo, conducendo la riflessione sullo stretto crinale in delicato e precario equilibrio tra le ‘potenzialità della rete’ ma anche le sue ‘ambiguità’, le possibilità di ‘conoscenza’ ma anche le possibilità di ‘inganno’, di ‘progresso’ ma anche di ‘rischi’, di ‘comodità’ ma anche di dipendenza/schiavitù’.

La celebrazione eucaristica del sabato sera e della domenica mattina (25 26 aprile) hanno accresciuto in noi la consapevolezza che come operatori nella pastorale tra i rom e i sinti santa messa“siamo inviati per rivelare loro la loro dignità di figli e figlie di Dio” (dall’omelia di Claude Dumas) oltre che a scorgere i doni che da sempre Dio nel suo Spirito ha disseminato anche nella loro cultura e destinati ad arricchire il  mondo.

La mattinata della domenica ha visto un resoconto sulla situazione del popolo rom in Romania con le ricostruzioni storiche e le attualizzazioni di p. Teodor Lucian Lechintan (‘La difficile sopravvivenza dei roms di Romania’) e di Violeta Barbu (‘I roms della Romania’): conferenzaambedue hanno sottolineato la difficile convivenza della società maggioritaria con questo popolo, ma anche le responsabilità delle chiese (soprattutto quella ortodossa) nella non accettazione e accoglienza di questo popolo fino a forme di vera schiavitù! : “c’è un solo problema di proporzioni monumentali, quello della Romania stessa, incapace di riconoscere la propria responsabilità storica della schiavitù dei rom e incapace di sviluppare politiche sostenibili per l’integrazione sociale della loro popolazione” (V. Barbu). Per il rom rumeno Damian Draghici, membro del Parlamento Europeo (citato dal vescovo Petru nella sua omelia della concelebrazione domenicale) le cose dovrebbero essere molto più semplici: “siamo tutti uguali, perché Dio ci ha creati lo stesso giorno”.

Come sempre una gita turistica alla città ospitante ma soprattutto la condivisione gioiosa, festosa, ‘abbondante’ (“vi sarà dato in abbondanza … “) dei cibi caratteristicicena3 dei tanti paesi di provenienza dei molti  partecipanti, vivacizzata dalle musiche e dai balli di una band di rom rumeni,   band1funzionato come la ciliegina sul buon dolce che l’incontro ha rappresentato, arricchendo, irrobustendo e addolcendo e affinando la nostra amicizia, fra noi e col popolo rom. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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omelia tenuta dal vescovo di Iasi, Petru GHerghel, al C.C.I.T.2015 in Romania

ccit 2015

 

 

 

 

 

 

Incontro CCIT Ciofliceni (Romania) 24-26 aprile 2015

 omelia della Messa di Domenica 26 Aprile presieduta da S.E. Petru Gherghel:

messa

Eccellenze,signori sacerdoti ,care sorelle e cari fratelli, cari amici,
Il nostro incontro si svolge sotto lo sguardo attento del nostro Padre celeste, che ci ha creati e che ci ha scelto per far parte della sua famiglia che ci unisce tutti, poiché siamo tutti suoi figli e fratelli tra noi. La celebrazione della Santa Messa ci chiama a orientare il nostro sguardo verso Gesù, il Buon Pastore che il Padre ha mandato sulla terra per radunarci in un solo popolo, così come dice l’evangelista Giovanni nella pericope proclamata durante questa Eucaristia. Egli è la pietra angolare, su cui è fondata la Chiesa, di cui noi facciamo parte e per la quale ha dato la sua vita. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati.” (At 4: 12),In Lui solo si trova la nostra speranza e la nostra gioia. Dunque noi siamo figli di Dio e figli della Chiesa e il nostro destino è essere pietre vive, contribuendo alla perfezione del suo nuovo popolo. L’immagine del pastore, presente in tutta la Santa Scrittura, è una delle più rivelatrici e delle più belle. Già nell’Antico Testamento troviamo Dio come pastore d’Israele, che vuole realizzare un piano divino, la salvezza di tutti, attraverso l’alleanza con il popolo eletto. Il Salmo 23 (22) è un meraviglioso inno che illustra, in poche parole, questa caratteristica molto chiara del Padre celeste Pastore delle anime, “Il Signore è il mio pastore; non manco di nulla; Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce . Mi rinfranca “(Sal 23 [22], 1-3 a). I profeti Isaia, Geremia ed Ezechiele spesso evocano il tema del gregge di Dio: “Ecco il vostro Dio … Come un pastore egli fa pascolare il suo gregge; porta gli agnellini sul seno “(Isaia 40.11) ed essi annunciano il Messia come un vero pastore che pasce le sue pecore, e non permetterà che si disperdano. «Io susciterò per loro un pastore che le pascerà – Davide mio servo, le condurrà al pascolo,sarà il loro pastore “(Ez 34,23). I Vangeli, in particolare quello secondo San Giovanni, di cui oggi abbiamo ascoltato un passo, ci presenta, con parole chiare, la stessa figura del Buon Pastore che ama tutte le sue pecore. E la parabola che ci mostra il Buon Pastore che cerca la pecora smarrita, che riporta sulle sue spalle (Lc 15,3-7) è veramente impressionante. In tutta la storia della Chiesa e del cristianesimo, la figura del Buon Pastore ha accompagnato, mostrato e illustrato l’iconografia;già al tempo delle catacombe, la troviamo sui sarcofagi e sui battisteri. Una tale rappresentazione ha avuto un ruolo molto importante per convincere il mondo ad andare incontro a Dio, che ama le sue creature e si prende cura di loro, come il pastore ama le sue pecore.
Che cosa fa il Buon Pastore? a) il buon pastore conosce le sue pecore e loro lo conoscono . In altre parole, Gesù conosce tutti coloro che gli appartengono , conosce i loro nomi. Il suo gregge non è una massa informe. Le sue pecore sono persone distinte, che hanno un valore eterno, come persone create dalla sua mano, e come persone salvate da lui che ha dato se stesso per loro, come dice San Paolo (Gal 2,20 ); b) Il Buon Pastore si prende cura delle pecore e le nutre, le porta al pascolo, e dà loro la verità, la grazia e la gloria eterna. Solo in Lui troviamo la salvezza (cfr At 4,12). Egli offre a tutti il dono della salvezza attraverso i sacramenti che ci ha lasciato e ci conducono alla gloria del paradiso, dove noi saremo simili a Lui (cfr 1 Gv 3,2); c) come un Buon Pastore, egli aiuta le sue pecore, le protegge dai lupi rapaci e non le lascia nelle mani di pastori mercenari che, quando arriva il pericolo, prendono la fuga e lasciano che le pecore si disperdano. La prova più evidente dell’amore del Buon Pastore è la croce che Egli ha accettato e sulla quale è morto per tutti coloro che gli sono affidati , tutte le sue pecore, anche quelle che non fanno parte del suo gregge, come afferma Lui stesso: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile;anche queste devo condurre; ascolteranno la mia voce, e diventeranno un solo gregge e un solo pastore “(Gv 10,16). Cari fratelli e sorelle in Cristo, Il gesto di Gesù, il Figlio di Dio, che viene sulla terra, e da’ se stesso come vittima per tutti gli uomini, dimostra e conferma l’amore del Padre per i suoi figli, le sue creature, attraverso l’alleanza dal Padre celeste con il suo popolo e, attraverso di lui, con tutti i popoli. E’ un fatto senza precedenti ,che solo Dio, il Creatore e Pastore di tutti, può realizzare. Gesù si presenta come un pastore unico e, nello stesso tempo, paradossale: le pecore non sono per lui, ma è Lui che è per le pecore. Lui le conosce, le ama, si sacrifica per loro, anche per una sola di loro Si può capire che un pastore protegga le sue pecore, ma che rischi la propria vita per loro è davvero incomprensibile, si potrebbe dire che è perfino contro la logica umana. Gesù ,chiamato il Buon Pastore per eccellenza, ha scelto questa via e continua a sceglierla incessantemente,con grande libertà. Egli non è semplicemente un pastore; Lui si dona come “Agnello di Dio”, che dà la sua vita per la salvezza del mondo. In questo contesto, e di fronte a ciò che Gesù ha fatto e continua a fare per noi , non dobbiamo dimenticare che la Chiesa – e con lei , tutti coloro che ne fanno parte – ha lo stesso destino e dobbiamo comportarci come il nostro fondatore. Questa è la vocazione di ogni membro della Chiesa. Così, mostreremo al mondo chi è colui in cui crediamo e che vogliamo seguire. La Chiesa – popolo di Dio – non è un’entità astratta, è una famiglia che comprende tutte le anime, tutte le pecore che sono il suo gregge. Deve capire che ciò che ha fatto il Pastore è la sua grande vocazione per la salvezza del mondo. “Se qualcuno vuoi venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà “(Mt 16,24-25) e, certamente,” avrà la luce della vita “(Gv 8, 12) …” la via, la verità e la vita “(Gv 14,6). Dobbiamo rallegrarci che questo invito sia stato ascoltato da così tanti discepoli,che hanno seguito il loro maestro fino alla morte: gli apostoli, i martiri e i tanti “buoni pastori”. E oggi ancora abbiamo i nostri pastori: vescovi, sacerdoti e semplici fedeli. La vocazione di Gesù ha trovato un eco autentico nell’anima di un sacerdote e di un pastore fedele, il Beato Anton Durkowitsch, che ci ha lasciato una grande testimonianza di fede e di amore, scegliendo di dirci che Gesù non è stato solo un pastore, ma anche un agnello sacrificale mostrando questa verità attraverso il dono della Sua vita. Il suo motto aveva al centro il Cristo, agnello sacrificato ma vincitore, che ha donato sé stesso per la nostra salvezza e per la nostra libertà, e afferma che solo il popolo che ha come Dio il Signore , è felice: “Beato il popolo il cui Dio è il Signore! “(Sal 143 [144], 15). Oggi la Chiesa, presentandoci l’immagine del Buon Pastore, ci chiama a mostrare attraverso la nostra vita lo stesso amore e la stessa passione per tutti. Poiché facciamo parte del suo gregge, dobbiamo andare alla ricerca di tutti gli altri fratelli, poiché abbiamo tutti una stessa casa nel regno del Buon Pastore. Alla luce di questa convinzione, fissando il nostro sguardo, in questi giorni,sui Rom, rinnoviamo questa grande verità della nostra fede: anche loro fanno parte della famiglia di Dio, anche loro sono nostri fratelli e nostre sorelle,che Dio ama e cerca come suoi figli, per i quali ha dato la sua vita. In conclusione, suggerisco la riflessione di un Rom che ha impressionato il mondo con i suoi doni e il suo talento e ha entusiasmato il pubblico in una città tedesca, dove ha tenuto un concerto di alta qualità. Questi è Damian Draghici (ora membro del Parlamento rumeno), che ha detto: “. Siamo tutti uguali, perché Dio ci ha creati lo stesso giorno” Sì, ha ragione. Siamo figli dello stesso Padre celeste e abbiamo lo stesso pastore che ci conosce e ci apprezza tutti. E’ essenziale non dimenticare che noi siamo i suoi figli e ,per questo, siamo fratelli tra noi. Preghiamo Gesù, il Buon Pastore, di donarci gli stessi sentimenti e di renderci capaci di portare al mondo il suo volto pieno di amore e la sua immagine divina. Benedetto sia il suo nei secoli dei secoli. Amen.
Domenica del Buon Pastore,2015
Petru Gherghel
vescovo di Iasi

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il resoconto di p. T. Lucian Lechintan sulla situazione dei rom di Romania al C.C.I.T. 2015

ccit 2015

 

 

 

CCIT- Ciofliceni -Snagov 2015

 la difficile sopravvivenza dei Roms di Romania

padre Teodor Lucian Lechintan sj

I Rom della Romania tra esclusione e integrazione La Romania è il paese ci’ Europa con il numero più significative di Rom. Secondo il censimento del 2011, ce ne sarebbero 621,753 su una popolazione totale di 19 milioni, sia il 3,30% che rappresenta un aumento del 16,18% rispetto a quelle del 20021. Ma molti Rom non dichiarano la loro appartenenza etnica per ragioni diverse:paura dell’esclusione, ricordo délie deportazioni durante la seconda guerra mondiale,ecc.Inoltre, la dichiarazione di etnia, come del resto quella di confessione religiosa, è più forte nelle zone rurali che in città dove i Rom sono ancora le prime vittime della discriminazione2 Per essere più vicini alla realtà ,bisogna ricorrere a délie stime :quella dell’Accademia di Romania3 citava, nel 1998, 1,5 milioni di Rom, sia il 6,7% délia popolazione totale (gli Ungheresi,prima minorità riconosciuta,rappresentano il 6,6%).Un’altra stima è quella délia Banca Mondiale che nel 2005, avanzava una forcella da 730.174 a 968.275…
La maggioranza dei Rom vive in zone rurali (64,10%) e seconde le rilevazioni di Dumitru Sandu ( PROROMI 2005) più del 60% è localizzato in comunità di più di 500 persone, cosa che riflette, in parte,il fenomeno di ghettizazione.Ufficialmente,non ci sono più Rom nomadi, ma non si puo ignorare che Rom che vivono in zone ripugnanti, vivono da nomadi, in realtà, a causa délie loro attività professionali, notamente quelk di ferraioli o di opérai nell’edilizia o 1 ‘agricoltura.Quando le loro fonti di reddito sono esaurite, questi Rom cercano un altro luogo…Qui bisogna ancora tener conto dei soliti « andirivieni »di moite famiglie tra il loro paese d’origine e i paesi di emigrazione.
I Rom di Romania costituiscono una popolazione giovane con un grande potenziale di lavoro ma troppo poco utilizzato a causa de U’insufficiente formazione e dei pregiudizi nei loro confronti.Secondo le cifre del 2011(UNDP / Banca mondiale /Commissione Europea) La disoccupazione dei Rom délia fascia d’età dai 15 ai 64 anni ammonta al 33% mentre è del 18% per i non ROM. Questo tasso è ancora più elevato tra i giovani dai 15 ai 24 anni e soprattutto tra le donne il 62% délie quali, nel 2011, era senza lavoro. La struttura dell’occupazione è molto problematica : il 43% esercita un lavoro non qualificato, il!8% un lavoro qualificato e il 16% è nell’agricoltura. Una disinformazione si propaga costantemente nella stampa seconde la quale le risorse dei Rom proverrebbero unicamente dagli aiuti sociali. In verità,le fonti principali di reddito sono i salari (31%) gli assegni famigliari( 23%) e solo in seguito gli aiuti sociali (14%)…
I dati che riguardano le condizioni di alloggio sono allarmanti. Se la superficie média di alloggio per un Rom è di 13,5m2, quella per i Gadgé (cioè i non Rom) è più del doppio (32,24m2). Tra il 1998 e il 2006, circa un quarto dei Rom che abitava in una casa con giardino dichiarava di non disporre dei documenti di propriété del i^c terreno. Uno studio préoccupante del 2011 (UNDP) ha rilevato che il 72% non aveva accesso all’acqua corrente (52% per i non Rom) e, più grave, che 1’82% non aveva installazioni sanitarie e igieniche adeguate(52% per i non Rom) e questo malgrado il fatto che le diverse politiche avessero previsto di stanziare fondi per questo settor
Per quel che riguarda la formazione scolastica, i dati IN S (2011) rilevano un numéro elevato di persone senza qualificazione (541.244) tra le quali il 17,8% (96.511) sono Rom ; in questo gruppo il 20% non ha nessuna formazione, la grande maggioranza abbandona la scuola dopo il ciclo elementare o durante il medio rsoltanto il 34% ha terminato il ciclo elementare, il 35% il ciclo medio e il 4,8% solamente ha frequentato il liceo. Durante gli ultimi anni la scolarizzazione dei Rom è stata promossa grazie a délie misure governamentali,la cui discriminazione positiva, grazie anche al lavoro di associazioni civili e confessionali, come,tra ben altre,OvidiuRO (l’insegnamento dei molto giovani), il progetto d’iniziativa sociale Elijah dei gesuita Georg Sprochill con Ruth Zenket a Hosman (Sibiu), l’associazione Fratelli Remania (Satu Mare).
Il doppio inserimento dei Rom in una nazione e in un’ identità transnazionale è stata considerata come una forza4 , ma le emigrazioni massicce in differenti paesi d’Europa ne hanno farta una grande fragilità. Le politiche nei loro confronti non hanno preso in conto la loro flessibilità a integrarsi, sono state spesso incoerenti e fissate sul provvisorio, con la conseguenza di aver esposto i Rom all’odio razziale e di aver creato, aU’interno dei gruppo, un sentimento d’insicurezza e una considerabile diffidenza verso ogni politica d’aiuto5. Nel 2008, in Italia, i Rom rumeni soggiornavano in campi miserabili (42,3%), in baracche prowisorie (23,1%), pochi in caravan (1%), certi non avevano alloggio (1,3%)6.1 principali motivi che hanno spinto i Rom a emigrare sono la ricerca di un lavoro (67,6%), la qualità délia vita (51,3%), ragioni di famiglia (17,3%) e il costo délia vita (10,6%).
ELEMENTO CONFESSIONALE E RISPOSTA BELLE CHIESE TRADIZIONALI ALLO SVILUPPO DEI MOVIMENTI DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE
II quadro confessionale molto legato al quadro economico sociale, ha conosciuto cambiamenti significativi in questi ultimi anni che hanno considerabilmente segnato le Chiese tradizionali. Il numéro dei Rom ortodossi, secondo il censimento dei 2011, è aumentato di 36.441 rispetto a quello dei 2002. Oggi, secondo i dati delle INS,il 76,33% dei Rom si dichiara ortodosso, era dell’81,87% nel 20027 .Paragonando queste cifre con quelle dei fedeli dei movimenti délia nuova evangelizzazione (Pentecostali, Battisti, Awentisti ed altri), si constata che questi ultimi sono raddoppiati da un censimento aiValtro,questo è ben lontano dall’essere il caso degli Ortodossi .Questo fenomeno si manifesta soprattutto nell’ambiente rurale in cui invece i Rom sono spesso considerati come più tradizionali. I numeri dei cattolici latini,riformati, greco cattolici restano stabili o in lieve diminuzione, soprattutto negli ambienti rurali ( – 490 per ijcattolici latini). Questi fedeli sono passati senza dubbio , a diverse forme dei neo-protestantesimo, cosa che potrebbero confermare gli attori pastorali.
La fede vissuta al tempo dei comunismo da numerosi cristiani (ortodossi, cattolici e protestanti) era inevitabilmente « irrigidita » dopo la caduta dei comunismo, le Chiese avrebbero dovuto avère come compito principale di contemplare una pastorale rinnovata : annunciare la Parola ,creare una pastorale meno istituzionale e più carismatica.Questo bisogno è stato d’altra parte al centro délia riflessione di molti dei sopravvissuti délie prigioni comuniste, tra i quali Soljénitsyne che nel suo romanzo « Una giornata d’Ivan Denissovitch »8 (1962) e nel suo racconto « La processione di Pasqua » (1966) evocava già in modo profetico il rapporte complesso tra fede e tradizione nella società post comunista. In realtà, il cristianesimo « irrigidito », che era stato una maniera di soprawivenza durante le persecuzioni, è diventato spesso, dopo la caduta dei comunismo, una preoccupazione di restaurazione.
Oggi, 25 anni dopo la caduta dei comunismo, nessuno crede più al mito délie istituzioni impeccabili e si aspetta con grande desiderio una parola « guaritrice » che la chiesa puo portare nel seno délia società.Ma lo smantellamento progressive dei mito délie istituzioni perfette è stato accompagnato, nell’Europa dell’Est da un ripiego eccessivo délie istituzioni,compresa la Chiesa9 , su se stessa. A dire il vero, la Chiesa si è chiusa ai bisogni concreti dei fedelie si è preoccupata di più délia propria immagine.L’energia di numerosi pastori si è consumata in conflitti di patrimoni (non ancora finiti) tra ortodossi e cattolici,in progetti di costruzioni di luoghi di culto a volte grandiosi e il rinnovo délia pastorale non è stato sempre preso in conto; è dunque comprensibile che molti Rom, sprowisti di formazione solida,abbiano accolto nei movimenti neo-protestanti quelle che non ricevevano dalla loro propria chiesa- madré. Contrariamente allé Chiese tradizionali,i movimenti délia nuova evangelizzazione hanno proposto nuove forme di « vita comunitaria » (culti, riunioni, preghiere d’intercessione, visite ai malati, collette per i più sfavoriti) che rispondevano allé aspirazioni profonde dei Rom10. In più questi hanno avuto la possibilità di formarsi come predicatori. Questo fenomeno ha contribuito anche alla sedentarizzazione legando di più le persone a una comunità specifica.La lettura scrupolosa délie realtà da parte dei neo-protestanti con un distacco dai sistemi dei mondo considerato come contaminati, può essere vista come un’escatologia mancata.
Bisogna malgrado tutto osservare qui che aU’interno délie Chiese tradizionali,ci sono segni profetici : persone,movimenti e associazioni sviluppano segni promettenti di un rinnovo délia Pastorale dei Rom. Così la Chiesa ortodossa ha instaurato in questi ultimi tempi, gruppi di catechesi al livello délie parrocchie in cui la concentrazione dei Rom è importante. La conferenza episcopale cattolica e il sinodo délia Chiesa ortodossa si concertano sulla questione relativa ai Rom;dei luoghi d’incontro sono stati creati per i preti Rom délie due Chiese ; traduzioni in lingua Rom,ancora parziali,della Santa Scrittura sono state pubblicate così come délie preghiere proprie délia tradizione ortodossa.Le Chiese tradizionali potrebbero implicarsi con più audacia al momento dei grandi raduni Rom nei santuari mariani come( Costesti/Vàlcea, Curtea de Arges, Maria Radna, Chiheru) per proporre un’evangelizzazione rinnovata, sviluppare una devozione partendo da modelli più conformi alla loro sensibilité (Santa Sara la Nera,il beato Ceferino).
Un lavoro di portata sociale significativa è realizzato da différent! associazioni cattoliche che, al di là di un sostegno materiale,mirano anche all’integrazione dei Rom nella società.Si possono menzionare, tra le altre, Caritas Romania, Ruhama( a Oradea), la Comunità Sant’Egidio…
CONCLUSIONI L’evoluzione di questi ultimi anni délia società rumena ha avuto un impatto diretto sui Rom.Nel conteste capitalista e per le ragioni date qui sopra , l’unica preoccupazione dei Rom è diventata la sopravvivenza sulla quale si fonda dei resto la nuova evangelizzazione dei pentecostali.D’altra parte l’evoluzione materiale e spirituale è come un catalizzatore magico che spinge i Rom ad abbandonare rapidamente i loro modelli di vita tradizionali e a distanziarsi progressivamente dalla loro identité nel senso più forte.Cosi molti non dichiarano più di appartenere alla loro etnia ; sotto il comunismo non era possibile e la politica di assimilazione spingeva i Rom a rifugiarsi nel loro folclore, la musica o la letteratura e a mantenere il loro stile di vita ; attualmente i cambiamenti non provocano più una taie reazione e ci si può addiritura domandare se i Rom, come la maggioranza dei Rumeni, non céda all’attrattiva dei guadagno facile…
il dati dell’ultimo censimento sono tratti dal sito http://www.recensamantromania.ro/rezuitate-2  de l’Institut National de Statistique (INS) .Salvo altra indicazione, le altre cifre si riferiscono al rapporte 2012 « Economia sociale solutie a dezvoltarii comunitàtilor de romi din Romania (L’economia sociale coree soluzione alle) sviluppo délia comunità rom di Romania), realizzato a partire dal 2011 con la participazione di una série d’istituti e di esperti di enti pubblici e non governamentali. 2 Tutti i Rom sono confrontati direttamente o indirettamente con la discriminazione. Il 42% di loro la considéra coree un fenomeno fréquente. Gli studi délia fondazione SOROS mostrano che molti si considerano discriminati negli ospedali (52%), nelle pubbliche amministrazioni (48,7%) e nella ricerca di un lavoro(42,l%).Cfr Alexey Pamporov, Ppetia Kabakchieva « Social inclusion and discrimination ofRoma in four EU countries » in Social inclusion and migration,SOROS Fundation, Editura Dobrogea, 2012, p. 28. 3 Rapporte dell’Istituto per la qualità délia vita detti Accademia di Romania. 4 Emanuelle Pons riprendendo Nicolas Gheorghe, parla di una « identité vaga,duttile, ma molto resistente » in « Les Tsiganes en Roumanie : des citoyens à part entière ? » I’Harmattan, 1955 pp.132- 133. 5Ci ricordiamo gli awenimenti del 2014 a Roma : 500 manifestanti deU’estrema désira, con bombe a mano fumogene ,hanno impedito a dei bambini Rom di andare a scuola. A Roma ancora nel dicembre 2014, c’è stato un grande scandalo in un’organizzazione criminale Mafia Capitale : le inchieste hanno mostrato che questi criminali avevano fatto fortuna sfruttando l’immigrazione, quella dei Rom in particolare. 6 Cfr lonela Vlase e Ana Mara Preoteasa « Roma migrants from Bulgaria and Romania,Migration patterns and intégration in Italy aznd Spain »,op. cit. SOROS Fundation, p. 74- 76 7 L’aumento numerico dei Rom ortodossi è di 36.441 per rapporte al censimento del 2002 . Anche le altre confessioni religiose si sono evolute. Paragoni 2002- 2011 : Rom:621.753 (+86.613) – zone urbane: 230.670 ( +21.722) – zone rurali:390.903 (+ 64.711) Ortodossi : 464.603 ( +36.441) – zone urbane 182.122 ( + 5.701 ) – zone rurali 292.481 ( +30.740) Cattolici latini : 20.821 ( +5.112) – zone urbane : 9.703 (+ 1.001) – zone rurali : 11.118 (- 490) Riformati : 16.487 (+102) – zone urbane : 3.906 ( +45) – zone rurali : 12.581 (+57) Pentecostali : 71.262 (+36.816) – zone urbane : 19.281 (+9.680) – zone rurali : 51.981 (+27.133) Greco-cattolici:6.511 (+363) – zone urbane : 2.697 (+111)-zone rurali : 3.814(+252) Battisti : 8.815 (+4.066) – zone urbane : 2.924 (+1.646) – zone rurali :5.891 (+447) Avventisti : 6.793 (+2.171) – zone urbane: 2.875 (+657) – zone rurali:3.918 (+1.514) Mussulmani : 3.356 (+2.551) – zone urbane : 2.210 (+1653) – zone rurali : 1.146 (+898) Senza religione : 1.938 (+365) – zone urbane : 796 (+172) – zone rurali:1.142 (+80) 8 Seguendo le ligne di forza délia letteratura russa, nel romanzo « Una giornata d’Ivan Denissovitch », Soljénitsyne propone una figura leggendaria délia fede. Il ruolo detenuto prima dalla figura di un vecchio Padre délia fede, i.e. Il serafico « starez » Zosime ( nel romanzo di Dostoievski « I Fratelli Karamazov ») è sostituito nel suo romanzo dal carattere di un fedele di confessione battista che, aU’interno délia prigione del gulag, ricopia sul suo taccuino la meta dei Vangeli. L’aspirazione profonda délia chiesa délie catacombe è stata dunque quella di ritornare a una forma di cristianesimo primitivo, ha diffidato spesso délia forma istituzionale considerata come molto esposta al collaborazionismo. 9 cfr Miklós Tomka, « La marginalizzazione dei cristiani nell’Europa Centrale e dell’Est » in CONCILIUM, n° 286, 2000, pp.71-91. 10 Libero De Vita, « Citadine romane » e « Citadine del Cielo », ” tuca Frezza, Alessandro lovina, La Missione Evangelica Zigana, una minoranza italiana, Ed. Alfredo Guida, 2008, pp. 70-71

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