in dialogo con un grande filosofo
Primo febbraio 2014. Un lungo viaggio in auto ci porta a Brescia. Profondo settentrione d’Italia. La città ci accoglie, nel primo pomeriggio, fredda, con una leggera pioggia ed il cielo plumbeo. Attraversiamo corso Garibaldi, dove il grigio dei sampietrini è amplificato dalle pozze d’acqua. Gli abitanti di questa città stanno iniziando il pomeriggio libero, prima del sabato sera. Una passeggiata in centro, un caffé in un bar di piazza Pio VI, un giro in libreria. Noi ci posizioniamo in un B&B, con una finestrella che dà sui tetti di Brescia. Bagnati, umidi, refrattari al calore. Quando attraversiamo le vie centrali della città, in largo anticipo – per goderci anche il luogo nel quale siamo venuti – sembra che le persone a passeggio stiano trascorrendo un pomeriggio di svago, di divertimento e di relax.
Noi, come semplici turisti, guardiamo i palazzi di quella città lombarda, affascinante e anche un po’ magica. In realtà è per noi un giorno speciale, perché alle sei del pomeriggio abbiamo un appuntamento con Emanuele Severino.
Ci accoglie a casa sua come fossimo due suoi amici. Con la cordialità e la signorilità che solo i grandi hanno. Ci accomodiamo in una splendida stanza, arredata da altissime librerie piene zeppe, da alcuni tappeti, da un pianoforte a coda e dall’Orfeo scolpito da suo figlio. Il tutto illuminato, soavemente, da alcune lampade. Sediamo su un divano rosso bordeaux, che fa angolo con due poltrone.
Severino è curioso di sapere quali sono i nostri studi, il nostro ambito di ricerca. Ognuno di noi gli racconta, brevemente, ciò che studia e l’argomento sul quale sta lavorando per la tesi di laurea. Lui è interessato, regalandoci spunti possibili e consigli di lettura.
Comincia così il nostro colloquio con Emanuele Severino
Nei suoi libri, e all’interno della sua riflessione sull’Occidente, Nietzsche e Gentile sembrano godere di un trattamento privilegiato.
Sì, certo. La stessa cosa è per Leopardi. Perché sono dei grandi folli. C’è una base teorica dietro questo atteggiamento: e cioè che niente è verità senza errore. Proprio perché la verità è negazione dell’errore, la negazione è tanto più concreta quanto più l’errore è concreto, e tanto più lo si porta al massimo di fioritura. Ora, filosofi come Nietzsche, Gentile e Leopardi sono la vetta di questa montagna che porta alla massima concretezza e al massimo rigore l’errore, ma dopo ci sono anche i pendii che degradano e tendono verso la vetta. Di qui l’atteggiamento positivo, del quale si parlava. Riguardo ai miei scritti, vi consiglio certamente di leggere Destino della necessità ma anche Gli abitatori del tempo, per comprendere meglio il contesto. A chiunque volesse fare un’indagine sul modo in cui, nei miei scritti, ci si rapporta a Nietzsche consiglierei Gli abitatori del tempo; soprattutto per lo scritto su Gentile.
Ci sono infatti pagine di grande intensità quando si vuole mostrare che, in Nietzsche, l’eterno ritorno non sia altro che l’auto-contraddizione motivata dalla massima fedeltà all’evidenza del divenire.
Esatto.
Una cosa che ci è sembrata forse un po’ più frutto della sua lettura, piuttosto che presente negli scritti di Nietzsche è il fatto che la volontà di potenza, definita come il cuore che spinge l’uomo nietzschiano e anche il superuomo, lo spinge a dominare e, come si dice ne L’anello del ritorno, confluisce in un’abbracciare la tecnica quale strumento per esercitare in maniera sempre più potente, sempre più efficace il dominio sulla realtà. Tuttavia, Nietzsche si rivolge al superuomo sempre in modo elitario, come fosse una figura che si distingue dai comuni mortali. Affermando, in definitiva, che certe cose non sono alla portata di tutti. Nonostante ciò, nel suo scritto, il superuomo è descritto come un percorso che progressivamente porterà al dominio della volontà di potenza, e quindi della tecnica.
Ed in effetti, nel frammezzo il percorso incontra l’elitario, ma poi c’è la prosecuzione dove Nietzsche parla dei signori della terra, al plurale. E dove il discorso tende a prospettare un invito alla frequentazione da parte di tutti della dimensione del superuomo. Che intanto si sia così, e che nemmeno Nietzsche si ritenga un superuomo, è vero, ed è una risposta. Ma supponendo che le cose stessero come si diceva, e cioè che Nietzsche rimanga fermo sull’elitario e punti all’elitario, ciò non nega una congruenza oggettiva di fondo che vada oltre la consapevolezza di Nietzsche stesso di essere uno dei pochi, grandi sostenitori della tecnica. Ci può essere congruenza anche se lui non è d’accordo. Riassumendo, perciò, ci sono due risposte: in primo luogo il testo di Nietzsche vede l’elitario come passaggio, ma poi guarda ad una civiltà della tecnica. Ed in secondo luogo, credo che anche se le cose non stessero così, oggettivamente ciò che lui dice porta nella direzione di una garanzia della tecnica di non avere limiti davanti a sé.
Ma tale lettura non potrebbe essere una cosa più inconscia di Nietzsche, piuttosto che una specifica intenzione di affermare ciò che lei dice?
Dunque: se io costruisco una bomba a mano e la metto là, sopra il tavolo, poi arriva uno che vuole servirsene e la innesca per distruggere chi gli è antipatico, io posso non aver avuto l’intenzione di far fuori l’antipatico, però sono oggettivamente la condizione perché quella eliminazione sia stata resa possibile. Allora: cosa fa Nietzsche? Toglie di mezzo ogni immutabile, aprendo le porte alla volontà di potenza. Finché queste porte sono aperte e la volontà non capisce, non vede che sono aperte, allora chi sta dietro la porta chiusa può dire alla tecnica – per esempio il moralista, la religione – “guarda che non devi aprire la porta, devi rispettare i limiti e non fare certe cose, ecc…”. Allora la tecnica, di fronte a questo discorso della tradizione non sa cosa replicare, ma se questa tradizione è superata dallo stesso pensiero filosofico, cioè Nietzsche, il quale dice alla tradizione “guarda, tu non stai in piedi, perché non esiste alcun limite, alcuna porta sbarrata”, questa è oggettivamente la condizione in base alla quale la tecnica, prendendo coscienza che le porte sono tutte apribili, può andare avanti oltre di essa.
Quindi, se abbiamo ben capito, siccome ogni immutabile è rotto, non esiste argine che possa limitare la volontà di potenza che si “applica” come tecnica.
Esatto. Questo vuol dire molto. La filosofia in questo caso non si limita a pensare la tecnica; perché sin tanto che la tecnica non ascolta questo tipo di voce è una tecnica che è inerme di fronte all’accusa etico-metafisico-filosofica-teologica che dice alla tecnica stessa di non oltrepassare quel limite. Quando invece la tradizione è tolta di mezzo, allora la tecnica diventa potente. Quindi la filosofia è la condizione per la potenza reale della tecnica, e non semplicemente una riflessione sulla tecnica astratta.
Questo discorso è davvero comprensibile solo se lo sguardo che si ha nei confronti della filosofia occidentale è quello che lei stesso propone: una progressiva distruzione di tutti gli immutabili e l’affermazione decisa dell’evidenza del divenire.
Ma Nietzsche non li distrugge davvero, gli immutabili? Sì che li distrugge. E allora non sono solo io che credo che gli immutabili siano stati distrutti, ma vedo che sono stati davvero distrutti.
Forse questa lettura della storia della filosofia occidentale non è molto condivisa o frequentata. Da qui la difficoltà di molti, di leggere e capire il pensiero di Emanuele Severino.
È uscito recentemente un bel libretto di Biagio De Giovanni, intitolato Disputa sul divenire. Severino e Gentile, al quale ho risposto già in parte, in un articolo sul Corriere della Sera; lì egli afferma una cosa analoga. Altre volte mi aveva obiettato che la mia è una visione monocromatica, affermando che stando all’interno di questo discorso si capisce ciò che dice Severino; però, dice lui, “esistono in terra e in cielo, più cose di quelle che esistono nella mente di un filosofo”. E allora io l’ho invitato a trovarmi un qualsiasi momento nella storia del pensiero filosofico, o — andando più indietro — nella storia dei mortali, un qualsiasi momento in cui le cose che ci stanno davanti non siano intese come un diventar altro. E trovami poi, a partire dai Greci, un momento qualsiasi del pensiero filosofico in cui il diventar altro non sia inteso come un diventar nulla e un diventare dal nulla. Se non troviamo un qualsiasi momento alternativo, questo vuol dire che allora tutte quelle possibili integrazioni, che si possono fare a questo cosiddetto monocromatismo, sono integrazioni che avvengono all’interno di questo quadro. Finché non trovi il momento, questo quadro è, necessariamente, l’orizzonte di ogni possibile integrazione, arricchimento, precisazione, ecc. Perciò ora sono io che chiede loro: indicatemi un momento, anche nel mito — nel quale si parla di metamorfosi, teogonie, cosmogonie — e poi nel pensiero filosofico, dove non vi sia il diventar altro come base di qualsiasi discorso intorno alle cose del mondo.
Diamo per assunto che non vi sia, nella storia della filosofia occidentale, alcun filosofo che non affermi che le cose provengano e tornino nel nulla, dopo essere state. C’è, però, qualche filosofo che quantomeno ha attenuato questa follia, l’ha circoscritta, l’ha resa molto meno evidente, o almeno molto meno fondativa per il proprio pensiero?
C’è addirittura chi ha fatto ciò che lei dice: tutta la tradizione metafisica dell’Occidente. Perché la metafisica va oltre la fisica e afferma l’eterna. In questo senso attenua l’ampiezza della dimensione alienata; dice: “sì, il mondo è diveniente” (Platone, Aristotele, Tommaso, Occam, Cartesio, Kant, Hegel, Quine, Einstein) “però c’è l’eterno, l’ arché, quindi le cose del mondo dipendono da quello” e si incontra la restrizione che si accennava nella domanda. Però metafisica vuol dire andare al di là della physis. E la physis cos’è se non il divenire? Quindi il primo riconoscimento dell’evidenza indiscutibile del divenire è dato proprio da quell’atteggiamento restrittivo che nel suo discorso dovrebbe attutire l’urto, l’estensione massima della follia. Perché andare al di là delle cose fisiche vuol dire innanzitutto riconoscere la loro indubbia esistenza (perché physis, se stiamo alla terminologia aristotelica, è il generarsi, il divenire dalla potenza all’atto, dalla privazione alla forma, con tutte le categorie ontologiche) ma anche riconoscere la ristrettezza del divenire relativamente a questo mondo. Anche per costoro allora la base è questo mondo diveniente.
Lavorando con il professor Filippo Mignini, non posso esimermi dal dirle che né egli, né io, saremmo d’accordo sull’affermazione che anche Spinoza stesso, sia all’interno della follia del divenire. In Destino della necessità, ma anche in Essenza del nichilismo e ne L’intima mano, lei afferma che anche Spinoza — con la sua dottrina della finitezza — è all’interno della filosofia occidentale, quella che afferma il divenire delle cose. Mignini afferma, al contrario, che in Spinoza non c’è nulla che si annichilisce, e che proviene dal nulla, ma tutto è eterno entro lo “spazio” infinito, eterno e indeterminato della Sostanza. Il che avvicina sensibilmente lo spinozismo ai suoi scritti.
Ma che le tesi possano suonare identiche, lo concedo. E allora non accada solo per Spinoza, ma per tutta la metafisica occidentale — perché tutti i metafisici parlano dell’eternità del principio: e parlando io dell’eternità di tutte le cose, c’è molta congruenza. Però lei mi parla di Spinoza in particolare. Rispondo ancora di no, perché la similarità delle tesi è debole se è separata dal modo in cui le tesi sono fondate. Ad esempio, possiamo dire tutti e due: “Dio è morto”, però altro è il modo in cui lo può dire un bambino, oggi, altro è il modo in cui lo può dire Nietzsche. Il significato stesso della tesi cambia in relazione alla via fondativa che porta alla tesi; allora quando Spinoza parla del rapporto fra esistenza ed essenza, egli definisce innanzitutto l’esistenza come conatus essendi, ponendosi già fuori strada. Perché il conatus essendi presuppone una resistenza che alla fine porta l’esse alla morte. Invece la volontà, l’esistenza, l’essere è conatus essendi, sforzo di essere. Ma l’eterno autentico non si sforza di essere, non può sforzarsi, perché questo vorrebbe dire che c’è un impedimento. Il conatus è un’equivalenza del concetto di potenza aristotelico, di divenire. Ed ancora: quando Spinoza parla, sempre, del rapporto fra esistenza ed essenza e dice, come lo diceva già Tommaso, che “l’esistenza non appartiene all’essenza” (essentia non involvit existentiam – possum intellegere quid sit homo et tamen ignorare ansit), la scissione fra essenza ed esistenza c’è anche in Spinoza. Egli afferma che tutti i modi sono eterni, in quanto sono in Dio, e tutti i modi procedono necessariamente da Dio. Ma cosa vuol dire “processione necessaria? Vuol dire che il nichilismo non è soltanto nel divenire contingente delle cose per cui accade “A” ma sarebbe potuto accadere “non-A”. Il nichilismo c’è anche quando si dice “A esce dal nulla secondo una seguenza “A-B-C-D…” necessaria. Di nuovo, Spinoza afferma che tutti i modi escono dalla Sostanza come le proprietà di un triangolo escono dalla definizione stessa del triangolo, e quindi si generano. Certamente in modo necessario, ma si generano essendo stati niente. Questo è un processo in cui c’è la necessità dell’accadere, ma è un accadere, quindi un passaggio dal non-essere all’essere.
Se però il Dio spinoziano viene definito come un principio indeterminato, non si elimina ogni dubbio?
Già l’idea di causa sui è difficoltosa, e crea dei problemi. Non è affatto fuori discussione come potrebbe sembrare, perché è un prodursi. Tanto è vero che Gentile, poi, riprenderà questa idea, e prima Fichte, a suo modo, ma anche Schelling, per cui la sostanza stessa eterna, è un’auto-produzione.
Qui, al di là della questione della causa sui che è evidentemente problematica, si chiedeva se, leggendo il principio di Cusano, Bruno, Spinoza, Schopenhauer ed altri come indeterminato, si potesse affermare una cosa simile a quella che viene descritta nelle sue opere. Il tutto come grande alternativa alla tradizione filosofica che ha pensato il principio come determinato.
Sì sì, sono d’accordo. Ma tali non sono altro che arricchimenti all’interno del quadro sopra descritto, sui quali si può essere fino ad un certo punto d’accordo — del resto che l’ arché fosse indeterminato aveva cominciato a dirlo Anassimandro. Rimane comunque la questione che l’indeterminato è produttivo, come il determinato. Entrambi i principi sono produttivi. Ferme restanti queste, e tante altre variazioni e differenziazioni che ci sono, bisogna capire che trovare (su questo mi ripeto molto ma vedo che è sempre importante dirlo) l’identità delle differenze, non vuol dire negare le differenze. La pulce è un vivente, l’elefante è un vivente, quindi c’è qualcosa di identico. Però l’elefante non è la pulce, anzi: c’è una bella differenza. Anche se vi è un tratto unificante, ed il tratto unificante è l’orizzonte di cui parlavo prima.
È perciò possibile dire che il limite di Spinoza è quello di non ammettere come eterno l’apparire dell’apparire?
Questo è un ulteriore limite, che si contesta a Spinoza. Potremmo anche non aver bisogno di questa figura. Senza scomodare questa figura: concedo che le cose particolari si generino necessariamente (e in Destino della necessità si dice che l’accadimento è necessario), però in Destino della necessità l’accadimento necessario è l’apparire degli eterni, in Spinoza è lo sgorgare dei contingenti che sono necessariamente accadenti, ma che sono contingenti in quanto accadono, e prima non erano. Quindi ci sono due sensi della contingenza. Il primo: accade “A” ma sarebbe potuto non accadere. Il secondo: accade necessariamente “A” dove la contingenza è il fatto che “A” accade, ovvero esce dal niente e cioè non era neanche prima, perciò il suo esserci è contingente rispetto al non esserci stato.
Questa seconda concezione della contingenza, però, si lega ad una definizione della necessità che è differente rispetto a quella che è enunciata nei suoi scritti.
È certo, perché in Destino della necessità si dice che gli eterni si manifestano secondo un ordine che non sarebbe potuto essere diverso da quello che è, e non sarebbe non potuto accadere. Però sono gli eterni che si manifestano; invece in un necessitarismo come quello di Spinoza, l’accadimento necessario è la produzione necessaria, certamente, di ciò che – però – non è eterno, ma incomincia ad essere: quindi accade. Io non conosco nessun passo di Spinoza dove egli afferma che il divenire delle cose, l’accadere delle cose, è il manifestarsi degli eterni.
Rimane chiaro che in nessun altro filosofo è affermata l’eternità di tutti gli enti così come la troviamo nei suoi scritti. Si cercava qui un contatto, risulta necessario un restringimento dell’interprete.
Sì, e ciò è così in base al fatto che si isolano le tesi dalle loro fondazioni.
Nella sua versione del libro quarto della Metafisica di Aristotele, scritto in una fase “giovanile” del suo pensiero, si portano argomenti a sostegno del principio di non contraddizione che, successivamente, verrà rifiutato e definito anch’esso come espressione del nichilismo. Come è pervenuto a questo passaggio?
Quel libro, ha giustamente detto, appartiene ad una fase giovanile. Ma se dovessi scrivere oggi un commento al quarto libro della Metafisica di Aristotele, non lo scriverei in modo tanto diverso. Perché stando all’interno della logica aristotelica bisogna dire quello, uscendo da quella logica si parla diversamente. Mi si pongono due questioni, una relativa all’elenchos, e l’altra del come mai ne sono uscito. Bene: non è vero che in Essenza del nichilismo si parla di due figure dell’ elenchos, dove la prima è di matrice aristotelica. Ma lì si prescinde dall’implicazione tra l’esser sé dell’essente e l’eternità dell’essente — ossia: l’esser sé dell’essente implica l’eternità dell’essente. Se si considera l’esser sé distintamente da ciò che esso implica, allora considerandolo così distinto, la figura aristotelica della dimostrazione elenctica vale. Solo che questo esser sé, che abbiamo considerato come distinto, è però relazionato all’eternità, laddove Aristotele l’essente che è sé lo considera, come si diceva prima, come innanzitutto l’essente che apparendo nel mondo può non essere. Allora: in quanto l’ elenchos agisce su un essente così concepito, agisce su un principio di non contraddizione che è contraddittorio. Per Aristotele il principio di non contraddizione dice “è impossibile che l’essente sia e non sia”, ma sin tanto che è; perché se la superficie è bianca è impossibile che sia non-bianca, ma sin tanto che esiste. Perciò, ripeto: in quanto distinto, secondo quanto detto prima, allora l’esser sé in Aristotele è un qualche cosa relativamente al quale il negatore dice qualcosa di determinato, adottando il principio che intende negare. Ma questo esser sé non lo si può considerare come separato dall’eternità da cui è pur distinto. La distinzione è diversa dalla separazione. Quindi, in quanto non è separato, il principio di non contraddizione aristotelico, che è separato perché parla di un essente che può non essere, è allora contraddittorio. È anzi una delle grandi espressioni del nichilismo perché cela nel modo più potente la contraddizione, cioè l’identità di essere e nulla. La cela nel modo più potente perché dice “sono il difensore del non esser nulla degli enti, fintanto che sono”. Ecco, il carattere di difesa della razionalità assunto dal principio aristotelico fa precipitare nella contraddizione.
Qui si torna alle origini, in un certo modo. Alla fondazione iniziale del sistema filosofico di Severino.
In un certo senso, perché quando venne fuori quel commento al quarto libro della Metafisica, erano gli anni in cui stavo scrivendo La struttura originaria, e quello è il testo nel quale viene fuori, per la prima volta, l’idea secondo la quale il divenire è la manifestazione degli eterni, e cioè che l’essente, in quanto essente, è eterno. Però ne La struttura originaria rimane ancora la convinzione che l’uscire dal niente e il ritornare nel niente, anche se è mescolata ad una direzione in senso contrario, appaia. In questa situazione quel libro (si confronti ad esempio l’introduzione scritta nel 1981, quando il testo fu pubblicato da Adelphi) rappresenta ancora una fase nichilistica del mio discorso. Tale fase è superata da quella in cui il mio discorso si è liberato dal nichilismo — il che comporta il problema di come mai il linguaggio che testimonia il destino, ecc… Tornando alla domanda: leggendo quel testo si può capire perché vi fu quel commento ad Aristotele. Detto in due parole: questa persuasione che l’annientamento accada — perché di questo, finora, non abbiamo parlato; abbiamo detto che l’annientamento è l’evidenza per l’Occidente, ma non abbiam detto che l’Occidente crede che appaia ciò che in verità non appare — presente ne La struttura originaria, che rimane pur tuttavia la base di tutti gli altri, ha lo scopo di inglobare l’intero corso del pensiero filosofico occidentale. Ad un certo momento mi son reso conto che ciò che si dice in quel saggio inglobava, ma mettendo il tutto sotto un segno negativo. Perciò vi è una sorta di “svolta” con Essenza del nichilismo, che contiene il poscritto Ritornare a Parmenide. Non so se ho risposto alla sua domanda!
Sì, assolutamente sì. Dal punto di vista biografico, tralasciando un attimo il lato teoretico, era interessante capire come una persona che lavora per anni in una direzione, ad un dato momento si rende conto che quel percorso lo sta portando in una via differente.
Lì c’è un contenuto, ad un certo punto ci si rende conto che quel contenuto può essere l’alienazione di ogni forma della cultura occidentale, cristianesimo compreso, allora è chiaro che non è più inclusivo in senso positivo, ma in senso negativo. Di qui, Messinese [professore all’università Pontificia, che scrive oramai da molti anni su Severino: ndr] ad esempio, scrive che ne La struttura originaria ci sono i veri preamboli del cristianesimo, perché c’è questa ambivalenza di cui ho parlato. È interessante, il discorso di Messinese.
Come è partita la molla che l’ha condotta verso una tale sistematizzazione del suo pensiero?
Magari non ci si crede, ma non c’è di mezzo nessun trauma esistenziale, se non il fatto che il pensiero portava da una parte, che non era quella nella quale credevo che andasse.
Ed è straordinario come un giovane Severino, laureato con una tesi su Heidegger (dato anche per vero ciò che dice Cacciari, ovvero che il novecento filosofico sia un dialogo a due fra Heidegger e Severino) poi si trovi a rovesciare totalmente le tesi heideggeriane.
Sì, rovescia. Ma mantenendo qualcosa. Prendiamo un vaso, dentro c’è una certa ramificazione: lo capovolgo, ma quella ramificazione permane. Non è che rovesciando il vaso crollano, si disfano i nessi che c’erano quando il vaso era diritto.
Perciò lei “salva” parte della riflessione heideggeriana a livello metafisico?
A livello metafisico anche oggi citerei Heidegger, il quale in Lettera sull’umanesimo dice che l’analitica esistenziale non afferma e non nega nulla né sulla questione sull’immortalità dell’anima, né sulla questione dell’esistenza di Dio. Allora: un Heidegger fenomenologo — ma lui stesso diceva di essere un filosofo cristiano — che traccia una epoché rispetto alla soluzione dei problemi metafisici, è uno che è in attesa di una conclusione metafisica. In quel libro indicavo le due possibili vie di sviluppo del pensiero heideggeriano, quella ontologica e quella ontica. Quella ontologica vuol dire riuscire a capire che cos’è l’Essere, e lì Heidegger l’ha percorsa, ma lui non è che neghi l’esistenza del super-ente. Dice: l’epoca della metafisica ha dimenticato l’Essere, ma con ciò non afferma la falsità della metafisica, lascia in sospeso in discorso. E perciò in quel libro io vedevo la possibilità di sviluppo di un sentiero che Heidegger ha in parte, poi, percorso. Il mio maestro Bontadini aveva visto in Gentile (anche se, oramai, su questo non son più d’accordo) non una chiusura, come Nietzsche, ma un’apertura alla metafisica. In quella tesi di laurea dicevo: anche quella di Heidegger è un’apertura di questo genere, anche più interessante e complessa che non quella di Gentile.
Detto questo, risulta evidente come manchi in Italia uno studio approfondito di Heidegger, che non sia propedeutico o parte integrante alla filosofia della religione.
Mi dispiace di questa situazione. Ma credo che lei faccia bene a fare la tesi su Nietzsche, perché Heidegger, in questa logica, è un gradino sotto a Nietzsche. Quest’ultimo è perentorio e mostra l’impossibilità degli eterni. Heidegger non si pronuncia, quindi è meno rigoroso, sta meno al culmine. È uno di quei pendii che degradano dalla vetta, di cui parlavamo all’inizio di questa nostra conversazione, anche se è un grande degradare. Gentile e Leopardi sono più rigorosi di Heidegger.
E questo forte rigore, anche all’interno di una prospettiva nichilista, è segno positivo?
Sì, all’interno della follia è la posizione più autentica, che mantiene la maggior fedeltà all’assunto di partenza: cioè l’evidenza del divenire. Se teniamo fermo — e lo teneva fermo anche la metafisica — che il divenire è il punto di partenza, allora la maggiore fedeltà a questo fondamento, ciò che non smentisce questo fondamento, è una posizione come quella di Nietzsche, o di Gentile o di Leopardi.
Ma definire così il percorso della filosofia occidentale, che ha cercato di braccare e chiudere il divenire attraverso gli immutabili, non è allora un atto d’accusa verso la filosofia, come tale, da parte di un filosofo?
No, in realtà è un elogio. Siccome la filosofia non è l’alba della Terra, il germe del nichilismo precede al nichilismo. Esso è insito nella fede che si ha nel diventar altro. E il diventar altro è un atteggiamento presente da sempre nel mortale: prima si ricordava il mito, le teogonie, le cosmogonie. Adamo vuole diventar altro da quello che è. In tutta la mitologia c’è la volontà di uscire da una situazione, cioè di diventare altro. Semplicemente per muovermi, io debbo farmi largo. E il farsi largo, per un uomo, è uno smuovere la barriera che si trova davanti ab origine; si trova avvolto in una membrana che gli impedisce di respirare, e se vuole respirare quella membrana va rotta, si deve cambiare, diventar altro. Il diventar altro è soggetto alla contraddittorietà estrema, io credo di essermi ripetuto nei miei scritti ma forse potrei ripetermi ancora di più. Perché dire che la legna diventa cenere vuol dire soltanto che della cenere inizia ad esistere? No, vuol dire anche questo — se la legna diventa cenere inizia ad esserci della cenere — però, ripeto, l’incominciare ad esserci della cenere non restituisce totalmente il significato dell’affermazione “la legna diventa cenere”. Provo a riassumere un punto fondamentale, che precede la follia del nichilismo, dove nel mito non è presente il nulla, ma il diventar altro, che è comunque un pre-nichilismo. Dunque: il diventar altro vuol dire che nel risultato non c’è soltanto la cenere, ma c’è la legna che è cenere. Nel risultato del diventar cenere, c’è l’esser cenere da parte della legna. L’identificazione dei differenti. Allora, per ritornare alla sua domanda: la filosofia ha il merito di aver esplicitato totalmente questo atteggiamento originario, perché questo atteggiamento è l’uomo, l’uomo è la fede nel fatto che le cose divengano altro, e siano altro. Questo errare della filosofia è un errare che fa maturare il germe, testimoniando nella sua forma più concreta il senso pre-ontologico del diventar altro, quindi è un elogio.
Quindi il grande merito dei Greci è quello di aver pensato il nulla, non solo di averlo tenuto in nuce dentro l’atteggiamento umano?
Esattamente. Il merito è stato quello di viverlo e di inventarlo.
Sta tutto qui il passaggio fra il pre-ontologico e l’ontologico, tra il mito e la filosofia?
Pensare il nulla vuol dire morire in modo diverso. Perché se si pensa che morendo si vada nel nulla, è totalmente diverso. Vivere sapendo che la morte è annichilimento, è un vivere diverso di quello del mito dove i morti ritornano: arriva la paura, arriva l’angoscia.
A questo punto, stando il legame indissolubile fra la condizione umana e l’errore, qual è il ruolo dell’etica?
Dopo Destino della necessità ho scritto La gloria, Oltrepassare e La morte e la terra, dove in sostanza si mostra che è necessario uscire da questa situazione, non nel senso che sia una cosa buona e auspicabile, ma necessità nel senso dell’accadimento necessario. Siamo destinati ad uscire da questa situazione dove si comincia a balbettare il linguaggio del destino, ma le opere della follia sono ancora qui davanti incombenti.
Uscire come?
Questo lo dice La gloria. Prima, mentre parlavamo di Destino della necessità mi è tornato in mente De Giovanni, il quale dice che quest’ultimo è meglio di La gloria perché è più drammatico, il discorso rimane in tensione e a lui piacciono le tensioni. Per quanto riguarda me, non è che mi piace questo piuttosto che quello, anche perché quello che piace a me non conta niente: il discorso porta al superamento delle domande che chiudono Destino della necessità. Alla fine dell’opera ci sono due pagine di domande. Siamo destinati a restare nell’isolamento della terra o no? E se no perché? Ecco, La gloria risponde di sì: è necessario uscire per una serie di motivi che sono tutti agganciati all’esser sé, al significato del concretarsi dell’esser sé; questo è importante. Se si va a scavare nel significato che la tazzina è la tazzina si arriva a La gloria.
Quindi il discorso che pensa l’ente come eterno, non è più un atteggiamento di pochi, è necessario che venga allargato?
Questo forse lo dico già in Essenza del nichilismo. La verità è presente in tutti perché è l’opposto dell’elitarismo. Se tu pianta vedi il mondo, tu sei l’apparire della verità. Se tu oggetto sei un vedere il mondo sei l’apparire della verità. Se tu sei un vedere il mondo, in te appare la verità.
E questa, per dirla anche scherzosamente, è una cosa positiva, o senz’altro un buon motivo per trovare il coraggio di studiare la filosofia.
Io uso quest’immagine, che probabilmente avrò già citato in qualche conferenza. Siamo dei re che si credono dei mendicanti. E studiare filosofia vuol dire rendersi conto veramente, non certo baloccarsi in un’illusione.
Possiamo dire che è un portarsi fuori dall’illusione?
È essenzialmente la non illusione, senza per questo privare tutta l’ipercritica contemporanea del suo spazio, perché rispetto all’ épisteme vuole essere anch’essa la prima grande forma di non illusione, ed è giusto anche tutto quello che dice la critica all’ épisteme (vedi Nietzsche) ma anche il neopositivismo. La stessa valorizzazione filosofica della scienza, della logica e delle scienze formali, tirate le somme, dicono alla metafisica che impedisce la novità.
Finiamo la conversazione con un sorriso e lo sguardo verso il futuro. Spinti da uno dei maestri della filosofia contemporanea, a continuare la ricerca, a continuare a fare filosofia. Cosa che Emanuele Severino non smetterà mai.
a cura di Saverio Mariani e Andrea Cimarelli, in Ritiri Filosofi