il commento al vangelo della domenica

 IL SIGNORE FU ELEVATO IN CIELO E SEDETTE ALLA DESTRA DI DIO

commento al vangelo della domenica dell’Ascensione (17 maggio 2015) di P. Alberto Maggi 

p. Maggi

Mc 16,15-20

In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporranno le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano.

L’ascensione del Signore non separa Gesù dalla vita dei credenti, ma il Signore si inserisce nella loro esistenza potenziandola con una forza, con un’energia ancora più grande di quella che prima potevano aver conosciuto. Ci viene proposto l’ultimo brano, l’ultimo pezzo del vangelo di Marco, che però non è di Marco. Il vangelo di Marco termina al cap. 16, vers. 8 con l’annuncio della Risurrezione di Gesù, ma senza le prove delle apparizioni. Questo destò scandalo nella comunità primitiva, per cui negli anni seguenti vennero aggiunte ben tre successive finali a questo vangelo, quella che leggiamo è una di queste.
Quindi non è di Marco, non è dell’evangelista, ma è indubbiamente frutto dell’esperienza della comunità cristiana.
Secondo l’autore di questo brano Gesù dice “andate in tutto il mondo e proclamate il vangelo a ogni creatura”. La missione dei credenti è di andare, non di rimanere fermi, ma di andare a proclamare che cosa? La buona notizia. Sappiamo che il termine ‘vangelo’ significa ‘buona notizia’. E qual è questa buona notizia? Dio non è buono, è ESCLUSIVAMENTE buono; Dio è amore che chiede soltanto di essere accolto. Dio-amore che si offre non per togliere qualcosa all’uomo, ma per potenziare la sua esistenza. E   da questo amore di Dio nessuna persona, qualunque sia la sua condotta o il suo comportamento, può sentirsi esclusa.
Questa è la buona notizia. Dio ama tutti in maniera incondizionata, e questo va proclamato ad ogni creatura.
Aggiunge l’autore “chi crederà …” – ‘credere’ non significa aderire, accettare una dottrina, una verità, ma ‘credere’ significa accogliere questa potenza d’amore ed essere disposti poi a comunicarla agli altri. L’amore ricevuto da Dio si trasforma in amore comunicato.
“… sarà battezzato”. All’inizio di questo vangelo il battesimo era espressione di una conversione. Per ‘conversione’ si intendeva il ‘cambio di orientamento della propria esistenza’: se fino ad adesso ho vissuto per me, adesso deciso di orientare diversamente la mia vita e di vivere per gli altri. Come segno di questo cambio c’era questo rito del battesimo. Quindi chi aderisce a questo amore, lo accoglie e dimostra pubblicamente questo cambio nella sua esistenza, questi è già nella pienezza di vita.
“Ma chi non crederà sarà condannato”. Chi invece lo rifiuta e rimane nel suo egoismo, centrato soltanto sui propri bisogni e sulle proprie necessità, sarà condannato – non da Dio perché Dio è amore e non condanna, ma è lui stesso che si condanna.
Poi ci sono i segni classici che accompagneranno i credenti nella loro missione, è una protezione contro ogni forma di male, in particolare l’espressione finale “e questi guariranno”, beh, il testo greco non è proprio così. Il testo greco dice “e questi avranno bene”. Gesù, il Signore, non ci da la capacità – magari! – di guarire gli ammalati, ma di far sì che stiano bene, questo sì. Cioè un affetto, una premura, un’attenzione e un servizio in modo che le persona anche nella loro malattia, nella loro infermità, possano in qualche maniera stare bene.
“Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo” – Quando leggiamo il vangelo occorre sempre distinguere ‘quello che l’evangelista ci dice’ da ‘come ce lo dice’. ‘Quello che ci dice’ è la Parola di Dio e questa è valida per sempre, ‘come lo dice’, l’autore usa le sue abilità letterarie, lo stile dell’epoca. Allora, in questo brano, si vede chiaramente la distinzione tra ‘quello che l’autore vuol dire’ e ‘come lo dice’. Dice che “fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio”.  Cos’è che vuol dire l’evangelista? L’evangelista vuol dire alle autorità religiose: “Quell’uomo che voi avete condannato come bestemmiatore, come eretico, in realtà era Dio. Aveva la condizione divina.”
Quindi non era lui che bestemmiava, come hanno denunciato gli scribi la prima volta che hanno ascoltato Gesù, ma “siete voi i bestemmiatori che non avete riconosciuto la presenza di Dio”.
Come lo dice? Lo dice adoperando gli schemi letterari dell’epoca. Il ‘cielo’ non significa l’atmosfera, significa la dimora divina, Dio, Dio stesso, e ‘sedere alla destra’: a quell’epoca nella corte, accanto al re sedeva la persona che deteneva il suo stesso potere, un potere simile al suo. Quindi, l’evangelista adopera queste immagini conosciute dell’epoca per trasmettere una verità.
Che l’ascensione non sia una separazione di Gesù dalla vita dei credenti, lo afferma poi l’autore. Infatti dice “essi partirono e predicarono dappertutto mentre il Signore agiva insieme a loro”. Quindi il Signore
non è andato da qualche parte, ma l’evangelista vuol dire che in Gesù si manifesta la pienezza della condizione divina, e questo porta il Signore a rafforzare l’attività, il comportamento dei suoi discepoli.
“E confermava la parola” – ‘la parola’ è la buona notizia, il messaggio, “con i segni che l’accompagnavano”. La parola non è credibile, non è veritiera, se non è accompagnata da segni quali l’amore, il perdono e la condivisione.

 

 

 

image_pdfimage_print

la ‘lista’ nerissima che ci deve fare arrossire!

lunga-lista

    la lista

di Redazione Témoignage chrétien
in “temoignagechretien.fr” del 6 maggio 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

è la forza delle immagini che ha fatto il giro delle reti sociali: un’immensa lista di 100 metri di lunghezza su cui sono scritti i nomi delle 17306 persone che sono morte tra il 1990 e il 2012 nel Mediterraneo. E il dramma sta accelerando: 6000 morti dal 2013, 1700 morti nel corso dei primi mesi del 2015

La lista è stata posta sul percorso dei parlamentari e del personale europeo che erano quindi obbligati a camminarci sopra. Era martedì 28 aprile, il giorno precedente la discussione sulla situazione catastrofica dei migranti nel Mediterraneo. L’operazione è stata condotta dal “Collectif pour une autre politique migratoire”, che unisce decine di organizzazioni di difesa dei diritti umani, organizzazioni interculturali, migratorie, di educazione allo sviluppo, di economia sociale e solidale, ecologiste e di aiuto ai migranti. Diverse centinaia di persone, principalmente strasburghesi, erano riunite davanti al Parlamento europeo e chiedevano un cambiamento urgente nella politica migratoria europea: “Denunciamo un’Europa accecata dall’ossessione della sicurezza, il cui principale obiettivo è impedire alle persone di accedere al suo territorio, prima di quello di salvare e proteggere. Vogliamo un’Europa solidale nella quale l’insieme dei membri assuma le proprie responsabilità e rispetti i suoi obblighi internazionali”. Tutte le organizzazioni riunite nel collettivo si riconoscevano nello slogan: “L’Europa è in guerra contro un nemico che si inventa, rimettiamo i diritti umani al centro dell’Europa”. Dei deputati europei si sono uniti ai manifestanti. Tutti hanno sottolineato la necessità di invertire la logica di un’Europa fortezza, di permettere la mobilità internazionale, di autorizzare l’accesso al territorio europeo, di rispettare le regole di protezione internazionale e di mettere sotto controllo democratico l’agenzia europea Frontex. Il collettivo è composto in particolare da Amnesty International dell’Alsazia, dall’ATMF (Associazione dei lavoratori maghrebini in Francia), da Attac Strasbourg (Associazione per la tassazione delle transazioni finanziarie e per la cittadinanza attiva), dall’ASTU (Associazione di
cittadinanza attiva interculturale), dall’AMSED (Associazione Migrazione Solidarietà e Scambi per lo Sviluppo), da Artisans du monde, da CALIMA (Coordinamento alsazia migrazione maghrebina), dal CARES (Coordinamento dei residenti stranieri di Strasburgo, dalla Cimade (Servizio ecumenico di mutuo aiuto), dal Collettivo arabo-ebraico e cittadino per la Palestina, dal Collettivo “d’ailleurs nous sommes d’ici”, dal Colecosol (Collettivo per la promozione del commercio equo in Alsazia), dal Collettivo “Justice et Liberté”, da Emmaüs Centre-Alsace, da EELV (Europe Ecologie les Verts), dalla Pastorale dei migranti, da Voix libres, dal Mrap (Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli), da NPA67 (Nouveaux Parti Anticapitaliste), da Oxfam, dal PCF 67, dal Parti de gauche 67, da TEJE (Travailler ensemble jeunes et engagé-e-s, dall’UJFP Alsace (Union Juivefrançaise pour la Paix), da Watch the Med Alarm Phone, da Europe-Cameroun solidarité, da Wietchip, da Femmes du III millénaire, da Alsace-Syrie, da Femmes en noir, da Vie nouvelle, dagli Amici del Monde Diplomatique, dall’AIPPP, dal Coordinamento dell’Appello di Strasburgo, da Civimed Initiatives. La pagina Facebook di Témoignage chrétien ha diffuso questa iniziativa. Più di 7500 persone sono state raggiunte in 48 ore. TC proporrà nei prossimi giorni un’iniziativa per rompere la logica della chiusura e della paura che prevale nei confronti dei migranti del Mediterraneo. Potete comunicarci le vostre reazioni e le vostre iniziative scrivendo a tc.dialogue@gmail.com  .

foto premio migranti

di seguito una breve rassegna stampa (meritoriamente offerta da ‘rassegna stampa – finesettimana’) a proposito delle decisioni che finalmente l’Europa sembra prendere per ripartire le ‘quote’ dei migranti (è possibile leggere i singoli  articoli tramite il rispettivo link):
“La proposta, semplificata con il termine di “quote”, divide gli Europei. I paesi meno richiesti dai richiedenti asilo la rifiutano. Altri, come l’Ungheria, sono ostili per principio… Quelli che accolgono già un gran numero di rifugiati se ne rallegrano… Danimarca, Regno Unito e Irlanda ne sarebbero esenti… Diverse ONG esprimono timori: richiedenti asilo trattati come merci…”
La buona novella sta nel fatto che ci siano quote e percentuali: e che l’Europa enunci un principio cogente, con le parole del vicepresidente dell’esecutivo, Frans Timmermans: «Diciamo all’Italia: non sei sola, hai diritto all’aiuto degli altri Paesi europei».
Per Carlotta Sami, portavoce dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu (Unhcr), la Commissione Ue ha approvato un testo sull’immigrazione che va nella giusta direzione. Decisivo è l’accordo per la ripartizione dei rifugiati in tutti i paesi europei, anche se non c’è chiarezza sull’opzione militare in Libia. Funzionerà? “Il test principale non può che essere uno: la diminuzione dei morti in mare”
Tutti d’accordo nell’apprezzare i progressi compiuti a Bruxelles dall’Agenda dell’Ue, finora restia a parlare di sbarchi e immigrazione. Ma le critiche del mondo cattolico e delle organizzazioni che aiutano i rifugiati, con diverse sfumature, non mancano.
Tutti d’accordo nell’apprezzare i progressi compiuti a Bruxelles dall’Agenda dell’Ue, finora restia a parlare di sbarchi e immigrazione. Ma le critiche del mondo cattolico e delle organizzazioni che aiutano i rifugiati, con diverse sfumature, non mancano.
Il punto fondamentale dell’intesa raggiunta grazie all’impegno del presidente Jean-Claude Juncker riguarda la distribuzione obbligatoria dei profughi. I 25 Stati della Ue – al momento sono fuori Regno Unito, Irlanda e Danimarca – dovranno dividersi le persone attualmente presenti in Europa in base a un sistema percentuale

 

 

 

image_pdfimage_print

al razzista Salvini non sta bene nulla dei rom

“ora di cultura rom” a scuola

genitori in rivolta in Toscana

in una scuola media di Pisa le ore di italiano fanno posto a un laboratorio di “tradizioni e cultura zigane”. Polemica dalla Lega: “Quando i corsi di accattonaggio?
  ne ‘il Giornale’:
era nata come un’iniziativa per avvicinare culture diverse, ma per il momento sembra aver sollevato più polemiche che altro.
il presidente della Toscana Enrico Rossi con una famiglia rom

A Pisa, nella scuola media “Fucini”, fa discutere l’inclusione nel programma scolastico dell’ora di “cultura rom”, nell’ambito di un programma di integrazione dei piccoli studenti di etnia nomade. Come racconta Libero, il progetto prevede sei ore complessivamente, da tenersi durante le lezioni di italiano.

Per la professoressa Marta Trafeli, che ha dato la disponibilità delle proprie ore per “ospitare” il laboratorio, l’iniziativa serve a “invogliare i ragazzini rom a venire a scuola, anche perché tra loro c’è un alto tasso di dispersione scolastica”. Durante le ore di “cultura rom”, spiega la docente, “viene un educatore che spiega ai nostri studenti la cultura e la tradizione di quel popolo”.

Non tutti, però, hanno accolto con favore la novità. Alcuni genitori, ad esempio, puntano il dito sulla sovrapposizione che si viene a creare con le ore di italiano. Anche perché inizialmente il laboratorio era facoltativo e previsto per il pomeriggio, ma poiché “quasi nessuno aveva deciso di frequentarlo” è stato spostato alla mattina e reso obbligatorio.

Oltre ai genitori preoccupati per il programma curricolare dei propri figli è poi intervenuta la politica: il segretario della Lega Matteo Salvini ha commentato l’episodio suggerendo “corsi di cultura pisana” al posto di quelli di tradizioni rom e concludendo caustico: “A quando i corsi di accattonaggio?”

E c’è anche una mamma che insinua: “Il fatto che l’associazione che ha proposto il corso operi nell’ambito della Società della Salute la dice lunga. Dietro a tutto questo, come al solito, c’è il governo Pd della Toscana che non vede l’ora di spendere soldi per integrare i rom che, di conseguenza, votano quel partito.” E ancora, come non bastasse: “Che titolo hanno poi gli esperti dei rom – insinua Susanna Ceccardi della Lega – per potersi sostituire agli insegnanti di italiano che hanno vinto un concorso?”

image_pdfimage_print

Europa opulenta ma egoista incapace di superare le sue politiche di morte

Europa, la solidarietà di facciata

Fulvio Vassallo Paleologo

foto premio migranti

Dopo il fallimento del Consiglio straordinario europeo del 23 aprile, convocato su richiesta dell’Italia in seguito alla strage del 19 aprile, la più grande tragedia dell’immigrazione del mondo, con oltre 800 morti, a Bruxelles si gioca l’ennesima partita sulla pelle dei migranti, una partita che sta pagando dividendi spaventosi ai partiti nazionalisti e xenofobi.
Malgrado l’assenza di un consenso generale, circola di nuovo una bozza che potrebbe essere approvata già mercoledì 13 maggio dalla Commissione Europea. Un piano in 10 punti che vanno dal rafforzamento di Triton (la missione di contrasto all’immigrazione dell’agenzia FRONTEX) all’impegno a distruggere e confiscare le navi confiscate agli scafisti. È poi auspicata una maggiore cooperazione fra gli Stati europei coinvolti, l’invio di operatori in Grecia e Italia per facilitare  le domande di asilo e non meglio precisati “nuovi meccanismi” per trasferire i migranti da un luogo all’altro in caso di “emergenza”. Si intende applicare un “progetto pilota”valido in tutta l’U.E. per un numero limitato di migranti che hanno bisogno di protezione, (non è chiaro se saranno 5000 o 10.000 le persone interessate) a condizione  che ogni singolo paese rilevi le impronte digitali delle persone sbarcate e che si attui un percorso rapido di rimpatrio degli immigrati considerati irregolari nei paesi di provenienza. Si intende poi realizzare maggiore cooperazione con gli Stati confinanti con la Libia, da cui giungono gran parte dei migranti e l’invio di esperti in detti paesi per svolgere un lavoro di intelligence per prevenire i flussi migratori.

Su questa bozza, prima ancora che siano divulgati tutti i contenuti, circolano già giudizi positivi, come quelli di Federica Mogherini, Alto Commissario U.E. agli Affari Esteri, che in queste stesse ore sta cercando di ottenere dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite un mandato per “interventi militari mirati in Libia” (proposta che è già stata bocciata dal Segretario generale Ban Ki-moon, dalla Russia e dal rappresentante alle Nazioni Unite del governo di Tobruk, che ha espresso la propria contrarietà all’operazione: «Non ci hanno mai consultati – ha detto – e non accetteremo mai militari stranieri nel nostro paese».
I media filogovernativi parlano di svolte eclatanti, addirittura di una “rivoluzione nel segno della solidarietà” (Repubblica) , ma si tratta sempre degli stessi punti sui quali l’Europa non riesce da anni a trovare una intesa: 1) Nessuna apertura dei corridoi umanitari, se non per cifre risibili, meno di diecimila persone per tutta l’Unione Europea; 2)  nessuna prospettiva immediata di apertura di canali legali di ingresso per lavoro; 3) nessuna modifica del Regolamento Dublino III; 4) nessun serio impegno soprattutto per una effettiva armonizzazione delle politiche dell’asilo in Europa; 5) nessun accordo europeo per una missione internazionale di salvataggio in Mediterraneo che superi Frontex.
Che poi il piano italiano, fatto passare a stento a Bruxelles e rilanciato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, costituisca il superamento dell’ “egoismo” e possa costituire un “cambiamento di rotta” dell’Unione Europea, come auspicato anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è tutto da vedere.

L’aspetto che più si sta pubblicizzando in queste ultime ore – oltre al mantra dell’intervento militare in Libia per distruggere le imbarcazioni degli scafisti – riguarda il fatto che ora, anche “in acque internazionali”, dovrebbe esserci l’obbligo per tutti i paesi di “accogliere migranti secondo delle quote prestabilite”. Quello che si tace, però è che all’interno di questa proposta, ,si collocano trasferimenti forzati di richiedenti asilo da un paese all’altro, con la probabile estensione dei centri di detenzione amministrativa e del prelievo violento delle impronte digitali. Non solo:  per chi non ottiene il riconoscimento di uno status di protezione, le deportazioni verso i paesi di origine saranno più celeri grazie ai  nuovi accordi di riammissione previsti  cosiddetto Processo di Khartoum lanciato proprio dall’Italia lo scorso anno durante il semestre di presidenza europea.

Insomma: Nessuna modifica sostanziale delle politiche di morte praticate dall’Unione Europea, ma solo correttivi, sempre nella logica del contenimento e non dell’accoglienza. Nessuno si arrischia sui numeri ma, nelle bozze circolate nelle settimane precedenti, il numero dei migranti che si sarebbero potuti reinsediare in Europa o trasferire da un paese all’altro oscillava attorno ad alcune decine di migliaia di unità, meno di quante persone – non numeri – arrivano in tre mesi in Italia.
Secondo alcune fonti di stampa, nella bozza di risoluzione ci sarebbe anche – ma solo “nel medio periodo” –  una sorta di “asilo politico europeo”, con il mutuo riconoscimento reciproco delle decisioni dei singoli Stati che stabiliscono lo status di rifugiato, mentre da subito sono previsti voli congiunti di rimpatrio verso i paesi di origine, per coloro che non vengono riconosciuti meritevoli di uno status di protezione, e operazioni anche “entro le acque interne libiche per l’arresto degli scafisti, il sequestro e la distruzione delle imbarcazioni” come è stato fatto con l’operazione Atalanta contro i pirati davanti alle coste somale. Il rischio maggiore a questo punto è che la Libia, di fronte a questo tipo di blocco navale, si possa trasformare davvero in un’altra Somalia.

Per ottenere la collaborazione dei paesi di origine nelle pratiche di riammissione forzata si punta ad aiuti economici “per contrastare la povertà”. Siamo sempre nell’ambito degli intenti enunciati nel Processo di Khartoum. Si proporrà poi di aiutare economicamente i paesi di transito – come Sudan, Egitto, Ciad e Niger – per aumentare i controlli alle frontiere “in modo da intercettare i camion dove i trafficanti stipano i migranti”. Gli aiuti ai paesi di transito dovrebbero servire a sgominare i trafficanti, salvare i migranti e accoglierli in campi gestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Da qui dovrebbero essere rimpatriati o trasferiti in un paese dell’Unione Europea, se si giungesse a riconoscere loro il diritto alla protezione, che però, in quei paesi, non potrebbe che essere limitato ai pochi casi che rientrano nelle qualifiche di rifugiati vittima di persecuzione individuale fissate dalla Convenzione di Ginevra del 1951. Di fatto si realizzerebbe una esternalizzazione delle domande di richiesta d’asilo in contesti dove diventa più difficile veder garantita l’osservanza delle norme internazionali.

Per la Mogherini in particolare «va risolto il problema della Libia: finché non si risolve il problema della guerra e l’assenza di istituzioni ci sarà un corridoio incontrollato. Dobbiamo quindi collaborare con i libici a un governo nazionale stabile che si prenda la responsabilità di controllare le frontiere, gli scafisti e sgominare le organizzazioni criminali». Le proposte di “interventi militari mirati” su territorio libico, sui quali la stessa Mogherini si sta impegnando a New York davanti al Consiglio di Sicurezza delle NU, non sembrano tuttavia andare nella direzione di favorire un dialogo tra le parti in conflitto, come dimostra la reazione del governo di Tobruk.
Divisi su tutto, il governo di Tripoli e quello di Bengasi sono d’accordo soltanto sulle deportazioni di migranti anche nei paesi di origine, e sappiamo cosa gli succederà dopo, dopo il rimpatrio in Eritrea, in Sudan, in Niger, in Somalia. Insomma i governanti libici delle opposte fazioni, corteggiati dall’Europa e dalle multinazionali, sono i migliori alleati dei trafficanti. Li riforniscono continuamente di persone da trattare e violentare. Le diverse fazioni libiche non sembrano particolarmente pronte a deporre le armi, e chi pure respinge l’ipotesi di un intervento militare a terra o nelle acque territoriali contro gli scafisti ed i trafficanti, come il generale Haftar, chiede soltanto altre armi per prevale sui rivali e garantire così il controllo del territorio e il blocco delle partenze verso l’Europa. Lo stesso stile della politica dell’ultimo Gheddafi nei confronti dell’Europa. E l’Unione Europea si appresta a commettere gli stessi errori commessi nel 2011, sempre in nome di grandi valori e di una coesione tra stati diversi che non esiste più, in realtà travolta dal riemergere degli egoismi nazionali e da una crisi economica che ne sta sancendo il declino definitivo.

Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo

image_pdfimage_print

quale chiesa? una domanda non peregrina

due ‘modelli di chiesa’ inconciliabili? due realtà di chiesa che convivono senza comunicare?: “il ‘volto della misericordia’ che Papa Francesco sogna per la Chiesa, come può di fatto configurarsi nella ‘chiesa reale’ fatta di pratiche quali lo stesso Anno santo, pellegrinaggi, indulgenze, devozioni varie, missioni al popolo, insomma quanto evidenzia il carattere di religione più che di fede? Ma la Chiesa dei praticanti è la stessa Chiesa dei credenti? La Chiesa della fede è la stessa Chiesa dei devoti?” Come far evolvere le differenze verso una unità di fede? Come reintrodurre il confronto?

 

 

tra misericordia e lotta: per quale  chiesa?

di Alberto Simoni
in “Koinonia-forum” n. 433 del 10 maggio 2015

piazza_san_pietro-vaticano

Gioia e speranza, misericordia e lotta: l’attenzione va di preferenza al secondo dei binomi  con cui si annuncia il programma. Parafrasando in qualche modo l’incipit della Gaudium et spes  viene da chiedersi: saranno capaci, “i discepoli di Cristo”,  di condividere con  “gli uomini d’oggi” gioia e speranza e diventare segno e strumento di misericordia e lotta, per essere operatori di pace? C’è un invito a riposizionare la Gaudium et spes nel contesto ecclesiale odierno, ma c’è anche la provocazione  a leggere il momento attuale della Chiesa alla luce della Gaudium et spes. I binomi proposti, inoltre, lasciano pensare alle tante antinomie che hanno accompagnato il cammino dei 50 anni di Concilio tra aggiornamento, contestazione e dissenso: tradizione-riforma, dottrina-pastorale, magistero-collegialità, gerarchia-popolo di Dio, carisma-potere, profezia-istituzione, ministero ordinato-laici, liturgia-pietà popolare, “ermeneutica della continuità e della rottura” ecc.: un vero inventario di conflitti in attesa di risoluzione!
Non sono che variazioni sul tema di fondo Chiesa-mondo, asse portante su cui si è giocato il Vaticano II e delle cui vicende la Gaudium et spes rimane simbolo: traccia di un Concilio vissuto all’insegna della dialettica, a cominciare dal controverso messaggio al mondo all’apertura. Un Concilio che non si è limitato a sentenziare e sanzionare, ma ha inaugurato l’ermeneutica dei segni dei tempi: un metodo di dialogo dentro la conflittualità storica, riconosciuta e accettata. “Dialogo” non come esibizione dimostrativa di accondiscendenza, ma confronto e lotta alla maniera  di Giacobbe (cfr  Gen 32,23ss). Una lotta tanto necessaria quanto spesso rimossa!
Se c’è qualcosa che ha compromesso la sostanziale recezione del Concilio, è il fatto che simile metodo, più che essere praticato in profondità su vasta scala, è stato troppo enfatizzato o depotenziato: di qui le polarizzazioni e le contrapposizioni che hanno generato forme o spezzoni di Chiesa autosufficienti e incomunicabili. Questa situazione diffusa di frammentarietà è coperta ormai da un conformismo dilagante, in cui ogni dissenso è neutralizzato e costretto a degli “assolo”. È la morte della dialettica in nome di un riformismo di facciata e di successo. Possiamo anche contentarci di avere un Papa che lotta per una “Chiesa in uscita”, ma attenti a non farlo diventare il simbolo isolato di un progetto sempre in cantiere.
Se oggi l’apertura al mondo viene riproposta, vuol dire che è sempre penalizzata da ritardi, da ambiguità e contraddizioni: se nei piani pastorali la si dà come compiuta, forse però si è smesso di pensarla come il banco di prova dell’“essere al mondo” della chiesa: come la sfida a rapportarsi al mondo in chiave evangelica, e non in termini di supremazia. La relazione al mondo infatti è costitutiva della proclamazione del vangelo, come dichiara il documento del sinodo dei vescovi del 1971 (La Giustizia nel mondo): “L’agire per la giustizia e il partecipare alla trasformazione del mondo ci appaiono chiaramente come la dimensione costitutiva della predicazione del vangelo, cioè della missione della chiesa per la redenzione del genere umano e la liberazione di ogni stato di cose oppressivo”.
Sappiamo quale tipo di presenza e di azione ha prospettato la Gaudium et spes, fedele al principio giovanneo “non è il Vangelo che cambia ma siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio”. Poche parole del numero 40 della GS ce lo ricordano: “Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro. Pertanto, presupponendo tutto ciò che il Concilio ha già insegnato circa il mistero della Chiesa, si viene a prendere in considerazione la medesima Chiesa in quanto si trova nel mondo e insieme con esso vive ed agisce” (n.40). Non solo chiesa, dunque, non solo mondo, ma
chiesa nel mondo in piena solidarietà!
Questo vuol dire che il “mondo” entra nell’”essere-Chiesa” non solo come destinatario del suo ministero (“finis cui”), ma come dimensione consustanziale che la specifica (“finis qui”). Se la Costituzione pastorale Gaudium et spes è “sulla Chiesa nel mondo contemporaneo”, lo può essere  prima di tutto perché riattiva il rapporto Vangelo-poveri. È così che l’impegno nel mondo e per il mondo è una praeparatio evangelica, una chiamata a consacrarsi al servizio degli uomini sulla terra, “così da preparare attraverso tale loro ministero quasi la materia per il regno dei cieli” (n.38).
Detto questo in linea di principio, a che punto siamo oggi nell’opera di preparazione evangelica del Regno, e cioè tra Popolo di Dio ed umanità, fede e storia? Da questo rapporto base non possiamo prescindere, né per fughe spiritualistiche né in nome di una efficienza immediata, perché si tratta di rispettare lo “statuto della Incarnazione” quanto ad istanze pratiche e pastorali e quanto ad aspetti teologici. Il punto sullo stato delle cose forse lo possiamo fare a partire dalla Bolla Misericordiae Vultus, promulgata per indire l’Anno santo ma anche per celebrare il Giubileo del Vaticano II.
Come si conciliano in realtà questi due eventi? Da una parte c’è un “Giubileo Straordinario della Misericordia” come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti” (n.3). Dall’altra c’ è il bisogno di mantenere vivo il Vaticano II, grazie al quale, “abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre. Un nuovo impegno per tutti i cristiani per testimoniare con più entusiasmo e convinzione la loro fede. La Chiesa sentiva la responsabilità di essere nel mondo il segno vivo dell’amore del Padre” (n.4). Ma ecco il punto: Anno santo nella linea del Vaticano II o Concilio immerso nella corrente religiosa dei Giubilei tradizionali? Anno santo che trova nel Concilio la sua spinta ad extra, o Vaticano II che viene risucchiato ad intra da una chiesa comunque autoreferenziale e clericale?
Di fatto emergono dalla Bolla due realtà di Chiesa che convivono senza comunicare. Utilizzando la distinzione di Paolo VI tra immagine ideale e volto reale, possiamo chiederci:  il “volto della misericordia” che Papa Francesco sogna per la Chiesa, come può di fatto configurarsi nella “chiesa reale” fatta di pratiche quali lo stesso Anno santo, pellegrinaggi, indulgenze, devozioni varie, missioni al popolo, insomma quanto evidenzia il carattere di religione più che di fede? Ma la Chiesa dei praticanti è la stessa Chiesa dei credenti? La Chiesa della fede è la stessa Chiesa dei devoti?
Questo per dire che non basta una coesistenza di fatto tra queste due realtà di Chiesa per ottenere una apertura al mondo convergente o una ”chiesa in uscita”. Non basta rassegnarsi all’esistente in tutte le sue sfaccettature e conflittualità, ma è necessario trovare anche una risoluzione di principio, un metodo che legittimi e faccia evolvere le differenze nell’unità della fede. Non basta avallare un pluralismo di fatto sotto l’ombra della appartenenza istituzionale: è necessario riattivare il confronto aperto in linea di diritto, secondo l’adagio “distinguere per unire”. È necessario ridare vita alla dialettica che il Concilio ci ha insegnato, non solo tra base e vertice ma all’interno della stessa base, là dove il Popolo di Dio si muove! E forse non sarebbe fuori luogo applicare anche qui la distinzione della Pacem in terris tra movimenti storici e ideologie per ritrovare la sostanza del credere dentro i molteplici rivestimenti della fede.
Ma è chiaro che per uscire da ogni monolitismo gerarchico e da ogni sistema sacrale di potere ci vogliono soggetti nuovi non clonati, se davvero si guarda alla rinascita o rigenerazione di comunità di credenti in Cristo e non solo a rifacimenti o protesi religiose accessorie. Quando nella Bolla per l’Anno santo si dice che “l’architrave che sorregge la vita della Chiesa” (n.10) è la misericordia, non si tratta di panacea: questa non può essere intesa come condono o indulgenza per affiliati, ma come fonte di perdono e di lotta, di giustizia e di pace. Non semplice amministrazione sacramentale
ma “grazia a caro prezzo”!  Forse è proprio la violenza della misericordia – o potenza  della croce – che sconfigge la violenza del mondo, sapendo che “dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12).
Non mi addentro in ipotesi di lavoro su come reintrodurre la dialettica nel conflitto: dico solo – come provocazione e come invito – che la diversità maturata, espressa, praticata in questi 50 anni da parte di molti deve acquistare un suo spessore teologico e una collocazione pastorale veramente dialettica, appunto attraverso speranza e lotta!  Non importa se solo come  “piccolo resto” o come il più piccolo dei semi: a quando un “cristianesimo non religioso” che regga il confronto con la cristianità storica costituita? E’ qui la sfida aperta lanciata dalla Gaudium et spes!

image_pdfimage_print

proprio un’aria nuova!

Angelelli, pastore coraggioso di una Chiesa perseguitata


 di Stefania Falasca
 ​
​Anno Domini 2015

 ex parte Sanctae Sedis nihil obstat

 non c’è più nessun ostacolo

A trentanove anni dalla morte si apre adesso ufficialmente la via degli altari per un’altra significativa figura di vescovo testimone della Chiesa del Concilio: il presule argentino Enrique Angelelli, vescovo di La Rioja, assassinato il 4 agosto 1976 durante la dittatura militare di Videla. La Santa Sede ha concesso il nulla osta il 21 aprile scorso. La richiesta formale per l’introduzione della causa di canonizzazione per martirio in odium fidei di Angelelli era stata inoltrata dall’attuale vescovo della diocesi di La Rioja appena quattro mesi prima, il 7 gennaio.Un tempo breve per il placet all’avvio della causa, soprattutto se paragonato al ritardo di quasi quarant’anni per l’esito dell’accertamento sulla verità della morte del vescovo, condotto nella causa penale avviata dal tribunale di La Rioja e oggetto di numerosi ostacoli, depistaggi e continui tentativi di insabbiamento. Solamente il 4 luglio dello scorso anno l’indagine giudiziaria ha stabilito che la morte di Angelelli non fu causata da un «tragico incidente stradale» – secondo la versione pubblicamente sostenuta all’inizio anche da certi settori della Chiesa – ma da «omicidio premeditato ed eseguito nella cornice del terrorismo di Stato» e ha condannato all’ergastolo due ex militari, stretti collaboratori del generale Videla, riconosciuti quali mandanti. Una verità sulla quale hanno certamente contribuito a far piena luce anche le carte richieste al Vaticano dall’attuale vescovo di La Rioja, Marcelo Daniel Colombo, consegnate al tribunale.

Come ha affermato lo stesso presule, le carte «evidenziano chiaramente i termini dello stato di persecuzione che viveva la Chiesa di La Rioja e le minacce di morte ricevute da Angelelli» e in seguito alla sentenza sul caso, il presule si è così espresso: «Oggi non ci sono più dubbi sul fatto che questa Chiesa particolare ha vissuto una persecuzione molto forte che si è portata via la vita del vescovo insieme a quella di altri sacerdoti e laici. Come si dice: non c’è cieco peggiore di chi non vuol vedere. Se ci sono ancora, fuori e dentro la Chiesa, persone che non vogliono vedere nella vita e nella morte di monsignor Angelelli un segno eroico ed eloquente di Dio verso il suo popolo, preghiamo per loro».

Enrique Angelelli è il primo vescovo assassinato dalle dittature latinoamericane. La sua vicenda s’inserisce nelle violente persecuzioni subite dalla Chiesa dell’America latina negli anni Settanta-Ottanta. Angelelli, come Romero e altri vescovi, sacerdoti, religiosi e laici, che hanno conformato la loro fisionomia sul modello e sulle esigenze del Vangelo, del Concilio e del magistero, sotto la falsa accusa di fare politica e di comunismo, sono stati messi a morte da sistemi dittatoriali formati da uomini che si professavano cattolici e che vedevano in questi testimoni ostacoli per il perseguimento degli interessi «dell’ordine sociale occidentale». Così mentre era nota in Europa la persecuzione operata nei mattatoi dei regimi totalitari atei, quella in atto in America latina, compiuta in nome dello stesso Dio, veniva occultata dagli sperimentati metodi della diffamazione e della calunnia.
Figlio di immigrati italiani, Angelelli aveva partecipato al Concilio ed era stato scelto da Paolo VI come vescovo di La Rioja, una delle diocesi più povere dell’Argentina.

Fu uno dei vescovi che insieme ai padri Lucio Gera e Rafael Tello presiedettero alla commissione da cui nacque la teologia del popolo. Bergoglio lo aveva conosciuto fin da quando era rettore del Collegio San Miguel. Angelelli aveva inviato sotto la sua protezione alcuni dei suoi seminaristi. Bergoglio visitò la Rioja la prima volta il 13 giugno 1973, insieme ad altri consultori della Compagnia per un ritiro spirituale, durante il quale si verificò un attacco di un sedicente gruppo di «Cruzados de la Fe», organizzato dai proprietari terrieri. Vi ritornò due mesi più tardi, il 14 agosto 1973, come provinciale dei gesuiti, accompagnando nella visita il generale della Compagnia di Gesù, padre Arrupe, preoccupato per le aggressioni in quella diocesi a religiosi e laici. Il 4 agosto 2006, in occasione del trentesimo anniversario della morte di Angelelli, come arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio tenne a La Rioja una partecipata celebrazione eucaristica.

Nell’omelia ricordò gli «indimenticabili giorni trascorsi a La Rioja». Parlò del profondo legame di amore che univa il vescovo con il suo popolo citando la Lumen Gentium e si riferì ad Angelelli come «un pastore innamorato della sua gente che lo accompagnava nel cammino, fin nelle periferie, geografiche ed esistenziali». «Vedemmo» disse «il dialogo di un laicato vivo, forte con il suo pastore». Ricordò un’incontro durante la visita del padre Arrupe con tutti gli agenti pastorali che raccontarono la loro situazione, nel corso del quale «una donna riojana, che portava avanti le cose di Dio con vero coraggio, domandò: “Ci dica padre, questo che lei ha ascoltato qui è il Concilio Vaticano o non lo è?” E il padre Arrupe rispose: “Questo è quello che vuole la Chiesa del Vaticano II”». «Furono giorni in cui ricevemmo la saggezza di un pastore che dialogava con il suo popolo» e «vedemmo lo scherno che questo popolo e questo pastore ricevevano, semplicemente per seguire il Vangelo… uomini e donne liberi da compromessi, ambizioni, ideologie, per quali il Vangelo era il commento della propria vita. M’incontrai con una Chiesa perseguitata, interamente, popolo e pastore» disse. Paragonò le sofferenze patite dal vescovo e dal «santo popolo fedele di Dio» con quelle patite da San Paolo a Filippi «per mezzo degli sperimentati metodi della disinformazione, diffamazione, calunnia». Affermò che il vescovo «è stato testimone della fede versando il suo sangue», citando la frase dei primi cristiani: «Sangue dei martiri, sementi di cristiani» e aggiungendo: «Se qualcuno festeggiò la sua morte credendo fosse un trionfo, questa fu la sconfitta dei suoi avversari».

Anche se non esplicitamente nominato, l’esempio del vescovo di La Rioja è tenuto presente nell’Evangelii Gaudium. «Un predicatore è un contemplativo della Parola ed anche un contemplativo del popolo» scrive papa Francesco al punto 154 evocando il detto proprio di monsignor Angelelli: «Un orecchio al Vangelo e l’altro al popolo».
La figura di Enrique Angelelli è certamente una delle più interessanti per comprendere a fondo cosa significa una «Chiesa in uscita» alla luce del Vaticano II. E la sua emblematica figura di vescovo in ascolto amoroso e in servizio totale del popolo di Dio, che sempre profondamente cerca di essere «pastore con l’odore delle pecore», è più che mai attuale per tutta la Chiesa.

image_pdfimage_print

un esempio di forze dell’ordine inflessibili coi deboli e … flessibili coi forti?

festa di matrimonio in un capannone in disuso

denunciati 44 rom

 

una festa di matrimonio di un gruppo di rom è finita con un blitz dei carabinieri del nucleo operativo e radiomobile di Pisa ieri in un capannone industriale in  disuso

Delle 44 persone presenti, tutte denunciate, 40 erano già conosciuti alle forze dell’ordine. È stato un carabiniere fuori servizio, transitando nella zona, ieri intorno alle 18.30 a segnalare alla centrale operativa un assembramento sospetto di auto nell’area industriale, che già in passato è stata ripetutamente occupata da rom rumeni. Immediatamente sul posto sono giunte alcune pattuglie dell’Arma che hanno proceduto all’identificazione dei presenti che sono stati denunciati per invasione di terreni ed edifici.

Sui 44 denunciati verranno svolte nei prossimi giorni verifiche più approfondite per valutare se vi sono i presupposti per l’emissione di un foglio di via obbligatorio dalla città. In passato l’area aveva visto la presenza anche di alcuni gruppi di spacciatori tunisini, alcuni dei quali arrestati dai carabinieri, mentre per altri l’autorità giudiziaria aveva disposto il divieto di dimora a Pisa.

pubblicato da La Nazione sull’app Quotidiano.net

image_pdfimage_print

i principali stereotipi sui rom

abbiamo preso i principali stereotipi italiani sui rom e li abbiamo verificati

appello per rom e sinti

di Claudia Torrisi

cfr il nostro documentario Romanì di Roma di VICE on SkyTG24.

Non serve seguire con una certa costanza la pagina Facebook di Matteo Salvini per capire che quello dei “rom” sia un tema capace di richiamare improvvisamente all’attenti il pubblico italiano. Ieri era il video della rom picchiata in tram a Milano dopo un presunto furto, settimana scorsa la bufala sul padiglione a Expo, oggi il dibattito sui finti poveri e gli sprechi dei fondi per l’assistenza alle famiglie da parte del comune di Roma.

E dagli autobus ai bar, ai giornali, ai social e ai talk show televisivi, c’è un copione che si ripete in maniera pressoché identica: gli zingari sono un problema e giustificano spesso qualsiasi affermazione.

Solo lo scorso marzo per esempio l’eurodeputato della Lega Nord Gianluca Buonanno ha definito i rom ” la feccia della società“, guadagnandosi numerosi applausi dal pubblico di Piazza Pulita. Intervistato ai microfoni della Zanzara, il sindaco di Albettone (Vicenza) Joe Formaggio, ha recentemente dichiarato che se ci fosse un’invasione di rom, li aspetterebbe “con i fucili spianati al confine del paese.”

Sempre poche settimane fa, durante la trasmissione Mattino 5, sono state intervistate due ragazze rom del campo di Castel Romano. Nel servizio le due confessavano di rubare “sulla metropolitana di Roma” e guadagnare anche mille euro al giorno, fregandosene delle vecchiette—”tanto poi muoiono.”

Pochi giorni dopo, la trasmissione Servizio Pubblico ha diffuso un filmato in cui una delle due ragazzine confessa di aver ricevuto 20 euro dalla giornalista di Mattino 5 “per dire queste cose.” La ragazza si è giustificata dicendo che, quando è stata fermata dalla troupe di Canale 5, aveva fumato erba. Vero o no, è innegabile la certa soddisfazione provocata dal primo video, che pubblicato sulla sua pagina da Matteo Salvini aveva scatenato una slavina di commenti razzisti (alimentati in parte anche dalle sue affermazioni sulla necessità di radere al suolo i campi).

Ma se questo è quello che ci propongono politica e media, è anche vero che nonostante se ne faccia un gran parlare gli italiani dei rom sanno poco o niente. Secondo i dati raccolti dal Pew Research Center e pubblicati a maggio del 2014, infatti, i rom sono la minoranza più discriminata in Europa e d’Italia.

Secondo l’indagine dell’Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione (ISPO) di qualche anno fa, però, solo lo 0,1 per cento degli intervistati ha dimostrato di avere una conoscenza base di rom e sinti. La maggior parte dei cittadini ha informazioni parziali o molto limitate, mentre il 42 per cento non sa praticamente nulla.

Il fatto che ci sia tutta questa disinformazione non è senza conseguenze. Come si legge in un’indagine dell’associazione Naga “c’è una connessione tra quello che dei rom non si dice e l’immagine che ne emerge. Più i rom sono lontani dalla nostra conoscenza diretta, più è facile pensare a loro in base a stereotipi”.

Per capire quanto questo sia vero, ho raccolto alcune delle incrollabili certezze che si sentono più spesso dire in giro quando si parla di rom.

“L’ITALIA È INVASA DAGLI ZINGARI”

Tra migranti, potenziali terroristi e stranieri di ogni provenienza, una delle più grandi paure nostrane è che il suolo italico venga invaso. Per quanto riguarda i rom, è radicata la convinzione che questi siano già “troppi”.

Secondo una ricerca del Ministero dell’Interno, il 35 per cento degli italiani pensa che i rom nel nostro paese siano molti più di quanti sono in realtà. L’8 per cento è convinto che il numero si aggiri intorno ai 2 milioni. La verità è che sono 10 volte di meno.

I rom sono la minoranza più consistente in Europa: nell’Ue vivono circa 9-10 milioni (il 2 percento della popolazione totale), anche se è difficile avere stime ufficiali. Nel nostro paese, però, ne vivono tra i 120 mila e 180 mila, una delle percentuali più basse..

“DEVONO TORNARSENE A CASA LORO”

Questa frase è un evergreen della “lotta allo straniero”. Solo che con i rom risulta un po’ complicato. Circa la metà ( 70mila) dei rom e sinti presenti nel nostro paese ha la cittadinanza italiana. Un dato che in Emilia Romagna arriva fino al 95,9 percento della popolazione rom. Ci sono gruppi romanì presenti in Italia da oltre sei secoli, soprattutto al sud, e sinti di recente insediamento, cittadini italiani, residenti soprattutto al centro nord. La maggior parte di loro, dunque, è già “a casa sua”.

La minoranza di rom di recentissima immigrazione è arrivata in Italia con le guerre balcaniche. Sono profughi senza documenti validi, per lo più apolidi, i cui figli sono nati in Italia. Altri, invece, sono romeni e bulgari, quindi cittadini comunitari regolari.

“SONO NOMADI E VOGLIONO STARE NEI CAMPI”

Secondo il rapporto dell’Associazione 21 luglio, solo il 3 percento dei rom presenti in Italia “risulta perseguire uno stile di vita effettivamente itinerante”. La quasi totalità vive stabilmente in un posto. Nonostante siano considerati il segno più visibile della presenza dei rom, solo in 40 mila vivono nei campi.

Il presupposto che non vogliano una casa non è così corretto e pacifico. Semplicemente, spesso non riescono ad averla, intrappolati nella dinamica del ghetto. D’altra parte, ogni volta che si paventa l’ipotesi di includere queste persone in politiche abitative, succede il finimondo.

“CI COSTANO UN SACCO DI SOLDI”

Questo è vero. Ma dipende dal fatto che l’Italia non riesce a uscire dalla logica dei campi. Secondo il rapporto Centri di raccolta s.p.a. curato dall’Associazione 21 Luglio, nel 2014 il Comune di Roma ha speso il 30 percento in più del 2013 per 242 famiglie rom, ma le prospettive di integrazione rimangono a zero. Oltre il 90 percento delle risorse investite ogni anno dal comune, infatti, riguarda i costi di gestione e amministrazione, mentre ben poco rimane per l’inclusione e le politiche sociali. Secondo alcune stime, ogni sgombero costa mille euro per persona.

Insomma, segregare costa e per qualcuno è un grosso affare che giova anche a cooperative e associazioni. Del resto, Salvatore Buzzi in un’intercettazione dell’inchiesta Mafia Capitale lo diceva chiaro: “Noi quest’anni abbiamo chiuso con quaranta milioni ma tutti i soldi utili li abbiamo fatti sugli zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero.”

“SONO SPORCHI”

Per quanto riguarda i circa 40 mila rom dei campi, il rapporto 2014della 21 Luglio sottolinea come buona parte di questi insediamenti rientri “nella definizione di ‘baraccopoli’ adottata dalla UN-HABITAT delle Nazioni Unite.” Sono luoghi spesso al di fuori del tessuto urbano con scarsi, se non assenti, collegamenti con il trasporto pubblico. “I già carenti servizi e infrastrutture presenti nei campi risultano spesso deteriorati dall’usura e/o dal dimensionamento inadeguato, traducendosi in condizioni igienico sanitarie spesso critiche, di cui topi e scarafaggi sono un inequivocabile indicatore.”

“PORTANO VIA I BAMBINI”

Esiste una leggenda che racconta di una bambina sparita in un centro commerciale e ritrovata in bagno con i capelli rasati sotto la gonna di una zingara. È una storiella universale, successa in tutti i comuni italiani a un’amica della cugina di una conoscente.

Una ricerca dell’università di Verona del 2008 ha dimostrato che sui 30 casi riportati dall’Ansa fra 1985 e il 2007 non esistono episodi di rapimento di minori a opera di un gruppo rom. Tra i casi più recenti, inoltre, non sono mancate le smentite.

Secondo il rapporto ” Mia Madre era rom“, invece, un minore rom, rispetto a un suo coetaneo che non lo è, ha 60 possibilità in più di essere segnalato alla procura della Repubblica presso il tribunale per i minorenni e circa 50 possibilità in più che per lui venga aperta una procedura di adottabilità.

Alberto Prunetti ha riportato su Carmilla la storia di Elviza M., bambina rom del campo Casilino 700, che il 14 giugno 1999 “fu tolta ai genitori—sulla base del presupposto che l’avessero rubata: ‘troppo bella per essere una zingara’, dissero le autorità, guardando gli occhi celesti della bambina, lontani dallo stereotipo del rom scuro.” Il padre dovette correre dalla Romania e presentarsi al tribunale per mostrare ai giudici di avere gli occhi azzurri. È una storia molto simile a quella accaduta in Grecia nel 2013, che in Italia ha scatenato un’isteria collettiva senza precedenti.

“HANNO UN SACCO DI AGEVOLAZIONI E PRIVILEGI”

Non esistono leggi che garantiscano un sostegno economico ai rom. Chi ne parla si riferisce in maniera distorta alla legge 390 del 1992, che permetteva ai Comuni che ospitavano persone in fuga dalla ex Jugoslavia di avere dei fondi da utilizzare per borse lavoro o gestione delle strutture abitative. Nessun profugo ha mai avuto accesso a questi finanziamenti, riservati ai Comuni.

Secondo un’indagine condotta dall’European Union Agency for Fundamental Rights un rom su tre è disoccupato, il 20 per cento non ha copertura sanitaria e il 90 percento vive al di sotto della soglia di povertà. D’altro canto, in Italia si è sviluppata anche una classe media, spesso costretta a celare o dissimulare la propria origine per evitare ripercussioni.

SFRUTTANO I BAMBINI”

Lo stereotipo vuole i minori rom sfruttati come mendicanti in metropolitana e picchiati se non portano abbastanza denaro. Secondo ParlareCivile, “quello che emerge è che l’isolamento delle comunità rom segregate nei campi conserva la vecchia mentalità.” Nei campi rom “esiste ancora l’uso dei minori in attività di acquisizione del reddito per la famiglia. Un esempio è chiedere l’elemosina, il ‘mangèl’(…) Quando una comunità rom si arricchisce questa pratica viene abbandonata, il che significa che la mendicità è senz’altro legata alle condizioni economiche delle famiglie.”

È anche un circolo vizioso: più li teniamo nella marginalità, più i bambini rom continuano ad avere solo l’1 percento di probabilità di frequentare la scuola superiore e il 20 per cento di probabilità di non cominciare affatto un percorso scolastico regolare.

“RUBANO E DELINQUONO PER CULTURA”

Circa due mesi fa, il tribunale civile di Roma ha condannato la casa editrice Simone, ordinando il ritiro dal mercato di un libro di diritto penale rivolto ad aspiranti avvocati in cui veniva associato il termine zingaro alla commissione di reati. Questo caso è, probabilmente, il punto d’arrivo di una delle convinzioni più ferme degli italiani sui rom: rubano, tutti. Recentemente, Daniela Santanché ha dichiarato di avere paura “quando si avvicina una zingara”, perché “il furto ce l’hanno nell’animo”.

Non esistono dati che certifichino una maggiore incidenza di furti e crimini nella popolazione rom rispetto al resto dei cittadini, se non il fatto che nella marginalità si delinque più facilmente. Ma è un discorso applicabile anche ai quartieri più disagiati delle nostre città. Esiste, piuttosto, secondo l’Unar, una “generalizzata tendenza a legare all’immagine dei rom e dei sinti, ogni forma di devianza e criminalità”.

L’associazione Naga ha realizzato tra il 2012 e il 2013 un monitoraggio dei 9 maggiori giornali italiani da cui è emerso che sulla stampa i rom vengono sistematicamente associati a fatti o eventi dannosi. Questo avviene riportando “comportamenti che possono essere considerati negativi, ma che non sono reati” (tipo lavarsi a una fontanella), o anche del tutto neutri (come semplicemente passare in un luogo) ma “associati a toni allarmistici come fossero eventi gravissimi”; oppure raccontando “fatti negativi a cui si associano i rom, anche se il loro coinvolgimento non è provato, non è indicato da indizi e neanche citato esplicitamente”.

Secondo l’indagine, “lo stereotipo è talmente radicato che ha raggiunto il livello ontologico: non serve compiere nessuna azione

image_pdfimage_print

“siamo schiavi dl marketing e della pubblicità che ci rendono infelici”

Latouche: "L'economia ha fallito, il capitalismo è guerra, la globalizzazione violenza"

per Serge Latouche l’economia ha fallito, il capitalismo è guerra e la globalizzazione violenza

il teorico della decrescita felice interviene al Bergamo Festival: “Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio”. E poi critica l’Expo: “E’ la vittoria delle multinazionali, non certo dei produttori. Serve un passo indietro, siamo ossessionati dall’accumulo e dai numeri”
di GIULIANO BALESTRERI
  

Di più: la decrescita felice è una delle strade che portano alla pace. E Latouche ne parlerà il 12 maggio al Bergamo Festival (dall’8 al 24 maggio) dedicato al tema “Fare la pace”, anche attraverso l’economia. L’economista francese, in particolare, si concentrerà sulla critica alle dinamiche del capitalismo forzato che allarga la distanza fra chi riesce a mantenere il potere economico e chi ne viene escluso. Ecco perché, secondo Latouche, la decrescita sarebbe garanzia e compensazione di una qualità della vita umana da poter estendere a tutti. Anche per questo “considerare il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione. Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio”.

Abbiamo sempre pensato che la pace passasse per la crescita e che le recessioni non facessero altro che acuire i conflitti. Lei, invece, ribalta l’assioma.
Fa tutto parte del dibattito. Per anni abbiamo pensato proprio che la crescita permettesse di risolvere più o meno tutti i conflitti sociali, anche grazie a stipendi sempre più elevati. E in effetti abbiamo vissuto un trentennio d’oro, tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni Settanta. Un periodo caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di un’intensità senza precedenti. Poi è iniziata la fase successiva, quella dell’accumulazione continua, anche senza crescita. Una guerra vera, tutti contro tutti.

Una guerra?
Sì, un conflitto che ci vede contrapposti gli uni agli altri per accumulare il più possibile, il più rapidamente possibile. E’ una guerra contro la natura, perché non ci accorgiamo che in questo modo distruggiamo più rapidamente il pianeta. Stiamo facendo la guerra agli uomini. Anche un bambino capirebbe quello che politici ed economisti fingono di non vedere: una crescita infinita è per definizione assurda in un pianeta finito, ma non lo capiremo finché non lo avremo distrutto. Per fare la pace dobbiamo abbandonarci all’abbondanza frugale, accontentarci. Dobbiamo imparare a ricostruire i rapporti sociali.

Un cambio rotta radicale. Sapersi accontentare, essere felici con quello che si ha non è certo nel dna di una società improntata sulla concorrenza. 
E’ evidente che un certo livello di concorrenza porti beneficio a consumatori, ma deve portarlo a consumatori che siano anche cittadini. La concorrenza non deve distruggere il tessuto sociale. Il livello di competitività dovrebbe ricalcare quello delle città italiane del Rinascimento, quando le sfide era sui miglioramenti della vita. Adesso invece siamo schiavi del marketing e della pubblicità che hanno l’obiettivo di creare bisogni che non abbiamo, rendendoci infelici. Invece non capiamo che potremmo vivere serenamente con tutto quello che abbiamo. Basti pensare che il 40% del cibo prodotto va direttamente nella spazzatura: scade senza che nessuno lo comperi. La globalizzazione estremizza la concorrenza, perché superando i confini azzera i limiti imposti dalla stato sociale e diventa distruttiva. Sapersi accontentare è una forma di ricchezza: non si tratta di rinunciare, ma semplicemente di non dare alla moneta più dell’importanza che ha realmente.

I consumatori però possono trarre beneficio dallo concorrenza.
Benefici effimeri: in cambio di prezzi più bassi, ottengono salari sempre più bassi. Penso al tessuto industriale italiano distrutto dalla concorrenza cinese e poi agli stessi contadini cinesi messi in crisi dall’agricoltura occidentale. Stiamo assistendo a una guerra. Non possiamo illuderci che la concorrenza sia davvero libera e leale, non lo sarà mai: ci sono leggi fiscali e sociali. E per i piccoli non c’è la possibilità di controbilanciare i poteri. Siamo di fronte a una violenza incontrollata. Il Ttip, il trattato di libero scambio da Stati Uniti ed Europa, sarebbe solo l’ultima catastrofe: il libero scambio è il protezionismo dei predatori.

Come si fa la pace?
Dobbiamo decolonizzare la nostra mente dall’invenzione dell’economia. Dobbiamo ricordare come siamo stati economicizzati. Abbiamo iniziato noi occidentali, fin dai tempi di Aristotele, creando una religione che distrugge le felicità. Dobbiamo essere noi, adesso, a invertire la rotta. Il progetto economico, capitalista è nato nel Medioevo, ma la sua forza è esplosa con la rivoluzione industriale e la capacità di fare denaro con il denaro. Eppure lo stesso Aristotele aveva capito che così si sarebbe distrutta la società. Ci sono voluti secoli per cancellare la società pre economica, ci vorranno secoli per tornare indietro.

Oggi preferisce definirsi filosofo, ma lei nasce come economista.
Sì, perché ho perso la fede nell’economia. Ho capito che si tratta di una menzogna, l’ho capito in Laos dove la gente vive felice senza avere una vera economia perché quella serva solo a distruggere l’equilibrio. E’ una religione occidentale che ci rende infelici.

Eppure ai vertici della politica gli economisti sono molti.
E infatti hanno una visione molto corta della realtà. Mario Monti, per esempio, non mi è piaciuto; Enrico Letta, invece, sì: ha una visione più aperta, è pronto alla scambio. Io mi sono allontanato dalla politica politicante, anche perché il progetto della decrescita non è politico, ma sociale. Per avere successo ha bisogno soprattutto di un movimento dal basso come quello neozapatista in Chiapas che poi si è diffuso anche in Ecuador e in Bolivia. Ma ci sono esempi anche in Europa: Syriza in Grecia e Podemos in Spagna si avvicinano alla strada. Insomma vedo molto passi in avanti.

A proposito, Bergamo è vicina a Milano. Potrebbe essere un’occasione per visitare l’Expo.
Non mi interessa. Non è una vera esposizione dei produttori, è una fiera per le multinazionali come Coca Cola. Mi sarebbe piaciuto se l’avesse fatto il mio amico Carlo Petrini. Si poteva fare un evento come Terra Madre: vado sempre a Torino al Salone del Gusto, ma questo no, non mi interessa. E’ il trionfo della globalizzazione, non si parla della produzione. E poi non si parla di  alimentazione: noi, per esempio, mangiamo troppa carne. Troppa e di cattiva qualità. Ci facciamo male alla salute. Dovremmo riscoprire la dieta meditterranea. Però, nonostante tutto, sul fronte dell’alimentazione vedo progressi. Basti pensare al successo del movimento Slow Food.

image_pdfimage_print

rom e sinti contro chi elabora soluzioni ‘per loro’ ma ‘senza loro’

LA CAMPAGNA DELL’ASSOCIAZIONE 21 LUGLIO CONTRO LE LEGGI REGIONALI PER O CONTRO ROM E SINTI ?

rom Torre del Lago

 

 

 

la ‘Federazione nazionale Rom e Sinti ‘, in rappresentanza di 27 associazioni costituite da Rom e Sinti, esprime le proprie riserve verso quelle Associazioni – in specie la ’21 luglio’ – che pretendono di risolvere i problemi offerti dai ‘campi nomadi’ o ‘campi rom’ a partire da criteri unilaterali e generalizzanti e a prescindere da un vero dialogo con le popolazioni che abitano tali aree per ascoltare le varie singole esigenze: anche a fin di bene, “commettono lo stesso errore che pretendono di correggere”:

credere di far bene

 

L’associazione ’21 luglio’ commette lo stesso errore che pretende di correggere. Tutti i Rom e Sinti sono uguali: o sono tutti nomadi o sono tutti stanziali. La realtà è molto diversa e ben lo sanno Rom e Sinti stessi e le loro associazioni.

Le leggi regionali non si possono mettere tutte in un calderone e buttar via. Certo sono nate in tempi diversi dagli attuali, rispecchiano esigenze in parte diverse dalle attuali, ma una questione così importante e delicata meriterebbe almeno un dibattito e un approfondimento serio tra Rom e Sinti prima di fare qualsiasi proposta. Le diverse comunità di Rom e Sinti non hanno le medesime esigenze. Il mondo dello spettacolo viaggiante dei Sinti merita una attenzione particolare, così come i Sinti della MEZ che non trovano ospitalità dai Comuni, o i Camminanti che vengono al Nord e non trovano aree attrezzate, infine perfino l’idea stessa di famiglia, di comunità dei Rom e dei Sinti è profondamente diversa da quella della popolazione maggioritaria.

Tra l’altro una campagna come quella proposta da 21 luglio non tiene conto del problema fondamentale: le comunità rom e sinte di questo paese per affrontare e risolvere il problema dei campi nomadi, quelli costruiti alle periferie fisiche e spirituali delle città italiane, hanno bisogno di risolvere prima di tutto il problema dell’emarginazione sociale ed economica che le perseguita. Non è un caso che le stesse comunità, sia dei campi regolari, sia di quelli spontanei sviluppino forme di solidarietà e di mutuo sostegno che la dispersione delle famiglie renderebbe impossibile.

Infine e soprattutto le soluzioni, qualunque esse siano, devono essere costruite insieme a noi e non per noi. Come diceva Gandhi: chi fa qualcosa per me senza di me è contro di me. Un difetto di presunzione che caratterizza in fondo tutte le associazioni non rom che si occupano di Rom e Sinti: pensano di spiegarci come si deve vivere, ma non chiedono il nostro parere. Sintomatica e grave è stata l’iniziativa di 21 luglio sulla legge di riconoscimento della minoranza rom e sinti organizzata a Roma il 17 settembre con tanto di ministro Kyenge, di presidente di commissione per i diritti umani del Senato e altri illustri personaggi: aveva solo un difetto non c’era neppure un rom o un sinto che potesse dire la sua. Noi non ci sentiamo e non siamo inferiori, abbiamo la nostra cultura, le nostre tradizioni, abbiamo il nostro punto di vista sulla vita e sul mondo. È ora che tutti quelli che si occupano di noi ne tengano conto e soprattutto ci facciano i conti.

La Comunità europea nelle sue direttive e nei suoi programmi mette al primo posto la partecipazione di Rom e Sinti e la stessa Strategia nazionale, costruita con un confronto con le nostre federazioni, ha saputo tener conto delle diverse articolazioni che il nostro mondo rappresenta.

Quindi prima di lanciare campagne a senso unico, confrontatevi con noi e forse riusciremo a fare cose più utili per le nostre comunità.

Altrimenti con amarezza possiamo dire che lavorate contro di noi e che non è una grande novità.

La Federazione nazionale Rom e Sinti insieme

in rappresentanza di 27 associazioni costituite da Rom e Sinti

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi