le donne fanno domande ‘impertinenti’ al papa

 

Tre domande sulle donne a Bergoglio

 

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sette donne giovani e meno giovani, credenti e laiche scrivono al Papa sull’ultimo numero della rivista Leggendaria, in “pagina99” del 12 febbraio 2014

a nome loro Giovanna così scrive, con simpatia ma anche con franchezza:

 Caro Francesco,

non si preoccupi, se mai vedrà queste righe, né si preoccupino le lettrici: non si tratta di una vera missiva. È difficile rivolgere delle domande in astratto. Dunque la lettera è la forma retorica che meglio si attaglia alle mie impertinenze. Si, perché sarò impertinente. Dunque, per farmi perdonare, premetto una captatio benevolentiae. Sincera, però. Lei mi è molto simpatico. Dirò di più, la sua vicinanza (la sua casa dista dalla mia una sola fermata di trenino urbano) mi ispira un senso di protezione e di quiete. Mi capita talvolta di percepirlo. Sarà la mia senescenza, sarà la totale assenza di autorevolezza maschile in questo nostro povero Paese, fatto sta che lei mi piace molto. Lei penserà che sono una credente o una convertita. In realtà non sono niente. E il niente è un luogo dove molti spiriti religiosi sostengono che non è troppo scomodo stare. Penso, come il Cardinal Martini, che «il mondo, più che tra credenti e non credenti, si divida fra pensanti e non pensanti» e credo anche, come i miei amici del monastero di Bose, che tutti a tratti siamo credenti e a tratti non lo siamo. I miei tratti da credente sono molto brevi, ma mi portano   intuire qualcosa, forse, di elementare: che gli atei portano in sé un’ingenua invidia per i  redenti, l’invidia per l’illusione dell’immortalità, e che questa invidia li rende aggressivi o  sufficienti.

1. Perché non capisce che il concetto di parità e quello di differenza non sono in conflitto l’uno con l’altro? Non mi è piaciuta per nulla la sua risposta a un giornalista della Stampa: «Nominare una donna Cardinale sarebbe una forma di clericalizzazione; non dobbiamo clericalizzare le donne». Guardi, questa è un trappola infernale. L’unica sua attenuante è che persino il femminismo le offre un alibi: troppo spesso ha usato il pensiero della differenza per sottrarsi alle durissime sfide dell’uguaglianza. Nomini le donne cardinali, le metta a capo delle congregazioni, si decida all’ordinazione sacerdotale in tempi storici, visto che nulla osta in termini di dogma e di dottrina. Poi, se le consacrate o le principesse della chiesa sapranno esprimere una differenza, saranno in grado di rendere la Chiesa più democratica e inclusiva, più comunità dei credenti e meno Curia, tanto meglio così. Io, a dirle la verità, sarei pronta a scommetterci, se praticherete la  giustizia e l’uguaglianza come conviene a una comunità che aspira alla virtù. Del resto, il  trucco della diversa vocazione femminile lo conoscono anche i laici e benissimo: hanno dovuto rinunciarci obtorto collo perché nel contratto sociale la tradizione non è un valore. Ma deve sbrigarsi.

2. Il suo linguaggio è molto bello. Misericordia, custodia, dialogo, discernimento, frontiera. Non so quale di queste parole mi piace di più e mi incanta il suo modo di dipanarle come una gomitolo nell’intervista con Antonio Spadaro. Lei di sicuro non è un pretino ingenuo: ha anche studiato di psicoanalisi sui testi di Michel De Certeau, allievo di Lacan. Ma allora come le viene in mente di dire, sempre nell’intervista a Spadaro: «Credo in Maria […] quel volto meraviglioso […] che voglio conoscere e amare»? Mi ha fatto venire le bolle. Ma insomma, proprio lei che dice magnificamente che «la verità è relazione» non ha nessuna relazione con il suo inconscio? Non le viene il dubbio che in un mondo e in una vita fatta tutta di uomini e fra uomini quella «vergine bella più che creatura» sia una sua proiezione irrisolta del femminile, una parte di Anima, direbbe uno junghiano, che lei non ha integrato? Meister Eckhart, un grande mistico diceva: «Prego Dio che mi liberi da Dio». Penso intendesse dalle incrostazioni antropologiche dell’immagine del divino. Lo si potrebbe pregare anche per essere liberati dalla Madonna? O è blasfemo?

3. Ancora non mi rassegno al fatto che, nel congedarsi da Eugenio Scalfari, lei abbia detto «rivediamoci per parlare del ruolo delle donne nella Chiesa». Ma cosa vuole che ne capisca Scalfari delle donne e delle donne nella Chiesa? Un anziano patriarca burbanzoso. Ascolti Francesco, parli con noi. Non ha che l’imbarazzo della scelta. Dal Vaticano II in poi la scienza teologica e la competenza delle donne si è moltiplicata e ormai esiste una tradizione di parole femminili sul divino. Per non dire delle cosiddette non credenti, schiere di creature colte e intelligenti. Si faccia vivo, non ci sottrarremo. Se vuole possiamo portare un’anfora come la Samaritana e darle da bere se ha sete.

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il Francesco d’Assisi di Dario Fo

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Francesco santo e giullare

Chiara Affronte in “l’Unità” del 16 febbraio 2014 descrive così la ripresentazione  de Lu Santu giullare Francesco di Dario Fo 15 anni dopo il debutto, in cui l’autore intende rappresentare ” la «vera» storia del frate di Assisi, ripulita dalla censura che tentò di edulcorare l’immagine di un ribelle, santo, ma rivoluzionario”:

Dario Fo è tornato in teatro, sei mesi dopo la scomparsa di Franca Rame, sua compagna di vita e di scena. «Un po’ di timore», confessa lui, alla fine del primo tempo. Forse una lacrima e un «grazieeee» roboante, liberatorio che ricorda tanto quel «ciaoooo» infinito con cui sei mesi fa Fo salutò l’attrice. Bologna la palestra della ripresentazione de Lu Santu giullare Francesco, 15 anni dopo il debutto, e questa volta lo spettacolo dovrebbe diventare una trasmissione televisiva: la «vera» storia del frate di Assisi, ripulita dalla censura che tentò di edulcorare l’immagine di un ribelle, santo, ma rivoluzionario. E basta guardare uno dei tanti dipinti – tantissimi e tutti da lui realizzati – che Fo mostra al pubblico per immortalare in immagini la scena che sta raccontando. «La gioia di Francesco e dei suoi fratelli per l’accettazione della regola», è un esempio di ciò che lo spettacolo restituisce: un tripudio di colori per esprimere una gioia dirompente, che non ha niente a che vedere con la riverenza modesta e contenuta, perché è un vero e proprio ballo, che pare  dirittura sfrenato. Questo, infatti, è uno dei momenti più forti dello spettacolo, insieme a quello in cui il santo decide di abbandonare i beni materiali, e si aggira «ignudo» per le strade di Assisi. Così come quello dell’incontro con il lupo è forse uno dei racconti più divertenti, insieme all’episodio delle Nozze di Cana. Francesco vuole raccontare il Vangelo ovunque, nelle piazze, nei mercati. «Nelle chiese mai?», chiede il cardinale Colonna. «Lì ci sono già i preti, non vogliamo creare confusione», la replica del santo. Ma è papa Innocenzo a dover dare il suo benestare. E lui prima cerca di umiliarlo mandandolo a predicare ai porci: Francesco lo fa, torna, sporco e felice, perché «per farsi ascoltare dagli umani bisogna prima parlare con gli animali». Ma poi lo accoglie, forse a suo modo colpito alla forza della carità di quell’uomo che si taglia i capelli in un modo così strano. Non c’è  sberleffo satirico diretto verso la società contemporanea, nessun politico di oggi viene nominato. Solo il papa, Bergoglio, che non a caso per Fo ha scelto questo nome. Ma tutto lo spettacolo è un’immensa allegoria, dove tornano i temi più attuali: dalla bramosia di potere alla corruzione, dalla violenza alla pena di morte, dalla forza dei puri all’ottusità dei conservatori. Fo spiega di avere utilizzato per questo spettacolo testi riscoperti in lontani monasteri due secoli fa, e rimasti per tantissimo tempo nascosti. Ma anche leggende popolari e testi canonici del ‘300. L’obiettivo è quello di raccontare la forza dirompente di Francesco che dialoga con il lupo e gli chiede – ululando nella sua lingua – di diventare un po’ meno lupo e un po’ più cane così che i pastori smettano di odiarlo: «Famme homo, anche moderato!», esclama l’animale non più feroce, scodinzolando.  Se ci si trova un po’ spaesati all’inizio, per la scelta di Fo di parlare nel volgare del tempo, con quella forte inflessione umbra – la sensazione passa in fretta: la lingua diventa familiare dopo le prima battute e la gestualità del premio Nobel conduce verso al stessa direzione: lui può anche solo spalancare gli occhi, ma ha già detto mille cose. Come Francesco, del resto, che utilizzava il linguaggio giullaresco del corpo e degli occhi per comunicare alla gente. Così infatti fece quella volta, il 15 agosto del 1522, quando venne chiamato a Bologna per tenere un’ orazione sul tema «caldo» del momento: la guerra con i nemici imolesi. Il frate poteva scegliere se parlare ai pochi in latino o ai tanti in volgare. E scelse la seconda strada: un volgare ben diverso da quello compreso a Bologna. Ma il codice giullaresco fece il resto e l’operazione riuscì. Sarà anche per questo motivo, forse, che Fo ha deciso di ricominciare proprio dalle due torri.

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a proposito della ‘spedizione punitiva’ vigliacca a Genova contro i clochard

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immagini che danno i brividi per ferocia e cattiveria, che non vorremmo mai vedere perché di una violenza tanto inaudita quanto inutile quelle che sono state estratte dai video delle telecamere di sorveglianza di un negozio di Piccapietra che la notte del 25 gennaio hanno immortalato la terribile aggressione a quattro clochard che dormivano lungo una strada del centro di Genova. La sequenza di scatti proposta dal Corriere Mercantile mostra il commando di quattro uomini che si avvicina alla tenda e al rifugio di cartoni in cui dormivano le due coppie di senza tetto rumene. Poi il pestaggio con manganelli e tubi di ferro. Pochi secondi ma che bastano per provocare fratture, traumi, ferite e terrore. Nel mirino degli inquirenti ci sarebbero quattro giovani italiani probabilmente appartenenti al mondo ultrà, che avevano avuto un diverbio con i clochard qualche settimana prima

così opportunamente riflette ne ‘la Repubblica’ odierna Gad Lerner:

Quella ferocia contro i clochard

di Gad Lerner

La ferocia abbattutasi su due coppie di senzatetto che dormivano all’aperto in un gelido sabato notte, nel pieno centro di Genova, si presenta ora nuda e cruda sotto i nostri occhi, grazie ai fotogrammi sconvolgenti di una telecamera di sorveglianza. Guardiamoli. Impossibile girare la testa. Vediamo quattro giovani resi anonimi dalle felpe o da passamontagna. Hanno i guanti per non lasciare impronte. Impugnano chi un tubo Innocenti, chi un manganello, chi mazze d’altro genere . Si appostano, fermi in attesa che il capo dia un segnale. Quindi, all’unisono, si avventano sui corpi addormentati. Bastonano con furia mirando alle teste sopra un giaciglio di cartone e una tendina da campeggio estivo. Li vediamo usare tutte e due le mani per colpire con maggior forza. Trentuno secondi in tutto, poi fuggono. Anche i clochard meritano di essere riconosciuti per nome. Si chiamano Alice Velochova e Jan Bobak (ora è fuori pericolo, dopo una difficile operazione alla testa); e poi Susana Jonasova e Jonas Koloman (lui pure ferito grave). Hanno cittadinanza europea, slovacca. Sono vivi per miracolo. E allibiti. I frequentatori del salotto buono di Genova, fra piazza De Ferrari e i portici di Piccapietra, fino al Teatro Carlo Felice e alla Galleria Mazzini, hanno una certa familiarità con questi clochard talvolta alticci e importuni, senza mai essere pericolosi. Cercano una grata che sputi aria calda dal parcheggio sottostante, s’imbottiscono di giornali, bevono vino dal cartone e tirano su una coperta. Getti uno sguardo, provi disagio e passi oltre.   tentazione è di liquidarli come umanità di scarto, destinata prima o poi allo smaltimento. Gli stessi volontari e assistenti sociali che cercano di farsene carico offrendo loro un ricovero, spesso trovano ostacolo nel loro disagio psichico che li spinge ad aggrapparsi a un’illusoria autonomia: il loro illusorio simulacro di libertà. Talora occorrono anni di consuetudine per vincere la loro diffidenza e convincerli a lasciarsi curare. È anche il nostro alibi: cosa possiamo farci se rifiutano un  tetto? Solo che il “fenomeno”, se così vogliamo chiamarlo, lungi dal circoscriversi tende all’espansione. In mezzo alla strada arrivano pure gli sfrattati italiani e magari vanno fuori di testa persone che fino a ieri erano i nostri vicini di casa. Gli scarti umani si moltiplicano e insieme a loro non cresce la pietà ma piuttosto quella oscura tentazione dello smaltimento. Già, perché gli scarti  mani tendono a raggrupparsi in centro, dove trovano isole pedonali, compagnia, illuminazione, qualche grado entigrado in più e il lusso da rimirare. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, a Genova i clochard sarebbero duecento. A Milano gli studenti della Bocconi hanno fatto un censimento (“raccontaMi”) e ne hanno contati 2616. Nasconderli è diventato impossibile, e ora tocca fare i conti con chi vorrebbe semplicemente spazzarli via. Speriamo che la polizia sappia dirci presto chi sono i quattro giustizieri della notte, con età compresa fra i 20 e i 30 anni, che volevano ripulire a modo loro le strade della movida. Si vocifera di ultrà da stadio, ma chissà. In cerca di spiegazioni si ipotizza una vendetta seguita a un conflitto territoriale nei giorni precedenti. Ha poco senso anche parlare di razzismo: questi si sono avventati su corpi dormienti come gli toccasse debellare non persone, ma una nuvola di insetti nocivi. Già prima di guardare le fotografie in cui si descrive l’odio che culmina nel crimine, si era mossa una trentina di cittadini genovesi,  andosi appuntamento per una notte di condivisione all’addiaccio in Galleria Mazzini. Si sono appuntati sul sacco a pelo un foglietto con scritto: “Io è te”. D’accordo, “Io è te”. Ma invece chi sono loro? Chi sono i quattro incappucciati propagatori di questa atroce pulizia cittadina? Da tempo avvertiamo che la serpeggiante propaganda del disprezzo per gli untermensch (sottouomini) — così i nazisti etichettavano i popoli inferiori non degni di vivere — rischia di sfuggire al controllo di chi aspira solo a lucrarci vantaggi politici. Il passaggio dalle parole ai fatti, la militarizzazione del rancore, l’importazione dalla Grecia dell’ideologia criminale organizzata di Alba Dorata, forse sono già un fatto compiuto anche tra noi. I pogrom, i linciaggi del Ku Klux Klan, non sono eventi lontani. Le obbrobriose fotografie del massacro di Piccapietra ci resteranno impresse come una testimonianza indelebile  .

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p. Maggi e p. Pagola commentano il vangelo

p. Maggi

COSI’ FU DETTO AGLI ANTICHI, MA IO VI DICO 

Commento al Vangelo della sesta domenica del tempo ordinario di p. Alberto Maggi

Mt 5,17-37

 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli. Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto  al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà destinato al fuoco della Geènna. Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo! Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».

L’annuncio di Gesù delle beatitudini come nuova alleanza tra Dio e il suo popolo, non deve essere stato ben accolto dal popolo stesso e neanche dai discepoli. Perché? Loro s’aspettavano la venuta del regno come segno di grande splendore e manifestazione di potenza, Israele si sarebbe impossessata delle ricchezze delle nazioni pagane che avrebbe dominato. E quindi l’invito di Gesù con le beatitudini, che non è quello di arricchirsi ma addirittura quello di ondividere e di mettersi a servizio degli altri, non deve essere stato accettato. Ecco perché Gesù dice ‘no’. E’ il capitolo 5 di Matteo versetto 17, “ «Non crediate che io sia venuto a …»e usa il verbo non abolire, che si può adoperare per una leggere, ma ‘abbattere, demolire’, che si adopera per un edificio, «…la legge o i profeti»”, modo con il quale si indica quello che noi chiamiamo Antico Testamento.

Quindi Gesù dice: “Quella costruzione del regno che ha attraversato tutta la legge e i  profeti, io non sono venuto a demolirla”, ma “«sono venuto a dare pieno compimento»”, non come voi pensate, ma come vi dico io, cioè non attraverso l’accumulo delle ricchezze, ma attraverso la pratica della condivisione, non attraverso il dominio degli altri, ma attraverso il servizio. E, soprattutto, non per un popolo  ma rivolto a tutta l’umanità. E Gesù continua: «In verità»”, assicura Gesù, «”che fintanto che non siano passati il cielo e la terra»”, maniera per dire il cosmo intero, “neanche il minimo elemento dell’alfabeto ebraico”, lo iota , “«sarà eliminato o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto»”. Quindi Gesù garantisce la piena realizzazione del progetto del regno. Quando c’è una comunità che accoglie le beatitudini il regno diventa realtà e dopo deve solo allargarsi ed estendersi. Poi Gesù ammonisce: «Chiunque trasgredirà»”, letteralmente ‘ignorerà, tralascerà’, «uno di questi minimi precetti»”, non si riferisce ai precetti della legge di Mosè che Gesù non ha nominato, ma riguarda le beatitudini, che, in confronto alla grandezza, all’importanza, alla severità dei comandamenti, Gesù definisce minimi. Ebbene, chi ignora le beatitudini, sarà considerato minimo, o al contrario grande, nel regno dei cieli, laddove il grande è colui che le osserva. Queste espressioni minimo o grande non indica una gerarchia nel regno di Dio, ma indica l’appartenenza o l’esclusione. Quindi chiunque ignora queste beatitudini sarà escluso dal regno, chi le pratica vi sarà ammesso. Ricordo che ‘regno dei cieli’ è una formula adoperata soltanto da Matteo per indicare il regno di Dio, quindi non si tratta di un regno nei cieli, l’aldilà, ma del regno di Dio, la nuova società che Gesù è venuto a inaugurare, dove Dio governa gli uomini non emanando leggi che questi devono osservare, ma comunicando loro il suo Spirito. E proprio per questo Gesù ammonisce i suoi discepoli dicendo: «Se la vostra giustizia»”, si intende la fedeltà all’alleanza, «non supererà quella degli scribi e dei farisei»”, cioè una fedeltà formale, una fedeltà legata alla lettera, ma non allo Spirito, «non entrerete nel regno dei cieli»”. Quindi se non c’è una fedeltà diversa da quella letterale e formale di scribi e farisei, non c’è appartenenza al regno. E poi Gesù incomincia a demolire – ecco questo sì – le tradizioni del passato per sostituirle con qualcosa di nuovo, di incommensurabilmente più bello. «Avete inteso che fu detto agli antichi …»”, è provocatoria questa espressione di Gesù. Avrebbe dovuto dire “Avete inteso che fu detto ai nostri padri”, e invece Gesù parla di antichi, quindi qualcosa di negativo. “ «Non ucciderai»”, ebbene Gesù dice «Ma io vi dico»”, e qui pronuncia per sei volte questa espressione con cui sostituisce il nuovo della sua alleanza al vecchio, a quello degli antichi, “ «chiunque si arrabbia con il proprio fratello sarà sottoposto al giudizio »”, e chi lo insulta sarà sottoposto al sinedrio, il massimo organo giudiziario, e chi addirittura gli dice “pazzo”, che ha il significato di ‘rinnegato’, «Sarà destinato al fuoco della Geènna »”. Cosa vuol dire Gesù? Quando nel rapporto con l’altro tu ti arrabbi e non disinneschi subito questa rabbia, e questa rabbia si trasforma in insulto e l’insulto arriva addirittura ad escludere l’altro dalla tua  vita – questo è il significato di ‘pazzo’ – ebbene sei destinato al fuoco della Geènna, l’immondezzaio di Gerusalemme. Cioè Gesù dice ai suoi discepoli: “Chi esclude qualcuno dalla propria vita si esclude dalla vita di Dio”. Ed ecco perché è importante, dice Gesù, che prima del rapporto con Dio, la necessità è una buona relazione con i fratello. Ecco allora che Gesù fa l’esempio. «Se presenti l’offerta all’altare e ti ricordi , non che tu hai qualcosa contro tuo fratello, ma che tuo fratello ha  qualcosa contro di te, vai a riconciliarti. Quindi la riconciliazione e la serenità nella comunità è talmente importante che precede i doveri nei confronti di Dio. E per questo Gesù dice di avere un atteggiamento di benevolenza verso l’altro. E poi continua «Avete inteso … »”  e qui tratta il tema delicato dell’adulterio, «… non commetterai adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna »”,  e utilizza il termine per indicare la donna sposata, quindi la moglie di qualcuno, “«per desiderarla»”. Non si tratta qui del desiderio sessuale normale dell’uomo verso la donna, che fa parte dell’ordinamento della creazione, ma di considerare la donna di un altro come un oggetto di cui impossessarsi. Ebbene, per Gesù, «costui ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore»”, nella propria coscienza. E Gesù dà delle indicazioni, dei rimedi. «Se il tuo occhio »”, ha parlato di guardare e l’occhio indica il desiderio, «.. ti è motivo di scandalo»”, cioè di inciampo, “«cavalo e gettalo via da te »”,  cioè se c’è qualche criterio nella tua vita, qualche atteggiamento – poi Gesù farà l’esempio della mano che indica l’attività – ebbene, anche se doloroso, estirpa questi atteggiamenti dalla tua vita, perché altrimenti ti portano alla distruzione. Infatti dirà Gesù «Piuttosto che il tuo corpo venga gettato nella Geènna»”. Quindi se nella tua vita c’è qualche atteggiamento, qualche comportamento, che sai che ti può essere di inciampo per la pienezza della tua esistenza, eliminalo, anche se doloroso, piuttosto che rovinare completamente la tua esistenza. E Gesù poi tratta anche del ripudio. Qui non si tratta del divorzio, ma del ripudio, azione unilaterale dell’uomo nei confronti della propria moglie. E poteva essere ripudiata per qualunque cosa. Ebbene Gesù non è d’accordo. Dice: «Chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di … »”, e Matteo adopera il termine porneia, che ha una vasta gamma di  significati, proprio per non far cadere nella casistica le parole di Gesù. E qui viene tradotto con «Unione illegittima e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio»”. E infine Gesù si rifà al rapporto che deve esistere all’interno della comunità, un rapporto di sincerità e di grande schiettezza, e quindi si rifà alla pratica del giuramento che Gesù esclude assolutamente all’interno della sua comunità. Dirà Gesù: «Sia invece il vostro parlare ‘sì, sì, no, no’»”. Quindi la bocca deve esprimere quello che contiene il cuore, quello che contiene la mente, senza alcuna doppiezza o falsità perché, avverte Gesù, «il di più viene dal maligno»”. Il maligno, il diavolo, è quello che, secondo la Bibbia e secondo Gesù, ha introdotto nel mondo la menzogna, ed è immagine del potere. Il di più nel parlare è a uso e consumo delle strutture di potere per dominare gli altri, quindi Gesù invita, nel rapporto con i fratelli, nel rapporto all’interno della comunità, un linguaggio di schiettezza, non un linguaggio diplomatico, non un linguaggio di convenienza, ma chiaro e diretto.

NO ALLA GUERRA TRA NOI

jl commento di p. Pagola

Gli ebrei parlavano con orgoglio della Legge di Mosè. Secondo la tradizione, Dio stesso l’aveva donata al suo popolo. Era la cosa più bella che avevano avuto da lui. In questa Legge si racchiude la volontà dell’unico vero Dio. Lì possono trovare tutto quello di cui hanno bisogno per essere fedeli a Dio.
Anche per Gesù la Legge è importante, ma non occupa più il posto centr…ale. Egli vive e comunica un’altra esperienza: sta arrivando il Regno di Dio; il Padre sta cercando di aprirsi una via in mezzo a noi per fare un mondo più umano. Non basta accontentarci di compiere la Legge di Mosè. È necessario aprirci al Padre e collaborare con lui nel fare una vita più giusta e fraterna.
Per questo, secondo Gesù, non basta compiere la legge che ordina “Non uccidere”. È necessario, in più, strappare dalla nostra vita l’aggressività, il disprezzo dell’altro, gli insulti o le vendette. Chi non uccide, compie la Legge, ma se non si libera dalla violenza, nel suo cuore non regna ancora quel Dio che cerca di costruire con noi una vita più umana.
Secondo alcuni osservatori, si sta estendendo nella società attuale un linguaggio che riflette l’aumento dell’aggressività. Sono sempre più frequenti gli insulti offensivi proferiti solo per umiliare, disprezzare e ferire. Parole nate dal rifiuto, dal risentimento, dall’odio o dalla vendetta.
D’altra parte, le conversazioni sono frequentemente intessute di parole ingiuste che diffondono condanne e seminano sospetti. Parole dette senza amore e senza rispetto, che avvelenano la convivenza e fanno male. Parole nate quasi sempre dall’irritazione, dalla meschinità o dalla bassezza.
Questo non è un fatto che avviene solo nella convivenza sociale. È anche un grave problema nella Chiesa attuale. Papa Francesco soffre nel vedere divisioni, conflitti e scontri di “cristiani in guerra contro altri cristiani”. È una situazione tanto contraria all’Evangelo che ha sentito la necessità di rivolgerci un appello urgente: “No alla guerra tra noi”.
Così parla il Papa: “Mi fa male costatare come in alcune comunità cristiane, e anche tra persone consacrate, consentiamo a diverse forme di odio, calunnie, diffamazioni, vendette, gelosie, desideri di imporre le proprie idee ad ogni costo, e fin persecuzioni che sembrano un’implacabile caccia alle streghe. Chi andiamo a evangelizzare con questi comportamenti?”. Il Papa vuole lavorare per una Chiesa nella quale “tutti possano vedere come vi prendete cura gli uni degli altri, come vi incoraggiate vicendevolmente, e come vi accompagnate”.
José Antonio Pagola.
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il s. Valentino dal papa

 

Il San Valentino del Papa si trasforma in show, 25mila fidanzati da ogni parte del mondo

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Papa Francesco ha sempre stupito i suoi fedeli, ora, in vista della Festa degli innamorati, si prepara a un vero e proprio show, con 25mila coppie di fidanzati, provenienti da tutte le parti del mondo, in Piazza San Pietro, che si incontreranno a San Valentino per ascoltare la parola del Pontefice. Francesco ha motivato così la sua decisione “Non sono ancora sposati, ma si amano e vogliono amarsi per sempre”. Forse il Papa sta cercando anche di colmare quel gap tra i giovani e la Chiesa che negli ultimi hanni si è ancora più acuito.

san valentino

di seguito l’articolo in cui A. Cazzullo descrive da par suo l’evento:

Il San Valentino di papa Francesco in piazza con 25 mila fidanzati

di Aldo Cazzullo

in “Corriere della Sera” del 11 febbraio 2014

 

«Non sono ancora sposati, ma si amano e vogliono amarsi per sempre». Con questa motivazione, papa Francesco festeggerà san Valentino con 25 mila fidanzati. Un avvenimento senza precedenti nella storia della Chiesa: alle 11 e mezza di venerdì 14 febbraio, piazza San Pietro si aprirà a coppie di fidanzati venuti da 20 Paesi; la maggior parte sono italiani, ma ci saranno anche francesi, spagnoli, americani, asiatici. Un’ora di dialogo in mondovisione, con domande e risposte del Papa, conclusa da una benedizione. Una sola condizione: i fidanzati sono «promessi sposi», che contrarranno il matrimonio entro l’anno. In un primo tempo, la cerimonia era prevista nell’aula Nervi, intitolata a Paolo VI. Ma le adesioni via Internet sono state tante che in pochi giorni i 7 mila posti erano già bruciati. E quando si è arrivati a quota 25 mila il Vaticano ha deciso: si farà in piazza san Pietro. L’idea è di Vincenzo Paglia, presidente del pontificio consiglio sulla famiglia, ed ex vescovo di Terni. «Nel terzo secolo dopo Cristo, vescovo di Terni era Valentino — racconta Paglia —. Secondo la tradizione, il santo intervenne per consentire il matrimonio tra una giovane cristiana e un militare pagano. Neanche allora i matrimoni erano facili. La notizia si sparse, e in molti andarono da lui per chiedere aiuto. Ogni anno a Terni si tiene la festa della promessa, vengono in tanti a chiedere la benedizione. Da qui l’idea, in un tempo di spaesamento, di smarrimento, di crisi del matrimonio, di ridare uno scatto alla festa di san Valentino, di coglierla nella sua forza. Debbo dire che il Papa era rimasto contento dell’iniziativa fin dall’inizio. Ma non ci aspettavamo una risposta  simile». Dice Paglia che «è un’esplosione certamente singolare, che va colta nella sua profondità, in una società in cui il matrimonio viene spostato sempre più in avanti negli anni, quando i problemi sono già tutti risolti. Questi fidanzati, invece, si sposano per edificare insieme il futuro, per poter risolvere insieme i problemi, per costruire insieme una casa che sia stabile per loro e per i loro figli». Proprio ieri il Corriere dava notizia dei sette milioni di giovani italiani tra i 18 e i 34 anni che vivono con almeno un genitore. «È un dato che non può non rendere pensosi — commenta Paglia —. La politica deve assolutamente dare una risposta. Se non c’è casa e non c’è lavoro, è ovvio che si ritardi il tempo del matrimonio; ma in questo modo si ritarda l’edificazione della società. Sposarsi da giovani vuol dire rendere la società più dinamica, offrire l’esercizio della responsabilità già in età giovanile e non solo adulta. Piazza San Pietro piena di fidanzati sembra voler dire che una risposta è possibile. Io mi auguro che l’esempio di papa Francesco sia contagioso presso i politici, gli economisti, gli operatori di cultura, perché mettano al centro della loro attenzione la questione della famiglia». Bergoglio ha voluto che tutta la Chiesa per due Sinodi — il primo nell’ottobre 2014, il secondo un anno dopo — discutesse di famiglia, vista sia come tema ecclesiale sia come tema sociale. E sulla comunione ai divorziati, a cui già Ratzinger aveva aperto, durante un dialogo pubblico con coppie — sposate però — a Milano nel giugno 2012, adesso si profila un confronto tra i vescovi. «Ogni risposta è prematura — dice per ora Paglia —, anche perché la questione va affrontata nel più vasto orizzonte della condizione delle famiglie dei divorziati e dei risposati. Non tutti i casi sono uguali e non si può dare una risposta semplificata a una situazione complessa, che sarà analizzata con attenzione durante i lavori del Sinodo. Non c’è dubbio che la via della misericordia nella verità sarà percorsa fino in fondo». Dietro il San Valentino 2014, che si profila a suo modo storico, c’è ovviamente la popolarità di Francesco. «Il Papa riesce a intercettare questa domanda, questo bisogno di futuro —  sostiene Paglia —. Il problema del matrimonio e della famiglia, prima di essere una questione di dottrina, è una questione di risposta alla solitudine. Questi giovani che verranno qui in piazza San Pietro e ci hanno stravolto il programma sono controcorrente. Non hanno paura di sposarsi in un mondo che non crede più ai legami che durano per sempre. Non hanno paura di mettere su una famiglia in un mondo in cui si crede che è bene che ciascuno pensi a se stesso. In questo senso, questi giovani sono un segno di speranza per la Chiesa e per il mondo. Non che sposarsi risolva di per sé le difficoltà; ma a mio avviso si tratta di ridare fascino al matrimonio religioso. Tra l’altro, le statistiche in Italia mostrano che chi si sposa in chiesa si separa di meno. Non dobbiamo attutire l’ideale del matrimonio; dobbiamo rilanciarlo nel suo fascino e nella sua forza. In una società che si defamiliarizza, magari con l’idea che “tutto è famiglia”, c’è bisogno di riproporre l’altezza del matrimonio e della famiglia».

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il Porrajmos in Italia

presentazione del libro “Il Porrajmos in Italia”

Venerdì 14 febbraio, alle ore 18.00, presso la Sala delle Colonne alla Biblioteca Baratta sarà presentato dagli autori Luca Bravi e Matteo Bassoli il libro “Il Porrajmos in Italia”. Il volume ricostruisce, per la prima volta in maniera organica, le vicende del Porrajmos in Italia (1922-1945). Durante l’evento l’attrice Miriam Camerini leggerà parti del libro e canterà canzoni della tradizione ebraica e sinta.
Il termine Porrajmos, divoramento, indica la persecuzione e lo sterminio subito da rom e sinti in Europa durante il nazifascismo. In Germania, un memoriale ricorda le vittime del Porrajmos causate dalla politica razziale nazista, mentre in Italia il ruolo del fascismo nella persecuzione di rom e sinti rappresenta ancora una pagina di storia sconosciuta, se non, più spesso, negata. 
 
Attraverso i documenti d’archivio e le testimonianze dirette ed indirette raccolte all’interno del progetto europeo MEMORS (2012-2013) dell’Associazione Sucar Drom il volume evidenzia la presenza di una politica fascista di stampo razziale diretta verso gli “zingari” in Italia, caratterizzata da una progressiva radicalizzazione dopo il 1938: la pulizia etnica alle frontiere, i respingimenti e le espulsioni di rom e sinti stranieri, la creazione di specifici campi di concentramento sul territorio nazionale riservati anche a rom e sinti di cittadinanza italiana, fino alle deportazioni nei lager del Terzo Reich, con l’avvento della Repubblica sociale italiana. Si tratta di una storia assente dalla narrazione collettiva nazionale che questo testo recupera con l’obiettivo di farne una pagina di memoria italiana ed europea.
 
Due sono le ragioni che hanno spinto l’associazione Sucar Drom a promuovere e divulgare gli studi sul Porrajmos in Italia. La prima sono i racconti fatti da alcune sinte mantovane: Dolores Carboni, Adelaide De Glaudi, Candida Ornato e Marsilia Del Bar. Raccontavano l’internamento in campi di concentramento, la deportazione in Germania, le torture subite dai sinti. In particolare, Dolores Carboni raccontava che i “peggiori” erano i fascisti, “quella brutta razza!”
 
La seconda ragione è che sembrava impossibile che l’Italia, la quale aveva dato i natali a Cesare Lombroso, non avesse elaborato una propria «scienza razziale» contro le minoranze sinte e rom. Cesare Lombroso nel suo testo famosissimo in Occidente “L’uomo delinquente” affermava che alcune persone, ben riconoscibili dalle caratteristiche fisiche, erano portatori di tratti criminali e/o anti-sociali dalla nascita, per via ereditaria. Questo l’incipit della sua descrizione razzista per sinti e rom: «sono l’immagine viva di una razza intera di delinquenti e ne riproducono tutte le passioni ed i vizi».
 
Dalla fine degli Anni Novanta si è iniziato a raccogliere direttamente le testimonianze e a spiegare nelle Comunità sinte e rom in Italia l’importanza di raccogliere i racconti dei sopravvissuti. Sotto questo ed altri impulsi si è formato l’Istituto di Cultura Sinta e successivamente, nel 2003, è stato pubblicato il primo testo sull’argomento, titolato “Porrajmos”, di Virginia Donati, che per la prima volta indaga anche sul concetto di memoria nelle comunità sinte e rom italiane.
 
Negli ultimi dieci anni si è intensificata molto l’attività di divulgazione, cercando di fare sintesi delle ricerche e degli spunti che iniziavano a giungere da ogni parte d’Italia. Oltre ad un’attività storica l’associazione Sucar Drom si è impegnata per promuovere e sostenere gli stessi sinti e rom a fare emergere una verità storica ancora nell’oblio, facendoli anche partecipare alle manifestazioni che si svolgono in Italia il 27 gennaio di ogni anno per la commemorazione de Il Giorno della Memoria, istituito per legge nel 2000.
 
I risultati di MEMORS racchiusi nel museo virtuale www.porrajmos.it e nel libro “Il Porrajmos in Italia” dovrebbero stimolare definitivamente il Parlamento italiano a colmare un vuoto legislativo che è una ferita aperta per tutti i Cittadini italiani, appartenenti alle minoranze linguistiche sinte e rom.
 
L’Italia nell’articolo 1 della Legge 20 luglio 2000, n. 211, recita: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”, al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.» Il Porrajmos (sterminio dei sinti e dei rom) non è dichiarato. Tant’è che solo a pochissimi sopravvissuti ad oggi è stato riconosciuto dallo Stato Italiano un’insignificante risarcimento.
 
Ora non vi sono più dubbi, l’Italia ha avuto una sua «scienza razziale» contro le minoranze sinte e rom che ha portato all’internamento e alla persecuzione di tutti gli uomini, le donne e i bambini, presenti allora nel Regno d’Italia. Perpetuare questo oblio nella legislazione italiana non è più possibile, ne degno di un Paese che vuole affrontare la propria storia con onestà.
 
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viaggio nella religiosità dei sinti e dei rom

trasmissione RADIO RAI TRE ‘UOMINI E PROFETI’ del 08/02/2014

RADIO3.RAI

Lo Spirito nomade: viaggio nella religiosità dei rom e dei sinti 

 con Giorgio Bezzecchi, Graziano Halilovic, Daniele Degli Innocenti, Lucia La  Santina e Viola Della Santa Casa

Ancora uno sguardo di Uomini e Profeti fissato su ciò che è minoritario,  laterale, recessivo nella scala di valori della cultura ufficiale e dei grandi  dibattiti. Nella puntata di oggi ci incamminiamo lungo le strade percorse dallo  Spirito nomade, per entrare nella religiosità che abita i margini, quelli lungo  i quali si spostano e si soffermano le carovane dei rom e dei sinti. Una  religiosità permeabile che accoglie ciò che incontra e lo assorbe, facendone una  devozione semplice e forte, che non ha nulla di esotico, proprio come i campi  nomadi in cui viene vissuta, o per dirla in modo più politicamente corretto, le  microaree. Le microaree come quella dei sinti evangelici del quartiere di San  Basilio, nella periferia di Roma, dove abbiamo incontrato il pastore evangelico  Daniele Degli Innocenti, Lucia La Santina e Viola Della Santa Casa, che parlano  con discrezione e consapevolezza della loro fede, del loro risveglio, della loro  chiesa costruita con le proprie mani, nella quale ci siamo seduti a parlare,  mentre i rumori del vicino raccordo anulare e un pauroso nubifragio rendeva la  periferia romana ancora più livida. Con gli ospiti in studio, Giorgio Bezzecchi, Graziano Halilovic rom khorakhanè,  ovvero musulmano, arricchiremo di ulteriori tessere il mosaico di  un’appartenenza religiosa mutevole come le terre che attraversa.

Suggerimenti di lettura

L. Narciso, La maschera e il pregiudizio. Storia degli zingari, Melusina 1996 L. Piasere, Un mondo di mondi. Antropologia delle culture rom, L’Ancora del  Mediterraneo 1999 L. Piasere, Italia Romanì, vol I, II, III, Cisu edizioni, 1996, 1999, 2002 A. Luciani, Un popolo senza territorio e senza nazionalismi: gli zingari  dell’Europa orientale, in A. Roccucci, Chiese e culture nell’Est europeo, Ed.  Paoline 2007, pp.275-326 Stojka Ceija, Forse sogno di vivere. Una bambina rom a Bergen-Belsen, Giuntina  2007

Parole

Cvava sero po tute i kerava jek sano ot mori i taha jek jak kon kasta vasu ti baro nebo avi ker kon ovla so mutavia kon ovla ovla kon ascovi me gava palan ladi me gava palan bura ot croiuti
Poserò la testa sulla tua spalla e farò un sogno di mare e domani un fuoco di legna perché l’aria azzurra diventi casa chi sarà a raccontare chi sarà sarà chi rimane io seguirò questo migrare seguirò questa corrente di ali

Versi in lingua romanés tratti da Khorakhanè, di Fabrizio De André e Giorgio  Bezzecchi

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85 ‘paperoni’ pari a tanti milioni di persone

La ricchezza di 85 “paperoni” è pari a quella della metà più povera del pianeta

Il rapporto dell’Oxfam fotografa un pianeta dove le élite (ecco la lista) si sono arricchite sulle spalle dei poveri, evadendo il fisco e influenzando la politica. E chiede di “reprimere più severamente segretezza finanziaria ed evasione”. Il direttore dell’Fmi: “Benefici della crescita goduti da troppe poche persone”

di | 20 gennaio 2014

L’ultimo rapporto di Oxfam, Working for The Few – Political capture and economic inequality, descrive un quadro dell’ineguaglianza mondiale terrificante. La metà della popolazione più povera, circa 3,5 miliardi di persone ha un reddito annuale pari a quello degli 85 uomini più ricchi del pianeta. “L’estrema disuguaglianza tra ricchi e poveri – dice Oxfam – implica un progressivo indebolimento dei processi democratici a opera dei ceti più abbienti, che piegano la politica ai loro interessi a spese della stragrande maggioranza”.

Il dato si inserisce nel quadro più generale della ripartizione della ricchezza a livello mondiale. “Circa metà della ricchezza – continua il rapporto – è detenuta dall’1% della popolazione mondiale. E questo reddito dell’1% dei più ricchi del mondo ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo” circa 1700 miliardi di dollari. Esattamente a quanto ammonta la somma del reddito degli 85 super ricchi – il rapporto indica la lista di Forbes che riepiloghiamo qui di seguito. La fotografia scattata dalla Ong mostra una mondo che evolve continuamente verso la diseguaglianza: sette persone su 10, infatti, vivono in Paesi dove la disuguaglianza economica è aumentata negli ultimi 30 anni. L’1% dei più ricchi ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei Paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012. Negli Usa, l’1% dei più ricchi ha intercettato il 95% delle risorse a disposizione dopo la crisi finanziaria del 2009, mentre il 90% della popolazione si è impoverito».

L’aumento della concentrazione della ricchezza è strettamente legata all’illegalità: “Ovunque, gli individui più ricchi e le aziende nascondono migliaia di miliardi di dollari al fisco in una rete di paradisi fiscali in tutto il mondo”. Una ricchezza stimata in 21mila miliardi di dollari. “Negli Stati Uniti, anni e anni di deregolamentazione finanziaria sono strettamente correlati all’aumento del reddito dell’1% della popolazione più ricca del mondo che ora è ai livelli più alti dalla vigilia della Grande Depressione”. Ma anche nei paesi emergenti la situazione è analoga: “In India, il numero di miliardari è aumentato di dieci volte negli ultimi dieci anni a seguito di un sistema fiscale altamente regressivo”.

Dal rapporto si ricava che già dalla fine degli anni 70 la tassazione per i più ricchi è diminuita in 29 paesi sui 30: “In molti Paesi, i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano anche meno tasse”. Winnie Byanyima, direttrice di Oxfam International, spiega che “il rapporto dimostra, con esempi e dati provenienti da molti Paesi, che viviamo in un mondo nel quale le éliteche detengono il potere economico hanno ampie opportunità di influenzare i processi politici, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole”. 

Ecco la lista degli 85 più ricchi del pianeta stilata da Forbes:
       NOME                      REDDITO (mld di dollari)    ETA’   SETTORE           PAESE  
1  

Carlos Slim Helu & family

$73 B 73 Telecom Mexico
2  

Bill Gates

$67 B 58 Microsoft United States
3  

Amancio Ortega

$57 B 77 Zara Spain
4  

Warren Buffett

$53.5 B 83 Berkshire Hathaway United States
5  

Larry Ellison

$43 B 69 Oracle United States
6  

Charles Koch

$34 B 78 diversified United States
6  

David Koch

$34 B 73 diversified United States
8  

Li Ka-shing

$31 B 85 diversified Hong Kong
9  

Liliane Bettencourt & family

$30 B 91 L’Oreal France
10  

Bernard Arnault & family

$29 B 64 LVMH France
 Citizenship
11  

Christy Walton & family

$28.2 B 59 Wal-Mart United States
12  

Stefan Persson

$28 B 66 H&M Sweden
13  

Michael Bloomberg

$27 B 71 Bloomberg LP United States
14  

Jim Walton

$26.7 B 66 Wal-Mart United States
15  

Sheldon Adelson

$26.5 B 80 casinos United States
16  

Alice Walton

$26.3 B 64 Wal-Mart United States
17  

S. Robson Walton

$26.1 B 70 Wal-Mart United States
18  

Karl Albrecht

$26 B 93 Aldi Germany
19  

Jeff Bezos

$25.2 B 50 Amazon.com United States
20  

Larry Page

$23 B 40 Google United States
21  

Sergey Brin

$22.8 B 40 Google United States
22  

Mukesh Ambani

$21.5 B 56 petrochemicals, oil & gas India
23  

Michele Ferrero & family

$20.4 B 88 chocolates Italy
24  

Lee Shau Kee

$20.3 B 85 diversified Hong Kong
24  

David Thomson & family

$20.3 B 56 media Canada
26  

Prince Alwaleed Bin Talal Alsaud

$20 B 58 investments Saudi Arabia
26  

Carl Icahn

$20 B 77 leveraged buyouts United States
26  

Thomas & Raymond Kwok & family

$20 B real estate Hong Kong
29  

Dieter Schwarz

$19.5 B 74 retail Germany
30  

George Soros

$19.2 B 83 hedge funds United States
31  

Theo Albrecht, Jr. & family

$18.9 B 63 Aldi, Trader Joe’s Germany
32  

Alberto Bailleres Gonzalez & family

$18.2 B 82 mining Mexico
33  

Jorge Paulo Lemann

$17.8 B 74 beer Brazil
34  

Alisher Usmanov

$17.6 B 60 steel, telecom, investments Russia
35  

Iris Fontbona & family

$17.4 B 71 mining Chile
36  

Forrest Mars, Jr.

$17 B 82 candy United States
36  

Jacqueline Mars

$17 B 74 candy United States
36  

John Mars

$17 B 77 candy United States
36  

Georgina Rinehart

$17 B 59 mining Australia
40  

German Larrea Mota Velasco & family

$16.7 B 60 mining Mexico
Rank Name Net Worth Age Source Country of Citizenship
41  

Mikhail Fridman

$16.5 B 49 oil, banking, telecom Russia
41  

Lakshmi Mittal

$16.5 B 63 steel India
43  

Aliko Dangote

$16.1 B 56 cement, sugar, flour Nigeria
44  

Len Blavatnik

$16 B 56 diversified United States
44  

Cheng Yu-tung

$16 B 88 diversified Hong Kong
46  

Joseph Safra

$15.9 B 75 banking Brazil
47  

Rinat Akhmetov

$15.4 B 47 steel, coal Ukraine
47  

Leonid Mikhelson

$15.4 B 58 gas, chemicals Russia
49  

Leonardo Del Vecchio

$15.3 B 78 eyeglasses Italy
49  

Michael Dell

$15.3 B 48 Dell United States
51  

Steve Ballmer

$15.2 B 57 Microsoft United States
52  

Viktor Vekselberg

$15.1 B 56 oil, metals Russia
53  

Paul Allen

$15 B 60 Microsoft, investments United States
53  

Francois Pinault & family

$15 B 77 retail France
55  

Vagit Alekperov

$14.8 B 63 Lukoil Russia
56  

Phil Knight

$14.4 B 75 Nike United States
56  

Andrey Melnichenko

$14.4 B 41 coal, fertilizers Russia
58  

Dhanin Chearavanont & family

$14.3 B 74 food Thailand
58  

Susanne Klatten

$14.3 B 51 BMW, pharmaceuticals Germany
58  

Vladimir Potanin

$14.3 B 53 metals Russia
61  

Michael Otto & family

$14.2 B 70 retail, real estate Germany
62  

Vladimir Lisin

$14.1 B 57 steel, transport Russia
62  

Gennady Timchenko

$14.1 B 61 oil & gas Russia
64  

Luis Carlos Sarmiento

$13.9 B 80 banking Colombia
65  

Mohammed Al Amoudi

$13.5 B 69 oil, diversified Saudi Arabia
66  

Tadashi Yanai & family

$13.3 B 64 retail Japan
66  

Mark Zuckerberg

$13.3 B 29 Facebook United States
68  

Henry Sy & family

$13.2 B 89 diversified Philippines
69  

Donald Bren

$13 B 81 real estate United States
69  

Serge Dassault & family

$13 B 88 aviation France
69  

Lee Kun-Hee

$13 B 72 Samsung South Korea
69  

Mikhail Prokhorov

$13 B 48 investments Russia
73  

Alexey Mordashov

$12.8 B 48 steel, investments Russia
74  

Antonio Ermirio de Moraes & family

$12.7 B 85 diversified Brazil
74  

Abigail Johnson

$12.7 B 52 money management United States
76  

Ray Dalio

$12.5 B 64 hedge funds United States
76  

Robert Kuok

$12.5 B 90 diversified Malaysia
78  

Miuccia Prada

$12.4 B 64 Prada Italy
79  

Ronald Perelman

$12.2 B 71 leveraged buyouts United States
80  

Anne Cox Chambers

$12 B 94 media United States
81  

Stefan Quandt

$11.9 B 47 BMW Germany
82  

Ananda Krishnan

$11.7 B 75 telecoms Malaysia
82  

Alejandro Santo Domingo Davila

$11.7 B 36 beer Colombia
82  

James Simons

$11.7 B 75 hedge funds United States
82  

Charoen Sirivadhanabhakdi

$11.7 B 69 drinks Thailand
86  

Zong Qinghou

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Colloquio col filosofo Emanuele Severino

in dialogo con un grande filosofo

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Primo febbraio 2014.  Un lungo viaggio in auto ci porta a Brescia. Profondo settentrione d’Italia. La città ci accoglie, nel primo pomeriggio, fredda, con una leggera pioggia ed il cielo plumbeo. Attraversiamo corso Garibaldi, dove il grigio dei sampietrini è amplificato dalle pozze d’acqua. Gli abitanti di questa città stanno iniziando il pomeriggio libero, prima del sabato sera. Una passeggiata in centro, un caffé in un bar di piazza Pio VI, un giro in libreria. Noi ci posizioniamo in un B&B, con una finestrella che dà sui tetti di Brescia. Bagnati, umidi, refrattari al calore. Quando attraversiamo le vie centrali della città, in largo anticipo – per goderci anche il luogo nel quale siamo venuti – sembra che le persone a passeggio stiano trascorrendo un pomeriggio di svago, di divertimento e di relax.

Noi, come semplici turisti, guardiamo i palazzi di quella città lombarda, affascinante e anche un po’ magica. In realtà è per noi un giorno speciale, perché alle sei del pomeriggio abbiamo un appuntamento con Emanuele Severino.

Ci accoglie a casa sua come fossimo due suoi amici. Con la cordialità e la signorilità che solo i grandi hanno. Ci accomodiamo in una splendida stanza, arredata da altissime librerie piene zeppe, da alcuni tappeti, da un pianoforte a coda e dall’Orfeo scolpito da suo figlio. Il tutto illuminato, soavemente, da alcune lampade. Sediamo su un divano rosso bordeaux, che fa angolo con due poltrone.

Severino è curioso di sapere quali sono i nostri studi, il nostro ambito di ricerca. Ognuno di noi gli racconta, brevemente, ciò che studia e l’argomento sul quale sta lavorando per la tesi di laurea. Lui è interessato, regalandoci spunti possibili e consigli di lettura.

Comincia così il nostro colloquio con Emanuele Severino

Nei suoi libri, e all’interno della sua riflessione sull’Occidente, Nietzsche e Gentile sembrano godere di un trattamento privilegiato.

Sì, certo. La stessa cosa è per Leopardi. Perché sono dei grandi folli. C’è una base teorica dietro questo atteggiamento: e cioè che niente è verità senza errore. Proprio perché la verità è negazione dell’errore, la negazione è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto, e tanto più lo si porta al massimo di fioritura. Ora, filosofi come Nietzsche, Gentile e Leopardi sono la vetta di questa montagna che porta alla massima concretezza e al massimo rigore l’errore, ma dopo ci sono anche i pendii che degradano e tendono verso la vetta. Di qui l’atteggiamento positivo, del quale si parlava. Riguardo ai miei scritti, vi consiglio certamente di leggere Destino della necessità ma anche Gli abitatori del tempo, per comprendere meglio il contesto. A chiunque volesse fare un’indagine sul modo in cui, nei miei scritti, ci si rapporta a Nietzsche consiglierei Gli abitatori del tempo; soprattutto per lo scritto su Gentile.

Ci sono infatti pagine di grande intensità quando si vuole mostrare che, in Nietzsche, l’eterno ritorno non sia altro che l’auto-contraddizione motivata dalla massima fedeltà all’evidenza del divenire.

Esatto.

Una cosa che ci è sembrata forse un po’ più frutto della sua lettura, piuttosto che presente negli scritti di Nietzsche è il fatto che la volontà di potenza, definita come il cuore che spinge l’uomo nietzschiano e anche il superuomo, lo spinge a dominare e, come si dice ne L’anello del ritorno, confluisce in un’abbracciare la tecnica quale strumento per esercitare in maniera sempre più potente, sempre più efficace il dominio sulla realtà. Tuttavia, Nietzsche si rivolge al superuomo sempre in modo elitario, come fosse una figura che si distingue dai comuni mortali. Affermando, in definitiva, che certe cose non sono alla portata di tutti. Nonostante ciò, nel suo scritto, il superuomo è descritto come un percorso che progressivamente porterà al dominio della volontà di potenza, e quindi della tecnica.

Ed in effetti, nel frammezzo il percorso incontra l’elitario, ma poi c’è la prosecuzione dove Nietzsche parla dei signori della terra, al plurale. E dove il discorso tende a prospettare un invito alla frequentazione da parte di tutti della dimensione del superuomo. Che intanto si sia così, e che nemmeno Nietzsche si ritenga un superuomo, è vero, ed è una risposta. Ma supponendo che le cose stessero come si diceva, e cioè che Nietzsche rimanga fermo sull’elitario e punti all’elitario, ciò non nega una congruenza oggettiva di fondo che vada oltre la consapevolezza di Nietzsche stesso di essere uno dei pochi, grandi sostenitori della tecnica. Ci può essere congruenza anche se lui non è d’accordo. Riassumendo, perciò, ci sono due risposte: in primo luogo il testo di Nietzsche vede l’elitario come passaggio, ma poi guarda ad una civiltà della tecnica. Ed in secondo luogo, credo che anche se le cose non stessero così, oggettivamente ciò che lui dice porta nella direzione di una garanzia della tecnica di non avere limiti davanti a sé.

Ma tale lettura non potrebbe essere una cosa più inconscia di Nietzsche, piuttosto che una specifica intenzione di affermare ciò che lei dice?

Dunque: se io costruisco una bomba a mano e la metto là, sopra il tavolo, poi arriva uno che vuole servirsene e la innesca per distruggere chi gli è antipatico, io posso non aver avuto l’intenzione di far fuori l’antipatico, però sono oggettivamente la condizione perché quella eliminazione sia stata resa possibile. Allora: cosa fa Nietzsche? Toglie di mezzo ogni immutabile, aprendo le porte alla volontà di potenza. Finché queste porte sono aperte e la volontà non capisce, non vede che sono aperte, allora chi sta dietro la porta chiusa può dire alla tecnica – per esempio il moralista, la religione – “guarda che non devi aprire la porta, devi rispettare i limiti e non fare certe cose, ecc…”. Allora la tecnica, di fronte a questo discorso della tradizione non sa cosa replicare, ma se questa tradizione è superata dallo stesso pensiero filosofico, cioè Nietzsche, il quale dice alla tradizione “guarda, tu non stai in piedi, perché non esiste alcun limite, alcuna porta sbarrata”, questa è oggettivamente la condizione in base alla quale la tecnica, prendendo coscienza che le porte sono tutte apribili, può andare avanti oltre di essa.

Quindi, se abbiamo ben capito, siccome ogni immutabile è rotto, non esiste argine che possa limitare la volontà di potenza che si “applica” come tecnica.

Esatto. Questo vuol dire molto. La filosofia in questo caso non si limita a pensare la tecnica; perché sin tanto che la tecnica non ascolta questo tipo di voce è una tecnica che è inerme di fronte all’accusa etico-metafisico-filosofica-teologica che dice alla tecnica stessa di non oltrepassare quel limite. Quando invece la tradizione è tolta di mezzo, allora la tecnica diventa potente. Quindi la filosofia è la condizione per la potenza reale della tecnica, e non semplicemente una riflessione sulla tecnica astratta.

Questo discorso è davvero comprensibile solo se lo sguardo che si ha nei confronti della filosofia occidentale è quello che lei stesso propone: una progressiva distruzione di tutti gli immutabili e l’affermazione decisa dell’evidenza del divenire.

Ma Nietzsche non li distrugge davvero, gli immutabili? Sì che li distrugge. E allora non sono solo io che credo che gli immutabili siano stati distrutti, ma vedo che sono stati davvero distrutti.

Forse questa lettura della storia della filosofia occidentale non è molto condivisa o frequentata. Da qui la difficoltà di molti, di leggere e capire il pensiero di Emanuele Severino.

È uscito recentemente un bel libretto di Biagio De Giovanni, intitolato Disputa sul divenire. Severino e Gentile, al quale ho risposto già in parte, in un articolo sul Corriere della Sera; lì egli afferma una cosa analoga. Altre volte mi aveva obiettato che la mia è una visione monocromatica, affermando che stando all’interno di questo discorso si capisce ciò che dice Severino; però, dice lui, “esistono in terra e in cielo, più cose di quelle che esistono nella mente di un filosofo”. E allora io l’ho invitato a trovarmi un qualsiasi momento nella storia del pensiero filosofico, o — andando più indietro — nella storia dei mortali, un qualsiasi momento in cui le cose che ci stanno davanti non siano intese come un diventar altro. E trovami poi, a partire dai Greci, un momento qualsiasi del pensiero filosofico in cui il diventar altro non sia inteso come un diventar nulla e un diventare dal nulla. Se non troviamo un qualsiasi momento alternativo, questo vuol dire che allora tutte quelle possibili integrazioni, che si possono fare a questo cosiddetto monocromatismo, sono integrazioni che avvengono all’interno di questo quadro. Finché non trovi il momento, questo quadro è, necessariamente, l’orizzonte di ogni possibile integrazione, arricchimento, precisazione, ecc. Perciò ora sono io che chiede loro: indicatemi un momento, anche nel mito — nel quale si parla di metamorfosi, teogonie, cosmogonie — e poi nel pensiero filosofico, dove non vi sia il diventar altro come base di qualsiasi discorso intorno alle cose del mondo.

Diamo per assunto che non vi sia, nella storia della filosofia occidentale, alcun filosofo che non affermi che le cose provengano e tornino nel nulla, dopo essere state. C’è, però, qualche filosofo che quantomeno ha attenuato questa follia, l’ha circoscritta, l’ha resa molto meno evidente, o almeno molto meno fondativa per il proprio pensiero?

C’è addirittura chi ha fatto ciò che lei dice: tutta la tradizione metafisica dell’Occidente. Perché la metafisica va oltre la fisica e afferma l’eterna. In questo senso attenua l’ampiezza della dimensione alienata; dice: “sì, il mondo è diveniente”  (Platone, Aristotele, Tommaso, Occam, Cartesio, Kant, Hegel, Quine, Einstein) “però c’è l’eterno, l’ arché, quindi le cose del mondo dipendono da quello” e si incontra la restrizione che si accennava nella domanda. Però metafisica vuol dire andare al di là della physis. E la physis cos’è se non il divenire? Quindi il primo riconoscimento dell’evidenza indiscutibile del divenire è dato proprio da quell’atteggiamento restrittivo che nel suo discorso dovrebbe attutire l’urto, l’estensione massima della follia. Perché andare al di là delle cose fisiche vuol dire innanzitutto riconoscere la loro indubbia esistenza (perché physis, se stiamo alla terminologia aristotelica, è il generarsi, il divenire dalla potenza all’atto, dalla privazione alla forma, con tutte le categorie ontologiche) ma anche riconoscere la ristrettezza del divenire relativamente a questo mondo. Anche per costoro allora la base è questo mondo diveniente.

Lavorando con il professor Filippo Mignini, non posso esimermi dal dirle che né egli, né io, saremmo d’accordo sull’affermazione che anche Spinoza stesso, sia all’interno della follia del divenire. In Destino della necessità, ma anche in Essenza del nichilismo e ne L’intima mano, lei afferma che anche Spinoza — con la sua dottrina della finitezza — è all’interno della filosofia occidentale, quella che afferma il divenire delle cose. Mignini afferma, al contrario, che in Spinoza non c’è nulla che si annichilisce, e che proviene dal nulla, ma tutto è eterno entro lo “spazio” infinito, eterno e indeterminato della Sostanza. Il che avvicina sensibilmente lo spinozismo ai suoi scritti.

Ma che le tesi possano suonare identiche, lo concedo. E allora non accada solo per Spinoza, ma per tutta la metafisica occidentale — perché tutti i metafisici parlano dell’eternità del principio: e parlando io dell’eternità di tutte le cose, c’è molta congruenza. Però lei mi parla di Spinoza in particolare. Rispondo ancora di no, perché la similarità delle tesi è debole se è separata dal modo in cui le tesi sono fondate. Ad esempio, possiamo dire tutti e due: “Dio è morto”, però altro è il modo in cui lo può dire un bambino, oggi, altro è il modo in cui lo può dire Nietzsche. Il significato stesso della tesi cambia in relazione alla via fondativa che porta alla tesi; allora quando Spinoza parla del rapporto fra esistenza ed essenza, egli definisce innanzitutto l’esistenza come conatus essendi, ponendosi già fuori strada. Perché il conatus essendi presuppone una resistenza che alla fine porta l’esse alla morte. Invece la volontà, l’esistenza, l’essere è conatus essendi, sforzo di essere. Ma l’eterno autentico non si sforza di essere, non può sforzarsi, perché questo vorrebbe dire che c’è un impedimento. Il conatus è un’equivalenza del concetto di potenza aristotelico, di divenire. Ed ancora: quando Spinoza parla, sempre, del rapporto fra esistenza ed essenza e dice, come lo diceva già Tommaso, che “l’esistenza non appartiene all’essenza” (essentia non involvit existentiampossum intellegere quid sit homo et tamen ignorare ansit), la scissione fra essenza ed esistenza c’è anche in Spinoza. Egli afferma che tutti i modi sono eterni, in quanto sono in Dio, e tutti i modi procedono necessariamente da Dio. Ma cosa vuol dire “processione necessaria? Vuol dire che il nichilismo non è soltanto nel divenire contingente delle cose per cui accade “A” ma sarebbe potuto accadere “non-A”. Il nichilismo c’è anche quando si dice “A esce dal nulla secondo una seguenza “A-B-C-D…” necessaria. Di nuovo, Spinoza afferma che tutti i modi escono dalla Sostanza come le proprietà di un triangolo escono dalla definizione stessa del triangolo, e quindi si generano. Certamente in modo necessario, ma si generano essendo stati niente. Questo è un processo in cui c’è la necessità dell’accadere, ma è un accadere, quindi un passaggio dal non-essere all’essere.

Se però il Dio spinoziano viene definito come un principio indeterminato, non si elimina ogni dubbio?

Già l’idea di causa sui è difficoltosa, e crea dei problemi. Non è affatto fuori discussione come potrebbe sembrare, perché è un prodursi. Tanto è vero che Gentile, poi, riprenderà questa idea, e prima Fichte, a suo modo, ma anche Schelling, per cui la sostanza stessa eterna, è un’auto-produzione.

Qui, al di là della questione della causa sui che è evidentemente problematica, si chiedeva se, leggendo il principio di Cusano, Bruno, Spinoza, Schopenhauer ed altri come indeterminato, si potesse affermare una cosa simile a quella che viene descritta nelle sue opere. Il tutto come grande alternativa alla tradizione filosofica che ha pensato il principio come determinato.

Sì sì, sono d’accordo. Ma tali non sono altro che arricchimenti all’interno del quadro sopra descritto, sui quali si può essere fino ad un certo punto d’accordo — del resto che l’ arché fosse indeterminato aveva cominciato a dirlo Anassimandro. Rimane comunque la questione che l’indeterminato è produttivo, come il determinato. Entrambi i principi sono produttivi. Ferme restanti queste, e tante altre variazioni e differenziazioni che ci sono, bisogna capire che trovare (su questo mi ripeto molto ma vedo che è sempre importante dirlo) l’identità delle differenze, non vuol dire negare le differenze. La pulce è un vivente, l’elefante è un vivente, quindi c’è qualcosa di identico. Però l’elefante non è la pulce, anzi: c’è una bella differenza. Anche se vi è un tratto unificante, ed il tratto unificante è l’orizzonte di cui parlavo prima.

È perciò possibile dire che il limite di Spinoza è quello di non ammettere come eterno l’apparire dell’apparire?

Questo è un ulteriore limite, che si contesta a Spinoza. Potremmo anche non aver bisogno di questa figura. Senza scomodare questa figura: concedo che le cose particolari si generino necessariamente (e in Destino della necessità si dice che l’accadimento è necessario), però in Destino della necessità l’accadimento necessario è l’apparire degli eterni, in Spinoza è lo sgorgare dei contingenti che sono necessariamente accadenti, ma che sono contingenti in quanto accadono, e prima non erano. Quindi ci sono due sensi della contingenza. Il primo: accade “A” ma sarebbe potuto non accadere. Il secondo: accade necessariamente “A” dove la contingenza è il fatto che “A” accade, ovvero esce dal niente e cioè non era neanche prima, perciò il suo esserci è contingente rispetto al non esserci stato.

Questa seconda concezione della contingenza, però, si lega ad una definizione della necessità che è differente rispetto a quella che è enunciata nei suoi scritti.

È certo, perché in Destino della necessità si dice che gli eterni si manifestano secondo un ordine che non sarebbe potuto essere diverso da quello che è, e non sarebbe non potuto accadere. Però sono gli eterni che si manifestano; invece in un necessitarismo come quello di Spinoza, l’accadimento necessario è la produzione necessaria, certamente, di ciò che – però – non è eterno, ma incomincia ad essere: quindi accade. Io non conosco nessun passo di Spinoza dove egli afferma che il divenire delle cose, l’accadere delle cose, è il manifestarsi degli eterni.

Rimane chiaro che in nessun altro filosofo è affermata l’eternità di tutti gli enti così come la troviamo nei suoi scritti. Si cercava qui un contatto, risulta necessario un restringimento dell’interprete.

Sì, e ciò è così in base al fatto che si isolano le tesi dalle loro fondazioni.

Nella sua versione del libro quarto della Metafisica di Aristotele, scritto in una fase “giovanile” del suo pensiero, si portano argomenti a sostegno del principio di non contraddizione che, successivamente, verrà rifiutato e definito anch’esso come espressione del nichilismo. Come è pervenuto a questo passaggio?

Quel libro, ha giustamente detto, appartiene ad una fase giovanile. Ma se dovessi scrivere oggi un commento al quarto libro della Metafisica di Aristotele, non lo scriverei in modo tanto diverso. Perché stando all’interno della logica aristotelica bisogna dire quello, uscendo da quella logica si parla diversamente. Mi si pongono due questioni, una relativa all’elenchos, e l’altra del come mai ne sono uscito. Bene: non è vero che in Essenza del nichilismo si parla di due figure dell’ elenchos, dove la prima è di matrice aristotelica. Ma lì si prescinde dall’implicazione tra l’esser sé dell’essente e l’eternità dell’essente — ossia: l’esser sé dell’essente implica l’eternità dell’essente. Se si considera l’esser sé distintamente da ciò che esso implica, allora considerandolo così distinto, la figura aristotelica della dimostrazione elenctica vale. Solo che questo esser sé, che abbiamo considerato come distinto, è però relazionato all’eternità, laddove Aristotele l’essente che è sé lo considera, come si diceva prima, come innanzitutto l’essente che apparendo nel mondo può non essere. Allora: in quanto l’ elenchos agisce su un essente così concepito, agisce su un principio di non contraddizione che è contraddittorio. Per Aristotele il principio di non contraddizione dice “è impossibile che l’essente sia e non sia”, ma sin tanto che è; perché se la superficie è bianca è impossibile che sia non-bianca, ma sin tanto che esiste. Perciò, ripeto: in quanto distinto, secondo quanto detto prima, allora l’esser sé in Aristotele è un qualche cosa relativamente al quale il negatore dice qualcosa di determinato, adottando il principio che intende negare. Ma questo esser sé non lo si può considerare come separato dall’eternità da cui è pur distinto. La distinzione è diversa dalla separazione. Quindi, in quanto non è separato, il principio di non contraddizione aristotelico, che è separato perché parla di un essente che può non essere, è allora contraddittorio. È anzi una delle grandi espressioni del nichilismo perché cela nel modo più potente la contraddizione, cioè l’identità di essere e nulla. La cela nel modo più potente perché dice “sono il difensore del non esser nulla degli enti, fintanto che sono”. Ecco, il carattere di difesa della razionalità assunto dal principio aristotelico fa precipitare nella contraddizione.

Qui si torna alle origini, in un certo modo. Alla fondazione iniziale del sistema filosofico di Severino.

In un certo senso, perché quando venne fuori quel commento al quarto libro della Metafisica, erano gli anni in cui stavo scrivendo La struttura originaria, e quello è il testo nel quale viene fuori, per la prima volta, l’idea secondo la quale il divenire è la manifestazione degli eterni, e cioè che l’essente, in quanto essente, è eterno. Però ne La struttura originaria rimane ancora la convinzione che l’uscire dal niente e il ritornare nel niente, anche se è mescolata ad una direzione in senso contrario, appaia. In questa situazione quel libro (si confronti ad esempio l’introduzione scritta nel 1981, quando il testo fu pubblicato da Adelphi) rappresenta ancora una fase nichilistica del mio discorso. Tale fase è superata da quella in cui il mio discorso si è liberato dal nichilismo — il che comporta il problema di come mai il linguaggio che testimonia il destino, ecc… Tornando alla domanda: leggendo quel testo si può capire perché vi fu quel commento ad Aristotele. Detto in due parole: questa persuasione che l’annientamento accada — perché di questo, finora, non abbiamo parlato; abbiamo detto che l’annientamento è l’evidenza per l’Occidente, ma non abbiam detto che l’Occidente crede che appaia ciò che in verità non appare — presente ne La struttura originaria, che rimane pur tuttavia la base di tutti gli altri, ha lo scopo di inglobare l’intero corso del pensiero filosofico occidentale. Ad un certo momento mi son reso conto che ciò che si dice in quel saggio inglobava, ma mettendo il tutto sotto un segno negativo. Perciò vi è una sorta di “svolta” con Essenza del nichilismo, che contiene il poscritto Ritornare a Parmenide. Non so se ho risposto alla sua domanda!

Sì, assolutamente sì. Dal punto di vista biografico, tralasciando un attimo il lato teoretico, era interessante capire come una persona che lavora per anni in una direzione, ad un dato momento si rende conto che quel percorso lo sta portando in una via differente.

Lì c’è un contenuto, ad un certo punto ci si rende conto che quel contenuto può essere l’alienazione di ogni forma della cultura occidentale, cristianesimo compreso, allora è chiaro che non è più inclusivo in senso positivo, ma in senso negativo. Di qui, Messinese [professore all’università Pontificia, che scrive oramai da molti anni su Severino: ndr] ad esempio, scrive che ne La struttura originaria ci sono i veri preamboli del cristianesimo, perché c’è questa ambivalenza di cui ho parlato. È interessante, il discorso di Messinese.

Come è partita la molla che l’ha condotta verso una tale sistematizzazione del suo pensiero?

Magari non ci si crede, ma non c’è di mezzo nessun trauma esistenziale, se non il fatto che il pensiero portava da una parte, che non era quella nella quale credevo che andasse.

Ed è straordinario come un giovane Severino, laureato con una tesi su Heidegger (dato anche per vero ciò che dice Cacciari, ovvero che il novecento filosofico sia un dialogo a due fra Heidegger e Severino) poi  si trovi a rovesciare totalmente le tesi heideggeriane.

Sì, rovescia. Ma mantenendo qualcosa. Prendiamo un vaso, dentro c’è una certa ramificazione: lo capovolgo, ma quella ramificazione permane. Non è che rovesciando il vaso crollano, si disfano i nessi che c’erano quando il vaso era diritto.

Perciò lei “salva” parte della riflessione heideggeriana a livello metafisico?

A livello metafisico anche oggi citerei Heidegger, il quale in Lettera sull’umanesimo dice che l’analitica esistenziale non afferma e non nega nulla né sulla questione sull’immortalità dell’anima, né sulla questione dell’esistenza di Dio. Allora: un Heidegger fenomenologo — ma lui stesso diceva di essere un filosofo cristiano — che traccia una epoché rispetto alla soluzione dei problemi metafisici, è uno che è in attesa di una conclusione metafisica. In quel libro indicavo le due possibili vie di sviluppo del pensiero heideggeriano, quella ontologica e quella ontica. Quella ontologica vuol dire riuscire a capire che cos’è l’Essere, e lì Heidegger l’ha percorsa, ma lui non è che neghi l’esistenza del super-ente. Dice: l’epoca della metafisica ha dimenticato l’Essere, ma con ciò non afferma la falsità della metafisica, lascia in sospeso in discorso. E perciò in quel libro io vedevo la possibilità di sviluppo di un sentiero che Heidegger ha in parte, poi, percorso. Il mio maestro Bontadini aveva visto in Gentile (anche se, oramai, su questo non son più d’accordo) non una chiusura, come Nietzsche, ma un’apertura alla metafisica. In quella tesi di laurea dicevo: anche quella di Heidegger è un’apertura di questo genere, anche più interessante e complessa che non quella di Gentile.

Detto questo, risulta evidente come manchi in Italia uno studio approfondito di Heidegger, che non sia propedeutico o parte integrante alla filosofia della religione.

Mi dispiace di questa situazione. Ma credo che lei faccia bene a fare la tesi su Nietzsche, perché Heidegger, in questa logica, è un gradino sotto a Nietzsche. Quest’ultimo è perentorio e mostra l’impossibilità degli eterni. Heidegger non si pronuncia, quindi è meno rigoroso, sta meno al culmine. È uno di quei pendii che degradano dalla vetta, di cui parlavamo all’inizio di questa nostra conversazione, anche se è un grande degradare. Gentile e Leopardi sono più rigorosi di Heidegger.

E questo forte rigore, anche all’interno di una prospettiva nichilista, è segno positivo?

Sì, all’interno della follia è la posizione più autentica, che mantiene la maggior fedeltà all’assunto di partenza: cioè l’evidenza del divenire. Se teniamo fermo — e lo teneva fermo anche la metafisica — che il divenire è il punto di partenza, allora la maggiore fedeltà a questo fondamento, ciò che non smentisce questo fondamento, è una posizione come quella di Nietzsche, o di Gentile o di Leopardi.

Ma definire così il percorso della filosofia occidentale, che ha cercato di braccare e chiudere il divenire attraverso gli immutabili, non è allora un atto d’accusa verso la filosofia, come tale, da parte di un filosofo?

No, in realtà è un elogio. Siccome la filosofia non è l’alba della Terra, il germe del nichilismo precede al nichilismo. Esso è insito nella fede che si ha nel diventar altro. E il diventar altro è un atteggiamento presente da sempre nel mortale: prima si ricordava il mito, le teogonie, le cosmogonie. Adamo vuole diventar altro da quello che è. In tutta la mitologia c’è la volontà di uscire da una situazione, cioè di diventare altro. Semplicemente per muovermi, io debbo farmi largo. E il farsi largo, per un uomo, è uno smuovere la barriera che si trova davanti ab origine; si trova avvolto in una membrana che gli impedisce di respirare, e se vuole respirare quella membrana va rotta, si deve cambiare, diventar altro. Il diventar altro è soggetto alla contraddittorietà estrema, io credo di essermi ripetuto nei miei scritti ma forse potrei ripetermi ancora di più. Perché dire che la legna diventa cenere vuol dire soltanto che della cenere inizia ad esistere? No, vuol dire anche questo — se la legna diventa cenere inizia ad esserci della cenere — però, ripeto, l’incominciare ad esserci della cenere non restituisce totalmente il significato dell’affermazione “la legna diventa cenere”. Provo a riassumere un punto fondamentale, che precede la follia del nichilismo, dove nel mito non è presente il nulla, ma il diventar altro, che è comunque un pre-nichilismo. Dunque: il diventar altro vuol dire che nel risultato non c’è soltanto la cenere, ma c’è la legna che è cenere. Nel risultato del diventar cenere, c’è l’esser cenere da parte della legna. L’identificazione dei differenti. Allora, per ritornare alla sua domanda: la filosofia ha il merito di aver esplicitato totalmente questo atteggiamento originario, perché questo atteggiamento è l’uomo, l’uomo è la fede nel fatto che le cose divengano altro, e siano altro. Questo errare della filosofia è un errare che fa maturare il germe, testimoniando nella sua forma più concreta il senso pre-ontologico del diventar altro, quindi è un elogio.

Quindi il grande merito dei Greci è quello di aver pensato il nulla, non solo di averlo tenuto in nuce dentro l’atteggiamento umano?

Esattamente. Il merito è stato quello di viverlo e di inventarlo.

Sta tutto qui il passaggio fra il pre-ontologico e l’ontologico, tra il mito e la filosofia?

Pensare il nulla vuol dire morire in modo diverso. Perché se si pensa che morendo si vada nel nulla, è totalmente diverso. Vivere sapendo che la morte è annichilimento, è un vivere diverso di quello del mito dove i morti ritornano: arriva la paura, arriva l’angoscia.

A questo punto, stando il legame indissolubile fra la condizione umana e l’errore, qual è il ruolo dell’etica?

Dopo Destino della necessità ho scritto La gloria,  Oltrepassare e La morte e la terra, dove in sostanza si mostra che è necessario uscire da questa situazione, non nel senso che sia una cosa buona e auspicabile, ma necessità nel senso dell’accadimento necessario. Siamo destinati ad uscire da questa situazione dove si comincia a balbettare il linguaggio del destino, ma le opere della follia sono ancora qui davanti incombenti.

Uscire come?

Questo lo dice La gloria. Prima, mentre parlavamo di Destino della necessità mi è tornato in mente De Giovanni, il quale dice che quest’ultimo è meglio di La gloria perché è più drammatico, il discorso rimane in tensione e a lui piacciono le tensioni. Per quanto riguarda me, non è che mi piace questo piuttosto che quello, anche perché quello che piace a me non conta niente: il discorso porta al superamento delle domande che chiudono Destino della necessità. Alla fine dell’opera ci sono due pagine di domande. Siamo destinati a restare nell’isolamento della terra o no? E se no perché? Ecco, La gloria risponde di sì: è necessario uscire per una serie di motivi che sono tutti agganciati all’esser sé, al significato del concretarsi dell’esser sé; questo è importante. Se si va a scavare nel significato che la tazzina è la tazzina si arriva a La gloria.

Quindi il discorso che pensa l’ente come eterno, non è più un atteggiamento di pochi, è necessario che venga allargato?

Questo forse lo dico già in Essenza del nichilismo. La verità è presente in tutti perché è l’opposto dell’elitarismo. Se tu pianta vedi il mondo, tu sei l’apparire della verità. Se tu oggetto sei un vedere il mondo sei l’apparire della verità. Se tu sei un vedere il mondo, in te appare la verità.

E questa, per dirla anche scherzosamente, è una cosa positiva, o senz’altro un buon motivo per trovare il coraggio di studiare la filosofia.

Io uso quest’immagine, che probabilmente avrò già citato in qualche conferenza. Siamo dei re che si credono dei mendicanti. E studiare filosofia vuol dire rendersi conto veramente, non certo baloccarsi in un’illusione.

Possiamo dire che è un portarsi fuori dall’illusione?

È essenzialmente la non illusione, senza per questo privare tutta l’ipercritica contemporanea del suo spazio, perché rispetto all’ épisteme vuole essere anch’essa la prima grande forma di non illusione, ed è giusto anche tutto quello che dice la critica all’ épisteme (vedi Nietzsche) ma anche il neopositivismo. La stessa valorizzazione filosofica della scienza, della logica e delle scienze formali, tirate le somme, dicono alla metafisica che impedisce la novità.

 

Finiamo la conversazione con un sorriso e lo sguardo verso il futuro. Spinti da uno dei maestri della filosofia contemporanea, a continuare la ricerca, a continuare a fare filosofia. Cosa che Emanuele Severino non smetterà mai.

a cura di Saverio Mariani e Andrea Cimarelli, in Ritiri Filosofi

 

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p. Josè Maria Castillo su Papa Francesco ‘sconcertante’

papa-francesco

 

un papa ‘sconcertante’

una bella riflessione del teologo spagnolo Josè Maria Castillo (teologo progressista in genere molto esigente e pungente nel richiedere coerenza evangelica alla chiesa istituzionale) su papa Francesco: non richiede da lui ‘rivoluzioni’ che non può fare, né gli impone di non svolgere il suo ruolo, in fondo di “colui che deve riaffermare con autorità i principi non-negoziabili”; richiede da lui l’essenziale per un papa: uno che “dovrà sconcertarci come aveva fatto Gesù, al di là del potere e dei benpensanti, a favore dei poveri, degli oppressi e dei rifiutati dal mondo e dalle religioni istituzionalizzate”.

“…quello che importa è che Papa Francesco sia un uomo libero e deciso. Il mondo ha bisogno di un uomo così appassionato del Vangelo, che sconcerti tutti quelli che nel papato cercano un uomo di potere e di comando. Il Papa deve risultare sconcertante. Il giorno che il Vaticano sarà il ‘punto di incontro’ di tutti quelli che soffrono, in questo giorno la Chiesa avrà incontrato il buon Papa di cui ha bisogno.
Cosa ha fatto papa Francesco per dare tanta speranza a tanti milioni di esseri umani in così poco tempo?
Molto semplice. Ha preso sul serio il Vangelo.
… Gesú è stato un uomo che ha vissuto e parlato in una maniera tale che è risultato sconcertante per quanti lo hanno conosciuto e si sono avvicinati a lui. Quello è stato lo sconcerto che produce la bontà. Gesú ha sconcertato Giovanni Battista che aspettava un messia minacciante e castigatore dei peccati e dei peccatori, ma è venuto a sapere che Gesù si dedicava ad alleviare la sofferenza degli emarginati ed a farsi amico di pubblicani e di gente di mala vita, lottando contro il dolore umano.
Gesú ha fatto tanto bene perché ha sconcertato molto. In una società corrotta e deforme, una persona che si adatta a quello che si fa e che quindi non sconcerta nessuno, è una persona che passa la sua vita senza infamia e senza lode, se la passa bene e lascia tutto come stava.
Papa Francesco non ha fatto altro che iniziare. E ci deve ancora sconcertare molto di più. Una Chiesa che è arrivata quasi al limite della sua decomposizione, ha bisogno di molto sconcerto per risalire dal pozzo nel quale era precipitata. Ma questo si realizzerà a costo di molto sconcerto”.

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