quasi 600 preti americani chiedono aperture su gay e divorziati

 

gay e divorziati risposati

572 preti americani chiedono aperture

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 È da pochi giorni scaduto il termine per la consegna delle risposte al questionario voluto dal Vaticano in vista del Sinodo ordinario di ottobre, ed entro l’estate – quando sarà pubblicato l’Instrumentum laboris – sapremo se e come hanno influito sul documento di lavoro gli interventi di quanti tra vescovi, congregazioni religiose, comunità e singoli fedeli, in questi mesi hanno voluto dire la loro in materia di famiglia, accogliendo l’invito della Segreteria Generale del Sinodo (v. Adista Notizie nn. 1, 6 e 13/15; Adista Documenti n. 8/15; Adista Segni nuovi nn. 1, 9, 11, 13 e 15/15).

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Se lo scorso mese ben 500 preti inglesi sono scesi in campo – con una lettera pubblicata sul settimanale Catholic Herald (v. Adista Notizie n. 13/15) – per esprimere l’auspicio che il Sinodo produca «una proclamazione chiara e ferma» a sostegno della dottrina della Chiesa sul matrimonio, il 10 aprile scorso altrettanti, ma a partire dall’altra sponda dell’Oceano, hanno fatto lo stesso, dando corpo però a una serie di suggerimenti che vanno nella direzione opposta a quella auspicata oltre Manica. Il documento diffuso dall’Association of U.S. Catholic priests (Auscp) raccoglie le risposte pervenute da 572 sacerdoti statunitensi (428 membri dell’associazione – che conta nel suo complesso più di mille aderenti – e 144 esterni) cui è stato chiesto, oltre che di rispondere alle 46 domande del questionario, di ordinarle per importanza.

Il primo posto se l’è conquistato la domanda n. 20 – «Come aiutare a capire che nessuno è escluso dalla misericordia di Dio e come esprimere questa verità nell’azione pastorale della Chiesa verso le famiglie, in particolare quelle ferite e fragili?» – nel rispondere alla quale i preti Usa preannunciano il tenore di tutto il documento: «Non presumendo che chi è nella Chiesa sia nella ragione e chi ne è al di fuori sia nel torto»; «accogliendo anziché rifiutando e discriminando i cattolici divorziati risposati e omosessuali»; «rispettando il primato della coscienza in caso di dilemmi morali», vi si legge tra le altre cose.

Al secondo posto i 572 piazzano la domanda sulla questione ritenuta più delicata, quella relativa alla pastorale rivolta alle famiglie che hanno al loro interno persone con «tendenza omosessuale». Per i preti Usa la comunità cristiana può assolvere a questo compito «offendo una teologia della sessualità nuova e sana»; «apprezzando il valore delle unioni civili gay»; riconsiderando l’idea che il sesso sia legato per forza alla procreazione; trattando gli omosessuali come sorelle e fratelli «con lo stesso desiderio di amore, impegno e cura dei bambini»; «usando una terminologia moderna», per esempio, suggeriscono, utilizzando “orientamento omosessuale” al posto di “tendenze omosessuali”. I sacerdoti sono ancora più netti nel rispondere alla domanda relativa a come «prendersi cura delle persone in tali situazioni alla luce del Vangelo»: «Istituendo un rito specifico per le unioni dello stesso sesso», è uno dei suggerimenti forniti, corredato dall’invito a «mettere in discussione l’assunto per cui Dio desidera solo l’unione uomo-donna» in risposta alla domanda seguente («Come proporre loro le esigenze della volontà di Dio sulla loro situazione?»). 

Altrettanto nette le risposte relative alla pastorale sacramentale nei riguardi dei divorziati risposati, come lasciava prevedere il primo blocco di risposte: i 572 suggeriscono infatti, tra le altre cose, di riammetterli all’eucarestia, «nutrimento per vivere vite fedeli e di amore da parte di coppie in un nuovo matrimonio».

I preti Usa suggeriscono poi di «prendere coscienza del fatto che il dogma della Chiesa in materia di matrimonio e famiglia è troppo rigido», consigliando addirittura di «imparare dai protestanti che fanno un lavoro migliore nell’applicare i valori scritturistici alla famiglia»; di «favorire un grande coinvolgimento dei laici nella catechesi e nel ministero»; di «assicurarsi che coloro che vengono ordinati capiscano che non per questo sono automaticamente qualificati per l’attività pastorale relativa al matrimonio»; di far comprendere ai ministri che coppie e famiglie in serie difficoltà devono essere affidate a specialisti; di «ordinare uomini sposati al sacerdozio e donne sposate al diaconato: potrebbero meglio esercitare il ministero con le famiglie»; di «non cercare di incasellare relazioni amorose e feconde nel modello dottrinale della Chiesa».

«Dio dalle nostre vite non si aspetta la perfezione», è uno dei commenti raccolti dall’Auscp e proposto in calce al documento insieme ad altri. «Noi viviamo con i nostri punti di forza e di debolezza. Facciamo degli errori. La grazia è la misericordia di Dio che ci circonda, con il perdono e la forza di muoverci in una direzione che ci avvicina a Dio. Dobbiamo incoraggiare questo movimento, piuttosto che punire le persone che non raggiungono la perfezione!». (ingrid colanicchia su Adista)

 

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il vangelo della domenica

IL BUON PASTORE DA LA PROPRIA VITA PER LE PECORE 

commento al vangelo della quarta domenica di pasqua (26 aprile 2015) di P. Alberto Maggi:

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Gv 10,11-18

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

L’immagine di Gesù come Buon Pastore  è indubbiamente quella più conosciuta e più amata dai cristiani, una immagine carica di tanti, tanti significati. Eppure è strano che quando Gesù si presenta come tale, come Buon Pastore, i capi giudei si arrabbiano con lui, lo ritengono un pazzo e alla fine cercheranno di lapidarlo. Siamo noi che abbiamo capito tutto di questa immagine o sono stati i giudei che hanno capito e l’hanno rifiutata?
Vediamo cosa ci dice l’evangelista Giovanni. Anzitutto Gesù si presenta rivendicando la pienezza della condizione divina. Quando nel Vangelo di Giovanni Gesù afferma “Io sono”, questo rappresenta il nome divino. Quando Mosè nel famoso episodio del roveto ardente chiese a quell’entità che si manifestava, il nome, Dio non rispose dando il nome, perché il nome delimita una realtà, ma rispose dando un’attività che lo rende riconoscibile. Rispose “Io sono colui che sono”. E la tradizione ebraica ha sempre interpretato questa espressione, questa risposta del Signore come colui che è sempre vicino al suo popolo. Al tempo di Gesù, quindi,  con l’espressione “Io sono” si indicava Dio. Allora Gesù rivendica la condizione divina.

E afferma: “Io sono” – non Il Buon Pastore – ma “il Pastore Buono”. Qual è la differenza? L’evangelista non sta parlando della bontà di Gesù, quando l’evangelista si deve riferire alla bontà di Gesù adopera il termine greco “agatos” (Agatos), da cui il nome Agata, che significa ‘bontà’.
Qui, invece Gesù, dichiara che lui è il Pastore, ed usa il termine greco “kalos”, da cui calligrafia, bella scrittura, che significa ‘il bello’, che significa ‘il vero’. Quindi Gesù non sta indicando la sua bontà, ma sta indicando qualcosa di diverso, qualcosa di più importante. Cosa significa il Pastore Vero? C’era stata una profezia nel Libro di Ezechiele, al cap. 34, dove il Signore rimproverava i pastori del popolo, perché, anziché prendersi cura del gregge, pensavano soltanto a loro stessi. E allora, li minaccia il Signore, “verrà un tempo in cui io stesso mi prenderò cura del mio gregge”. Quindi il Signore sarà l’unico vero pastore del popolo. Ebbene, dichiara Gesù, questo momento è arrivato. Ecco perché questo suscita le ire dei capi religiosi, perché si sentono spodestati da Gesù, che li chiama ladri, si sono impadroniti di ciò che non è loro, il gregge, e omicidi.
Allora, il Pastore, quello vero, quello ‘per eccellenza’ è identificato da Gesù nella sua persona. E qual è la caratteristica che lo rende riconoscibile come il Pastore Vero? Dice Gesù che “da la vita per le pecore”. Allora qui Gesù supera la profezia di Ezechiele. Mentre per il Profeta Ezechiele il pastore proteggeva, si prendeva cura del suo gregge, con Gesù il pastore arriva al punto di dare la vita per le sue pecore, quindi si supera.
Poi Gesù continua la figura del pastore a quello che non considera come un cattivo pastore, ma un mercenario. Chi è il mercenario? Il mercenario è colui che agisce per proprio tornaconto. L’evangelista, lo ricordiamo sempre, in queste pagine non entra in polemica con un mondo, quello ebraico, nel quale la comunità cristiana si è ormai irrimediabilmente separata, distaccata, ma è un monito per la comunità cristiana affinché non ripeta gli stessi errori. Quindi nella comunità cristiana, chi agisce esclusivamente per il proprio interesse, per il proprio tornaconto, per il proprio prestigio, Gesù non gli riconosce nessun titolo, nessuna carica, se non quella di essere il mercenario.
Questa espressione “io sono” viene ripetuta in questo Vangelo, in questo brano, per ben tre volte – il numero tre, secondo la simbologia ebraica, significava ciò che è completo. Quindi Gesù rivendica la pienezza della condizione divina e il suo essere Pastore. Perché Gesù può affermare di essere Pastore? Perché lui è l’Agnello. Solo chi è disposto a dare la vita per gli altri, questi può essere il Pastore del gregge. E, dichiara Gesù, che lui “conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui”. Qual è il significato di questa espressione? C‘è una comunicazione intima, crescente, traboccante d’amore tra Gesù e il suo gregge, cioè tra Gesù e i suoi discepoli, i credenti, che è simile – dice Gesù – a quella del Padre con lui.
“Così come il Padre conosce me, io conosco il Padre e do la mia vita per le pecore”. C’è una dinamica di un amore ricevuto da Dio, che si trasforma in amore comunicato agli altri. Più questa misura di amore ricevuto e comunicato è crescente, più si arriva a realizzare un’unica realtà di un Dio che non assorbe le energie degli uomini ma che comunica loro le sue, un Dio che si vuol fondere con l’uomo per dilatarne l’esistenza e farne l’unico vero santuario. Infatti, dichiarerà Gesù tra poco, “Le altre pecore che non provengono da questo recinto… “. Gesù è venuto a liberare le persone, cos’è il recinto? Il recinto è   qualcosa che ti da sicurezza, però ti toglie la libertà. Allora Gesù dichiara che lui è venuto a portare un processo di liberazione crescente per l’umanità che non riguarda soltanto le persone che sono rinchiuse nel recinto della religione, ma in tutti quei recinti che impediscono la libertà.
Allora afferma Gesù “Ho altre pecore che non provengono da questo recinto, – lui è venuto a liberare le pecore dal recinto dell’istituzione giudaica – “anche quelle io devo guidare”. Il verbo ‘dovere’ è un verbo tecnico adoperato dagli evangelisti che indica il compimento della volontà divina. Quindi è volontà di Dio un processi di liberazione. La religione ha un fascino perché ti da sicurezza però ti toglie la libertà. Ti da sicurezza perché quando entri nell’ambito della religione devi soltanto obbedire, devi soltanto osservare, ma questo ti mantiene in una condizione infantile, di immaturità; invece Gesù vuole portare la persona alla piena maturità, alla piena crescita.
“Ascolteranno la mia voce”, la voce del Signore non si impone mai, ma si propone. Come si fa a distinguere la voce del Signore? Mentre le autorità religiose, siccome sono le prime a non credere nel loro messaggio, lo devono imporre, Gesù, che è cosciente che il suo messaggio è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di vita che ogni persona si porta dentro, gli basta offrirlo, e le pecore, il gregge, i credenti, questo lo capiscono.
“E diventeranno un gregge e un pastore”. In passato, per un errore proprio di traduzione, per aver confuso il termine ‘recinto’, ‘ovile’, probabilmente ad opera di S. Girolamo, la traduzione latina era “un solo ovile e un solo pastore”. Di qui la pretesa della Chiesa per secoli, per tanti e tanti secoli, fino al Concilio Vaticano II, di essere l’unico ovile nel quale c’era la salvezza. Da qui lo slogan ‘fuori dalla Chiesa non c’è salvezza’.
Gesù non è venuto a togliere le persone e le pecore dall’ovile, Israele, per rinchiuderle in un altro recinto più sacro, più bello. No! Gesù è venuto a dare la piena libertà: Un gregge, un Pastore. Cosa vuol dire Gesù? L’unico vero santuario nel quale da ora in poi si manifesterà la grandezza e lo splendore dell’amore di Dio, sarà Gesù e la sua comunità. Mentre nell’antico santuario le persone dovevano andare e molte ne erano escluse, nel nuovo santuario, è il santuario stesso che andrà in cerca degli esclusi dalla religione.

 

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un piano vergognoso per gli immigrati

Fondazione Migrantes: “Piano Ue per l’emergenza immigrati è vergognoso”

la Fondazione Migrantes della C.E.I.: “Il piano in 10 punti approvato dell’Ue è assolutamente debole e per certi versi vergognoso”

“Ancora una volta – denuncia il prelato – si pensa di contrastare i trafficanti e non tutelare le persone attraverso i canali umanitari, un piano sociale europeo nei paesi di arrivo dei profughi e migranti, la cooperazione locale”.

“Parole come affondare, distruggere, respingere, senza che siano accompagnate da parole come tutelare, salvare, accogliere, non hanno prospettiva”, ha detto il direttore della Fondazione Migrantes. “L’aspetto importante – ha spiegato – è contrastare i trafficanti, come già faceva ’Mare Nostrum’, ma al tempo stesso non dimenticare che ci sono vite da salvare. Se è vero che occorre un piano internazionale di intervento nel Nord Africa, deve essere di pace, di messa in sicurezza delle persone e di una collaborazione con tutte le realtà e le forze locali per combattere i trafficanti”.

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la vita: un grande dono; il rito: la sua celebrazione

 

la vita:un’avventura meravigliosa

tutto inizia da qui: la nascita

 

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benvenuto nel nostro mondo!

 

benvenuto fra di noi a fare più bella

   questa nostra famiglia umana !

 

TI FACCIAMO FIN DA ORA GLI AUGURI PIU’ BELLI PERCHE’ TU POSSA TROVARTI BENE TRA DI NOI

TI AUGURIAMO DI POTER CRESCERE NEL CORPO, NELL’ANIMO E NEL CUORE FINO A ADARE IL MEGLIO DI TE

LA VITA TI REGALA FIN DA ORA TANTI DONI CHE ORA SONO PICCOLISSIMI DENTRO DI TE COME DEI PICCOLI SEMINI CHE ATTENDONO DI SVILUPPARSI E CRESCERE PER DARE TUTTI I LORO FRUTTI

CON L’AIUTO DEI TUOI GENITORI MA ANCHE DI TUTTE LE TUE AMICHE E AMICI POTRAI IMPEGNARTI IN QUESTA AVVENTURA CHE SARA’ BELLISIMA SE CI METTERAI TUTTO IL TUO IMPEGNO

 

 

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buona crescita!
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festa di compleanno

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TANTI AUGURI A TE

  TANTI AUGURI FELICI

   TANTI AUGURI A TE!

 

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“ti vogliamo bene”

ti vogliamo bene

 

 

 

 

 

 

te lo diciamo anche con la musica e il canto

 

 

 

 

 

auguri

 

 

tanti tanti di questi auguri, tanti tanti di questi anni!

infatti uno dopo l’altro passano i nostri anni tutti preziosi per fare le esperienze più belle e rendere sempre più bella e ricca di talenti la nostra vita

e gli anni passano a volte lenti come una lumachina, a volte veloci come un treno per darci l’opportunità di crescere: si nasce e si vive per crescere

 

LA VITA E’ IL LUOGO DELLA CRESCITA

  CRESCE IL CORPO MA DEVE

   CRESCERE ANCHE LA MENTE

 

 

 

 

 

 

 

panino

 

 

 

il corpo cresce mangiando tanto

la mente cresce frequentando la scuola:

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dalla scuola elementare che stai frequentando fatta apposta per quelli piccoli come te

 

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alla scuola media per quelli più cresciuti
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 fino alla scuola superiore per quelli che sono ormai quasi pronti per dare il meglio di sé nella vita

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a questo punto si diventa capaci di dare il meglio di noi avendo fatto tante esperienze e avendo imparato tante cose

siamo capaci di lavorare per fare più bello il nostro mondo e dare tutto il nostro apporto

 

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  negli uffici 

 

 

 

 

 

o nell’agricoltura

natura

 

 

 

 

o in fabbrica

 

fabbrica

 

 

 

 

cioè dove uno si sente meglio  portato per dare il proprio contributo per fare più bello il nostro mondo

 

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si forma anche una famiglia per vivere con la persona a cui vogliamo più bene tutto il nostro amore

 

perché l’amore è bello 

è la cosa più bella del mondo

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è bello dire alla persona del nostro cuore: “sei la cosa più importante per me! ti voglio donare tutta la mia vita!”

 

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 come nel terreno buono i semini nascono e crescono fino a dare i loro frutti migliori, così nell’amore nascono i figli e crescono per fare più bello il nostro mondo

 

 

ma gli anni passano, corrono, sembrano sfrecciare come treni

 e si diventa vecchietti, malati, bisognosi di assistenza e cure

 

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la vita rallenta perché ha dato già il meglio di sé e guarda in dietro in modo riflessivo per valutare quello che abbiamo fatto, come lo abbiamo fatto e quello che avremmo potuto fare

si comincia a fare un bilancio della vita

si dice in modo più consapevole il nostro grazie alla vita che ci ha dato tante opportunità  per gioire, amare, donare noi stessi per fare più bella la vite degli altri

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  e pian piano ci prepariamo quindi a dare con grande serenità il nostro saluto definitivo alla vita col cuore colmo di gioia proprio di colui che sa di avere ricevuto tanto e di avere dato tanto ed è sazio di tutti i bei giorni che ha vissuto

 

 

 

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 l’ospedale è il luogo dove curiamo le nostre malattie e torniamo guariti a continuare la nostra avventura

ma è anche il luogo dove, dopo aver consumato e vissuto tutti i nostri giorni, chiudiamo definitivamente i nostri occhi per affidarci e rituffarci nel mistero della vita da cui veniamo

 

 la vita quindi è

cammino,

avventura,

crescita:

fisica

intellettuale

affettiva

psicologica

morale

spirituale

la vita è occasione per:

amare
gioire
far festa
aprirci agli altri
dare il meglio di noi
imparare dagli altri
imparare dagli sbagli

la nostra vita sarà quello che noi vorremmo farne

può diventare il nostro capolavoro!

che cosa c’entra in tutto questo  con la prima comunione alla quale ci vogliamo preparare?

il ‘rito’ è la ‘celebrazione’ della vita e dei suoi momenti più significativi

 

nato

 

 

 

 

la nascita viene celebrata con il rito del battesimo

 

battesimo

 

 

 

 

nel battesimo presentiamo il bambino a Dio:

  • per ringraziarlo del dono grande che lui ha fatto ai genitori e a noi tutti perché un bambino o una bambina che nasce è un regalo grande che fa più bello il mondo di tutti
  • perché lo benedica riempiendolo di tutti i suoi doni
  • perché con l’aiuto di Dio cresca nell’animo e sviluppi al meglio i doni di Dio

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la crescita fisica e soprattutto la crescita spirituale del bambino viene celebrata col sacramento della cresima

 

la cresima che il bambino cresciuto riceve rende evidente attraverso il rito che comincia ad essere capace di testimoniare la sua fede e il suo amore a Dio con una vita di apertura del suo cuore agli altri, in particolare ai più bisognosi

 

 

comunione

 

 

 

come per crescere nel corpo abbiamo bisogno di mangiare, così per crescere nell’animo abbiamo necessità di alimentarsi

se una persona non mangia muore, se non alimento il mio animo il mio animo muore

prima com

 

 

 

 

 

per questo Gesù ci da un pane tutto particolare che alimenta e rende sempre più robusta la nostra vita spirituale

ci alimentiamo con questo pane col rito della prima comunione

si dice prima comunione perché dopo la prima c’è la seconda, poi la terza …

abbiamo sempre bisogno di questo pane che riceviamo nel rito o sacramento dell’eucarestia

CONFESSIONE

 

 

 

nella vita a volte succede che non ci comportiamo bene con i nostri amici e ci scappa una parola poco bella verso di loro recando loro offesa

o succede che sentiamo di non essere stati gentili e rispettosi verso i genitori facendo di testa nostra trascurando i loro consigli e suggerimenti

o sentiamo di non impegnarci bene nello studio perché preferiamo giocare e divertirci …

in questi casi sentiamo di dover chiedere scusa e perdono ai nostri amici, ai genitori e anche a Dio perché trascuriamo di far tesoro dei suoi doni: i cristiani chiedono scusa e perdono nel rito pubblico della confessione nel quale ci impegniamo advessere più buoni

CONFESSIONE1

 

 

 

chiedendo il perdono ritorniamo più amici di prima con tutti

 

MATRIM

 

 

 

il cristiano sente che i sentimenti più belli che vive nel suo cuore per la persona che ama sono il più grande dono di Dio per cui sente il bisogni di dire davanti a tutti a Dio il suo grazie più commosso

la fa in Chiesa davanti a tutta ala comunità cristiana col rito o sacramento del matrimonio perché Dio benedica questo amore e per chiedere a lui che questo grande amore non finisca mai

 

 

MATRIMONIO

 

 

 

 

 

l’amore è una cosa così grande e così bella che merita di essere celebrata con la festa più grande e più bella

MATRMO

 

 

 

 

 

non tute le persone si sposano:

  • ci sono delle persone che non sono interessate a sposarsi
  • ci sono delle persone che non si sposano perché non hanno trovato la persona giusta con cui condividere la vita
  • ci sono persone che si lasciano prendere e riempire il cuore in modo così totale e forte da alcuni valori della vita – come l’arte o la scienza o altre cose – che sentono che nel loro cuore non ci sta altro, non c’è posto per amare un’altra persona e sono contente così
  • ci sono persone che sentono che la cosa più bella del mondo, cioè l’amore, si può vivere anche in una forma più aperta e integrale impegnando tutta ala sua vita a servizio della comunità umana e cristiana, soprattutto dei più bisognosi

CONSACRAZ

 

 

 

il dedicare la vita intera a servizio della comunità cristiana avviene in modo pubblico con il rito dell’ordine sacro o sacerdozio

 

 

CONSACRAZIONE

 

in questa maniera il sacerdote rende evidente alla comunità e a Dio che da ora in avanti  i suoi bisogni, le sue esigenze, le sue necessità, il suo bene sono subordinati o meglio vengono dopo i bisogni, le esigenze, le necessità e il bene della comunità: in questa maniera esprime la sua sottomissione alla gioia e al bene degli altri

 

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i religiosi, cioè i frati e le suore, lo dicono consacrando la vita per questi ideali attraverso i tre voti, cioè le tre promesse pubbliche: obbedienza, povertà, castità

voti suore

 

 

 

 

 

unzione malati

 

 

 

la vita è un grande dono di Dio, ma è molto fragile, soggetto a malattie

 

il cristiano sa che è importante vivere anche la malattia alla luce della fede, non nel senso che le malattie ce le manda il Signore – come molti credono – perché ci siamo comportati male (Dio non fa queste cattiverie!), ma nel senso che la fragilità, la debolezza e la malattia fanno parte della nostra vita e come col rito celebriamo la vita così col rito celebriamo anche la malattia

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la malattia la celebriamo col rito o sacramento della unzione degli infermi

con questa unzione chiediamo al Signore che ci dia la forza di vivere con coraggio e serenità la nostra malattia in attesa di tornare più sani alle nostre attività quotidiane

unzione

 

 

 

 

non solo l’amore, la gioia, la salute fanno parte della vita

anche la morte fa parte della vita: il cristiano celebra la morte

con il funerale cristiano
funerale

 

 

 

 

 

fune

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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anche i frati a Expo: decisamente fuori posto!

 

 

 

A Expo nel nome di san Francesco

papa Francesco li vorrebbe nelle ‘periferie’ ma loro vanno in passerella!

Daniela Fassini

Anche i Frati Francescani di Assisi saranno all’Expo. Arte, fede cibo e spiritualità sono gli ingredienti della loro presenza che arricchirà, di volta in volta, dal Primo maggio al 31 ottobre, diversi spazi e momenti dell’Esposizione universale.

«Non potevamo mancare all’Expo perché il tema dell’alimentazione e del cibo è nello spirito francescano – spiega Roberto Pacilio della sala stampa del Sacro Convento di Assisi – San Francesco amava cantare “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra Terra, la quale ne sustenta e governa, e produuce diversi frutti con coloriti flori et herba”».

All’Expo i francescani avranno spazio e voce nel Padiglione Italia. Qui infatti saranno esposte due opere custodite nel Museo del Tesoro della Basilica di San Francesco e concesse dal Sacro Convento. Si tratta di un cofanetto-reliquiario del XVII secolo e di un dipinto del XVI secolo: San Sebastiano martire.

A questi capolavori si affianca il prezioso video su “Il restauro – la bellezza che rinasce”, con gli affreschi della Basilica che tornano a splendere dopo il terremoto del 1997. L’appuntamento clou della presenza francescana sarà poi il 6 settembre, per l’incontro “Il cibo nelle fedi religiose” al quale prenderanno parte esponenti delle diversi fedi religiose, illustrando il significato e l’importanza del cibo nelle proprie religioni.

Ad ottobre, infine, all’interno del padiglione Eataly è in programma un convegno sulla presentazione dei lavori sulla nuova illuminazione della Basilica di San Francesco d’Assisi e su come «far luce» sulle bellezze artistiche del Paese.

  

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la suora femminista contro il clericalismo e la misoginia della chiesa e a favore dei matrimoni gay

 

“Considero molto grave non permettere alle donne di rappresentare Cristo, perché cosa imparo io donna rispetto al fatto che sono una femmina?

Teresa, monaca: La Chiesa è misogina
Ma Dio è anche donna

di Roberta Trucco

«La Chiesa dice:  “La cosa più bella è rappresentare Cristo; voi donne non potete!”. Cristo si offre a noi corpo e sangue, e poi qualcuno lo può rappresentare, solo se è uomo: questo è chiaramente ingiusto e non ha senso. Non solo. Nella Chiesa c’è il clericalismo, solo i preti possono rappresentare Dio: io non sono d’accordo. Succede poi anche che solo i preti possono prendere decisioni sul funzionamento della Chiesa, fatta di uomini e donne. Ecco perché credo che la Chiesa sia misogina.

A parlare è una monaca benedettina di origine catalana, Teresa Forcades i Vila, che ho incontrato nel monastero di Sant Benet a Montserrat dopo aver letto l’articolo di Michela Murgia, Persone da conoscere: Teresa. Una lunga chiacchierata su differenze e uguaglianze di genere, omosessuali e queer, vita di coppia e libertà, clericalismo e patriarcato mi ha confermato l’idea di una pensatrice di cui sentiremo parlare sempre più. Sì, perché Teresa, che ha una laurea in medicina e un dottorato negli Stati Uniti in medicine alternative e psicologia, è in prima linea, «imprevedibilmente», sui temi del femminismo, nella denuncia contro le lobby farmaceutiche, nella critica etica al capitalismo e perfino contro la posizione della Chiesa su temi scottanti come l’omosessualità e l’aborto, e contro la sua struttura patriarcale. A luglio sarà in libreria la traduzione italiana del suo libro La teologia femminista nella storia (Casa Editrice Nutrimenti).

 

Partiamo dalle differenze di genere: dici che non sono solo un valore culturale. Cosa significa?
«Tu hai detto valore. Innanzitutto possiamo cercare di capire perché ancora oggi c’è una tensione tra ciò che normalmente chiamiamo “femminismo della differenza” e “femminismo dell’eguaglianza”. Io ho grande rispetto per tutte le donne. Tuttavia per me è fondamentale la difesa dell’eguaglianza tra i generi e l’unicità dell’individuo. Ognuno è unico, non siamo un numero in una lista di qualcosa di generico. Questo sì per me è un valore ed è quanto dice il femminismo dell’eguaglianza: lasciamo crescere liberamente le persone senza aspettare che emerga un modello».

Ma allora, secondo te, cosa pensano le donne che difendono le differenze tra i generi?
«Se guardiamo ai maschi e alle femmine è evidente una differenza. Le donne che difendono questa differenza hanno cominciato ad analizzare cosa succede all’inizio della vita, nella relazione madre-figlio e madre-figlia, relazioni che – così come quelle con il padre – segnano il nostro essere donna o uomo. Anche a me, ora che divento adulta e invecchio, dicono che tendo ad assomigliare a mia madre. Io penso: “Come è possibile?”. È così: molte donne incominciano a parlare e a muoversi come la propria madre. Dunque, ciò che chiamiamo genere (maschile e femminile) non è una costruzione solo culturale. Per un bambino, maschio o femmina che sia, il referente della vita emotiva, intellettuale e fisica è una donna. La prima soggettività-identità è un lento e difficile percorso di separazione dalla madre, un’esperienza differente se si è maschio o femmina. Tutti, da bambini, ci chiediamo: “Amerò mia madre? Sarò anche io come lei? O sarò differente?”. Ecco, il maschio non può giocare con facilità il ruolo di madre, che per lui non è certo naturale, e dunque attraversa un’esperienza di contraddizione: “Vorrei essere come lei ma non lo sono”. Questo il punto di partenza uguale per tutti. Tuttavia questa soggettività-identità infantile è anche alla base dell’errore stereotipato del così detto femminismo della differenza e certamente del patriarcato che dice: “A causa di questa differenza stabiliamo che questa soggettività- identità deve essere così per sempre nella vita».

Un errore?
«È la fossilizzazione di una dicotomia iniziale, che non deve per forza restare così per sempre. Per un piccolo, è un bene che la madre indichi cosa è buono o giusto; ma a un certo punto deve andare per la sua strada e deve essere lasciato andare. Per chiarire cosa intendo voglio citare il primo capitolo del Vangelo di Giovanni, dove si racconta il dialogo tra Nicodemo e Gesù. Nicodemo è un uomo adulto, un dottore della legge che conosce bene le scritture e la Torah; è molto affascinato da Gesù ma non vuole farsi riconoscere come suo seguace e dunque lo va a cercare nella notte per parlare con lui e gli chiede come si possa diventare adulti maturi. Gesù gli risponde: «Tu devi nascere di nuovo». Nicodemo è sorpreso: «Come può un adulto tornare nell’utero di una donna?». Gesù dice: «Non è questa la strada della rinascita, devi rinascere in acqua e in spirito». Per me questo significa essere queer. Queer è una parola inglese, per noi intraducibile: nel suo senso originario significa strano, obliquo, qualcosa che va fuori dal canone. È una parola di rottura rispetto agli schemi abituali con i quali raccontiamo la realtà. Una persona “diritta” è di solito una persona eterosessuale, una persona queer è una che devia dal percorso lineare. In realtà significa andare oltre le etichette di qualsiasi tipo. Io non immagino la vita come un percorso lineare: parti dalla soggettività infantile per arrivare a un punto in cui fai il salto e sei queer. No, non è così. Noi dobbiamo conquistare la nostra identità tutti i giorni. Se la mia soggettività infantile esce fuori ogni volta che mi trovo in difficoltà succede quello che Julia Kristeva, una psicoanalista lacaniana, chiama crisi. La crisi avviene quando una persona adulta perde la testa, perde se stessa, agisce come un bambino, senza ragionare. Può succedere a tutti noi, specialmente se qualcosa mette a rischio la nostra sicurezza. Ecco perché in periodi di crisi riemerge prepotente la violenza contro le donne, viste come coloro che sostengono i bisogni (colei che mi ha dato il suo seno, mi ha accudito, mi ha sostenuto nei miei desideri). Anche la donna, quando ha una crisi, richiede a se stessa di essere come una madre. È un processo molto complesso; secondo la Kristeva è il punto nodale del problema della violenza sulle donne».


Quando dici che il patriarcato è costruito da uomini e donne insieme per motivi psicologici, cosa intendi?
«La società patriarcale è quella in cui uomini e donne vivono da adulti con la stessa identità infantile, senza rinascere in acqua e in spirito. Rinascere significa qualcosa di nuovo ogni giorno, qualcosa di diverso per ognuno di noi; è una sfida, è la bellezza di una vita vissuta in modo pieno e consapevole. Fa anche paura, perché devi assumere la responsabilità di te stesso. Certo, amiamo la libertà, ma in realtà ne abbiamo paura. E la paura della libertà nelle questioni di genere porta a tornare indietro, alla soggettività infantile».

Per superare questo modello dobbiamo dunque rinascere in acqua e in spirito. Una strada è il cristianesimo, ma suppongo non sia l’unica strada…
«Certo che no, tu puoi rinascere in acqua e spirito ma anche essere queer. Molti queer non sono cattolici, la maggior parte dei movimenti promossi dai queer non hanno nulla a che vedere con la cristianità ma hanno una vita umana che li spinge a questa apertura indicata da Gesù nel vangelo di Giovanni: superare il modello infantile per rinascere a qualcosa di profondamente nuovo e unico».

Torniamo indietro. Pensi che la Chiesa sia misogina?
«È chiaro che la struttura della Chiesa è oggettivamente patriarcale. Se per misogina intendiamo ostile alle donne, certo che lo è. Ovviamente considero molto grave non permettere alle donne di rappresentare Cristo, perché cosa imparo io donna rispetto al fatto che sono una femmina? Da bambina non volevo diventare una donna perché percepivo che era svantaggioso. Ai maschi è permesso fare cose che alle femmine non è permesso e questo è davvero un brutto messaggio per le ragazze ma anche per i ragazzi; per tutti noi è un messaggio patriarcale, misogino. Un messaggio dato dalla Chiesa indipendentemente dal fatto che questo Papa o quel Vescovo siano buoni o cattivi. È una questione strutturale che credo vada cambiata. Come? Aprendo alle donne la possibilità di rappresentare Cristo come fanno i preti. Conosco personalmente un gruppo di donne che si batte per questo. Alcune di loro sono Vescove e sono state scomunicate; ma credo continueranno a battersi, a sognare un futuro diverso per le donne all’interno della Chiesa. Mi auguro che le loro battaglie presto diano frutti all’interno della Chiesa».

Come fai a stare dentro una Chiesa “misogina”?
«Io sono qui, in questo monastero, semplicemente perché sono stata chiamata da Dio in modo del tutto inaspettato. Sono venuta qui quando avevo 27 anni. Stavo finendo il mio master in medicina e avevo bisogno di un posto tranquillo per preparare la tesi. Chiesi ospitalità nel famoso monastero di Montserrat; ma non c’era posto e i monaci benedettini mi suggerirono di venire dalla monache. All’inizio non volevo, immaginavo che il posto fosse triste e le monache noiose. Poi mi sono accorta di essere caduta in contraddizione: io femminista che davo per scontato che le monache non potessero essere interessanti. Così ho accettato la sfida. Sono venuta a stare qui, ho trovato una comunità molto interessante e dopo un mese di studio, io che ero venuta non per diventare monaca, non per vocazione, ma solo per preparare un esame, ho sentito qualcosa che cresceva in me: era la chiamata di Dio. Io credo davvero che Dio mi abbia chiamata ad essere monaca».

Come si fa a portare un punto di vista femminile, e a battagliare per questo in una struttura misogina, senza diventare nemica degli uomini?
«La battaglia istituzionale non è un problema, perché si può sempre separare l’istituzione dalle persone, dagli uomini. Se un vescovo, un cardinale, un prete o addirittura il Papa si comporta in modo misogino io non ho problemi a dirlo o scriverlo. Non giudico, non mi sento nemica; semplicemente descrivo quello che mi pare evidente. All’interno di una coppia è diverso. La coppia condivide una totale intimità, la vita emotiva, sessuale, e credo che possa agire molto più in profondità di quanto possa fare io, anche se questo richiede molta più fatica. La vera sfida è cercare di capire cosa significa essere liberi dentro alla coppia, essere liberi e essere una cosa sola, avere il
mio spazio e aprire spazio all’altro. La libertà! ».

Sostieni che dire «La mia libertà finisce quando inizia la tua» induce competizione più che solidarietà. Ma questa è la definizione con la quale siamo cresciuti…
«Libertà è qualcosa che provo quando io tratto bene me e te. Strettamente parlando per me libertà è amore. È quello che ha detto Sant’Agostino, credo che abbia ragione. Tutti noi, sia che crediamo in Dio sia che non crediamo, siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio e Dio è amore, è libero amore. Noi siamo loving beings (esseri che amano e che sono amati), e quando uno ama è libero. Quando invece ci comportiamo con violenza, con risentimento, senza fiducia, siamo pieni di emozioni negative, siamo bloccati nell’amore, chiusi all’amore, non siamo liberi».

Però nella tradizione della Chiesa l’amore è insegnato come puro sacrificio…
L’amore è anche sacrificio, e le donne si sentono a loro agio perché per loro l’amore è mettere gli altri davanti a se stesse. Qualcosa che si può solo fare in modo vero e autentico. Se in fondo al cuore tu non ti senti di farlo non puoi farlo. La vera sfida è comportarsi in conformità al proprio sentire, a quello che si è veramente in profondità, e accettare di dire: “Vorrei amarti così ma non ci riesco, non ora”. La vera sfida è essere autentici. Se non ci riesco, devo avere il coraggio di dirmelo e partire da questa consapevolezza per cercare di crescere. È importante rispettare la mia verità perché altrimenti fallisco, e se fallisco mi porto dietro solo risentimento. L’amore non è un dovere, Dio non vuole il sacrificio. Noi mischiamo amore e dovere ma Isaia dice:  “Dio non vuole sacrificio. Amore è gioia, è una festa , è buono solo se libero” ».

Come l’amore di Maria?
«Maria è una donna veramente libera. È stata capace di guardare, di relazionarsi con Dio, da una posizione di parità. Quando Dio le chiede se vuole avere un figlio da Lui, se vogliono un figlio insieme, la prima reazione di Maria è di stupore. Come possiamo immaginare questa interazione tra Dio e un essere umano, una donna? Dio le dice. “Io non sono Dio perché detto delle regole, perché ti dico cosa devi e cosa è giusto fare, perché sono l’adulto; ma semplicemente perché sono la vita stessa. Tu e io possiamo interagire solo se lo desideriamo, se lo desideri”. Dio ci ha dato la dignità e la scelta».

Due le figure femminili di riferimento nel Vangelo: Maria Maddalena e Maria di Nazareth…
«Io ti ho risposto su Maria di Nazareth attraverso la mia esperienza. Ma se tu mi chiedi come nella tradizione Maria Maddalena e Maria di Nazareth possano essere interpretate è un’altra storia. Forse tu non lo sai, io sono cresciuta in una famiglia atea. Ho letto per la prima volta il Vangelo a 15 anni: ne rimasi impressionata. La mia seconda lettura è stata Gesù Cristo il liberatore di Leonardo Boff. Nessun racconto di Dio quando ero una bambina. Andavo in Chiesa solo per battesimi e comunioni. Dalle mie letture posso dirti che la tradizione vuole Maria come una donna sottomessa ma nel vangelo Maria è descritta come una giovane donna che sa cosa vuole, che prende decisioni che la riguardano, che dice sì a Dio. Leonardo Boff, nel suo libro, dipinge Maria come una donna capace di essere la compagna di Dio. Maria vuole essere incinta di Dio. È straordinario il suo desiderio. Sappiamo che una donna può rimanere incinta di un uomo che non ama, ma spiritualmente non si può. Non si può stuprare una donna spiritualmente; fisicamente si, ma non spiritualmente. Dio non s’impone a lei con la forza, Dio chiede a Maria e Maria dice sì e rimane incinta perché si amano. Per me è molto bello perché è quello che Dio vuole con ognuno di noi: rendere spiritualmente incinta o incinto ognuno di noi per portare Dio nel mondo. Io credo che il Dio (lui o lei) cristiano non si vuole imporre, è un Dio che esiste nello spazio e nel tempo se noi gli diamo la vita come Maria».

Ma allora l’uomo, il maschio, può dare la vita?
«Sì, certo, perché noi siamo queer e diamo la vita. Tutti gli immaginari femminili possono applicarsi anche agli uomini, e viceversa, perché, come diciamo nella Chiesa, Maria è un modello per tutti, non solo per le donne. Maria è la perfezione dell’umanità, e Gesù anche: entrambi per gli uomini e per le donne. Gesù è fonte di ispirazione per tutti e così Maria. Gesù è Dio e Maria non è Dio ma è ciò che l’umanità può essere quando è piena di Dio e dunque è come Dio. Non c’è una gerarchia. Dio dice: “Io non vi chiamo miei servi ma miei amici”. Io credo che questo sia una liberazione: non abbiamo un Dio che sta sopra e che opprime. Dio ha tutto il potere, ma non lo usa per opprimere, bensì per incoraggiare. Ci salva più e più volte dalla nostra paura di meritarci la morte».

 Sei favorevole al matrimonio Gay?
«Si, perché le identità sessuali non vanno considerate come scatole chiuse che Dio vuole complementari le une con le altre e che devono restare per sempre così, fissate in ruoli definiti e separati. Vivo nel mondo e vedo persone dello stesso sesso che si amano e mi chiedono: “Perché dovrebbe essere sbagliato?”. Sembrano felici, si amano davvero. Perché dunque non dovrebbero essere benedetti? Perché non dentro alla Chiesa? Perché non dobbiamo esultare di fronte all’amore qualunque forma assuma? Certo, se c’è rabbia e risentimento, se si agisce con violenza nella coppia non va bene, ma questo può succedere in qualsiasi coppia, che sia etero o omosessuale. Il punto centrale è come due persone stanno insieme. Certo, da coppie etero possono nascere bambini e da coppie omosessuali no; ma non credo che questo sia l’aspetto fondamentale del matrimonio. Io amo molto i bambini (ne volevo nove) e credo siano importantissimi; ma il punto centrale della vita di coppia per me è un altro. Il segreto del matrimonio è essere due che provano a essere uno e poi tornano ad essere due. È come Dio nella Trinità: siamo uno ma siamo anche separati. Questo si può esperire anche in una vita comunitaria, in modi molto differenti. Nella coppia si raggiunge la massima intimità tra due persone; non è facile, ma è una forma di cammino a due. Si cresce in questo cammino e si mostra agli altri come l’amore possa trasformare la realtà e quali miriadi di relazioni siano possibili tra esseri umani. Tutto questo è molto affascinante».

Come definisci l’autodeterminazione? Credi sia un diritto?
«Sì, credo sia un diritto; ma andrei cauta nell’usare la lingua dei diritti. Attualmente sto studiando la filosofa Simone Weil, che ha scritto molto su questo tema, in modo per me convincente. Lei sostiene che sarebbe oggi necessario sostituire la parola “diritto” con la parola “dovere”. Non parliamo del dovere di essere sottomessi a un’autorità; ma di doveri verso coloro che hanno dei bisogni, che sono in sofferenza. Questo credo sia un sano sostentamento per la società. Noi riteniamo che i diritti siano la base di una società libera, bene. Ma poi la filosofa Hannah Arendt chiede: “Chi ha diritto ad avere diritti?”. Ci sono persone che non hanno diritto di avere diritti. Immagina una ragazza di 12 anni costretta a prostituirsi: dove sono i suoi diritti? Dovrebbe averne. Invece molte persone non hanno diritti; dunque noi gli raccontiamo bugie. Noi diciamo che la dignità delle persone viene dal fatto che abbiamo dei diritti. Quella ragazza non li ha, nella pratica, nella sua vita reale. Dunque di cosa parliamo? Il problema è che i diritti non sono reali. Nella vita reale questa ragazza ha dei bisogni, non dei diritti. E allora iniziamo a parlare dei bisogni e, forse, riusciremo a cambiare qualcosa. Certo, il tema dei diritti è un tema forte, mentre se si parla di bisogni sembra di tornare indietro; ma bisogna guardare in faccia la realtà. Forse la domanda filosofica che dovremmo porci è questa: “Perché ci sembra negativo avere dei bisogni?”. Io non voglio sminuire il discorso della dignità ma voglio veramente prendere sul serio i problemi di questa giovane ragazza e per farlo devo parlare una lingua che per lei abbia un senso. Per lei ha senso capire di cosa ha bisogno, mentre se le parlo di diritti si sente senza dignità e non può capire cosa vuole».

Però tu hai detto che sei per l’autodeterminazione…
«Per me autodeterminazione è la libertà. Essere una persona, essere fatta a immagine e somiglianza di Dio, vuole dire che nessuno può dirmi cosa devo fare, devo muovermi dentro e fuori per trovare la mia verità. Un oggetto lo muovi da un posto a un altro, un soggetto deve muoversi da solo; puoi dargli suggerimenti, consigli, ma poi decide da solo. Cosa penso dell’aborto? Non sono a favore dell’aborto, ma non credo sia giusto che uno Stato abbia il potere di mettere una donna in prigione perché decide (entro un certo periodo) di non portare a termine la gravidanza. Nei primi cinque mesi di gravidanza, quando il bambino è ancora totalmente dipendente dalla madre per vedere la luce e vive grazie alla totale intimità con la madre, è giusto che sia la madre a prendere una decisione. Noi dobbiamo aiutarla a prendere questa decisione, perché in gioco ci sono due vite: quella della madre e quella del feto. Nessuno può forzare una madre in una direzione. Lei deve potere esercitare la sua libertà di scelta».

 

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la chiesa e il cosiddetto ‘gender’

perché la chiesa accetterà la “teoria del gender”

di Vito Mancuso

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in “la Repubblica” del 20 aprile

Nonostante le dure parole delle gerarchie cattoliche, Papa compreso, un giorno la Chiesa arriverà ad accettare la sostanza di ciò che essa definisce “teoria del gender” e che oggi tanto combatte. Qual è l’autentica posta in gioco di tale supposta teoria? E perché la Chiesa giungerà ad accettarne la sostanza? Occorre anzitutto chiarire che la teoria del gender, nei termini in cui ne parla la Chiesa cattolica, è una costruzione polemica che nella realtà non esiste. Nell’udienza del 15 aprile papa Francesco ha dichiarato: «Io mi domando se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Sì, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione». Secondo queste parole, che riprendono quanto dichiarato da altri esponenti delle gerarchie cattoliche, vi sarebbe un’ideologia detta appunto teoria del gender che «mira a cancellare la differenza sessuale». Ma esiste veramente qualcosa del genere? Chi mai intende proporre tale “rimozione della differenza”? Al di là di singoli episodi legati al mondo dello spettacolo dove si fa di tutto per emergere, in realtà nessuno nel mondo lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) intende abolire il dato del maschile e del femminile. Si sostiene piuttosto che un essere umano, per quanto attiene alla sua sessualità, non è definito unicamente dal corpo biologico. La sessualità infatti, oltre a essere un dato biologico, è anche un costrutto sociale, e questo costrutto sociale detto “genere” può giungere, per alcuni, a essere diverso rispetto alla nativa identità sessuale e quindi a rappresentare una specie di gabbia. La sessualità (natura) e il genere (cultura) non sono sempre necessariamente la stessa cosa: se per la gran parte degli esseri umani vale “sesso = genere”, per altri sesso e genere sono diversi, e questo perché l’essere umano è un fenomeno complesso fatto di un corpo biologico, di una psiche e di una dimensione spirituale, le cui relazioni non sono sempre lineari. Vi sono uomini che hanno un corpo maschile e una psiche maschile e sono attratti dalle donne; ve ne sono altri che hanno un corpo maschile e una psiche maschile e sono attratti dagli uomini; ve ne sono altri ancora che hanno un corpo maschile e una psiche femminile così che interiormente non si sentono uomini ma donne; e gli esempi potrebbero continuare. Ora la questione è: come definire le persone che rientrano nelle ultime due categorie? Malati? Peccatori? Criminali? Un tempo si pensava così e si agiva di conseguenza. Oggi però la coscienza sente che era un errore tale condanna, lo stesso Papa il 28 luglio 2013 dichiarò: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». Occorre piuttosto comprendere come queste persone determinano la loro esistenza per vivere felici. In questa prospettiva nessuno vuole cancellare il maschile e il femminile, ma solo affiancare nuovi modi di essere maschi e di essere femmine ai modelli tradizionali. Si tratta di allargare le identità, prefigurando nuovi costrutti sociali più rispettosi delle diverse peculiarità, facendo sì che tutti possano giungere a quella armonia tra sesso e genere che è alla base di una vita felice. La Chiesa oggi avversa duramente questa posizione, ma giungerà ad accettarla. Su cosa fondo la mia tesi? Nel Seicento avvenne la rivoluzione astronomica alla quale la Chiesa si oppose costringendo l’anziano Galileo ad abiurare in ginocchio la teoria copernicana: poi la Chiesa cambiò idea, adattandosi alla realtà. In seguito la rivoluzione politica portò i popoli a determinare laicamente la propria forma di governo e la Chiesa si oppose condannando in particolare lo Stato unitario italiano: poi la Chiesa cambiò idea, adattandosi alla realtà. In seguito la rivoluzione sociale inaugurò diritti umani come il suffragio universale, la parità uomodonna, l’istruzione obbligatoria statale, la libertà religiosa, contro cui pure insorse l’opposizione ecclesiastica: che poi cambiò idea, adattandosi alla realtà. Contestualmente la rivoluzione biologica darwiniana mostrava che le specie risultano il frutto di una lunga evoluzione e non di una creazione puntuale: la Chiesa, prima
acerrima nemica, poi cambiò idea, adattandosi alla realtà. La Chiesa ha cambiato idea anche sul terreno propriamente religioso. La rivoluzione di Lutero prima era un’eresia, oggi è un’altra modalità di vivere il Vangelo. Gli ebrei sono passati da “perfidi giudei” a “fratelli maggiori”. Pio IX condannava l’idea che «gli uomini, nel culto di qualsiasi religione, possono trovare la via della salvezza eterna», oggi invece ampiamente accettata dalla Chiesa che non sostiene più la dannazione dei non cattolici. Analoghi cambiamenti riguardano l’interpretazione della Bibbia, la pena di morte e in genere l’uso della violenza, prima considerato del tutto legittimo, vedi le crociate e i roghi di uomini e di libri. La constatazione di tali mutamenti infastidisce la mentalità ecclesiastica, portata a considerare le proprie idee come dottrina “immutabile e infallibile”, ma si tratta di innegabili verità storiche. La Chiesa è quindi un’abile trasformista? No, è la logica della vita che è così e che trasforma ogni cosa. Nella vita ciò che non muta muore. Se la Chiesa dopo duemila anni è ancora qui, è perché è ampiamente mutata. Per lo più in meglio, mettendosi in condizione di essere sempre più “ospedale da campo”, come la vuole papa Francesco, cioè china sulle ferite degli esseri umani per curarne amorevolmente le ferite. Oggi viviamo all’incrocio tra due rivoluzioni: la rivoluzione sessuale e la rivoluzione biotecnologica. La rivoluzione sessuale ha portato gli omosessuali a definirsi “gay”, cioè felici di essere così, assumendo la propria condizione non più come triste destino o malattia o colpa morale, ma come condizione naturale del loro essere al mondo. La rivoluzione bio-tecnologica consente ad alcuni esseri umani per i quali la sessualità è diversa dal genere di transitare in un genere più confacente alla loro vera identità sessuale dando vita al fenomeno detto transgender. Viviamo cioè l’ultima rivoluzione sociale sorta in Occidente, in prosecuzione del processo di legittimazione delle minoranze oppresse. Questa rivoluzione fa comprendere che la sessualità non è racchiusa solo dall’identità biologica, ma attiene anche alla psiche e allo spirito. Non è cioè un destino, ma una chiamata alla libertà e alla responsabilità che ogni essere umano deve forgiare da sé facendo i conti con l’irripetibile singolarità con cui è venuto al mondo (per i credenti, creato da Dio). Un tempo, l’idea di stato laico non confessionale e di libertà di coscienza in materia religiosa appariva blasfema alla Chiesa cattolica: oggi essa comprende che la laicità dello Stato è un formidabile punto di forza della società e si dichiara a favore della libertà di coscienza in materia religiosa. Oggi alla Chiesa cattolica appare blasfema una famiglia diversa da quella tradizionale: in un tempo non lontano essa capirà che la pluralità degli amori umani è un altro punto di forza della nostra società, in quanto capace di accogliere tutti.

si possono utilmente leggere alcuni articoli e contributi in merito pubblicati negli ultimi giorni e che immediatamente qui sotto ripropongo (basta aprirli con il link relativo), alcuni a  favore e altri critici nei confronti della teoria  di genere

segnalo in modo particolare il contributo di Giannino Piana su ‘la Rocca’ che invita ad andare oltre posizioni unilaterali e semplificatrici, contro una lettura rigidamente ideologica della teoria del gender:

non c’è alcuna teoria scientifica unificante. Tuttavia c’è un generale accordo a considerare i complessi comportamenti che, in modo diretto o indiretto, afferiscono alla sfera sessuale come il frutto di almeno quattro dimensioni diverse, anche se non del tutto indipendenti e a loro volta complessi: il sesso biologico, l’identità di genere, il ruolo di genere, l’orientamento sessuale.
“La «teoria gender» o «teoria del genere» non esiste, nel senso che nessuno tra coloro che si occupano di studi di genere (o gender studies) ha mai coniato questa espressione.” ” proviamo ad analizzare alcuni termini che entrano in gioco nella discussione.” Come sesso e genere, identità e ruolo di genere, gli studi di genere…
Oltre posizioni unilaterali e semplificatrici. Contro una lettura rigidamente ideologica della teoria del gender e anche di chi la critica aprioristicamente. “Sesso e «gender», lungi dal dover essere concepite come realtà del tutto alternative, sono fattori che possono (e devono) reciprocamente integrarsi.” Giusto equilibrio tra natura e cultura. Merito teoria del gender: aver dato più importanza ai vissuti personali, con superamento di radicati pregiudizi. Maggiore rispetto delle identità individuali Importanza del dato biologico
“La teoria del gender, lo sappiamo, afferma che oltre all’identità sessuale biologica esiste una identità influenzata da cultura e ambiente. Il corpo di uomo o donna con cui nasciamo è dunque un fattore secondario…” (ndr.: Sarebbe bene non dare per scontato ciò che è la teoria del gender e sarebbe bene che anche il quotidiano Avvenire allargasse il proprio sguardo e i punti di vista. Occorre innanzitutto riconoscere che non esiste “una” teoria del gender, e che la teoria gender ha anche dei meriti, come sottolinea Giannino Piana nell’articolo che riprodiciamo, il cui punto di vista (anzi il cui nome) non appare mai sul quotidiano della Cei. Perché continua a permanere questo ostracismo? Perché accusare gli altri quotidiani di censura, senza accorgersi di quella esercitata in casa propria?)
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un grande teologo racconta la conversione di mons. Romero

il mio ricordo di Romero

Romero

di Jon Sobrino

  in “Adista” – Documenti – n. 14 del 11 aprile 2015

 il grande teologo Jon Sobrino parla di vera conversione in riferimento al radicale cambiamento che Romero ha fatto dal momento della uccisione di p. Rutilio Grande
qui sotto ampi stralci dalla seconda parte del nuovo libro di Sobrino dedicato a questa conversione da uomo dell’istituzione a pastore che dà la vita per il suo popolo: viene smentita nella maniera più netta la tesi di quanti – a cominciare da mons. Vincenzo Paglia e dallo storico Roberto Morozzo della Rocca… – sostengono che non si possa parlare di una vera discontinuità tra il Romero nominato arcivescovo con il sostegno dell’oligarchia e l’arcivescovo che l’oligarchia ha deciso di assassinare

Romero libro su Sobrino

il 35° anniversario del martirio, oggi riconosciuto ufficialmente, di San Romero d’America è coinciso  con l’uscita in Italia del libro di Jon Sobrino :”Romero, martire di Cristo e degli oppressi”, – edito dalla Emi (pp. 281, 17 euro) – che lo ricorda davvero nel migliore dei modi, raccogliendo sette dei testi più belli:

 

 

 

 

Sobrino

   Il mio primo incontro personale con monsignor Romero avvenne il 12 marzo 1977. Quel pomeriggio padre Rutilio Grande e due contadini, un bambino e un anziano, erano stati assassinati vicino a El Paisnal. La sera ci riunimmo in molti nel convento di Aguilares, gesuiti, sacerdoti, religiose e centinaia di contadini, a piangere la morte di Rutilio, il prete che aveva annunciato la buona notizia del Vangelo. Stavamo aspettando monsignor Romero, che aveva preso possesso dell’arcidiocesi pochi giorni prima, il 22 febbraio, e il suo vescovo ausiliare monsignor Rivera, per celebrare la prima eucaristia davanti ai cadaveri dei tre assassinati. (…). Bussarono alla porta del convento, andai ad aprire e monsignor Romero entrò, insieme a monsignor Rivera. Il volto di monsignor Romero era serio e pieno di preoccupazione. Lo salutai e senza dire una parola lo accompagnai in chiesa. Fu il mio primo contatto personale con monsignor Romero. Fu breve, solo simbolico, però l’occasione lo fece diventare molto importante per me. Indubbiamente in quei momenti il nostro pensiero andava a Rutilio e ai contadini assassinati. Tutti ci chiedevamo che cosa ci avrebbe riservato il futuro: infatti, sebbene la repressione contro i contadini fosse già cominciata e alcuni preti fossero già stati arrestati ed espulsi dal Paese, per El Salvador l’assassinio di un prete era un fatto inaudito. Venivano meno non soltanto le regole del bene, ma anche quelle del male. Se i potenti si erano spinti ad assassinare un prete, nel Paese sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa. Di fatto il 1977, per i contadini, per i sacerdoti e anche per noi gesuiti, fu un anno davvero tribolato. Due mesi dopo vennero espulsi dal Paese i tre gesuiti che erano rimasti ad Aguilares e il 20 giugno tutti noi gesuiti fummo minacciati di morte. Senz’altro la cosa più importante di quella notte era il cadavere di Rutilio. Per me, tuttavia, fu importante anche guardare il volto serio e preoccupato di monsignor Romero. Quel vescovo, del quale io sapevo solo che era stato molto conservatore e fragile psicologicamente, cominciava il suo ministero arcivescovile non tra celebrazioni solenni ma tra sequestri, torture, espulsioni di sacerdoti e, ora, davanti al sangue di uno dei sacerdoti che aveva conosciuto meglio: Rutilio. E, ancor peggio, in mezzo a una crescente repressione di contadini e operai, che i vescovi, particolarmente motivati da monsignor Rivera, avevano denunciato coraggiosamente in un messaggio del 5 marzo. Il volto serio e preoccupato di monsignor Romero quando gli aprii la porta mi attrasse subito, e dentro di me, pensai che avrei dovuto aiutarlo. Di fatto l’idea che tutti noi ci eravamo fatti di lui era già cambiata nelle riunioni col clero che si erano tenute negli ultimi giorni di febbraio, dove si era presentato come nuovo arcivescovo e ci aveva chiesto di aiutarlo in quelle gravi difficoltà. La decisione di aiutarlo era stata spontanea e condivisa da molti. Per tutti noi era anche una necessità, dato che presagivamo che le cose si sarebbero fatte molto difficili: meglio affrontarle uniti come Chiesa, piuttosto che separati e divisi. (…). Ma quella notte del 12 marzo fu decisiva. E devo dire che quel cambiamento fu sorprendente, perché le mie scarse relazioni con lui erano state piuttosto tese dal mio rientro nel Salvador, nel 1974. A quell’epoca di monsignor Romero avevo saputo soltanto che era un vescovo molto influenzato dall’Opus Dei, contrario – a volte con aggressività intellettuale – ai sacerdoti e ai vescovi che avevano accettato la linea di Medellín. Considerava marxisti e politicizzati diversi gesuiti del Salvador, proprio quelli dai quali stavo imparando a muovere i miei primi passi di gesuita e di teologo, dopo sette anni di assenza. (…). Questo trovò conferma il 6 agosto 1976. Quel giorno si celebra la festa del Divino Salvatore, patrono del Paese, con un’immancabile messa solenne. In quegli anni si invitava un’importante personalità ecclesiale a tenere l’omelia in presenza di tutti i vescovi, del governo e del corpo
diplomatico. (…). Se mi si permette una parentesi, l’omelia del 1970 era stata pronunciata da padre Rutilio Grande, noto e apprezzato prete dell’arcidiocesi e candidato a diventare rettore del seminario. Rutilio aveva dedicato la sua omelia a commentare le tre parole che sono scritte sulla bandiera nazionale: Dio, unità, libertà. Quell’omelia fu una forte denuncia della situazione del Paese: senza unità e senza libertà, e, pertanto, senza Dio. L’omelia aveva causato grande sorpresa e un grande impatto; e Rutilio non divenne rettore del seminario. Tornando al 1976, questa volta l’oratore sacro scelto fu monsignor Romero, allora vescovo di Santiago de Maria. Non assistetti alla messa del 6 agosto, ma poche ore dopo la celebrazione un prete mi portò la registrazione dell’omelia. L’ascoltai e rimasi di sasso. Nel primo punto dell’omelia, monsignor Romero criticava le cristologie sviluppate nel Paese: cristologie razionaliste, cristologie inneggianti alla rivoluzione, cristologie che portavano odio… In altre parole, la sua omelia era stata un’accesa critica della mia cristologia. Quindi è comprensibile che non vedessimo di buon occhio la scelta di monsignor Romero come successore dell’arcivescovo Luis Chávez, che era stato un vescovo pastorale, molto vicino al popolo, col quale avevamo ottimi rapporti. (…). Mi domandai se monsignor Romero avrebbe avuto il coraggio di denunciare la repressione o se, al contrario, l’avrebbe agevolata; se avrebbe difeso i contadini e i sacerdoti minacciati. Pochi giorni dopo ricevetti una cartolina da un gesuita messicano, che quasi mi faceva le condoglianze. Tutti, in effetti, vedevamo un panorama triste. Fortunatamente ci sbagliavamo. Questi ricordi, ovviamente, in quella sera del 12 marzo non avevano alcuna importanza. (…). In quei momenti cominciò a venirmi in mente un altro pensiero, importante solo a livello personale. Sapevo che monsignor Romero aveva avuto l’umiltà e la delicatezza di chiedere scusa per le sue azioni precedenti. Era giunto, con parecchi anni di ritardo, a chiedere perdono a una comunità di base, per quanto aveva detto nel 1972: parole che in pratica giustificavano la militarizzazione dell’Università nazionale e la repressione che ne era scaturita. Chiese perdono anche a un compagno gesuita che era rettore del seminario quando i vescovi – e tra loro, con forza, monsignor Romero – avevano deciso che i gesuiti abbandonassero la direzione del seminario. E c’erano stati altri analoghi casi di umiltà e sensibilità. Non so perché, mi turbava l’idea che un giorno monsignor Romero potesse rievocare i suoi attacchi contro di me e chiedermi scusa. Fortunatamente non l’ha mai fatto, e ne sono stato sollevato. Però ricordo un giorno, credo fosse la fine di aprile del 1977, in cui monsignor Romero mi vide in un angolo della cattedrale e venne a parlarmi. «La ringrazio» mi disse, «per la riflessione che ha fatto sulla Chiesa. Credo abbia aiutato molto». Si riferiva al dossier che aveva spedito a Roma per spiegare la situazione del Paese e l’azione ecclesiale dopo la morte di Rutilio. Io avevo collaborato per la parte della riflessione teologica. In verità monsignor Romero non aveva bisogno di ringraziare né me né tanti altri per esserci posti al suo servizio. Ma il suo gesto mi fece piacere: era una specie di accettazione ecclesiale di quanto facevamo e, soprattutto, un gesto di fiducia. (…).

LA CONVERSIONE

Ritorniamo alla sera del 12 marzo. Dopo la messa, monsignor Romero chiese ai sacerdoti e ai religiosi di rimanere lì con lui; si fermarono anche alcuni contadini e laici, naturalmente senza alcuna discriminazione. (…). Ci pose una domanda elementare: che cosa dobbiamo e che cosa possiamo fare, come Chiesa, dopo la morte di Rutilio. Mi resi conto che, per quanto potesse essere nervoso e turbato, era disposto a compiere tutto il necessario, sebbene il solo pensiero probabilmente lo terrorizzasse: infatti era giunto il momento di affrontare i potenti, l’oligarchia e il governo. E senza dubbio ricordo che le parole con cui ci chiedeva aiuto erano totalmente sincere, gli venivano dal cuore. Un arcivescovo ci chiedeva
veramente aiuto. E lo chiedeva a coloro che qualche settimana prima aveva considerato sospetti, marxisti… Quel gesto di dialogo e di umiltà mi arrecò una grande gioia. E pensavo che benché apparentemente per monsignor Romero tutto iniziasse tanto male, in realtà iniziava bene. Germogliava il seme di una Chiesa unita, determinata e profetica, che in seguito sarebbe cresciuto tanto. (…). Sentii anche, o almeno intuii, che nel suo intimo stava accadendo qualcosa di profondo. Certamente era nervoso, però credo che in quel nervosismo e in quel non sapere che cosa fare di quei primi momenti, monsignor Romero abbia preso l’intima decisione di reagire come Dio gli domandava: fece una vera scelta per i poveri, rappresentati in quella notte da centinaia di contadini radunati intorno a tre cadaveri, indifesi davanti alla repressione che già subivano e che prevedevano. (…). Credo che quella notte iniziò a maturare definitivamente la conversione di monsignor Romero. In effetti monsignor Romero non gradiva che si parlasse di una sua «conversione», e non aveva tutti i torti. Era solito ricordare che proveniva da una famiglia umile, che non era mai vissuto nella ricchezza e abbondanza, ma nella povertà e nell’austerità. Inoltre tutti riconoscevano che la sua vita sacerdotale ed episcopale fin lì era stata notevolmente virtuosa. A suo modo era stato aperto verso i poveri e li aveva anche difesi a Santiago de Maria, nel momento della repressione. (…). Credo inoltre che monsignor Romero abbia sempre mantenuto un cuore puro e un discernimento morale che né la sua ideologia conservatrice né l’agire retrogrado di buona parte della gerarchia a cui apparteneva erano valsi a soffocare. Tuttavia la sua personalità interiore era come sdoppiata: nel cuore manteneva gli ideali religiosi, accettava le direttive del Vaticano II e di Medellín, ma la sua mente interpretava la novità del Concilio e di Medellín in una prospettiva assai conservatrice, impaurita di qualsiasi cosa potesse immischiare la Chiesa nella cruda realtà conflittuale e ambigua della storia. Fu questo sdoppiamento interiore, credo, a dissolversi quella notte, e direi che questo si possa chiamare conversione; non tanto come chi smetta di fare il male e abbracci il bene, ma come un radicale cambiamento nel cogliere e nel porre in opera la volontà di Dio. (…). Lo si chiami o non lo si chiami conversione, il radicale cambiamento di monsignor Romero è uno degli avvenimenti che più hanno colpito tutti, me compreso. In quel momento monsignor Romero aveva cinquantanove anni, età in cui le persone hanno già consolidato la propria struttura psicologica e mentale, la loro comprensiöne della fede, la spiritualità e l’impegno cristiano. Inoltre era arcivescovo di fresca nomina, vale a dire che era stato posto come massima autorità e responsabile dell’istituzione ecclesiale, che, come tutte le istituzioni, è più propensa alla continuità e alla prudenza, se non al passo del gambero. Infine, le circostanze storiche non erano affatto favorevoli. Monsignor Romero fu pienamente consapevole, fin dal principio, di essere stato il candidato della destra, e subito conobbe le adulazioni dei potenti che gli offrirono la costruzione di un palazzo episcopale sperando che cambiasse linea rispetto al suo predecessore, Luis Chávez y Gonzáles. Cambiare, e cambiare radicalmente, significava non solo deluderli (…), bensì anche affrontarli. Se avesse cambiato, si sarebbe attirato le ire dei potenti, dell’oligarchia, del governo, dei partiti politici, dell’esercito e dei corpi di sicurezza; e, poi, della maggioranza dei suoi fratelli vescovi, di vari dicasteri vaticani e perfino del governo degli Stati Uniti. Se per spiegarci la sua conversione soppesiamo le forze in campo, monsignor Romero aveva dalla sua un gruppo di sacerdoti e religiose e, certamente, il dolore e la speranza di tutto un popolo; ma dalla parte avversa erano schierati tutti i potenti. L’equilibrio evangelico delle forze andava a suo favore, ma non quello storico. Se monsignor Rornero si è lanciato per strade così nuove alla sua età, dal punto più alto dell’istituzione e con tanti sicuri avversari, vuol dire che la sua conversione è stata piena e reale, ha toccato il più profondo del suo essere, l’ha definito per sempre e l’ha portato fino al dono della vita. (…). Credo che l’assassinio di Rutilio Grande – che è stato anche luce e incoraggiamento per i suoi successivi percorsi – sia stato l’occasione della conversione di monsignor Romero. Monsignor Romero conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un prete esemplare e un amico (…). Tuttavia monsignor Romero non aveva condiviso la pastorale di Rutilio negli anni in cui quest’ultimo era stato parroco ad Aguilares: la considerava troppo politicizzata, troppo orizzontale, lontana dalla   missione fondamentale della Chiesa e pericolosamente vicina alle idee rivoluzionarie. Rutilio fu quindi per monsignor Romero un «problema»; più ancora, un «enigma». Per un verso era un prete virtuoso, zelante, davvero credente; per l’altro verso la sua missione pastorale pareva, a Romero, scorretta e sbagliata. Quell’«enigma», credo, si chiarì con l’assassinio di Rutilio. Credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero siano cadute le bende dagli occhi: Rutilio aveva ragione. (…). Insomma, a sbagliare non era stato Rutilio Grande, ma Oscar Romero; non Rutilio doveva cambiare, ma lui stesso. E queste riflessioni, che in teoria sarebbero potute restare sul mero piano razionale, si tradussero in decisioni di cambiamento, di proseguire la linea di Rutilio e, soprattutto, la strada di Gesù. (…). Credo che la morte di Rutilio abbia scosso monsignor Rornero e gli abbia dato la forza per un nuovo modo di agire, e che la vita di Rutilio abbia impresso la direzione fondamentale anche alla sua vita, benché egli dovesse poi tradurla in atto nella sua situazione personale di arcivescovo e nelle circostanze storiche sempre più critiche. In quei giorni si parlava della conversione di monsignor Romero come del «miracolo di Rutilio». Una seconda cosa che dovette colpire a fondo monsignor Romero in quei primi giorni da vescovo fu la differente reazione dei diversi gruppi ecclesiali. Monsignor Rornero era al corrente del fatto che la sua nomina non era stata ben accolta, che i sacerdoti «progressisti», le comunità di base e tutti coloro che lavoravano nella linea della coscientizzazione e liberazione di Medellín, lo avevano accolto con timore. E conosceva anche le aspettative che la sua nomina aveva risvegliato nei cattolici accomodanti – quelli a volte conniventi con i gruppi di potere che avevano attaccato e calunniato monsignor Chávez – e nel gruppetto di sacerdoti collocabili in quell’orbita. Dovette rimanere davvero sorpreso nel constatare che, in quei giorni tanto duri per lui e densi di rischi concreti, i primi lo avevano accolto e i secondi lo avevano abbandonato. Nell’ora della verità, quelli che aveva guardato con sospetto, che aveva combattuto, e anche accusato e condannato, restavano con lui. Gli altri, coloro che giudicava pii e ortodossi, i prudenti e i non politicizzati, gli apparentemente fedeli a qualsiasi indicazione della Chiesa, lo lasciavano solo, come i discepoli con Gesù; e presto cominciarono a criticarlo, ad attaccarlo, a disobbedirgli (dimostrando così che la loro asserita fedeltà alla gerarchia ecclesiastica finiva quando l’arcivescovo non era di loro gradimento e le cose si mettevano male). (…). Non si poteva dedurne che tutto quanto facevano i sacerdoti progressisti era perfetto; però se ne ricavava, almeno, che avevano molta più verità e molto più amore cristiano rispetto agli altri. (…). E che erano disposti a correre rischi personali, a parlare e a denunciare pubblicamente, sebbene in quel momento ciò comportasse essere schedati, arrestati o assassinati. (…). Ricordo che una sera, pochi giorni dopo l’assassinio di Rutilio, lo incontrai alla Ysax – la radio dell’arcivescovado, molto nota perché ritrasmetteva le omelie di monsignor Romero e per i tanti attentati dinamitardi – e mi mostrò una lettera, su carta lussuosa e, se non ricordo male, adorna con disegni di fiori. La lettera era di una persona che era stata vicina a monsignor Romero. Questa si mostrava sorpresa del suo cambiamento e non condivideva il suo modo di agire. Monsignor Romero non si mostrò per nulla colpito. Ricordo che mi disse semplicemente: «È di una persona dell’Opus». Credo intendesse dirmi che «non capisce, come neanch’io prima capivo». (…). Coloro che abbandonarono il Paese alla sua tragedia, nascondendosi nel loro essere cristiani, per monsignor Romero smisero di essere luce. Quelli che scelsero in favore del Paese, dicendo la verità, denunciando le atrocità e impegnandosi nella giustizia – con tutti i loro limiti e le loro esagerazioni -, per monsignor Romero divennero luce. Un terzo elemento che spiega la conversione di Romero, quella definitiva e che lo mantenne fedele alla volontà di Dio fino alla fine, sono stati i poveri del suo popolo. Subito gli mostrarono accoglienza, appoggio, tenerezza e amore. (…). Appena monsignor Romero fece i suoi primi passi, appena fece le sue prime denunce e le prime visite alle comunità, i poveri si volsero a lui, entrarono nel suo cuore e vi rimasero. Monsignor Romero a sua volta entrò nel loro cuore, dov’è rimasto fino a oggi. (…). I poveri gli imposero di convertirsi; e tuttavia, offrendogli al tempo stesso luce e salvezza, gliela resero una via agevole. E monsignor Romero lo riconobbe. Per me non c’è dubbio   che qui risieda il definitivo segreto di monsignor Romero, come lui stesso ha affermato. Con parole straordinariamente appropriate, parole che non ci si può inventare se non scaturiscono dalla verità nel cuore, ha detto: «Con questo popolo non pesa essere un buon pastore».

LA VERA “GLORIA DI DIO”

Nei giorni successivi l’assassinio di Rutilio, la curia arcivescovile e tutta la diocesi vissero momenti di grande fermento, che a loro volta tracciarono per monsignor Romero una traiettoria che poi percorse sino alla fine senza deflettere. Capì ben presto che in quanto arcivescovo doveva spiegare al popolo che cos’è la Chiesa, la sua denuncia profetica e la difesa dei poveri. (…). Rompendo molti anni di tradizione, monsignor Romero fece il gesto davvero straordinario di promettere pubblicamente che non avrebbe partecipato ad alcuna cerimonia ufficiale del governo finché quei crimini non fossero stati chiariti e non si fosse interrotta la repressione. Mantenne la parola: in tre anni non partecipò ad alcun atto del governo, non l’approvò con la sua presenza. Queste prime azioni di monsignor Romero cominciavano a mostrare quale sarebbe stato il suo modo di agire. Prendeva decisioni sul da farsi dopo averne discusso e dialogato con il clero, le religiose e i laici. Ricordo che una delle riunioni di quei primi giorni durò dalle otto di mattina fino alle otto di sera. Fin dal principio il suo modo di fare fu profetico, denunciando con chiarezza le aberrazioni; fu evangelico, con semplicità, senza lasciarsi intimidire dalle conseguenze politiche delle sue azioni; fu pubblico, parlando al Paese, promettendo cose verificabili, che gli si sarebbero potute contestare se non le avesse realizzate. Fra ciò che ha promesso pubblicamente e ha mantenuto, in quei giorni, spiccarono due cose: la sospensione delle lezioni per tre giorni nelle scuole cattoliche e la messa unica del 20 marzo (in segno di protesta per l’assassinio di Rutilio Grande, fu stabilita la celebrazione di un’unica messa domenicale, di funerale, in tutta l’arcidiocesi, NdT). La sospensione delle lezioni non fu una vacanza, come dissero i suoi detrattori, ma tre giorni di studio, riflessione e preghiera sulla Bibbia, sul Concilio e su Medellín. (…). La messa unica causò maggior agitazione, e penso che quella decisione sia stata molto importante per monsignor Romero, perché lo portò a confrontarsi con la sua stessa fede e cominciò a metterlo a confronto con l’istituzione ecclesiastica. (…). Era convinto di dover fare qualcosa d’importante, che richiamasse l’attenzione del Paese e risvegliasse le coscienze; ma aveva uno scrupolo teologico che formulò nella riunione, con la sincerità che lo caratterizzava: «Se l’eucaristia è un atto nel quale si dà gloria a Dio, non gli darà maggior gloria la molteplicità abituale delle messe domenicali?» (…). Ci fu una lunga discussione, fin quando padre Jerez prese la parola e disse: «Io credo che monsignor Romero abbia ragione nel sostenere che dobbiamo preoccuparci della gloria di Dio, però, se non ricordo male, i padri della Chiesa dicevano gloria Dei vivens homo, la gloria di Dio è l’uomo vivente». Quest’intervento in pratica chiuse la discussione. Monsignor Romero parve convinto e sollevato dal suo scrupolo, e decise che si sarebbe celebrata la messa unica. (…). Non si trattava soltanto di accettare una nuova formulazione teologica, ma una nuova comprensione di Dio. E monsignor Romero l’accettò. Ha ripetuto fino alla sazietà che per Dio non c’è nulla di più importante della vita dei poveri. (…). Ha riformulato il detto di sant’Ireneo citato da padre Jerez come gloria Dei vivens pauper, «la gloria di Dio è il povero che vive». E all’opposto si è scagliato contro gli idoli, le divinità false ma molto reali, che producono morte e per sussistere esigono vittime. Credo che a cinquantanove anni monsignor Romero non soltanto abbia attraversato una conversione, ma abbia anche fatto una nuova esperienza di Dio. Da allora non poté più separare Dio dai poveri, la sua fede in Dio dalla difesa dei poveri. Credo che abbia visto in Dio il prototipo dell’opzione per i poveri, e che questo l’abbia indotto a metterla in pratica per primo, ma l’abbia anche illuminato su chi è Dio. Sicché non lo spaventavano più le nuove formulazioni su Dio: Dio di
vita, Dio del Regno, Dio dei poveri; le faceva proprie in tutta naturalezza. (…). Tutto questo però gli fece approfondire anche il mistero del Dio sempre maggiore, trascendente, ultima sede della verità, della bontà, dell’umanità su cui gli esseri umani possono contare. (…). Il 10 febbraio 1980, in una situazione ormai caotica, in pieno conflitto con il governo, l’esercito, l’oligarchia e gli Stati Uniti, monsignor Romero fu ancora una volta profeta valoroso e implacabile: parlò delle cose di questo mondo e si schierò in difesa del suo popolo oppresso. Ma in quella stessa omelia, con la medesima naturalezza con cui pronunciava le sue denunce storiche, disse le seguenti parole: «Come vorrei, cari fratelli, che il frutto di questa predicazione di oggi, per ciascuno di noi, fosse che giungessimo a incontrare Dio e a vivere la gloria della sua maestà e della nostra piccolezza! Nessun uomo si conosce finché non ha incontrato Dio». Chi pronuncia queste parole ha una profonda esperienza di Dio. In nome di Dio monsignor Romero ha difeso la vita dei poveri: e quando voleva offrire a tutti il meglio di se stesso, ci offriva semplicemente Dio. Il Dio dei poveri e il mistero di Dio: ecco che cosa monsignor Romero fece presente a tutti quelli che desideravano ascoltarlo. (…).

IL CONFLITTO CON I VESCOVI

Fu tale il tumulto suscitato dall’annuncio della messa unica, che monsignor Romero decise di comunicarlo personalmente al nunzio e mi chiese di accompagnarlo insieme ad altri sacerdoti. Il nunzio non c’era e ci ricevette il suo segretario. Notai che fin dall’inizio il segretario della nunziatura era visibilmente arrabbiato per la messa unica e non faceva alcuno sforzo per nasconderlo, benché fosse davanti a monsignor Romero: lui un semplice segretario, monsignor Romero l’arcivescovo di San Salvador. È stata un’esperienza di quel po’ di arroganza che con frequenza esiste nelle curie d’ogni tipo, insieme alla mancata comprensione della sofferenza di un popolo e della condizione di un arcivescovo tormentato da responsabilità tanto serie. Credo di essermi indignato poche volte come mi è accaduto quel giorno. Il segretario cominciò col dire che l’argomentazione pastorale e teologica a favore della messa unica era buona; credo abbia detto addirittura che era molto buona. (…). «Eppure», aggiunse, «voi avete dimenticato la cosa più importante». Non riuscivo a immaginare che cosa potesse essere più importante in quei momenti, ma il segretario sentenziò: «Avete dimenticato l’aspetto canonico». Non potevo credere a quel che sentivo, e come me nessuno dei presenti. Gli risposi che non c’è niente di più importante del corpo di Cristo che veniva represso e dissanguato nel Paese; che nulla era più importante per la Chiesa, in quei momenti, che denunciare la repressione e dare speranza al popolo; che in simili occasioni gli aspetti canonici erano secondari; gli ricordai quanto detto da Gesù sul fatto che il sabato è per l’uomo. (…). Fu un’ora lunga e molto sgradevole, ma quel che mi impressionò di più fu l’assoluto silenzio di monsignor Romero durante tutto il tempo. (…). Conclusa la riunione, senza alzare la voce, senza entrare in discussioni sugli argomenti, disse più o meno queste parole: «Il Paese sta attraversando una situazione eccezionale di denuncia ed evangelizzazione. Io sono il responsabile dell’arcidiocesi e celebreremo la messa unica». (…). «Non capiscono» mi disse laconicamente, riferendosi alla nunziatura. Il 20 marzo si tenne la messa unica, e fu un successo pastorale senza precedenti. (…). Con quella messa, per monsignor Romero iniziò anche un lungo calvario di incomprensione e rifiuto gerarchico. (…). Nel Salvador soltanto monsignor Rivera gli rimase fedele. (…). Dal Vaticano gli inviarono tre visitatori apostolici in un anno e mezzo, con grande stupore dei salvadoregni che si domandavano quando sarebbe stato mandato anche un solo visitatore alle diocesi che non avevano alcun piano pastorale e a volte avallavano le azioni di un esercito criminale. A Roma le sue relazioni col cardinal Baggio furono molto tese. Il cardinale giunse a   parlargli perfino della possibilità che fosse nominato un amministratore apostolico – con pieni poteri -, ipotesi di fronte alla quale monsignor Romero chiese soltanto che la cosa fosse fatta con dignità, affinché il suo popolo non ne soffrisse, benché non credesse che quella fosse una soluzione valida. (…). Monsignor Romero scoprì quindi, proprio quando meno se l’aspettava, i limiti, gli intrighi e le meschinità dell’istituzione ecclesiale. Gli era difficile capire come fosse possibile che mentre il Paese era in fiamme e persino i sacerdoti venivano assassinati, lui trovasse non appoggio ma opposizione; come fosse possibile che mentre era in gioco il regno di Dio, i vescovi salvadoregni si preoccupassero che non accadesse nulla all’istituzione. Questo lo fece soffrire molto e negli ultimi tempi provava una vera e propria nausea all’idea di partecipare alle riunioni della Conferenza episcopale, perché vi si parlava una lingua totalmente diversa dalla sua. (…). Ho partecipato alla Conferenza di Puebla insieme ad altri teologi e sociologi per seguire più da vicino un avvenimento tanto importante e per offrire aiuto ai vescovi che l’avessero richiesto, dato che non eravamo stati invitati a partecipare ufficialmente. Una sera si tenne una riunione congiunta tra il nostro gruppo e un buon numero di vescovi che erano venuti a trovarci. (…). C’era anche monsignor Romero. (…). Ricordo che monsignor Romero era emozionato da tutto. Dalla fraternità della riunione, dalla sincerità delle nostre discussioni, dall’ambiente di fede e di Chiesa, soprattutto dalla vicinanza e solidarietà che mostravano i vecovi. Quasi con le lacrime agli occhi, disse: «Mi sono trovato come un fratello tra altri fratelli vescovi». (…) In breve tempo monsignor Romero dovette imparare a prendere, in prima persona, decisioni importanti e a dialogare con i suoi sacerdoti; dovette imparare la serenità per non aggravare la situazione e il coraggio per denunciare e affrontare i potenti; dovette imparare a dare speranza al popolo e a ricevere dal popolo la sua sofferenza, la sua fede e il suo impegno. Questo è quanto si notava esteriormente. Interiormente dovette apprendere la fede nel Dio dei poveri e nel Dio maggiore di tutto, anche delle sue idee precedenti e della stessa Chiesa, che per lui iniziava a prendere l’aspetto della croce. Dovette apprendere che non c’è nulla di più importante del regno di Dio, della vita, della speranza, dell’amore e della fraternità. Dovette apprendere che il luogo della Chiesa è la sofferenza dei poveri, la realtà dei popoli crocifissi, vero servo di Yahweh, come lui stesso avrebbe detto in seguito. Dovette apprendere non soltanto a dare, ma anche a ricevere luce e salvezza da quel popolo crocifisso. E lo apprese. (…).

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il commento al vangelo della domenica

 

CRISTO PATIRA’ E RISORGERA’ DAI MORTI IL TERZO GIORNO 

commento al vangelo della terza domenica di pasqua (19 aprile 2015) di P. Alberto Maggi

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Lc 24, 35-48

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi:
sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

Se nessun evangelista ci descrive il momento della risurrezione di Gesù, tutti in modi diversi ci danno indicazioni su come le comunità di tutti i tempi possono fare l’esperienza del risuscitato. Il brano che oggi esaminiamo è al capitolo 24 di Luca, dal versetto 35.
E’ la conclusione dell’episodio conosciuto come quello dei discepoli di Emmaus. In questo brano possiamo distinguere  cinque momenti importanti che sono indicazioni preziose per le comunità dei credenti di tutti i tempi. La prima è che Gesù viene riconosciuto nel momento dello spezzare del pane. E’ un’allusione all’Eucaristia dove Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, alimento di vita, perché quanti lo accolgono e poi sono capaci a loro volta di farsi pane, cioè alimento di vita, spezzando la loro vita per gli altri, diventino figli dello stesso Dio.
In questa dinamica di amore ricevuto e amore comunicato si fa l’esperienza del Cristo risuscitato. Quindi la prima indicazione: Cristo si riconosce nello spezzare del pane.
La seconda è che quando Gesù si manifesta, e questa è una caratteristica di tutti gli evangelisti, si pone sempre in mezzo. Gesù non si mette né in alto, né davanti, il che avrebbe creato una gerarchia tra chi gli è più vicino. Gesù si mette in mezzo e tutti i discepoli sono attorno. C’è una uguaglianza di relazione con lui. Gesù in mezzo non attrae verso se, non assorbe le energie dei suoi, ma comunica loro le sue e li spinge per quello che è un mandato.
E quando Gesù si manifesta, non augura la pace, non dice “la pace sia con voi”, ma dona la pace, che rappresenta quello che concorre alla pienezza della felicità degli uomini. Nel brano in questione i discepoli sono sconcertati perché per loro Gesù è morto e non sanno spiegare come se lo ritrovano vivo, allora Gesù vuol far comprendere loro che non è uno spirito, ma una persona che ha la condizione divina.
La condizione divina non annulla la fisicità della persona, ma la dilata e la trasfigura. E’ in questo senso che poi San Paolo nella prima lettera ai Corinti dirà: “Si passa da un corpo animale a un corpo spirituale”. E per questo l’immagine che l’evangelista ci dà di Gesù, che prende il pesce arrostito e lo mangia.
Per comprendere quello che sta accadendo l’evangelista poi mette quest’espressione strana: Poi disse: “Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi”. Come sarebbe “quando ero ancora con voi?” C’è in questo momento, ma adesso lo è in una maniera differente, quindi la possibilità dell’esperienza del Cristo risuscitato è per il credenti di tutti i tempi in una maniera naturalmente differente.
Poi Gesù apre la mente alle scritture. Come fa Gesù ad aprire la mente alle scritture? Lo ha fatto già con i discepoli di Emmaus interpretandole. Le scritture vanno lette con lo stesso spirito con cui sono state scritte, cioè l’amore di Dio per l’uomo. Allora per comprendere le scritture bisogna mettere come valore assoluto nella propria esistenza l’amore assoluto di Dio per l’umanità.
Questo fa comprendere la scrittura. Ecco perché l’evangelista dice: Allora aprì la loro mente per comprendere le scritture.
E infine come abbiamo detto Gesù non assorbe i discepoli per sé, non li attrae, ma comunica la sua forza e li spinge fuori. Ed ecco il mandato finale. Inviare tutti i popoli, si intendono i popoli pagani, a predicare la conversione, il cambiamento di vita. La conversione nei vangeli significa un cambio di vita radicale nel proprio comportamento, nella scala dei valori, di non vivere più per sé, per i propri bisogni, ma per il bene e i bisogni degli altri.
Questo atteggiamento di radicale rottura con il proprio passato e orientamento della propria vita al bene degli altri ottiene il perdono dei peccati. Dice Gesù: “la conversione per il perdono dei”, cioè la cancellazione de peccati,  non come è stato tradotto “la conversione e il perdono dei peccati”.
Gesù con una nota polemica aggiunge: “Cominciando da Gerusalemme”. L’evangelista adopera il termine sacrale Ierusalem, che indicava l’istituzione religiosa. Ebbene per Gesù l’istituzione religiosa, Gerusalemme, la equipara ai popoli pagani. Anch’essa ha bisogno di conversione per ottenere il perdono dei peccati

 

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