le novità dalle risposte al ‘questionario’

Sinodo, comunione ai divorziati e accoglienza ai gay: le risposte dei fedeli al questionario

VATICAN-SIRYA-POPE-PRAYER

<DATE LA COMUNIONE AI DIVORZIATI>

LE RICHIESTE DEI FEDELI A FRANCESCO 

 

così Giovanni Panettiere sintetizza le risposte al ‘questionario’ in preparazione al sinodo sulla famiglia previsto per il prossimo settembre: nonostante la scarsa convinzione dei vescovi italiani a sensibilizzare i singoli fedeli (così come voluto da papa Francesco) le risposte che sono arrivate sembrano richiedere poche ma chiare innovazioni soprattutto in riferimento all’accoglienza sacramentale ai divorziati e agli omosessuali:

Comunione ai divorziati risposati, accoglienza degli omosessuali, ma anche più attenzione alle coppie in crisi, dialogo con i conviventi e rafforzamento dei corsi pre-matrimoniali. Il papa interpella la Chiesa sulle sfide della famiglia e i cattolici italiani fanno sentire la loro voce, sottolineando le urgenze pastorali nelle risposte all’inedito questionario in vista del Sinodo di ottobre. Sono state trasmesse alla Segreteria generale della Conferenza episcopale italiana le sintesi elaborate dai 226 vescovi diocesani che nei loro territori hanno raccolto stimoli da parrocchie, associazioni e nuclei familiari. Oggi il Consiglio permanente della Cei (una sorta di cdm) esaminerà un testo d’insieme da inviare alla Segreteria generale del Sinodo come contributo finale della Chiesa italiana. In attesa del documento e di cifre ufficiali, alla luce di un’indagine sulle diocesi del nord, centro e sud del Paese, è possibile anticipare le priorità dei fedeli e tirare le somme di una consultazione fortemente voluta da Francesco.
Se il papa auspicava una diffusione capillare del questionario, nel Belpaese l’operazione è avvenuta solo in parte. Un po’ perché, come denunciato al Qn dal segretario generale del Sinodo, il cardinale in pectore Lorenzo Baldisseri, si sono avuti complessivamente dei ritardi nella distribuzione delle domande, un po’ perché nelle realtà più ampie — Torino e Bologna in testa — gli arcivescovi hanno preferito sensibilizzare per lo più il clero. È andata meglio nelle diocesi piccole, come per esempio Fidenza, Pavia, Lucca e Acireale, dove sono state coinvolte anche associazioni (Azione cattolica, Cl e Le Equipes Notre Dame). Ma non sempre la partecipazione è stata nelle attese a riprova di una certa immaturità del laicato italiano, quando si tratta di far sentire la propria opinione. «Non si è percepita l’importanza della richiesta di collaborazione», lamenta l’arcivescovo di Oristano, Ignazio Sanna.
Fra i temi maggiormente sentiti dalla base campeggia la situazione dei divorziati risposati che, diritto canonico alla mano, non possono accedere alla comunione, sempre che non si astengano dai rapporti sessuali. «La gente ci chiede di favorire l’accesso ai sacramenti per queste persone — avverte Sanna —. Se la voce è piuttosto unisona, qualcosa vorrà pure significare… Ci costringe a leggere il cambiamento con audacia e prudenza». Due parole care a Bergoglio che stigmatizza «la dogana spirituale» sui sacramenti. «Una maggiore attenzione ai casi concreti» è richiesta da monsignor Giovanni Giudici (Pavia), sebbene «non penso a una riforma».
Sull’omosessualità i fedeli invitano all’accoglienza, senza cedimenti, però, sulle nozze. «C’è un atteggiamento di motivato rifiuto rispetto a una legislazione che vorrebbe equiparare le unioni civili fra persone dello stesso sesso al matrimonio — si legge in una sintesi dei contributi arrivati al vescovo di Rovigo, Lucio Soravito De Franceschi —, mentre con le persone ci deve essere un atteggiamento di ascolto. Bisogna che la Chiesa accolga i figli senza alcuna remora e senza far differenze con gli altri». In sostanza, sintetizza monsignor Luciano Pacomio, biblista di fama e vescovo di Mondovì, «va superata, nel popolo di Dio come nella società, una cultura omofoba». Dalle risposte dei credenti si intravede anche lo ‘scisma sommerso’ fra le indicazioni morali del magistero e il comportamento dei coniugi sotto le lenzuola. Non lo nasconde monsignor Nino Raspanti, vescovo di Acireale, uno dei più giovani in Cei (è classe 1959), che ammette: «Capisco l’esigenza di una rivisitazione del concetto di natura. Va da sè che questo comporterebbe una qualche riconsiderazione delle linee operative dell’enciclica Humanae vitae, dedicata alla sessualità e ai contraccettivi». Si vedrà. Il Sinodo è lontano, ma in generale che cosa si aspettano i vescovi? «Spero in un’aria di Pentecoste. Occorre investire la Chiesa non di regole, bensì di Vangelo attraente», è l’augurio di monsignor Carlo Mazza (Fidenza). Chissà perché, a chilometri di distanza, a Santa Marta, Francesco sorride.

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risolvere i problemi dei rom … mandandoli via!

Ancora sgomberi a Pisa: due famiglie rom allontanate da Coltano

sembra un vizio non solo di amministrazioni ‘cattive’ di destra insensibili alla valorizzazione e al rispetto delle minoranze  culturali e ai problemi umani spesso legati ad esse perché represse o marginalizzate, ma anche di quelle ‘buone’ che celebrano ‘giornate della memoria’ e che organizzano dibattiti pubblici sui diritti umani e che progettano soluzioni abitative ‘per loro’, magari prescindendo da un ‘loro’ effettivo coinvolgimento essendo il vero motivo degli interventi non i ‘loro bisogni ma la nostra esigenza di operare delle migliorie per darci una buona coscienza ed eliminare le brutture più grosse per esibire una immagine di sé politicamente più accettabile, quando proprio non ci sia sotto, velatamente, un intento di assimilazione presentata come ‘inserimento’ e altre belle parole …

un intervento di ‘moduli abitativi’ per i rom di Coltano, molto pubblicizzato ed elogiato, presentato da molti come un tipo di soluzione ideale per comunità rom (anche se più che a politici o uomini delle istituzioni che poco o nulla conoscono i rom, le loro abitudini, il loro modo di organizzare la vita , è ai rom stessi che andrebbe chiesta una valutazione sulle soluzioni progettate per loro) è stato messo in atto dal comune di Pisa: peccato però che chi non accetta ‘a scatola chiusa’ tale soluzione non trova altra proposta che l’essere mandati via: sta succedendo proprio questo  a due famiglie (qui sotto la solidarietà di chi le conosce molto bene)

Il comunicato di Africa Insieme e Rebeldia e la solidarietà di p. Agostino Rota Martir che ha rischiato lui stesso di essere allontanato

Ci risiamo. Ancora una volta, la politica del Comune sui rom assume un solo e unico volto: quello degli sgomberi. Con un intervento effettuato la scorsa settimana, infatti, la Polizia Municipale ha notificato un’ordinanza di allontanamento a quattro nuclei familiari del campo di Coltano.

Come noto, l’insediamento di Coltano è diviso in due aree: da un lato il “villaggio”, con le famose “casette” assegnate ai rom; dall’altro il “campo”, dove abitano famiglie che non sono rientrate nell’area attrezzata. Da mesi si discute del destino di questa seconda area. Oggi l’amministrazione ha dato la sua risposta: quattro nuclei verranno sgomberati, ma solo a due di questi è stata proposta una dignitosa soluzione abitativa. Le altre famiglie – nelle quali vi sono anche bambini – dovranno allontanarsi. 

Ci risiamo, dunque: l’amministrazione comunale ripropone la consueta strada degli anni passati. Nel frattempo, il mondo intorno a noi è cambiato. L’Italia si è dotata di un programma nazionale denominato “Strategia di Inclusione”, che chiede di interrompere la spirale perversa degli sgomberi, e di avviare progetti di inserimento abitativo.

La Regione Toscana ha creato tavoli di lavoro con gli enti locali per trovare soluzioni abitative e per scongiurare gli sgomberi forzati. Vi sono fondi europei stanziati per progetti validi e innovativi, e già alcune città toscane hanno avuto accesso a questi fondi. Il Comune di Pisa non ha presentato alcun progetto ed è oggi il fanalino di coda delle politiche sociali sui rom, sia a livello regionale che nazionale. 

A pochi chilometri da Coltano, un altro campo – quello della Bigattiera – ha suscitato aspre polemiche nei mesi scorsi. Una mozione del Consiglio Comunale obbligava il Sindaco a ripristinare l’erogazione della luce elettrica e dell’acqua corrente, e a garantire il trasporto scolastico dei bambini [per il testo della mozione e il dibattito in aula si veda l’apposita pagina sul sito del Consiglio Comunale di Pisa]. Oggi, a quasi sei mesi di distanza, nulla si è mosso, e quella comunità continua ad essere priva dei servizi essenziali.

Un recente dossier dell’Associazione 21 Luglio – una delle più note organizzazioni internazionali di tutela dei diritti umani – inserisce Pisa tra le città dove più frequentemente sono violati i diritti dell’infanzia rom. Non è proprio un bel biglietto da visita per un Sindaco che si definisce “amico dell’infanzia”… 

Ancora una volta, ci troviamo a proporre la soluzione più semplice. Si revochi l’ordinanza di sgombero, e si apra un tavolo di lavoro con le famiglie interessate, con la Regione e con le associazioni, per trovare soluzioni condivise e rispettose dei diritti fondamentali. E’ davvero così difficile farlo? 

Africa Insieme / Progetto Rebeldia 

Pisa, 29 Gennaio 2014

bambino rom

 

Le 2 famiglie Rom di Coltano a rischio di allontanamento

La chiusura di uno spazio, quello che rimane del campo Rom di Coltano, può essere una scelta legittima e necessaria e questo compete giustamente al Comune, ma è importante farlo offrendo a chi lo abita delle alternative percorribili, come recita tra l’altro la “Strategia Nazionale d’inclusione dei Rom e Sinti” della Commissione Europea del 2011, sottoscritta anche dal Governo Italiano. 

Le famiglie Rom in questione (di fatto solo 2) in questi ultimi anni si sono trovate a vivere una situazione di emergenza, e forse le colpe sono da ripartire tra le diverse parti in causa e non solo verso i Rom. Sta di fatto che le 2 famiglie Rom hanno dimostrato di saper vivere nel rispetto delle regole fondamentali: ogni giorno accompagnano i loro figli a scuola (non potendo usufruire del servizio scuolabus del campo) e i genitori sono impegnati duramente ogni giorno nella raccolta del ferro per il mantenimento delle loro famiglie. Credo fermamente meritino che gli venga data un’altra chance, il loro allontanamento alla cieca provocherebbe un’ulteriore ferita che si aggiunge ad altre. 

Gli esseri umani non sono da considerarsi degli scarti, ce lo ricorda spesso e in varie occasioni papa Francesco e il suo stile ci entusiasma:

“Al contrario, un abbassamento di dieci punti nelle borse di alcune città, costituisce una tragedia. Uno che muore non è una notizia, ma se si abbassano di dieci punti le borse è una tragedia! Così le persone vengono scartate, come se fossero rifiuti.

Questa “cultura dello scarto” tende a diventare mentalità comune, che contagia tutti.” (5 Giugno 2013) 

Anche il sottoscritto era destinatario della stessa ordinanza di allontanamento dal campo Rom, sono riconoscente all’Assessora Sandra Capuzzi per la sua comprensione, di fatto “graziandomi” offrendomi una alternativa percorribile e condivisa. Auspico che venga offerta anche a queste 2 famiglie Rom la possibilità di definire un percorso condiviso, anche per non aggravare ulteriormente la loro esistenza, soprattutto per il bene dei loro figli, evitando di fatto di sentirsi degli scarti, come dei rifiuti da spazzare via..ne vale veramente la pena? 

don Agostino Rota Martir

 campo Rom di Coltano – 30 gennaio 2014  

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p. Maggi e p. Ronchi commentano il vangelo

p. Maggi

 

I MIEI OCCHI HANNO VISTO LA TUA SALVEZZA

 

 PRESENTAZIONE DEL SIGNORE 

2 febbraio 2014, quarta domenica del tempo ordinario 

– Commento al Vangelo di p. Alberto Maggi

 

Lc 2,22-40

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè,Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore –come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo: «Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli: luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».

C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.

 

Nonostante la straordinaria esperienza dello Spirito che i genitori di Gesù hanno avuto, in particolare sua madre, essi sono ancora ancorati alla tradizione del popolo che vede il rapporto con Dio basato sull’ osservanza, sull’obbedienza della sua legge. L’evangelista in questo episodio vuole anticipare, raffigurare, la difficoltà che avrà Gesù nel proporre al suo popolo, una diversa relazione con Dio, non più basata sull’obbedienza alle sue leggi, ma sull’ accoglienza del suo Spirito, del suo amore. Ecco allora che l’evangelista, nell’episodio conosciuto come la presentazione di Gesù al Tempio, presenta due comitive contrarie .

Una raffigurata dai genitori di Gesù che portano il bambino per adempiere un inutile rito, perché essi intendono fare figlio di Abramo quello colui che è invece è già Figlio di Dio.

E dall’altra parte, l’uomo dello Spirito, Simeone, intenzionato ad impedire l’inutile rito.

I genitori vanno per la purificazione della madre – perché la nascita di un bambino rendeva impura la madre e quindi la donna doveva purificarsi attraverso un’offerta, e qui è l’offerta dei più poveri, di una coppia di tortore – e soprattutto per pagare il riscatto del figlio. Ogni primogenito maschio che nasceva, infatti, il Signore lo voleva per sé.

Se i genitori lo volevano, dovevano pagargli l’equivalente di venti giornate di lavoro, cioè cinque sicli. Ebbene l’evangelista, mentre Maria e Giuseppe con il bambino si dirigono verso il Tempio per compiere questo rito, ci presenta con sorpresa – l’evangelista adopera un’espressione che indica la meraviglia Ecco, a Gerusalemme c’è un uomo di nome Simeone” , Simeone (che significa “il Signore è ascoltato”),è l’uomo dello Spirito , che tenta di impedire l’inutile rito.

Infatti Simeone prende il bambino tra le braccia mentre i genitori volevano adempiere ad ogni cosa della legge e pronuncia una profezia che lascia sconcertati i genitori. Infatti di Gesù dice che sarà gloria del suo popolo, Israele”, e questo Maria e Giuseppe lo sapevano, era il compito del Messia, del Figlio di Dio, ma,la novità,” luce per rivelarti alle genti” , cioè ai popoli pagani

L’amore di Dio, annunzia Simeone, è universale , non è più per un popolo – il popolo eletto -, ma è per tutta l’umanità. Pertanto i nemici di Israele, cioè i pagani, non dovranno più essere – come essi credevano, come la tradizione presentava – essere dominati, ma accolti da fratelli.

Poi Simeone, a Maria dà una benedizione, che finisce in una maniera abbastanza sinistra.

Dice che Gesù – e lo raffigura a quello che poi Luca più avanti nel suo vangelo presenterà come “una pietra”, una pietra che può essere angolare, che serve per la costruzione, o una pietra che fa inciampare le persone, le fa sfracellare- ed infatti dirà di Gesù che “Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele ”  e, come segno di contraddizione, “anche a te” ,quindi si rivolge a Maria, la madre di Gesù,” una spada trafiggerà l’anima”, cioè la tua vita.

Qual è il significato di questa spada che trafigge l’intera vita di Maria? La spada , sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, è figura della Parola di Dio, che è efficace come una spada, dirà l’autore della lettera agli Ebrei, che “la parola di Dio è come una spada che arriva fino alle giunture e alle midolla e al punto di divisione dell’anima e dello Spirito”. Quindi Simeone a Maria, che raffigura il popolo di Israele, le annuncia che la parola di questo Figlio per lei sarà come una spada che la costringerà a fare delle scelte, e delle scelte molto dolorose. Infatti, nel prossimo episodio che l’evangelista presenterà, quello del ritrovamento di Gesù nel Tempio, farà sì che le prime e uniche parole che Gesù rivolgerà alla madre, saranno parole di rimprovero.

E’ ancora lungo il cammino di Maria. Maria dovrà comprendere che da madre del Figlio, dovrà trasformarsi in discepola. Un cammino lungo e doloroso, come una spada che trafigge l’anima.

 

Ronchi

Gesù, la luce preparata per i popoli

Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori». C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. (…)
Maria e Giuseppe portano Gesù al tempio per presentarlo al Signore, ma non fanno nemmeno in tempo a entrare che subito le braccia di un uomo e di una donna se lo contendono: Gesù non appartiene al tempio, egli appartiene all’uomo. È nostro, di tutti gli uomini e le donne assetati, di quelli che non smettono di cercare e sognare mai, come Simeone; di quelli che sanno vedere oltre, come Anna, e incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro. Gesù non è accolto dai sacerdoti, ma da un anziano e un’anziana senza ruolo, due innamorati di Dio che hanno occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. È la vecchiaia del mondo che accoglie fra le sue braccia l’eterna giovinezza di Dio. Lo Spirito aveva rivelato a Simeone che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia. Parole che lo Spirito ha conservato nella Bibbia perché io le conservassi nel cuore: tu non morirai senza aver visto il Signore. La tua vita non si spegnerà senza risposte, senza incontri, senza luce. Verrà anche per me il Signore, verrà come aiuto in ciò che fa soffrire, come forza di ciò che fa partire. Io non morirò senza aver visto l’offensiva di Dio, l’offensiva del bene, già in atto, di un Dio all’opera tra noi, lievito nel nostro pane. Simeone aspettava la consolazione di Israele. Lui sapeva aspettare, come chi ha speranza. Come lui il cristiano è il contrario di chi non si aspetta più niente, ma crede tenacemente che qualcosa può accadere. Se aspetti, gli occhi si fanno attenti, penetranti, vigili e vedono: ho visto la luce preparata per i popoli. Ma quale luce emana da questo piccolo figlio della terra? La luce è Gesù, luce incarnata, carne illuminata, storia fecondata. La salvezza non è un opera particolare, ma Dio che è venuto, si lascia abbracciare dall’uomo, mescola la sua vita alle nostre. E a quella di tutti i popoli, di tutte le genti… la salvezza non è un fatto individuale, che riguarda solo la mia vita: o ci salveremo tutti insieme o periremo tutti. Simeone dice poi tre parole immense a Maria, e che sono per noi: egli è qui come caduta e risurrezione, come segno di contraddizione. Cristo come caduta e contraddizione. Caduta dei nostri piccoli o grandi idoli, che fa cadere in rovina il nostro mondo di maschere e bugie, che contraddice la quieta mediocrità, il disamore e le idee false di Dio. Cristo come risurrezione: forza che mi ha fatto ripartire quando avevo il vuoto dentro e il nero davanti agli occhi. Risurrezione della nobiltà che è in ogni uomo, anche il più perduto e disperato. Caduta, risurrezione contraddizione. Tre parole che danno respiro alla vita, aprono brecce. Gesù ha il luminoso potere di far vedere che le cose sono abitate da un «oltre». (Letture: Malachìa 3,1-4; Salmo 23; Ebrei 2, 14-18; Luca 2, 22-40)
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papa Francesco sembra credere poco a Medjugorie

Medjugorie, chiusa commissione d’inchiesta. Bergoglio scettico sui veggenti

Il lavoro, presieduto da Ruini, è durato più di tre anni e, il 23 gennaio scorso, l’ex presidente della Cei, che non hai mai messo piede nel paesino della Bosnia Erzegovina, ha informato Papa Francesco dei risultati. Grande attesa sulla decisione che prenderà il Papa
Medjugorie, chiusa commissione d’inchiesta. Bergoglio scettico sui veggenti
questa la convinzione de ‘il Fattoquotidiano’ basata su alcune espressioni altamente significative, peraltro, di papa Francesco stesso nei mesi passati:
Papa Francesco non crede a Medjugorje. Da oltre trent’anni nel paesino della Bosnia Erzegovina apparirebbe la Madonna a sei veggenti, ma Bergoglio in maniera piuttosto esplicita ha spiegato in più occasioni il suo pensiero. E ora che in Vaticano è finalmente arrivato il dossier elaborato dalla Commissione internazionale d’inchiesta su Medjugorje, voluta da Benedetto XVI e presieduta dal cardinale Camillo Ruini, c’è grande attesa sulla decisione che prenderà il Papa argentino.

Nell’omelia della Messa celebrata a Santa Marta il 7 settembre 2013, Bergoglio ha criticato duramente i “cristiani senza Cristo: quelli che cercano cose un po’ rare, un po’ speciali, che vanno dietro a delle rivelazioni private, mentre la rivelazione si è conclusa con il Nuovo testamento”. Un riferimento, seppure indirettamente, ai segreti che la Madonna avrebbe rivelato ai sei veggenti di Medjugorje. Molto più esplicito è stato, invece, il Papa il 14 novembre scorso sempre nell’omelia di Santa Marta. “Ci dicono: il Signore è qua, è là, è là! Ma io conosco un veggente, una veggente che riceve lettere della Madonna, messaggi della Madonna. Ma, guarda, la Madonna è madre! E ama tutti noi. Ma non è un capo ufficio della posta, per inviare messaggi tutti i giorni”.

Dal 24 giugno 1981, nella piccola località (2.500 abitanti) della Bosnia Erzegovina, la Madonna apparirebbe a sei veggenti (Vicka Ivanković, Mirijana Dragičević, Marija Pavlović, Ivan Dragičević, Ivanka Ivanković e Jakov Čolo). Nel 2010 Benedetto XVI ha affidato a una commissione internazionale, presieduta dal cardinale Ruini e composta da diciassette membri provenienti da tutto il mondo (porporati, vescovi, teologi e psicologi scelti tra i massimi esperti di mariologia e apparizioni) il compito di approfondire il fenomeno Medjugorje. Il lavoro è durato più di tre anni e, il 23 gennaio scorso, l’ex presidente della Cei, che non hai mai messo piede nel paesino della Bosnia Erzegovina, ha informato Bergoglio dei risultati a cui è giunta la commissione. Ora il dossier conclusivo è nelle mani della Congregazione per la dottrina della fede, presieduta dal tedesco Gerhard Ludwig Müller a cui il Papa imporrà la berretta cardinalizia nel concistoro del 22 febbraio prossimo.

Ma nei sacri palazzi è forte lo scetticismo che aleggia da sempre su Medjugorje. È nota la vicenda del cardinale di Vienna ed ex alunno di Ratzinger Christoph Schönborn, che trascorse il capodanno del 2010 a Medjugorje. Il pellegrinaggio non passò inosservato scatenando non poche polemiche, soprattutto in Vaticano. Pochi sapevano che Schönborn era andato a Medjugorje anche con l’intento di raccogliere informazioni da riferire a Benedetto XVI. “Un cardinale che viene in un luogo come Medjugorjie – sottolineò il porporato rispondendo alle numerose critiche – non può passare inosservato. Ma sono venuto anzitutto da pellegrino per essere nel luogo dove tanta gente trova fede e coraggio nella fede. Non è compito dei veggenti dimostrare, ma comunicare. Io dico semplicemente e indipendentemente dal giudizio finale di questi fenomeni, che una cosa mi pare evidente: i messaggi sono semplicemente evangelici, sono di buon senso”.

E sulle apparizioni? “È vero che la Madonna è dappertutto – precisò il porporato – ma è altrettanto vero che in questi luoghi se ne avverte una presenza molto più forte. L’aspetto fondamentale sono i frutti. I frutti dicono, i frutti parlano, i frutti sono rivelatori”. Nel libro “Perchè è santo“, scritto dal postulatore della causa di canonizzazione di Giovanni Paolo II, Slawomir Oder, e dal giornalista Saverio Gaeta, si racconta che uno dei più stretti collaboratori del Pontefice polacco chiese a Wojtyla se avesse mai visto la Madonna. La risposta del Papa fu netta: “No, non ho visto la Madonna, ma la sento”. Nel libro si riportano, accreditandole, anche le parole pronunciate da Wojtyla, che sarà canonizzato il prossimo 27 aprile da Papa Francesco insieme a Giovanni XXIII, durante un breve colloquio con la veggente Mirijana alla quale confidò: “Se non fossi Papa, sarei già a Medjugorje a confessare”.

 

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quelli che … questo papa proprio non va!

Papa Francesco piace… non a tutti

È troppo sobrio. Troppo moderno. E pecca anche di “relativismo morale e religioso”. Sono le accuse mosse al Pontefice più rock di ogni tempo. Ecco chi sono i suoi “nemici”

Papa Francesco: cominciano a spuntare critici e nemici

Guarda la giornata che abbiamo passato con lui (foto | video)
così Michela Auriti, su ‘Oggi’, ricostruisce il quadro di una destra conservatrice o reazionaria che in America e anche da noi (all’ombra specie de ‘il Foglio’ di G. Ferrara) scaraventa addosso a papa Francesco le accuse più inverosimili:

Papa Francesco piace… non a tutti. L’idillio è finito. Dopo sette mesi di innamoramento collettivo, voci contrarie a Papa Francesco si sono levate dalle pagine di un quotidiano. E le conseguenze non sono state indolori. C’è poi chi cerca di normalizzare Bergoglio, di inserirlo in una logica di continuità pontificia, così da attenuarne la portata rivoluzionatia. Comunque sia, la luna di miele ormai sfuma.

Papa Francesco si inchina a Rania di Giordania – LEGGI | FOTO | VIDEO

 «Questo Papa non ci piace» è il titolo forte dell’articolo su Il Foglio di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, il primo giornalista e studioso di letteratura, il secondo canonista e docente di Bioetica, entrambi esponenti del mondo tradizionalista cattolico. Si accusa il pontefice di «relativismo morale e religioso», puntando il dito sull’intervista rilasciata da Francesco al non credente Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica. Il passaggio sull’autonomia della coscienza e sulla visione personale del Bene e del Male contrasterebbe con il magistero dei precedenti Pontefici. I due autori richiamano così il capitolo 32 della Veritatis Splendor in cui Giovanni Paolo II, contestando «alcune correnti del pensiero moderno», scriveva che «si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale», tanto che esso è diventato «radicalmente soggettivista».

Papa Francesco scende dalla macchina per salutare e baciare un disabile – GUARDA

Quando il Papa dice a Scalfari che «il proselitismo è una solenna sciocchezza», incalzano i giornalisti, è come se disconoscesse il lavoro fatto dalla Chiesa per convertire le anime al cattolicesimo. Poi si arriva all’intervista del Papa a Civiltà Cattolica, con il suo richiamo al Concilio Vaticano II che «è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea». Ma un Vangelo «deformato alla luce del mondo», si domandano Gnocchi e Palmaro, quanti altri mutamenti dovrà subire?

Papa Francesco beve dalla lattina di un fedele e manda nel panico la sicurezza – GUARDA

ALLONTANATI DA RADIO MARIA 

La visita di Francesco ad Assisi, il 4 ottobre, diventa per loro «un’imponente esibizione di povertà». Questo Papa è un leader «che dice alla folla proprio quello che la folla vuol sentirsi dire. Ma ciò viene fatto con grande talento e mestiere». L’augurio è che si impari l’umiltà vera, consistente «nel sottoporsi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo». Punto. Per Gnocchi e Palmaro, la conseguenza di tanta libertà di pensiero è l’allontamento da Radio Maria. Collaboravano da dieci anni, per loro ammissione in totale autonomia. Ma il direttore don Livio Fanzanga ha chiarito: «Tra i principi della nostra emittente c’è la fedeltà al Papa e al suo magistero».

I giudizi negativi vengono comunque condivisi da circoli intellettuali e gruppi tradizionalisti attivi sul web. A dar fastidio sono l’insistenza del Papa sui principi del Concilio, la sobrietà eccessiva, il viaggio a Lampedusa tra gli immigrati, i frequenti accenni alla misericordia di un Dio che non si stanca mai di perdonare. Gli stessi motivi che invece fanno leva sulle masse e conquistano a Francesco una popolarità vastissima, senza appartenenza né colore.

Certo Il Foglio si è smarcato dal consenso unanime, e non da ora, diventando il polo dei ratzingeriani irriducibili. Il direttore Giuliano Ferrara scriveva qualche settimana fa: «Le mie ferite non sono curabili nel suo ospedale da campo», con riferimento all’espressione usata da Francesco nell’intervista a Civiltà Cattolica. La critica era per il gesuita relativista che, come lo scomparso cardinal Martini, «assolve il mondo che ha processato e condannato la Chiesa cattolica e il pensiero cristiano». Sempre su quelle pagine, il giornalista e saggista Mattia Rossi sostiene una tesi cara agli ambienti tradizionalisti: Francesco, ai limiti dell’eresia, sta fondando «una nuova religione, una neo-chiesa in netta rottura non solo con i predecessori ma con il magistero cattolico perenne». Cita esempi, come la scomparsa dal pensiero di Bergoglio del peccato originale, e ne sindaca la fratellanza «umanitarista da ong e sentimentalista, tanto sbandierata quanto inaccettabile». Lorenzo de Vita, editore della cattolica Effedieffe, in uscita con Mistero di iniquità di Pierre Virion, aggiunge: «Questo Papa vuol portare alle estreme conseguenze le aperture del Concilio. Preoccupa. Se fuori dalla Chiesa non c’è salvezza, ha un senso aprire il recinto per accogliere il maggior numero di persone. Cristo però ha detto: “Non sono venuto a portare pace, ma una spada”. Allora salvarsi l’anima implica un percorso di sofferenza, ostico. Se ora Scalfari si sente giustificato, io penso alla Maddalena pentita. Gesù l’ammonì: “Va’ e non peccare più”».

«LOBBY E POTENTATI LAICISTI» 

 Sotto accusa finisce il nuovo linguaggio usato dal Papa e con strumenti diversi da quelli della consuetudine. Lo storico Roberto de Mattei, tradizionalista, lo ha definito «molto pericoloso», perché «chi domina il mondo della comunicazione non è il Papa né tantomeno i cattolici, ma lobby e potentati laicisti in grado di farne un uso distorto». Di conseguenza, ha espresso «una posizione di forte riserva nei confronti della strategia comunicativa del Pontefice».

Il professor Pietro De Marco, sull’autorevole blog di Sandro Magister Settimo cielo, rompe «il coro cortigiano» che si infiamma  agli interventi pubblici di Bergoglio: «Il Papa piace a destra e a sinistra, a praticanti e a non credenti senza discernimento. Il suo messaggio prevalente è “liquido”. Su questo successo, però, non può essere edificato niente, solo reimpastato qualcosa di già esistente e non il meglio». Prevede che anche i media si stancheranno «di fare da sponda a un Papa che ha troppo bisogno di loro». E conclude: «Non approvo gli estremismi tradizionalisti, ma non v’è dubbio che la tradizione sia la norma e la forza del successore di Pietro». Sandro Magister, vaticanista di L’Espresso, aggiunge: «La forza di Francesco sta nel non prendere mai posizione. Dice cose che vanno incontro alle attese di chi ascolta, evitando di toccare in modo netto temi che possono portare divisioni. Fa cenni vaghi. Ma questa modalità di comunicare non può durare in eterno e rischia di scontentare sia a destra sia a sinistra». Per ora Ritanna Armeni spiega bene come la sinistra, da tempo orfana di un padre che indichi «questo si fa, questo non si fa», si sia accoccolata su Francesco che restituisce dignità al Terzo Mondo e alla lotta per il lavoro.

Ma perfino tra i progressisti c’è chi rompe il consenso. Piero Stefani, intellettuale del cattolicesimo, scrive: «Si è di fronte a un susseguirsi di parole, fatti, gesti. Quasi quotidianamente c’è qualcosa di nuovo: encicliche pubblicate e annunciate, digiuni, preghiere, interviste, lettere, discorsi, nomine, udienze, viaggi, telefonate, twitter. Non si riesce a fissare un punto non dico di sosta, ma neppure di svolta. A partire da tutto ciò, e contro l’intenzione profonda del Papa stesso, quanto resta al centro è la persona stessa di Francesco e non già il suo messaggio. Così rischia di identificare il messaggio evangelico con se stesso».

LA RAMPOGNA DEL GESUITA AMERICANO 

 Ed ecco il “rabbuffo“ al Papa del gesuita americano Francis X. Clooney. Sempre sul Foglio si chiede come mai, se giudica lebbrosa la Curia, ne abbia canonizzato «il suo campione Wojtyla». Inoltre non gradisce lezioni di ecumenismo, quando il Papa dice che è stato fatto poco in quel senso. Già in passato, invece, e proprio sul tema della fratellanza interreligiosa, Magdi Cristiano Allam critica duramente Francesco. Durante un Angelus di agosto, questi si rivolge «ai nostri fratelli musulmani» dopo il Ramadan. Ma il giornalista argomenta che l’Islam pretende di «superare» il cristianesimo, continuando a massacrare «gli infedeli». Perciò nessuna legittimazione: «Così si scade nel relativismo religioso che annacqua l’assolutezza della verità cristiana».

Ma, a parte casi particolari, quanto è ampia l’area di opposizione al Papa? Massimo Introvigne, sociologo e fondatore del Cesnur (Centro studi sulle nuove religioni), dice: «Occorre distinguere. Ci sono i cattolici vecchio stampo, quelli che provano un certo disagio di fronte a gesti come il colloquio con Scalfari, ma rimangono leali al Papa e al suo magistero; e piccoli gruppi che invece traggono occasione da questo disagio per ribadire critiche al Concilio, cosa che già facevano con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. In questa categoria rientra senz’altro la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da monsignor Lefebvre, di cui molti intellettuali detti più o meno “tradizionalisti” sono simpatizzanti o almeno compagni di strada e frequentatori. Per questo mondo, l’impatto con Papa Francesco esaspera semmai il pericolo di scisma. Che però, insisto, c’era anche prima». Alberto Melloni, storico del Cristanesimo e autore di Quel che resta di Dio (Einadi),  aggiunge: «Il tradizionalismo cattolico è sempre stato eversore. Ha accusato Papa Giovanni d’essere un agente sovietico (ricordo un libretto dal titolo Nikita Roncalli), Paolo VI l’Anticristo, Wojtyla un sincretista quando fece la preghiera di Assisi. La moda di prendersela col Papa è antica, non ci vedo molto di nuovo. Ed è una forma di semplicismo ideologico dire: la tradizione ha sempre voluto e detto solo questo. Non è vero. Ciò che il Papa insegna è la caratteristica pluriforme della Verità cristiana, in un atteggiamento di continua ricerca di Dio. Questi tradizionalisti, graffitari della Chiesa che vanno a scrivere la loro protesta sui muri, sono niente».

LA SCHIERA DEI “NORMALISTI” 

 C’è poi la legione di quanti, di fronte alla dirompente novità di Francesco, cercano di convincere se stessi e gli altri che nulla cambia. La parola chiave è «continuità» rispetto al passato. Scrive sul Corriere della Sera Vittorio Messori, contestualizzando questo Papa: «Con il suo stile da “parroco del mondo”, vuole impegnare la Chiesa intera in quella sfida di rievangelizzazione dell’Occidente che fu centrale anche nel programma pastorale dei suoi due ultimi predecessori. Nessuna frattura, dunque, bensì continuità, pur nella diversità dei temperamenti».

Ma riuscirà, Francesco, ad attuare il suo programma così ambizioso? «È un Papa destinato a dividere», nota Ignazio Ingrao, vaticanista di Panorama. «Se da un lato attrae le folle, dall’altro mette in crisi tutto un sistema anche di potere, di concezione dell’autorità della Chiesa. E questo gli procura dei nemici. Bisognerà vedere se riusciranno a fermarlo. Francesco si spoglia degli orpelli del monarca, ma compensa con uno straordinario carisma. Tuttavia io credo che i suoi oppositori cresceranno. Il punto più critico di questo Pontificato è il livello di attesa, di aspettative che crea. E che rischia di non riuscire a soddisfare».

Michela Auriti

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ingiurie e condanne anziché vicinanza e accoglienza anche nella chiesa di papa Francesco

da Adista la ricostruzione di un difficilissimo inizio di relazione del neo-cardinale mons. Fernando Sebastián Aguilar ,eletto da papa Francesco, con ampie componenti del suo popolo nella sua cura pastorale: le donne e i gay, un rapporto fatto di ingiurie, grossolani pregiudizi … forse qui è il caso di dire che papa Francesco non ha aperto tutti e due gli occhi … e le orecchie!

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Omosessualità è una «deficienza di sessualità» e può essere curata. Le donne abortiscono perché «vogliono godersi la vita». Opinioni di un neo-cardinale, precisamente dell’84.enne arcivescovo emerito di Pamplona, mons. Fernando Sebastián Aguilar (fra i 19 nuovi cardinali cui papa Francesco imporrà la berretta il 22 febbraio prossimo), colte in due interviste: al quotidiano malagueño Sur (19/1/14) e al catalano El Periódico (15/1/14). Nella prima, Sebastián afferma, con toni da entomologo, che «l’omosessualità è una maniera deficiente di manifestare la sessualità, perché questa ha una struttura e un fine, che è la procreazione. L’omosessualità non può raggiungere questo fine, perciò è un fallimento». Lo dice «con tutto il rispetto» e consapevole che «molti si arrabbiano e non tollerano» una simile visione. «Non è un oltraggio per nessuno», spiega invece, perché, «nel nostro corpo, di deficienze ne abbiamo varie. Io soffro di ipertensione: mi arrabbio perché me lo dicono? È una deficienza che devo correggere come posso. Segnalare a un omosessuale la sua deficienza non è un’offesa, è un aiuto, perché molti casi di omosessualità si possono recuperare e normalizzare con un trattamento adeguato. Non è un’offesa, è un segno di stima. Se una persona ha un difetto, il buon amico è colui che glielo dice».

“Da curare sarai tu, e non proprio per l’ipertensione”, è in soldoni la risposta che è subito arrivata al neo-cardinale da Colegas, ovvero la Confederazione spagnola di lesbiche, gay, bisessuali, transessuali: «Le ricordiamo che l’omosessualità non è una malattia curabile, ed invece l’omofobia sì», ha scritto il gruppo, e «lamentiamo questo tipo di sfortunate associazioni fra omosessualità ed infermità che credevamo superate nell’attuale Spagna e che sono molto simili a quelle fatte recentemente dal presidente della Russia, Vladimir Putin, che ha associato omosessualità e pederastia». Il papa avrà preso un abbaglio, deve essere il sospetto di Colegas: Francesco, secondo il collettivo, non dovrebbe nominare cardinali «che difendono pubblicamente simili impostazioni se vuole una Chiesa più inclusiva e aperta, come ha lasciato intravedere in diverse sue manifestazioni sul tema dell’omosessualità».

Per la Federazione Statale di lesbiche, gay, transessuali e bisessuali (Felgtb) le espressioni di mons. Sebastián sono «seme di odio e miccia per azioni violente», mentre per Juan Cejudo, delle Comunità cristiane di Base e del Moceop (Movimento per il celibato opzionale), sono «un insulto» e meritano un ammonimento del papa e una pubblica richiesta di scuse da parte dell’autore.

Il teologo José María Castillo, dalle pagine di Redes Cristianas (21/1), invita tutti, a partire dal neo-cardinale, a «misurare bene» le parole, «soprattutto su questioni che hanno conseguenze sulla felicità o sulla disgrazia degli altri»; e rileva che Sebastián, parlando di procreazione quale fine della sessualità, «riduce la sessualità umana a mera animalità».

Levata di scudi su Twitter, invaso da critiche indignate e richieste di spiegazioni al papa. Ma anche una presa di distanza da parte del Partito popolare di Malaga, che ha fatto sapere di non condividere «in assoluto» le parole dell’arcivescovo emerito. Ovviamente ben più ferma la posizione del partito socialista, il Psoe: esigiamo una rettifica, ha detto la portavoce María Gámez. Le parole del neo-cardinale contribuiscono a «fomentare la discriminazione e l’omofobia», ha dichiarato Purificación Causapié, che del Psoe nazionale è la segretaria per l’Uguaglianza.

Nell’intervista a El Periódico (15/1), anch’essa rilasciata in occasione della nomina a cardinale, mons. Sebastián è sollecitato sugli stessi argomenti (per inciso, a proposito della “novità” rappresentata da papa Francesco, sostiene: «Non bisogna credere a chi dice che la Chiesa funziona meglio o sta cambiando. Tutti i papi all’inizio realizzano cambiamenti e semplificano l’amministrazione»). Parla ancora di omosessualità come di «deficienze di cui bisogna prendersi cura e che non sono nel piano di Dio» e si esprime sulla questione aborto, tema caldissimo in Spagna, dove il governo ha da poco presentato una riforma della legge che lo regola. Tema che il neo-cardinale liquida con queste parole: «Tutte le donne che chiedono di abortire lo fanno perché vogliono togliersi di mezzo i figli per godersi la vita. Quante sono le ragazzine che chiedono di abortire perché sono state violentate? Questa è la domanda. Dei 120mila aborti l’anno, quanti avvengono perché la gravidanza è frutto di stupro? Questo dibattito è distorto, nessuno vuole riconoscere la verità, che si sta ammazzando un figlio che comincia a vivere nel ventre. L’aborto è uccidere un bambino, e nessuno vuole guardare in faccia questo. Questa ipocrisia sta pervertendo le coscienze».

Anche queste affermazioni sono state stigmatizzate da Purificación Causapié: Sebastián, ha detto, dimostra «disprezzo assoluto per la libertà delle donne» ed evidenzia «la volontà di imporre la sua morale al di sopra delle leggi della democrazia». Dal canto suo, la deputata di Bildu (in euskera, “Riunirsi”, coalizione elettorale indipendentista basca) Bakartxo Ruiz, accusa il vescovo emerito di «apologia di violazione dei diritti delle donne» e ritiene «molto grave che queste persone siano state e continuino ad essere le massime autorità religiose della Comunità». Ha reagito alle affermazioni di mons. Sebastián manifestando tutto il suo scandalo il direttore del sito web di informazione religiosa Religión digital (22/1), José Manuel Vidal, che scrive direttamente al vescovo emerito. “Le donne abortiscono perché vogliono godersi la vita”?, riassume. «Non ho mai sentito (dalla bocca di un ecclesiastico di alto rango) un’idea tanto ingiusta e peregrina». “L’omosessualità è una deficienza da curare”? «Le sue parole stanno producendo un danno enorme alla Chiesa e al papa che lo ha scelto per il cardinalato. Per questo, sebbene io non sia nessuno per darle consiglio, oso chiederle, con il rispetto e la stima che le porto, una pubblica rettifica. Convochi al più presto una conferenza stampa su un unico punto: chiedere perdono». Prima agli offesi, «poi, al papa e alla Chiesa». 

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dopo l’olocausto è possibile ancora credere in un Dio buono?

alla luce della grandezza del male visto durante l’Olocausto molte persone hanno riesaminat0 le impostazioni  classiche del problema dell conciliazione della realtà  di Dio con il male soprattutto così intollerabile

la domanda comune è: “come può la gente avere ancora qualche tipo di fede dopo l’Olocausto?”

a questa domanda cerca di dare una risposta il teologo ebreo H. Jonas con il volumetto: ‘il concetto di Dio dopo Auschwitz:

Il concetto di Dio dopo Auschwitz

Hans Jonas

Hans Jonas

Le tragedie pongono sempre dei dubbi e delle domande. E se la tragedia in questione riguarda migliaia di persone ed è di gravità incommensurabile, i dubbi che pone sono parimenti gravi. Per questo Auschwitz pone al popolo ebraico, e non solo, problemi sulla stessa natura di Dio, problemi difficili da risolvere, da chiarire. Davanti a una simile tragedia, davanti a migliaia di vittime innocenti, si pone una domanda essenziale: quale Dio ha potuto permettere questo?

A questa domanda prova a rispondere Hans Jonas col suo libello “Il concetto di Dio dopo Auschwitz”. Un trattato breve, ma incisivo, ben scritto e ben argomentato, su un tema difficoltoso, soprattutto per un ebreo. Scrive infatti Jonas:

Si deve considerare a questo punto, il fatto che l’ebreo, di fronte a un simile interrogativo, si trova teologicamente in una situazione più difficile del cristiano. Infatti, per il cristiano che attende l’autentica salvezza dall’al-di-là, questo mondo (e in particolare il mondo umano a causa del peccato d’origine) è il mondo di Satana e conseguentemente un mondo non degno di fiducia. Ma per l’ebreo che vede nell’al di qua il luogo della creazione, della giustizia e della salvezza divina, Dio è in modo eminente il signore della storia, e quindi Auschwitz, per il credente, rimette in questione il concetto stesso di Dio che la tradizione ha tramandato.

Cosa fare allora? Come ripensare il concetto di Dio? Come conciliarlo con l’orrore del campo di sterminio? Rinunciando all’onnipotenza.

Jonas ci presenta un Dio inedito, sofferente, compartecipe delle vicissitudini

Il famigerato cancello di entrata di Auschwitz

Il famigerato cancello di entrata di Auschwitz.

umane e non più onnipotente e distaccato. Del resto l’onnipotenza è insostenibile anche da un punto di vista logico. Nel momento della creazione, nel momento in cui Dio ha creato un altro-da-sé, l’onnipotenza è venuta a mancare. L’esistenza di un altro infatti limita il potere di Dio poiché l’altro ha una sua indipendenza, seppur parziale e limitata, e quindi una sua potenza. Solo restando unico e solo, Dio avrebbe potuto rimanere onnipotente. Ma sarebbe stata un’onnipotenza solo teorica e inutile poiché non ci sarebbe stato nessun altro soggetto su cui applicare quella stessa potenza. Perciò l’onnipotenza di Dio diviene un concetto non più sostenibile.

Ma non è solo la logica a far vacillare il concetto. Jonas ci dice che tre cose sono importanti nella concezione ebraica di Dio: l’onnipotenza, la bontà e la comprensibilità. Ora, dice l’autore, questi tre attributi non possono valere contemporaneamente. Possono sussistere solo due alla volta. Se infatti Dio è buono e comprensibile (pur parzialmente) dall’uomo allora non può essere onnipotente. Non si potrebbe in tal caso comprendere l’esistenza dell’ingiustizia, della sofferenza degli innocenti. Non si potrebbe spiegare ciò che successe ad Auschwitz. Se fosse invece onnipotente e comprensibile, ne seguirebbe la mancanza della bontà. Un Dio che può evitare la sofferenza degli innocenti e non lo fa non può essere considerato buono, se postuliamo la possibilità di comprenderne la legge e le azioni. Per salvare l’onnipotenza e la bontà di Dio dobbiamo rinunciare alla comprensione, dobbiamo renderlo un Dio distante, misterioso, sconosciuto e inconoscibile in ogni suo aspetto. Ma per l’ebraismo bontà e comprensibilità sono irrinunciabili. Senza questi due attributi, l’intero ebraismo perde significato. Per questo Jonas dice che l’onnipotenza è, tra i tre attributi, quello a cui rinunciare. Solo un Dio che ha rinunciato all’onnipotenza creando e si è messo in gioco nel divenire del tempo può far capire un male insensato e ingiusto. E può, finalmente, mostrare il suo aspetto vero, quello di un Dio che pur nella sua potenza e grandezza, soffre e diviene e partecipa del destino dell’uomo.

Siamo dunque in balia del caos e del male? Dobbiamo pensare che Dio non possa dunque nulla contro l’ingiustizia e la sofferenza? Dobbiamo pensare di essere soli nella lotta di questo mondo? No. Dio c’è comunque e c’è una superiorità del bene sul male, una superiorità che porta lentamente il mondo verso qualcosa di meglio, verso un perfezionamento. Così scrive Jonas:

Grazie alla superiorità del bene sul male in cui noi confidiamo in virtù della logica non causale che governa le cose di questo mondo, la loro nascosta santità può controbilanciare una colpa incalcolabile, saldare il conto di una generazione e salvare la pace del regno invisibile.

Così la scoperta della non-onnipotenza di Dio lungi dal divenire motivo di disperazione, diventa motivo di speranza e di avvicinamento al Creatore.

Questa concezione non è rimasta limitata all’ebraismo. Nonostante ciò che si diceva all’inizio dell’articolo, anche alcuni teologi cristiani hanno sposato questa tesi per spiegare l’eccesso di male che pervade il nostro mondo. Simili idee sono nettamente minoritarie, ma presenti nel cattolicesimo sia romano che ortodosso. Cito solamente, a tal proposito, il nome di Sergio Quinzio, importante e originale teologo del XX secolo.

Hans Jonas fu un filosofo tedesco (poi naturalizzato statunitense) di origine ebraica. Nato nel 1903, fu un grande studioso dello gnosticismo. Fuggì dal nazismo prima in Inghilterra e poi in Palestina e partecipò come volontario alla seconda guerra mondiale. Morì nel 1993.

“Il concetto di Dio dopo Auschwitz” è un’opera a mio parere molto importante e non solo per i credenti (ebrei o meno), ma per tutti. Dà spunti di riflessione sul mondo contemporaneo che si rivelano preziosi.

L’edizione della casa editrice “il melangolo” è ben curata, elegante, e corredata da utili note e da un discorso dello stesso Jonas sul razzismo, tenuto in occasione del conferimento del premio Nonino.

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la ‘parresia’ del card. Maradiaga, elogiata da Mancuso, criticata da ‘il Foglio’

mutare la dottrina, si può e si deve, dice Mancuso alle orecchie scandalizzate de ‘il Foglio’, quando tale dottrina non è più capace di parlare e annunciare il vangelo all’uomo contemporaneo:  qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”

questa la ricostruzione delle dichiarazioni di Mancuso a ‘il Foglio’ fatta da M. Matzuzzi:

Nelle parole del teologo novatore Mancuso, ecco la posta in gioco

“Se non entrerà in gioco il concetto di famiglia, non so a cosa possa servire il Sinodo. La questione di fondo è proprio questa, l’ha detto anche Maradiaga nella recente intervista concessa al quotidiano tedesco Kölner Stadt-Anzeiger”. Il teologo Vito Mancuso è rimasto impressionato dalle parole del porporato honduregno, “mi ha colpito la libertà della mente che il suo incedere aveva, e di questo c’è molto bisogno, soprattutto nella chiesa”, dice al Foglio. “Serve parresìa, franchezza nel dire le cose, pur avendo sempre rispetto verso la persona verso cui le si dice. C’è necessità di dire le cose in maniera netta, franca. Cosa che oggi non si vede più troppo spesso”. Maradiaga parla di nuova èra, si richiama al Vaticano II, “quasi ci fosse bisogno di riprendere quella musica dopo l’ouverture interrotta. E’ penetrante quell’immagine dell’aria fresca”, aggiunge Mancuso. Il cuore della faccenda è che “il genere di famiglia descritto dalla Familiaris Consortio, l’esortazione giovanpaolina del 1983, non esiste quasi più. Ci sono altre situazioni, oggi, che ambiscono ad avere la qualifica di famiglia, e ciò sarebbe opportuno e giusto”. Maradiaga, nell’intervista, parla di genitori separati, famiglie allargate, genitori single. Cita il fenomeno della maternità surrogata, i matrimoni senza figli, le unioni tra persone dello stesso sesso. “Più queste forme di unione vengono stabilizzate, più gli individui interessati ne trarranno del bene. Ricordiamo che il compito ultimo della chiesa è proprio quello, il bene. Ecco perché – aggiunge il teologo – il concetto di famiglia deve entrare nel dibattito sinodale. E questo senza paura di aprirsi troppo né di mostrarsi sempre necessariamente accondiscendenti verso la realtà”.

Quanto al confronto sul riaccostamento dei divorziati risposati ai sacramenti, con il custode dell’ortodossia cattolica, Gerhard Müller che dalle pagine dell’Osservatore Romano invita a non banalizzare la misericordia divina e Maradiaga che ricorda come le parole di Cristo possano essere interpretate, Mancuso non ha dubbi: “Le parole di Cristo si sono sempre interpretate. Se non si vuole cadere nel fondamentalismo delle sette, è inevitabile esporsi al rischio (che è anche fascino) dell’interpretazione. Si è sempre fatto così. Basti pensare che le parole di Cristo già sono consegnate a noi come interpretazione, le ipsissima verba Iesu quasi non esistono, Gesù parla in modo molto diverso nei vari vangeli. Direi quindi che l’interpretazione non è certo un pericolo ma è specifico dell’identità cristiana”. Nel mondo della vita spirituale, aggiunge il nostro interlocutore, “nulla si fa senza il rischio di interpretazione”. E’ inevitabile, poi, che – come dice Maradiaga – si pensi più alla pastorale che alla dottrina: “Nel discorso d’apertura del Concilio, Giovanni XXIII distinse tra la dottrina certa e immutabile e il modo per renderla comunicabile all’altezza delle esigenze contemporanee. La pastorale è proprio questo, è il tentativo di rendere comunicabile la dottrina all’uomo contemporaneo”, spiega Mancuso. Certo, “ho dei dubbi che questo possa avvenire senza toccare la dottrina, anche se i vescovi non ammetteranno mai un mutamento dottrinale, diranno che si tratta semmai di normale evoluzione”, aggiunge. “Ma è inevitabile che ci debba essere un cambiamento di prospettiva, anche clamoroso. Se si è fedeli all’esigenza dei tempi, questo è inevitabile”. Niente di totalmente inedito però: “Anche in passato si è fatto così. E’ già successo – spiega il teologo –, solo che la chiesa ha negato che si trattava di rottura, parlando di naturale evoluzione”. Un esempio? “La questione della libertà religiosa. Aveva ragione Marcel Lefebvre nel dire che c’è stato un effettivo disconoscimento del Sillabo e della Mirari Vos di Gregorio XVI e, più in generale, di tutto un magistero secolare della chiesa. Non ci sono dubbi che la Dignitatis Humanae ha compiuto una svolta mettendo l’accento sulla libertà di coscienza del singolo e non sulla verità oggettiva”. Qualcuno potrebbe parlare di “tattica del camaleonte, ma sbaglierebbe. Perché è solo un modo per dire che l’insegnamento di Gesù è sempre attuale”. “Se la chiesa non muta – aggiunge Mancuso – non vive. Vogliamo qualcosa di immutabile? Bene, prendiamo una pietra. Se la chiesa vuole vivere, deve mutare”.

Quanto alle frasi del prefetto Müller sulla misericordia che deve andare sempre di pari passo con la giustizia – “al mistero di Dio appartengono, oltre alla misericordia, anche la santità e la giustizia; se non si prende sul serio la realtà del peccato, non si può nemmeno mediare alle persone la sua misericordia”, scriveva sull’Osservatore Romano – Vito Mancuso dice che “la misericordia vera sa, conosce le ferite delle persone”. La strada, aggiunge, “è quella che porta al primato della misericordia. O vogliamo dire che chi ha un matrimonio fallito ha commesso un peccato? Semmai è un errore, ma non ci sono i presupposti per parlare di peccato”. A ogni modo, sottolinea il nostro interlocutore, “ciò non significa che si debba avere un’idea troppo sbarazzina della misericordia. Questa non va contrapposta alla giustizia, ma non può esserci giustizia senza misericordia. Altrimenti si cade nel giustizialismo, nel terrore, nel giacobinismo freddo e spietato. Troppo spesso, oggi, appare solo la parte fredda e oggettiva”. Ma qualcosa, dice, sta cambiando. Con l’ascesa al Soglio pontificio di Francesco, sta venendo meno l’idea di una dottrina “troppo canonistica e legalistica.  L’idea di un’etica cristiana che si traduceva in una serie di no”. Il prossimo passo sarà quello di far entrare il principio della libertà anche nella lettura del corpo, “come è già avvenuto a livello di ideologia morale e sociale, generando una dottrina capace di parlare all’uomo contemporaneo”. In assenza di questo passaggio, la dottrina morale prodotta rimane incomprensibile.

 

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riflessioni di p. E. Bianchi a proposito della ‘giornata della memoria

auswitz

Credenti di buona memoria

riflessioni di p. Enzo Bianchi per il ‘giorno della memoria’ :”una giornata in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care”:

di Enzo Bianchi

in “Avvenire” del 24 gennaio 2014

 

La Giornata della memoria è un momento privilegiato di etica condivisa, un’occasione che l’umanità si è data per esercitarsi nel discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male, per riconoscere che anche nelle buie stagioni di barbarie la responsabilità delle proprie azioni – e dei pensieri che le muovono – è personale. Una giornata, allora, in cui fa bene a tutti ricordare: a chi vorrebbe dimenticare perché il dolore subito è troppo grande e a chi vorrebbe farsi dimenticare perché di quel dolore è stato complice. E ricordare fa bene anche e soprattutto a chi l’inferno della Shoah non l’ha vissuto, né direttamente né attraverso persone care.

Ma cosa significa in particolare questa Giornata di etica universale per ebrei e cristiani – per i credenti nel Dio biblico – e per le loro relazioni? Ebraismo e cristianesimo non solo hanno dimestichezza con la memoria, ma trovano in questa categoria del “memoriale”, del ricordo attualizzante, il cuore delle celebrazioni della loro fede. Fare memoria  dell’esodo dall’Egitto, della liberazione dalla condizione di schiavitù è l’essenza stessa della  esta della Pasqua ebraica. Il Dio di Israele è il Dio che ha liberato e libera il suo popolo da ogni condizione di estraneità: ogni comandamento donato dal Signore al Sinai prende le mosse da quel «Ricordati che eri straniero nel paese d’Egitto!». Se questa  emoria accompagnerà ogni tuo istante di vita, non potrai che comportarti come il tuo Dio misericordioso e compassionevole ti chiede di comportarti

.Ma anche per i cristiani la Pasqua è memoriale di un esodo decisivo nella storia della salvezza: ilpassaggio di Gesù di Nazareth dalla morte alla vita, il dono fatto dal Messia, Figlio di Dio, del suo corpo e del suo sangue, da celebrare osservando la sua parola: «Fate questo in memoria di me». Per questo parlare di “memoria” per ebrei e cristiani significa andare al cuore della loro fede e non solo rievocare eventi tragici perché non si ripetano più o gesti di profonda umanità perché servano da esempio.

In questo senso la Giornata della memoria è anche l’occasione perché ebrei e cristiani si chiedano quanta est nobis via?, quanto cammino ancora ci resta da compiere sulla strada del dialogo, della conoscenza reciproca, dell’obbedienza all’unico Signore? E, come sappiamo, questo cammino è fatto sì di incontri ufficiali, di dichiarazioni comuni, di studi e  appondimenti storici e scientifici, riaperture di archivi, di riletture di eventi, ma è fatto anche di persone concrete, di ascolto cordiale, di incontri cuore a cuore più ancora che faccia a faccia. In questo senso abbiamo visto come l’elezione a vescovo di Roma di un cardinale proveniente dal Paese dell’America Latina con la comunità ebraica più consistente – e nello stesso tempo in cui ha trovato rifugio un gran numero di artefici della Shoah – e legato da cordiale amicizia con il rettore del seminario rabbinico di  Buenos Aires abbia conferito agli scambi formali una connotazione di umana simpatia e solidarietà.

Ora, “fare memoria insieme” significa anche ammettere che purtroppo per oltre diciannove secoli l’atteggiamento dei cristiani verso gli ebrei è stato modellato dall’emulazione, dalla condanna, dal disprezzo, dalla persecuzione, è stato cioè un antigiudaismo perdurante, mai contraddetto in modo decisivo da parte delle istituzioni, dei magisteri, delle voci autorevoli delle diverse Chiese. Un atteggiamento, questo dell’antigiudaismo cristiano, che, pur distinto dall’antisemitismo, lo ha accompagnato producendo una ricaduta con effetti di potenziamento; antigiudaismo cristiano teologico e pratico che di fatto ha favorito il silenzio, l’indifferenza e la passività della quasi totalità dei cristiani e delle Chiese nell’ora del male assoluto, l’ora della Shoah. Ma è innegabile che papa Giovanni XXIII, il Vaticano II e il suo decreto Nostra aetate abbiano rappresentato in questo senso una svolta epocale. Dopo quella stagione primaverile, che molti ritrovano nell’ora attuale, è possibile per le due religioni essere una accanto all’altra nella forma non della loro reciproca negazione ma del riconoscimento, ammettendo che nessuna forma religiosa può esprimere pienamente la verità, né la sua unità integrale. Questo richiede però di perseverare in un lungo cammino che non si accontenta di liquidare l’antigiudaismo come “errore teologico” e di condannarne la prassi nella storia, ma che diventa anche esame critico delle sue motivazioni e ispirazioni. Cammino lungo, faticoso, che comporta un lavoro su di sé, ma cammino assolutamente necessario se non vogliamo arrestarci alla cura dei sintomi senza sanare le cause. Da almeno una dozzina d’anni, poi, è iniziata anche la ricezione della svolta da parte degli ebrei, come testimoniato sia da documenti e dichiarazioni sia da un mutato atteggiamento nel vissuto quotidiano di tante comunità. Anche questo dato non fa che accrescere la speranza di un nuovo rapporto che sia confronto e cordiale dialettica tra le due religioni. 

Del resto, la Giornata della memoria non ricorda solo il male assoluto e le sue vittime, ma anche la “banalità del bene” di coloro – e sono stati tanti, anche tra i cristiani – che a rischio della  ropria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati, i “Giusti fra le Nazioni”. È doveroso allora ricordare come alcuni giorni fa papa Francesco abbia ricevuto per un lungo colloquio personale uno di loro, fratello Arturo Paoli, ultracentenario prete da sempre vicino ai poveri e alle vittime della storia: un testimone del Vangelo che ha molto sofferto a causa della giustizia, anche a opera di fratelli nella fede che lo hanno emarginato. Presenze e incontri come questo sono allora un richiamo alla responsabilità personale di ciascuno: nessuno potrà più invocare a propria scusante l’ignoranza su quanto accaduto nella storia. Ciascuno di noi è e sarà responsabile in prima persona di una conferma o di una contraddizione alla svolta nel dialogo tra ebrei e cristiani. Anche questo ci ricorda la Giornata della memoria.

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riflessioni nel ‘giorno della memoria’

auswitz

nel ‘giorno della memoria’ è importante soprattutto riflettere perché la rimozione sbrigativa e superficiale del passato ci porta, senza che ce ne accorgiamo, a riprodurre atteggiamenti, insensibilità e disumanità che sono le premesse perché cio che è stato possa rivirsi ancorché in forme inedite

niente di più opportuno che riflettere su una intervista di E. Biagi a Primo Levi stesso, verrà inoltre proposto un articolo di L. Mazzetti su forme di razzismo ancora presenti fra noi nell’azione disinvolta di qualche forza politica come la Lega ed infine la reazione comprensibilmente durissima a gesti di volgare razzismo antisemita coi pacchi contenenti teste di maiale:

“Come nascono i lager? Facendo finta di niente”

 intervista a Primo Levi a cura di Enzo Biagi

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

(in onda su RaiUno l’8 giugno 1982)

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali?

Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo.

Che cosa cambiò per lei da quel momento?

Abbastanza poco, perché una disposizione delle leggi razziali permetteva che gli studenti ebrei, già iscritti all’università, finissero il corso. Con noi c’erano studenti polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, perfino tedeschi che, essendo già iscritti al primo anno, hanno potuto laurearsi. È esattamente quello che è accaduto al sottoscritto.

Lei si sentiva ebreo?

Mi sentivo ebreo al venti per cento perché appartenevo a una famiglia ebrea. I miei genitori non erano praticanti, andavano in sinagoga una o due volte all’anno più per ragioni sociali che religiose, per accontentare i nonni, io mai. Quanto al resto dell’ebraismo, cioè all’appartenenza a una certa cultura, da noi non era molto sentita, in famiglia si parlava sempre l’italiano, vestivamo come gli altri italiani, avevamo lo stesso aspetto fisico, eravamo perfettamente integrati, eravamo indistinguibili.

C’era una vita delle comunità ebraiche?

Sì anche perché le comunità erano numerose, molto più di ora. Una vita religiosa, naturalmente, una vita sociale e assistenziale, per quello che era possibile, fatta da un orfanotrofio, una scuola, una casa di riposo per gli anziani e per i malati. Tutto questo aggregava gli ebrei e costituiva la comunità. Per me non era molto importante.

Quando Mussolini entrò in guerra, lei come la prese?

Con un po’ di paura, ma senza rendermi conto, come del resto molti miei coetanei. Non avevamo un’educazione politica. Il fascismo aveva funzionato soprattutto come anestetico, cioè privandoci della sensibilità. C’era la convinzione che la guerra l’Italia l’avrebbe vinta velocemente e in modo indolore. Ma quando abbiamo cominciato a vedere come erano messe le truppe che andavano al fronte occidentale, abbiamo capito che finiva male.

Sapevate quello che stava accadendo in Germania?

Abbastanza poco, anche per la stupidità, che è intrinseca nell’uomo che è in pericolo. La maggior parte delle persone quando sono in pericolo invece di provvedere, ignorano, chiudono gli occhi, come hanno fatto tanti ebrei italiani, nonostante certe notizie che arrivavano da studenti profughi, che venivano dall’Ungheria, dalla Polonia: raccontavano cose spaventose. Era uscito allora un libro bianco, fatto dagli inglesi, girava clandestinamente, su cosa stava accadendo in Germania, sulle atrocità tedesche, lo tradussi io. Avevo vent’anni e pensavo che, quando si è in guerra, si è portati a ingigantire le atrocità dell’avversario. Ci siamo costruiti intorno una falsa difesa, abbiamo chiuso gli occhi e in tanti hanno pagato per questo.

Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo?

Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo.

E quando è arrivato l’8 settembre?

Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi.

La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò?

Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento.

Cosa fece?

Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato.

Lei è stato deportato perché era partigiano o perché era ebreo?

Mi hanno catturato perché ero partigiano, che fossi ebreo, stupidamente, l’ho detto io. Ma i fascisti che mi hanno catturato lo sospettavano già, perché qualcuno glielo aveva detto, nella valle ero abbastanza conosciuto. Mi hanno detto: “Se sei ebreo ti mandiamo a Carpi, nel campo di concentramento di Fossoli, se sei partigiano ti mettiamo al muro”. Decisi di dire che ero ebreo, sarebbe venuto fuori lo stesso, avevo dei documenti falsi che erano mal fatti.

Che cos’è un lager?

Lager in tedesco vuol dire almeno otto cose diverse, compreso i cuscinetti a sfera. Lager vuol dire giaciglio,vuol dire accampamento, vuol dire luogo in cui si riposa, vuol dire magazzino, ma nella terminologia attuale lager significa solo campo di concentramento, è il campo di distruzione.

Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz?

Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile.

Come ricorda la vita ad Auschwitz?

L’ho descritta in Se questo è un uomo. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito.

Esistono lager tedeschi e russi. C’è qualche differenza?

Per mia fortuna non ho visto i lager russi, se non in condizioni molto diverse, cioè in transito durante il viaggio di ritorno, che ho raccontato nel libro La tregua. Non posso fare un confronto. Ma per quello che ho letto non si possono lodare quelli russi: hanno avuto un numero di vittime paragonabile a quelle dei lager tedeschi, ma per conto mio una differenza c’era, ed è fondamentale: in quelli tedeschi si cercava la morte, era lo scopo principale, erano stati costruiti per sterminare un popolo, quelli russi sterminavano ugualmente ma lo scopo era diverso, era quello di stroncare una resistenza politica, un avversario politico.

Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento?

Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte.

Come ha vissuto ad Auschwitz?

Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su.

Lei ha scritto che sopravvivevano più facilmente quelli che avevano fede.

Sì, questa è una constatazione che ho fatto e che in molti mi hanno confermato. Qualunque fede religiosa, cattolica, ebraica o protestante, o fede politica. È il percepire se stessi non più come individui ma come membri di un gruppo: “Anche se muoio io qualcosa sopravvive e la mia sofferenza non è vana”. Io, questo fattore di sopravvivenza non lo avevo.

È vero che cadevano più facilmente i più robusti?

È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni.

Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere?

In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…

La nostalgia, pesava di più?

Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra”.

Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione.

Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata.

Quando ha saputo dell’esistenza dei forni?

Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene.

Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno?

Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti.

Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo?

Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare.

Grazie, Levi. Biagi, grazie a lei.

Ma i razzisti ci sono ancora: vedi la Lega

di Loris Mazzetti

in “il Fatto quotidiano” del 26 gennaio 2014

divieto ai nomadi

Il 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata Rossa entrarono nella città polacca di Oswiecim e scoprirono il campo di concentramento più tristemente noto con il nome di Auschwitz. I soldati sovietici trovarono una montagna di cadaveri, ma anche qualche superstite, la cui testimonianza fece scoprire al mondo, per la prima volta, l’orrore del genocidio nazista, strumenti di tortura e di annientamento: i forni crematori. È importante non dimenticare il passato ma i fatti ci dimostrano invece che dimenticare è molto facile. Nella “Bell’Italia” esiste un partito, la Lega, che senza giri di parole mette alla gogna il ministro della Repubblica Kyenge, prima paragonandola a un orango tango per il colore della pelle, poi pubblicando su La Padania i suoi impegni pubblici perché i “padani” sappiano dove poterla contestare; il poco onorevole Bonanno dà dell’ebreo a Gad Lerner perché aveva definito il suo gesto di presentarsi in Parlamento con il volto dipinto di nero, un atto nazista; il segretario Salvini annuncia che alle Europee di maggio la Lega sarà alleata con il partito xenofobo di estrema destra Front National di Marine Le Pen. L’intervista di Enzo Biagi che il Fatto Quotidiano pubblica alla vigilia del “Giorno della Memoria” – istituito per non dimenticare le vittime dell’Olocausto e in onore di coloro che, rischiando la propria vita, hanno protetto i perseguitati – è allo scrittore Primo Levi, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz. L’intervista andò in onda su RaiUno l’8 giugno 1982 nel programma Questo secolo: 1935 e dintorni, viaggio negli anni che contano. Quando Mussolini cambiò idea e gli italiani divennero ariani Levi, nato a Torino nel ’19, fu partigiano nel Partito d’Azione in Val d’Aosta. Nel dicembre del 1943, insieme a due compagni, venne preso dai fascisti. Prima deportato nel campo di concentramento di Fossoli, a Carpi, poi, il 22 febbraio del ’44, insieme ad altri 650 ebrei, fu sbattuto dentro un treno merci con destinazione Auschwitz. Solo in 22 si salvarono. “L’esperienza del  campo di concentramento può venire superata e resa indolore, addirittura resa utile come tutte le esperienze della vita. Ma non si cancella mai”, scrisse Levi. L’esperienza vissuta ad Auschwitz la raccontò nel libro Se questo è un uomo, pubblicato per la prima volta nel 1947. Biagi e Levi si conobbero quando lo scrittore piemontese con La tregua, in cui raccontò il viaggio di ritorno dal lager nazista, vinse, nel 1963, la prima edizione del Premio Campiello. Biagi lo volle conoscere perché aveva letto Se questo è un uomo, ed era stato molto colpito per la narrazione asciutta, piena di particolari, realista. Il libro, ripubblicato da Einaudi nel 1956, aveva avuto un grande successo.

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Il Giorno della Memoria ci riporta alla mattina del 1938, quando in Italia tutto iniziò. Allora Biagi, diciottenne, lavorava già in una redazione. I quotidiani, ha ricordato più volte il grande giornalista, per disposizioni ricevute dal regime uscirono con questo titolo: “Le leggi per la difesa della Razza”. Il fascismo voleva mettersi al passo con i camerati di Berlino. Gli italiani furono invitati, inizialmente attraverso la stampa, a considerare, che tranne una piccola minoranza, appartenevano alla razza ariana. “Era un privilegio, per la verità, del quale nessuno si era mai preoccupato, Mussolini compreso”, disse Biagi nella presentazione dell’intervista. Nel 1934 ricevendo uno dei capi del sionismo internazionale, alla presenza del rabbino di Roma, parlando del Führer, il Duce affermò, a proposito degli ebrei: “Il signor Hitler è un imbecille e un cialtrone fanatico, ascoltarlo parlare è una tortura, un giorno non ci sarà più traccia di lui, gli ebrei saranno sempre un grande popolo, Hitler è una cosa da ridere non lo temete e dite alla vostra gente di non averne paura”. Mussolini che aveva amato una ragazza ebrea, Margherita Sarfatti, non era, inizialmente, frenato da pregiudizi, cambiò per convenienza, come tante altre volte, opinione. La sopravvivenza vissuta come colpa e il suicidio Il 6 ottobre 1938, i 60 mila cittadini italiani di religione ebraica seppero che per loro stava cominciando una nuova persecuzione. Il Gran Consiglio stabilì che erano proibiti i matrimoni misti, gli ebrei non dovevano avere industrie con più di 100 dipendenti, né terreni che superassero un certo valore, né domestici ariani, niente servizio militare, niente radio, niente nome sull’elenco del telefono, niente annunci funebri. Li ributtarono ancora una volta nel ghetto. In Italia 200 professori persero la cattedra, 23 mila professionisti perdettero il lavoro, 150 tra ufficiali e sottufficiali vennero congedati, chiusi i portoni delle scuole, che erano di tutti, per 6 mila studenti. Venne diffuso il Manifesto della Razza a firma di dieci illustri scienziati nel quale si affermava: “Gli ebrei non appartengono alla Razza italiana”. L’11 aprile 1987 Levi morì suicida. Ferdinando Camon nel libro Conversazione con Primo Levi ha scritto: “Dopo Auschwitz lui non viveva ma sopravviveva, che vivere ancora per lui è una colpa, che sulla Terra non c’è spazio per le vittime dello Sterminio e per chi lo nega

macellai delle coscienze

di Gad Lerner

in “la Repubblica” del 26 gennaio 2014

il-giorno-della-memoria

Sono poche le specie animali di cui la Bibbia consente, e solo a determinate condizioni, l’utilizzo per alimentazione. Il maiale non rientra fra di esse in quanto, pur avendo l’unghia bipartita come i bovini e gli ovini, non è un ruminante.

Il Libro sacro non fa alcun riferimento all’impurità del maiale, creatura di Dio come le altre. Solo nella tradizione postuma e nella secolare contrapposizione alle altrui usanze, la carne suina è assurta a simbolo di cibo proibito. Per gli ebrei così come per i musulmani.

Naturalmente gli antisemiti che hanno voluto infliggere un’offesa blasfema agli ebrei, non a caso alla vigilia della Giornata della Memoria, recapitando teste di maiale al tempio Maggiore di Roma, ll’ambasciata d’Israele e al Museo della Storia di Trastevere dov’è in corso una mostra sulla Shoah, nulla sanno riguardo alle leggi alimentari della Kashrut. Il loro scopo era solo quello di intimidire gli ebrei con una minaccia tipica del linguaggio mafioso, e nel contempo di perpetrare l’ennesima umiliazione al popolo sterminato settant’anni or sono.

Analoga ignoranza manifestano purtroppo da tempo certi esponenti politici che hanno condotto dei maiali, o hanno cosparso la loro urina, nei luoghi destinati alla costruzione di edifici di culto islamico. Anche lì, in verità, basta una preghiera per purificare l’area; ma è lo sfregio quello che si vuole perpetrare. Il dileggio di una fede religiosa. L’ostentazione razzista. Da alcuni anni, purtroppo, le celebrazioni della Giornata della Memoria, in coincidenza con la liberazione del lager di Auschwitz Birkenau in cui furono uccisi oltre un milione di deportati, vengono utilizzate anche come palcoscenico di scellerate provocazioni. L’anno scorso Berlusconi colse l’occasione di una cerimonia al Binario 21 della Stazione Centrale di Milano, da cui partirono venti convogli di prigionieri destinati alla morte, per un pubblico elogio di Mussolini.Ma è il negazionismo l’insidia più velenosa. Quello che si è manifestato di nuovo ieri con le scritte vergate, sempre a Roma, per sostenere che l’Olocausto sarebbe una “menzogna” e Anna Frank una “bugiardona”. È l’arma più crudele con cui si rinnova la sofferenza dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. Liquidare come un’abile invenzione propagandistica il genocidio degli ebrei d’Europa è la modalità prescelta per additarli nuovamente come popolo subdolo e dominatore, meritevole quindi di essere perseguitato. Non a caso il negazionismo ha fatto tanti proseliti nel mondo arabo e musulmano in guerra con lo Stato d’Israele. Ma più in generale minimizzare l’esito delle leggi razziali e delle deportazioni novecentesche, sostenendo che la Soluzione Finale non rientrasse nei piani del regime nazista, serve anche a addormentare le coscienze di fronte al ritorno delle pulsioni razziste e delle legislazioni discriminatorie alimentate dal fenomeno migratorio e dalla sofferenza sociale.

Basterebbe l’orribile episodio di ieri per confermare l’importanza di un buon uso della memoria storica come insegnamento per il presente, oltre che come omaggio alle vittime. Sicché la miglior risposta alla barbarie culturale della testa di maiale spedita in sinagoga saranno le migliaia di manifestazioni già organizzate nelle scuole italiane per la Giornata di domani. Resta però la speciale offesa di cui è stata fatta oggetto la Comunità romana, la più antica della diaspora ebraica. Nel corso degli ultimi vent’anni abbiamo assistito a una straordinaria rivitalizzazione culturale del quartiere ebraico della capitale che sorge sulla sponda sinistra del Tevere. Non solo luoghi di culto ma anche centri studi, scuole, negozi e ristoranti kasher. Qualcuno vorrebbe ridurre tale luogo, affascinante per chiunque voglia confrontarsi con la vicenda millenaria dell’ebraismo, di nuovo a Ghetto chiuso in se stesso e assediato. Come fu prima del 1870. Bene ha fatto, dunque, il presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Renzo Gattegna, a elogiare la costante opera di prevenzione e vigilanza delle forze dell’ordine, scattata anche di fronte alla provocazione di ieri. Spetta allo Stato difendere l’incolumità dei cittadini e il patrimonio culturale ebraico. Vincendo così la tentazione di ricorrere a impropri strumenti di autodifesa che la diffusione dell’odio antisemita rischia di far degenerare. Gli ebrei italiani, per fortuna, non sono soli contro tutti. Purché la coscienza democratica non abbassi la guardia, ora che si affacciano di nuovo tempi bui. È un sinistro avvertimento questo ricorso a un animale che si pretende impuro. Contro gli ebrei, così come prima contro i musulmani. Ma in realtà contro la nostra democrazia. Viene davvero da dire: poveri maiali innocenti, vittime dei macellai delle coscienze 

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