ricrordando A. Zarri

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Vita di una eremita

 

di Ilaria Napolitano

 in “Mosaico di pace” n° 2 del febbraio 2014

 

“Ogni vita comincia alla soglia di una tomba” scrisse diversi anni fa André Chouraqui all’inizio della sua stupenda autobiografia (Chouraqui, A., Forte come la morte è l’amore, Cinisello Balsamo 1994, pag. 8). Adriana, alla fine del suo resoconto di vita eremitica, conclude: “… appena il nome, per chi voglia cercarmi tra le tombe, e sotto: ‘Completa la sua resurrezione’. Ma non è necessario cercarmi. Mi basta il ricordo dell’erba che non mancherà di rinverdirmi. E non portatemi fiori: fioriranno le viole” (Zarri, A., Un eremo non è un guscio di lumaca, Torino 2011, pag. 197. Per tutte le successive citazioni si fa riferimento al medesimo testo).

Adriana Zarri: teologa, scrittrice, attenta osservatrice della nostra realtà politica ed ecclesiale, impegnata nelle grandi battaglie civili della storia recente del Paese, dal 1975 sceglie di ritirarsi in campagna abbracciando una forma di vita eremitica, coltivando la terra, occupandosi degli animali e, naturalmente, scrivendo. Informandone con una lettera “circolare” gli amici, sente il bisogno di difendere la sua scelta da due possibili malintesi: il primo che la preghiera, vissuta così radicalmente, possa essere vista come qualcosa di alienante, in antitesi a una piena partecipazione alle cose del mondo; il secondo, più legato alla sua storia personale, che il “ritirarsi”, dopo decenni di lotte e battaglie nell’arena pubblica, dato il “clima restauratore” del momento, possa essere letto come abbandono del campo per “delusione e stanchezza”. nel deserto . Niente di tutto questo: “Nel deserto si entra, si cammina, ci si immerge, assumendo la storia e i problemi di tutti. Impegnandosi e lottando contro le alienazioni di questo mondo, come ho sempre fatto e farò”. E ancora: “la preghiera, anzi, è la contestazione più profonda di questo nostro mondo utilitario, in quanto mette in crisi non già le forme d’espressione in cui si manifesta, ma il modello antropoculturale che le esprime: un modello essenzialmente efficientistico, privo di quegli spazi di fantasia, di poesia, di gratuità su cui si innesta appunto la preghiera”. Quanto alla stanchezza e alla delusione, Adriana chiarisce: “Ma nel silenzio non si entra per stanchezza. Per stanchezza ci si chiude nel mutismo, che è tutt’altra cosa. Né io sono delusa da  Dio, anche se posso esserlo di qualche uomo che tuttavia non può soffocare la speranza, alimentata dallo Spirito”. A distanza di qualche anno, avendo raccolto su richiesta dei suoi lettori in un libro le lettere dall’eremo già pubblicate ogni quindici giorni sulla rivista Rocca, dopo aver riportato la lettera di cui sopra, così commenterà: “Forse, oggi, quella lettera cercherei di farla più scarna, più pulita, forse addirittura meno monastica; e non perché sia diminuito l’amore per questa vita, ma perché è aumentate l’amore per la vita…”. Il resoconto di vita va da una stagione all’altra, da un autunno all’altro, seguendo e impastandosi ai colori, ai profumi, ai lavori in casa e fuori casa nell’orto e con gli animali, dove il “banale” quotidiano e il sublime si assommano e si compenetrano. La solitudine non esclude però i rapporti semplici ed essenziali con gli abitanti del luogo e gli amici ora lontani, perché “l’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro”. Non è tagliato fuori il mondo, grazie a giornali, riviste, corrispondenza: è proprio l’eremita che deve leggere, per non chiudersi ai drammi e al divenire della storia. A chi poi per caso arriva al Molinasso ed esclama: “Beata lei, che abita in questo paradiso, lontana dalla città e dalla cattiveria del mondo!”. Adriana chiede, non senza irritazione, ma anche un poco sorniona, se è disposto a tornarci d’inverno… l’invito è subito declinato all’apprendere che c’è umido, freddo, niente luce elettrica e diversi disagi. Anche all’eremo piove: “piove il cielo aggrondato e piove la vita, con tutti  i pesi e le fatiche che gravano su ogni dimora e su ogni uomo”. Eppure si è nella pace, quella pace simile a un lago profondo e appena increspato in superficie, che niente ha a che fare con la pace mondana del quieto vivere e dell’evitamento. Se all’eremo piove, la serenità non sta nell’aspettare, anche con pazienza, il bel tempo, ma credere che anche la nebbia è sereno e la pioggia sole. L’eremo non è però solo pregno di vicende e accadimenti umani ma, come ogni cascina che si rispetti, è piena di animali. Non mancano i corvi liberi di volare intorno e dentro la stalla, conigli, tacchini, paperi, polli. Fuori dalla stalla tortore, colombi, e naturalmente un cane e un gatto, anzi una gatta, Ottorina, che nelle gelide notti invernali si trasforma in una borsa calda sotto le coperte.

Chiede a un certo punto un lettore: “Come fa un monaco laico a mantenersi? Penso, infatti, che oggi la povertà non escluda l’indipendenza economica, che è dovere per tutti”. Semplice, lavorando. E il lavoro al Molinasso è duro: agosto insopportabilmente caldo, gennaio freddissimo, le zanzare torturano, l’attività della fienagione stanca sul serio, l’acqua spesso gela nella stalla e si è costretti a intervenire con il martello. Un lavoro tosto e scarsamente remunerativo, ma: “Il monachesimo, più o meno consciamente, forse ha intuito che, nell’armonia che si ritesse tra l’uomo e l’universo, il lavoro è un momento forte di dialogo. Perché uno dei frutti della vita monastica mi sembra proprio un grande senso di armonizzazione con le cose; e forse un altro è la scoperta e il gusto del lavoro”. la preghiera . Di fatto si lavora sempre con la fretta, proiettandosi alla fine del lavoro e poi ancora oltre, senza riuscire a stare veramente nel presente, a quello che ci occupa adesso. Una fuga più che un andare verso qualcosa: “Accade anche per il lavoro che l’erba del vicino (ed è magari l’erba del nostro ‘dopo’) ci pare sempre più verde; mentre è esattamente il contrario: l’erba più verde è la mia, quella che cresce nel mio orto, quella del mio ‘oggi’ del mio ‘ora’ perché soltanto quella è stata coltivata da Dio per me, e soltanto quella mi può nutrire di rugiada, di verde, di vita; non di illusioni e di velleità. La cosa più importante è sempre quella che sto facendo. Allora non debbo avere fretta”. È così che alla fine la preghiera stessa si fa indistinguibile dall’abitare il quotidiano: “E mi abbandono alla preghiera personale, senza formule fisse: parole che si smorzano spesso nel silenzio. Neanche sempre in cappella, sovente fuori, stesa sull’erba, immersa nelle cose e nella vita (e gli animali che mi camminano sopra, mi s’accucciano addosso, come un abbraccio caldo di pelo e di respiro). La preghiera non riesuma antichi testi ma è immersa nel mio oggi”. L’intellettuale “pura” di un tempo è divenuta un’intellettuale incarnata, “contaminata, sporca di vita materiale”, che non rinnega metà del suo lavoro, però può consapevolmente dire, giunta all’ultima stagione, che è più importante vivere che fare: “…La vita è una collana di possibilità perdute; e tanto più si fa densa, ricca di curiosità, di interessi, di spazi, tanto più le possibilità, le occasioni, le esistenze perdute aumentano. Ma esse non sono che modi del tutto secondari rispetto a qualche cosa che ci cresce e ci matura dentro, e che è appunto la vita”

La vita, semplicemente

 Adriana Zarri (San Lazzaro di Savena 1919 – Crotte di Strambino 2010) prende molto giovane i voti nella Compagnia di San Paolo a Milano. Ne esce dopo qualche anno, continuando ad approfondire gli studi di teologia, collaborando con riviste specializzate e tenendo conferenze in giro per l’Italia. È stata definita una teologa di linea conciliare molto prima del Concilio. Ha vissuto da eremita dal 1975 prima in una cascina del Canavese, poi a Crotte, paesino nei pressi di Ivrea. Tra gli scritti teologici: La Chiesa nostra figlia (1962); Impazienza di Abramo (1964); Nostro Signore del deserto (1978); Erba della mia erba (1981). Autrice anche di romanzi, tra cui Vita e morte senza miracoli di Celestino VI (2008).

*Ilaria Napolitano è laureata in filosofia, specializzata in educazione degli adulti e counseling clinico a indirizzo psicosintetico

 

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per una chiesa credibile oggi

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“Anche nella postmodernità le persone sono alla ricerca di risposte alle domande essenziali. L’individualizzazione non ha portato, come si presupponeva nel XX secolo, ad una diminuzione della religiosità… Se la Chiesa, nel mondo di oggi, vuole essere convincente, non le basta attuare un cambiamento di strutture. L’istituzione di parrocchie taglia XXL può rispondere a problemi interni di personale e di sostenibilità finanziaria. Ma per le persone che sono alla ricerca di risposte per la propria vita servono testimoni e piccole comunità in cui potersi collocare”
così Dario Hülsmann in www.kath-kommentar.de del 21 febbraio 2014 (riportato meritoriamente da ‘fine settimana’:

 Come può rinascere la credibilità?

di Dario Hülsmann

 

La Chiesa cattolica è in crisi. Dopo aver richiesto per anni alla società elevati standard morali, ora mostra di aver perso la sua integrità morale avendo nascosto casi di abusi sessuali e mancando di trasparenza in ambito finanziario. Al contempo, non sembra che in Germania le Chiese riescano a trovare nel loro potenziale religioso delle risposte alla profonda crisi della società. In questa crisi, i cattolici continuano a discutere degli stessi temi: morale sessuale, difesa della vita, processo decisionale democratico nella Chiesa, equiparazione dei diritti. Non ci si può quindi meravigliare che anche i media continuino a riproporre posizioni ben note. Progressismo contro conservatorismo – modernità contro tradizionalismo. All’osservatore appare innanzitutto chiara una cosa: i principi valoriali della società non sono congruenti con quelli della dottrina cattolica. Ma le opinioni su chi delle due debba adattarsi all’altra, divergono.

La Chiesa cattolica sembra bloccata in un dibattito relativo alle strutture, anche se vorrebbe in realtà promuovere nella società i propri i contenuti di fede. Ma per uscire dalla crisi, deve trovare una nuova forma per trasmettere tali contenuti.  Due papi chiedono “smondanizzazione” e una Chiesa povera . Entrambi i papi   Francesco e  Benedetto XVI esortano ad una nuova forma di trasmissione della fede. Nel suo viaggio in Germania nel 2011, Benedetto XVI chiedeva ai vescovi tedeschi “smondanizzazione” della Chiesa tedesca. “La Chiesa liberata dal suo peso materiale e politico può rivolgersi meglio e in modo veramente cristiano a tutto il mondo, essere veramente aperta al mondo”, dichiarava Benedetto XVI allora. Il suo successore, papa Francesco, rafforza ulteriormente questa richiesta quando parla di un ideale di “Chiesa povera” e fa dell’accompagnamento pastorale delle persone la sua preoccupazione principale. L’ideale di povertà rappresenta per entrambi, il papa emerito come quello in carica, la garanzia per una nuova credibilità. Con un “più” di credibilità e di autenticità, vogliono far uscire la Chiesa dalla crisi di fede. Relazioni d’inchiesta esterne servono al rinnovamento e ad un cambio di orientamento . Se vogliono mettere in pratica queste idee ed essere credibili, i vescovi tedeschi, come rappresentanti della Chiesa, devono innanzitutto assumersi le loro responsabilità. Nei casi di abuso e negli scandali finanziari sono loro ad essere identificati come figure rappresentative per gli errori commessi. Con la relazione d’inchiesta della Causa Limburg e con il nuovo Studio relativo ai casi di abuso sessuale sono stati fatti due passi importanti. In due casi, nel 2010 con il vescovo Walter Mixa e presumibilmente nel 2014 con il vescovo Franz- Peter Tebartz-van Elst, in cui i vescovi dovrebbero trarre personalmente le conseguenze, diventa evidente che la Chiesa si assume seriamente le sue responsabilità. La pubblicizzazione della gestione del patrimonio delle sedi vescovili e la realizzazione di una prescrizione unitaria per la prevenzione contro gli abusi sessuali fanno sperare che le cose procedano così anche in futuro. Fare pulizia non basta .

Non ci si può però limitare all’ammissione di errori passati ed una più forte trasparenza. Accanto ai vescovi anche i gruppi ecclesiali in conflitto sono invitati a riconoscere le opportunità della crisi. Mentre sempre meno cattolici sono interessati all’offerta pastorale e l’influenza sociopolitica delle associazioni ecclesiali scompare, l’elaborazione degli errori passati apre uno spazio per riflettere sui contenuti centrali della propria comunità di fede. A partire da quella elaborazione si potrebbe ora sfruttare l’opportunità per rinnovare la Chiesa. Il bisogno di proposte di fede è sempre presente. Come può diventare credibile la Chiesa cattolica in una società critica nei confronti delle  chiese?  

Anche nella postmodernità le persone sono alla ricerca di risposte alle domande essenziali. L’individualizzazione non ha portato, come si presupponeva nel XX secolo, ad una diminuzione della religiosità. Il desiderio e la ricerca di spiritualità e di Dio vengono, è vero, spesso ignorati da chi è occupato a progettare strutture, ma in ampi strati della società sono rimasti presenti. Però questa ricerca non si esprime in dibattiti relativi a principi morali o forme di vita prefissate, ma piuttosto in una credibile proposta di valori e messaggi, verso cui il singolo si può liberamente orientare. Se perciò la Chiesa, nel mondo di oggi, vuole essere convincente, non le basta attuare un cambiamento di strutture. L’istituzione di parrocchie taglia XXL può rispondere a problemi interni di personale e di sostenibilità finanziaria. Ma per le persone che sono alla ricerca di risposte per la propria vita servono testimoni e piccole comunità in cui potersi collocare. Il messaggio di fede cristiano viene preso in considerazione quando viene vissuto da  perso ne  che  sono autentiche. L’ideale di povertà di Francesco si innesta qui. Ricorda ai rappresentanti della Chiesa la necessità di ricercare quegli autentici testimoni della fede e di sostenerli con il proprio sempio. La richiesta di “smondanizzazione” punta sulla potenzialità del messaggio cristiano di aprire accanto ai temi sociali un ulteriore orizzonte di senso. In questo si concretizza spesso, proprio in contrapposizione alle rappresentazioni di valori della società, l’unicità della speranza cristiana.

Sottolineando queste contrapposizioni e l’importanza delle singole perone, i papi sostengono che ulcro e caposaldo del superamento della crisi non sono le strutture, ma i contenuti. Rinnovamento e nuove comunità cristiane .   Mentre le direzioni diocesane e i rappresentanti dei laici ancora discutono su come affrontare il problema degli scandali e quali conseguenze devono essere tratte per le strutture organizzative della Chiesa, sono soprattutto piccole comunità cristiane a registrare una storia di successo. Da anni nascono all’interno della Chiesa cattolica una molteplicità di movimenti diversi che si diffondono anche in luoghi dove la cura pastorale è fortemente ridotta. Accanto a nuove comunità come ad esempio il Cammino neocatecumenale, con i migranti cristiani arrivano nelle diocesi tedesche anche molti altri rappresentanti di movimenti ecclesiali. Alimentano la loro vitalità non da unità pastorali o piani finanziari ma dalla propria spiritualità vissuta. Sarà opportuno che i “decision maker” tengano presenti queste comunità vivaci, in modo da favorire ed integrare la loro vitalità. Sono i cristiani praticanti a rendere credibili i valori cristiani e la chiesa cattolica nella società – e non possono essere sostituiti né da esigenze ecclesiali sociopolitiche né da strutture

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