i clochard morti per strada non sono un problema di decoro pubblico – è in gioco una questione di umanità

i clochard morti nell’indifferenza


A Torino e Modena senza dimora uccisi dal freddo, in Sardegna aggrediti e derisi dai minori sui social Caritas: ostilità crescente. Nosiglia: le risposte non sono i dormitori di massa

Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale

Siamo di fronte a un problema di decoro pubblico o è in gioco una questione di umanità? Con il freddo e le nuove restrizioni imposte da Comuni, si riaccende una grande emergenza sociale 

di Andrea Zaghi 

Mostafa è morto a Torino poche ore fa, Filippo è morto qualche giorno prima di Natale ad Arzachena in Sardegna, stessa sorte per un ghanese trovato domenica scorsa a Formigine, nel Modenese. Scarti. Abbandonati a loro stessi, alle prese con il freddo dell’inverno, spesso derisi, maltrattati, picchiati e dati a fuoco. Un problema per tutti, anche per chi vorrebbe aiutarli. Nell’Italia alle prese con la pandemia e con la crisi politica, accade anche questo. E non è la prima volta. Mostafa Hait Bella, di origini marocchine, vende fiori in uno dei mercati del centro di Torino. Poi perde il lavoro e la casa, vive in auto e poi perde anche quella. Allora vive per strada. S’arrangia, molti nel quartiere lo conoscono. Dorme nel dehors di un bar: ogni mattina a svegliarlo sono proprio i gestori del locale.

E sono loro a trovarlo morto ieri mattina alle 7.30. Cause naturali, pare. Aveva 59 anni. Adesso nella rete circola una foto di lui, con i capelli crespi e grigi e una chitarra gialla in mano. La morte di Mostafa arriva in una città che discute da giorni proprio sul destino dei senzatetto in strada. Un problema di decoro pubblico e di sicurezza, ma anche una questione di umanità resa più assillante dalla pandemia e dalla crisi. Una questione sulla quale Cesare Nosiglia, arcivescovo di Torino, è più volte intervenuto e che sarà tema di due incontri previsti in settimana con le istituzioni locali. «Spesso si fa un discorso teorico, senza avere mai visto in faccia queste persone – spiega l’arcivescovo –. Non servono solo a dormitori di massa».

Dura la reazione della Comunità di Sant’Egidio di Torino che dice: «Resta la cruda realtà di una morte evitabile, che chiede di non essere classificata come fatalità o, persino, come libera scelta, ma chiama alla responsabilità di tutti, a partire dalle istituzioni». Mostafa «era una persona conosciuta da tempo» viene spiegato dai servizi sociali comunali che lo descrivono come «molto gentile, cordiale ed educato », ma che aveva rifiutato «di trascorrere la notte in una casa di accoglienza ». L’ultimo incontro con il personale del servizio itinerante notturno, è avvenuto proprio sabato scorso. Più incerta, per adesso, la storia di un uomo di 60 anni, originario del Ghana irregolare e senza fissa dimora, che è stato trovato morto domenica pomeriggio in un casale abbandonato di Formigine, nel Modenese.

A dare l’allarme è stato un connazionale che è stato il primo a trovarlo nel rifugio. L’uomo era adagiato nel proprio letto. Pare fosse malato e che vivesse lì da alcuni mesi per ripararsi dal freddo, in una stanza spoglia, due pentole sul vecchio pavimento di cotto, sacchi di plastica piene di vestiti. Un’ombra svanita. Non un’ombra ma concreto bersaglio di angherie era invece Abdellah Beqeawi, di 54 anni, per tutti Filippo, clochard anche lui marocchino che viveva da decenni ad Arzachena, in Gallura, morto ufficialmente per infarto la sera del 22 dicembre scorso, nel parcheggio sotterraneo di un supermercato. La realtà che sta emergendo è però un’altra.

La Procura di Tempio Pausania ha aperto un’inchiesta, sono indagati sei ragazzini, di cui cinque minorenni (tra i 14 e i 16 anni di età), per le percosse subite da Filippo. Secondo quanto si vede in alcuni video, che da tempo girano sui social, nei giorni precedenti la morte del clochard. Si vede Filippo aggredito dai ragazzini più volte. In un video un ragazzo lo colpisce con un calcio alla schiena; in un altro, un ragazzo fa finta di offrirgli una sigaretta, per poi spegnergli la cicca sul palmo della mano, prima di colpirlo alla pancia con un calcio. Anche Filippo aveva scelto di vivere in strada nonostante la Caritas e il Comune gli avessero offerto un alloggio. «C’è un sentimento che sta crescendo fatto da una sorta di ostilità rispetto a coloro che sono in qualche modo diversi rispetto alla nostra ordinarietà», dice Pierluigi Dovis da vent’anni alla guida della Caritas diocesana di Torino che aggiunge: «È necessario ridefinire un modello di welfare locale che in molte parti d’Italia si è iniziato a costruire ma che non è concluso. Ma dobbiamo accelerare la capacità di intervento intorno alla persona». E poi ancora: «Servono investimenti che non possono essere delegati al solo volontariato oppure solo alla Chiesa. Si tratta di una situazione complessa che non può essere risolta con soluzioni facili».

“Papa Francesco” in versione clochard che, povero fra i poveri, chiede l’elemosina disteso su un cartone

papa Francesco clochard sui muri di Milano

le nuove opere di aleXsandro Palombo denuncia la povertà

https://youmedia.fanpage.it/gallery/ah/5ec66e4fe4b054fbb9e62488?photo=5ec66e88e4b054fbb9e6248e

Un’opera per porre sotto i riflettori il problema della povertà che a Milano e in molte altre grandi città è aumentata a causa del Coronavirus: la scelta di aleXsandro Palombo è stata quella di rappresentare Papa Francesco come un clochard oltre che la Madonna come una mendicante con in braccio un bambino. Le opere formano la nuova serie ‘Caritas’ e si trovano in diverse zone della città.

 

di Chiara Ammendola

Alcune opere sono comparse in questi giorni per le strade di Milano, sono la nuova fatica dell’artista aleXsandro Palombo che prendono il nome di “Caritas”: un modo per richiamare l’attenzione sull’aggravarsi della povertà durante l’emergenza coronavirus. Una ritrae “Papa Francesco” in versione clochard che, povero fra i poveri, chiede l’elemosina disteso su un cartone, un’altra ritrae la “Madonna con bambino” mentre chiede la carità ai passanti. E ancora bicchieri con il logo Coca-Cola, simbolo del consumismo di massa e del capitalismo, trasformati in bicchieri per chiedere la carità.

“Questa crisi è la più grande opportunità che abbiamo per ridisegnare e umanizzare la società. Oggi più che mai bisogna accorgersi dell’altro, di chi si trova sul nostro cammino e che sta vivendo un momento di estrema necessità – spiega l’artista – ognuno di noi può fare la differenza nell’aiutare i più fragili e tutte quelle famiglie che in questo momento sono cadute in povertà. Questo è il momento di comprendere che il futuro è generosità e solidarietà”. Obiettivo delle sue opere è spostare l’attenzione dalla pandemia sanitaria alla pandemia della povertà, una potente riflessione sul drammatico aumento dei poveri in Italia e in tutto il mondo. I murales di Papa Francesco in versione clochard si trovano in diversi luoghi della città: in piazza San Gioachino angolo via Gustavo Fara 2, all’angolo di via Leopoldo Marangoni con via Vittor Pisani, tra via Vittor Pisani e viale Tunisia e in piazzale Oberdan. Mentre il murale della ‘Madonna con bambino’ compare sul muro esterno dell’albergo diurno Venezia, in Porta Venezia.

 https://milano.fanpage.it/papa-francesco-clochard-sui-muri-di-milano-le-nuove-opere-di-alexsandro-palombo-denuncia-la-poverta/

le periferie con il loro ‘esercito di fantasmi’ sono lo specchio del paese

la morte di freddo dei clochard 

una spina nel fianco della società opulenta

intervento di Bassetti sulla presenza di clochard … tra bulimici desideri di benessere e incessante avidità di possesso 

«In Italia e in Europa si muore di freddo. Sono una decina le persone morte nel continente per il freddo, e almeno due i senzatetto che hanno perso la vita, a Milano e a Ferrara, per il gelo che ha colpito il paese e non ha lasciato loro scampo».

“È moralmente accettabile vedere una persona finire ai margini della società dopo un fallimento, condurre una vita di stenti in solitudine e poi morire di freddo nell’abbandono? No, non è accettabile».

Lo scrive il cardinale arcivescovo di Perugia-Città della Pieve Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, nel suo ultimo articolo dal titolo “Spina nel fianco”  curato per la rubrica “Dialoghi” de Il Settimanale de «L’Osservatore Romano», consultabile sul sito: www.osservatoreromano.va.

Il richiamo a quanti «hanno responsabilità pubbliche» nei confronti di «questo esercito di fantasmi».

«La morte di un povero – evidenzia il cardinale – di solito non fa notizia. Soprattutto a ridosso delle elezioni politiche. Eppure lo spaccato sociale che emerge da questa realtà di emarginazione e disperazione non può non fare sorgere qualche interrogativo in ogni persona di buona volontà e in particolare in coloro che hanno responsabilità pubbliche. I derelitti, gli abbandonati delle nostre periferie, infatti, rappresentano un angolo visuale originale per guardare il mondo in cui viviamo. Sono una sorta di spina nel fianco della società opulenta, tra i bulimici desideri di benessere e l’incessante avidità di possesso. Possiamo far finta che non esistono, ma quei poveri sono sempre lì, davanti ai nostri occhi. Nelle stazioni ferroviarie, sotto le scalinate dei centri storici, sotto i portici delle nostre chiese. Ovunque ci sia un riparo. Queste persone rappresentano un piccolo popolo — circa cinquantamila secondo l’Istat, ma probabilmente sono di più — che vive ai margini della società in condizioni di degrado assoluto. Persone che sopravvivono come scarti umani tra i rifiuti urbani delle nostre città. Senza dubbio sono simboli viventi delle contraddizioni di una società che si considera matura, forte e ricca, ma che è popolata da questo esercito di fantasmi. Fantasmi non per tutti, però. Di queste persone si prendono infatti cura istituzioni locali e associazioni di volontariato d’ispirazione cristiana. Dietro si celano soprattutto storie ed esperienze di vita. Al presente di disperazione, spesso caratterizzato da alcolismo, malattie e solitudine si antepone in genere un passato caratterizzato da fallimenti lavorativi e familiari. Ogni volta che infatti riusciamo ad aprire uno squarcio nella vita di queste persone, veniamo a conoscenza di ferite profondissime che si sono portate dietro per anni e che gravano su di loro».

L’umanità ferita: un’intuizione e un insegnamento di papa Francesco nei primi cinque anni di pontificato.

«Ci troviamo di fronte, dunque, a quell’umanità ferita a cui ha fatto riferimento il Papa sin dall’inizio del suo magistero – sottolinea il porporato –. Un’intuizione e un insegnamento che assumono un significato esemplare proprio in questi giorni in cui si celebrano i cinque anni di pontificato. Nella omelia per la messa d’inizio del servizio papale, nella solennità di san Giuseppe, Francesco parlò di una “vocazione del custodire” che “non riguarda solamente noi cristiani” ma che è “semplicemente umana, riguarda tutti”, per “custodire l’intera creazione, custodire ogni persona, specie la più povera”».

La vocazione del custodire è una missione sociale e culturale.

«Oggi più che mai – sostiene Bassetti – queste parole s’incarnano nella vita quotidiana. La vocazione del custodire, infatti, non è solo un ideale di vita a cui tendere, ma è soprattutto un’esperienza da vivere concretamente e che può tradursi perfino in una missione sociale e culturale. Prendersi cura delle periferie delle nostre città, troppo spesso caratterizzate da un’anarchia sociale preoccupante, deve diventare un imperativo morale, prima che politico: uno slancio in cui combinare la difesa del creato, la cura delle città e l’impegno concreto verso i poveri».

Fornire una risposta concreta ai problemi da cui potrà nascere la classe dirigente del futuro.

«Solo fornendo una risposta concreta a questi problemi irrisolti – conclude il presidente della Cei – potrà nascere la classe dirigente del futuro. Le periferie sono lo specchio del paese e misurano il suo stato di salute. Proprio per questo i senzatetto uccisi dal freddo non devono lasciarci indifferenti. Non è solo un fatto di cronaca ma una realtà che parla all’Italia intera, interroga profondamente e chiama a un’assunzione di responsabilità comunitaria. È moralmente accettabile vedere una persona finire ai margini della società dopo un fallimento, condurre una vita di stenti in solitudine e poi morire di freddo nell’abbandono? No, non è accettabile».

contro l’egocentrismo personale e collettivo

‘pensa agli altri’

Mentre prepari la tua colazione, pensa agli altri,
non dimenticare il cibo delle colombe.

Mentre fai le tue guerre, pensa agli altri,
non dimenticare coloro che chiedono la pace.

Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri,
coloro che mungono le nuvole.

Mentre stai per tornare a casa, casa tua, pensa agli altri,
non dimenticare i popoli delle tende.

Mentre dormi contando i pianeti , pensa agli altri,
coloro che non trovano un posto dove dormire.

Mentre liberi te stesso con le metafore, pensa agli altri,
coloro che hanno perso il diritto di esprimersi.

Mentre pensi agli altri, quelli lontani, pensa a te stesso,
e dì: magari fossi una candela in mezzo al buio.

Mahmoud Darwish

via i clochard dalla nostra vista?

il «desiderio» di non vedere i clochard

la visibilità di poveri e senzatetto è un problema

 

l’ansia di decoro che è lato oscuro 


“c’è sempre dentro di noi un desiderio di ‘non’ vedere queste persone. Di non dover vedere quanto la malattia, l’alcol, la solitudine possano, e fino a che punto, devastare un uomo. Bisogna essere davvero molto distratti per non essere anche fuggevolmente feriti e interrogati da questa miseria, quando la incroci. C’è però chi questa domanda la rimuove, infastidito. Non vorrebbe vedere. Che li chiudano in ostelli, i clochard, che li nascondano, ma che non si mostrino a noi, cittadini ‘normali’ “

Caro Avvenire,
la visibilità di poveri e senzatetto è un problema. Di certo a nessuno piace vedere persone in precarie condizioni igieniche sedute sui marciapiedi ad elemosinare o, peggio, dormire per strada avvolte in stracci e coperte, tra cartoni e masserizie. Persone così non solo non vorremmo vederle, vorremmo che proprio non esistessero: comunque la si pensi, costituiscono una silenziosa, ma eloquente e sanguinante, ferita aperta che interroga e inquieta la coscienza, denuncia la nostra società e il nostro modello di sviluppo, ferisce la dignità umana e il decoro cittadino. No, persone in tali condizioni non devono proprio esserci: se sono reali indigenti vanno assolutamente aiutate perché non è accettabile, almeno nelle nostre città, una simile forbice tra la loro miseria e il nostro benessere; se invece si tratta di un disgustoso racket deve essere assolutamente bloccato e perseguito; se infine sono impostori vanno denunciati. E così il problema si risolve, semplice, no? Purtroppo no, semplice per nulla, come ben sanno tutti coloro che operano nel sociale e nel volontariato. Certamente dobbiamo dare tutto il possibile sostegno alle strutture della solidarietà e dell’assistenza sociale. Ma loro, i poveri stessi, i barboni… lasciarli lì, per le strade, o allontanarli, renderli meno visibili, inquietanti e, per qualcuno, anche meno fastidiosi. Non nego che anche io preferirei non vederli: faccio parte di coloro che, al solo pensiero dell’ingiustizia sociale, si sente terribilmente in colpa. Sì, queste persone preferirei proprio non vederle: magari col tempo finirei per dimenticarmene e forse potrei anche convincermi che non esistano più. Problema risolto. Ecco: proprio per questo è bene che i ‘poveri’, dato che esistono, restino visibili e continuino a turbarci. Per evitarci di dimenticare che miseria e abbandono sono laceranti, brutti, degradanti. Quanta poesia si è fatta sulla dignità della povertà. Non è così: la miseria è sporca, disgusta. Solo avendo un contatto diretto con i poveri, solo incrociandone lo sguardo, solo passando con la nostra scarpa vicino alla testa di un clochard buttato a terra o sentendone l’odore spesso sgradevole possiamo renderci conto del carico di dolore e di solitudine che porta con sé. Ed è ancora poco, molto poco, ma è almeno qualcosa. I poveri però sono parecchi, alcuni più e altri meno visibili. Chi aiutare, come, quanto o cosa dare loro? Difficile scegliere. Molto più comodo sarebbe se a questi nostri concittadini provvedessero le istituzioni, togliendoci così dall’imbarazzo. Si potrebbe fare un’offerta o devolvere parte delle tasse, una volta per tutte. Vero: vero però anche che questo sistema di delega ci renderebbe più cinici, più duri, più indifferenti, nella presunzione che ‘a far la carità’ ci pensa già qualcun altro: alla chiusura dei borsellini seguirebbe ben presto anche quella della mente e del cuore. No, non ci farebbe bene. La storia ce lo insegna. Il primo passo per negare un problema è nasconderlo. Ci sono stati (e ci sono ancora) regimi in cui semplicemente essere zingari, ebrei od omosessuali era un problema. Non dimentichiamoci di come è finita, perché il meccanismo mentale potrebbe ripetersi. Adesso tocca ai poveri? Non illudiamoci di poter espungere tutta la sofferenza dal nostro orizzonte quotidiano, non è possibile e non ci renderebbe nemmeno più felici.

Marina Del Fabbro
presidente Sezione Uciim di Trieste (Associazione professionale cattolica di insegnanti, dirigenti e formatori)

Mi è capitato qualche volta di passare per il centro di Milano attorno alle nove di sera, quando anche gli ultimi grandi magazzini stanno chiudendo. A quell’ora sotto i portici di VittorioEmanuele e nelle gallerie limitrofe si assiste all’insediamento dei clochard: soli, o a gruppi, o con un loro inseparabile cane, si sistemano per la notte. Sono probabilmente quelli che non accettano alcun tetto sulla testa, nemmeno quello di un ostello, per una notte. E mi viene in mente uno psicologo che studiava il comportamento di queste persone, che mi spiegò come per alcuni di loro il ricordo della vita in una casa sia così intollerabile, che non accettano più mura intorno a sé. I clochard di Vittorio Emanuele arrivano con sacchi a pelo e cartoni, si piazzano davanti alle vetrine scintillanti. In queste notti rigide ti domandi come facciano ad arrivare al mattino. So che ci sono volontari che passano con bevande calde, e coperte. Milano è ancora una città umana con questa gente. Ce ne sono altre dove si mettono sbarre di ferro sulle panchine, perché i barboni non si possano sdraiare, o si progetta di cacciarli. Perché ha ragione la signora Del Fabbro: c’è sempre dentro di noi un desiderio di ‘non’ vedere queste persone. Di non dover vedere quanto la malattia, l’alcol, la solitudine possano, e fino a che punto, devastare un uomo. Bisogna essere davvero molto distratti per non essere anche fuggevolmente feriti e interrogati da questa miseria, quando la incroci. C’è però chi questa domanda la rimuove, infastidito. Non vorrebbe vedere. Che li chiudano in ostelli, i clochard, che li nascondano, ma che non si mostrino a noi, cittadini ‘normali’. È un non voler vedere che riecheggia quello di chi vorrebbe togliere le prostitute dalle strade per spostarle in ‘case chiuse’, riempiendole di prostitute ragazzine ‘importate’ dall’Africa per il nostro ‘mercato’. C’è chi non vorrebbe vedere niente di quello che è sporco, penoso, miserabile. Ma se i nostri occhi potessero arrivare alle periferie delle grandi città del Terzo mondo, quanti di questi poveri incontreremmo, realtà ineludibile e tragica di quelle latitudini. Tanti miserabili, che sarebbe impossibile nasconderli. Forse da noi, dove sono relativamente ancora pochi, stonano con le nostre belle vie, i negozi costosi, i vestiti eleganti? Quell’ansia di renderli non visibili per ‘decoro’ mi fa pensare a una censura perbenista, e a un volere ignorare fino a che punto può arrivare il lato oscuro degli uomini. Forse perché temiamo troppo quell’angolo di oscurità, che è nel fondo di ciascuno di noi.

Marina Corradi da Avvenire

“chi guarda i clochard come parte del panorama è sulla cattiva strada” dice papa Francesco

papa Francesco

“non si guardano i clochard come parte del paesaggio!”

domenico agasso jr
Città del Vaticano
la provocazione a Santa Marta: sono «come una statua, la fermata del bus?». Cosa «sentiamo quando vediamo bimbi chiedere l’elemosina…? “Sono dell’etnia che ruba?”»

«cosa sentiamo nel cuore quando vediamo i bambini da soli che chiedono l’elemosina… “No, ma questi sono di quella etnia che rubano…”, vado avanti, faccio così?»

lo chiede papa Francesco nella omelia della Messa del 16 marzo 2017, a Casa Santa Marta, di cui Radio Vaticana fornisce stralci. Il Pontefice avverte:

“chi guarda i clochard come parte del panorama è sulla cattiva strada”

«I senzatetto – afferma il Pontefice – i poveri, quelli abbandonati, anche quelli senzatetto benvestiti, perché non hanno soldi per pagare l’affitto perché non hanno lavoro… cosa sento io? Questo è parte del panorama, del paesaggio di una città, come una statua, la fermata del bus, l’ufficio della posta, e anche i senzatetto sono parte della città? È normale, questo? State attenti. Stiamo attenti. Quando queste cose nel nostro cuore risuonano come normali – “ma sì, la vita è così… io mangio, bevo, ma per togliermi un po´ di senso di colpa dò un offerta e vado avanti” – la strada non va bene».

 

Francesco, richiamando il Salmo odierno, sottolinea: «Maledetto l’uomo che confida in se stesso, che confida nel suo. Niente è più infido del cuore, e difficilmente guarisce. Quando tu sai quella strada di malattia, difficilmente guarirai». Di qui il Papa rivolge una domanda: «Cosa sentiamo nel cuore quando andiamo per strada e vediamo i senzatetto, vediamo i bambini da soli che chiedono l’elemosina … “No, ma questi sono di quella etnia che rubano…”, vado avanti, faccio così?».

 

Il vescovo di Roma poi ammonisce: quando una persona «vive nel suo ambiente chiuso, respira quell’aria propria dei suoi beni, della sua soddisfazione, della vanità, di sentirsi sicuro e si fida soltanto di se stesso, perde l’orientamento, perde la bussola e non sa dove sono i limiti». Lo dice commentando il brano del Vangelo in cui il ricco «passava la vita a fare feste e non si curava del povero che stava alla porta della sua casa».

 

Rimarca il Papa: «Lui sapeva chi era quel povero: lo sapeva. Perché poi, quando parla con il padre Abramo, dice: “Ma inviami Lazzaro”: ah, sapeva anche come si chiamava! Ma non gli importava. Era un uomo peccatore? Sì. Ma dal peccato si può andare indietro: si chiede perdono e il Signore perdona. Questo, il cuore lo ha portato su una strada di morte a tal punto che non si può tornare indietro. C’è un punto, c’è un momento, c’è un limite dal quale difficilmente si torna indietro: è quando il peccato si trasforma in corruzione. E questo non era un peccatore, era un corrotto. Perché sapeva delle tante miserie, ma lui era felice lì e non gli importava niente».

 

Francesco evidenzia la necessità di accorgersi quando si è sulla strada «scivolosa dal peccato alla corruzione»: «Cosa sento, io – si chiede – quando al telegiornale» si vede che «è caduta una bomba là, su un ospedale, e sono morti tanti bambini», la «povera gente»? Si recita una preghiera e poi si continua a vivere come se niente fosse? «Entra nel mio cuore questo» o «sono come questo ricco che il dramma di questo Lazzaro, del quale avevano più pietà i cani, non entrò mai nel cuore?». Se fosse così ci si troverebbe in un «cammino dal peccato alla corruzione», puntualizza.

 

Perciò, bisogna chiedere a Dio: «“Scruta, o Signore, il mio cuore. Vedi se la mia strada è sbagliata, se io sono su quella strada scivolosa dal peccato alla corruzione, dalla quale non si può tornare indietro” – abitualmente: il peccatore, se si pente, torna indietro; il corrotto – osserva – difficilmente, perché è chiuso in se stesso». Dunque «”Scruta, Signore, il mio cuore”: che sia oggi la preghiera. “E fammi capire in quale strada sono, su quale strada sto andando”».

nell’ultima settimana incontra tre volte i clochard e chiede loro perdono

papa Francesco benedice i clochard

“vi chiedo scusa se qualche volta vi ho offeso”

nell’ultima settimana è la terza volta che incontra i senza fissa dimora

Volti segnati, felpe e giubbotti, Papa Francesco percorre il corridoio a braccia spalancate e i clochard che riempiono a migliaia l’Aula Nervi si sporgono per stringergli la mani, lo tirano a sé, uno riesce a baciarlo sulle guance, Christian racconta la sua storia e piange appoggiato alla spalla del pontefice (Corriere della Sera, 11 novembre).
Nell’ultimo fine settimana, prima della conclusione solenne dell’Anno Santo, il Papa ha voluto dedicare tre giorni ai senza fissa dimora. Francesco si rivolge loro con parole paterne: «Vi ringrazio per essere venuti qui a trovarmi, e vi chiedo perdono se qualche volta vi ho offesi con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire»,
Poi aggiunge: «Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono nel Vangelo trovandovi al centro la povertà, per tutte le volte che i cristiani di fronte alle persone povere si sono girati dall’altra parte. Perdono. Il vostro perdono è acqua benedetta per noi, limpidezza»

“Chiedo perdono ai poveri per i cristiani che li hanno ignorati”

di Iacopo Scaramuzzi
in “La Stampa-Vatican Insider” dell’11 novembre 2016papa8

Udienza a chi vive per strada per il «Giubileo dei senza fissa dimora»: la povertà è al cuore del Vangelo, insegnate all’umanità la capacità di sognare, la dignità, la solidarietà e la pace. Il Papa ha chiesto ai «poveri a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo, che ha al centro la povertà, perdono per tutte quelle volte in cui i cristiani, davanti a una persona povera o una situazione di povertà, ci siamo girati dall’altra parte», nel corso dell’udienza alle persone che vivono o hanno vissuto per strada in occasione del «Giubileo dei senza fissa dimora», ultimo appuntamento prima della conclusione, domenica 20 novembre, dell’Anno santo della misericordia. Francesco ha chiesto ai 6mila poveri presenti in aula «Nervi» di insegnare all’umanità la capacità di sognare, la dignità, la solidarietà e la pace, ed ha concluso l’udienza pregando circondato da un gruppo di senza fissa dimora che gli tenevano la mano sulle spalle. Francesco ha parlato a braccio dopo la testimonianza di due poveri, Christian, francese, e Robert, polacco. «Una cosa che diceva Robert – ha detto il Papa – è: noi non siamo diversi dai grandi del mondo, abbiamo passioni e sogni, anche mille passioni, vogliamo risalire la china. La passione a volte ci fa soffrire, ci crea barriere, esterne e interne, a volta la passione è patologica, ma c’è anche la buona passione, una passione positiva che ci porta a sognare. Per me un uomo, una donna molto povero può avere una povertà diversa dalla vostra, quando perde la capacità di sognare, quando perde la capacità di portare avanti una propria passione. Non smettete di sognare. Il sogno di un povero, di una persona senza tetto, come sarà? Io non lo so, ma voi sognate. Sognate che un giorno magari potrete venire a Roma, e in questo caso il sogno si è realizzato, sognate che il mondo possa essere cambiato, è una semina che nasce dal vostro cuore. Ricordavate una mia parola che uso spesso: che la povertà è nel cuore del Vangelo. Solo colui che sente che gli manca qualcosa guarda in alto e sogna. Colui che ha tutto non può sognare. La gente, le persone semplici, quelli che seguivano Gesù lo seguivano perché sognavano, sognavano che li avrebbe curati, liberati, e lui li liberava. Uomini e donne con passioni e sogni, questa è la prima cosa che volevo dirvi: insegnate a tutti, noi che abbiamo un tetto sulla testa, non ci mancano cibo e medicine, insegnateci a non rimanere soddisfatti con i vostri sogni, e insegnateci a sognare a partire dal Vangelo, a partire dal cuore del Vangelo». «La seconda parola che ci è stata detta… o meglio non è stata detta ma era presente nell’atteggiamento di coloro che hanno parlato», ha proseguito il Papa, che ha pronunciato il suo discorso in spagnolo, «è quando Robert ha detto nella sua lingua, la vie devient si belle, la vita diventa bella, e come riusciamo a vederla bella anche nelle peggiori situazioni che voi vivete. Questo significa dignità, questa è la parola che mi è venuta. La capacità di incontrare, di trovare la bellezza anche nelle cose più tristi, e più toccate dalla sofferenza, questo può farlo solo una persona che ha dignità. Povero sì, ma non che si trascina, questa è la dignità!», ha detto Francesco tra gli applausi. «La stessa dignità che ha avuto Gesù, che è nato povero ed ha vissuto da povero, è la dignità del Vangelo, la dignità che hanno un uomo e una donna che vivono del loro lavoro, poveri sì, ma non dominati, non sfruttati. Io so che molte volte avrete incontrato persone che hanno voluto sfruttarvi, sfruttare la vostra povertà, ma so anche che questo sentimento di vedere che la vita è bella. Questa dignità vi ha salvati dall’essere schiavi. Poveri sì schiavi no. La povertà è al cuore del Vangelo per essere vissuta, la schiavitù non è lì per essere vissuta nel Vangelo, ma per essere liberata». «So che per ognuno di voi, come diceva Robert, a volte spesso è difficile, la vostra vita è stata molto più difficile che la mia, e Robert ha detto che per altri è stata ancora più difficile che per lui:  troveremo sempre qualcuno più povero di noi. Dignità è anche questo: saper essere solidali, saper dare la mano a chi sta soffrendo più di me. La capacità di essere solidale, è uno dei frutti che ci dà la povertà, quando c’è molta ricchezza uno si dimentica di essere solidale, è abituato al fatto che non gli manca niente, quando la povertà ti porta a far soffrire diventi solidale e tendi la mano a chi vive una situazione più difficile della tua. Grazie per questo esempio: insegnate la solidarietà al mondo». Il Papa, riprendendo sempre le parole delle due testimonianza iniziali, ha poi toccato il tema della pace. «La più grande povertà è la guerra», ha detto il Papa, «la povertà che distrugge: ascoltare questo dalle labbra di un uomo che ha sofferto la povertà materiale, la povertà della salute, è un appello a lavorare per la pace. La pace per noi cristiani è cominciata in una stalla, in una mangiatoia, da una famiglia emarginata, la pace che Dio vuole per ognuno dei suoi figli. E voi a partire dalla vostra povertà, dalla vostra situazione, potete essere artefici di pace. La guerra se la fanno tra i ricchi, per possedere di più, poi territorio potere denaro, è molto triste quando la guerra viene fuori tra i poveri, perché è una cosa rara. I poveri a motivo della loro povertà sono più inclini a essere operatori di pace, artefici di pace, credono nella pace. Date un esempio di pace. Abbiamo bisogno di pace nel mondo. Abbiamo bisogno di pace nella Chiesa. Tutte le Chiese hanno bisogno di pace, tutte le religioni hanno bisogno di crescere nella pace perché tute le religioni devono crescere nella pace. Ognuno di voi, nella vostra religione, può aiutare, la pace che nasce nel cuore, cercando l’armonia che dà la dignità. Io vi ringrazio di essere venuti qui a visitarmi, ringrazio quelli che hanno dato la loro testimonianza». «Vi chiedo perdono – ha concluso il Papa – se a volte vi ho offesi con le mie parole o per non aver detto le cose che avrei dovuto dire. Vi chiedo perdono a nome dei cristiani che non leggono il Vangelo, che ha al centro la povertà, perdono per tutte quelle volte in cui i cristiani, davanti a una persona povera o una situazione di povertà, ci siamo girati dall’altra parte. Il vostro perdono è acqua benedetta per noi, è limpidezza per tornare a capire che al cuore del vangelo c’è la povertà e che noi cristiani dobbiamo costruire una Chiesa povera per i poveri, e ogni uomo e donna di ogni religione deve vedere in ogni povero un messaggio di Dio che si fa povero per accompagnarci nella vita». Il Papa ha concluso l’udienza con una preghiera: «Dio padre di ognuno di noi, ti chiedo che tu ci dia forza, gioia, che ci insegni a sognare, per guardare avanti, ci insegni a essere solidali perché siamo fratelli e ci aiuti a difendere la dignità: tu sei il padre di ognuno di noi, benedicici padre». Il Giubileo dei senza fissa dimora è promosso dall’associazione «Fratello». Oggi i 6mila partecipanti provenienti da diversi paesi europei (Francia, Germania, Portogallo, Inghilterra, Spagna, Polonia, Italia) sono stati ricevuti in udienza dal Papa, nell’aula Paolo VI, domenica assisteranno alla Messa presieduta dallo stesso Francesco a San Pietro. Tra questi due momenti importanti, avrà luogo una grande Veglia di preghiera presieduta dal cardinale Philippe Barbarin, arcivescovo di Lione, che ha introdotto l’incontro. Etienne Villemain, fondatore dell’associazione «Lazar» che ha promosso il viaggio a Roma, ha proposto, introducendo l’udienza, che, oltre alla Giornata mondiale della Gioventù, si organizzi una «Giornata mondiale dei poveri».

a proposito della ‘spedizione punitiva’ vigliacca a Genova contro i clochard

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immagini che danno i brividi per ferocia e cattiveria, che non vorremmo mai vedere perché di una violenza tanto inaudita quanto inutile quelle che sono state estratte dai video delle telecamere di sorveglianza di un negozio di Piccapietra che la notte del 25 gennaio hanno immortalato la terribile aggressione a quattro clochard che dormivano lungo una strada del centro di Genova. La sequenza di scatti proposta dal Corriere Mercantile mostra il commando di quattro uomini che si avvicina alla tenda e al rifugio di cartoni in cui dormivano le due coppie di senza tetto rumene. Poi il pestaggio con manganelli e tubi di ferro. Pochi secondi ma che bastano per provocare fratture, traumi, ferite e terrore. Nel mirino degli inquirenti ci sarebbero quattro giovani italiani probabilmente appartenenti al mondo ultrà, che avevano avuto un diverbio con i clochard qualche settimana prima

così opportunamente riflette ne ‘la Repubblica’ odierna Gad Lerner:

Quella ferocia contro i clochard

di Gad Lerner

La ferocia abbattutasi su due coppie di senzatetto che dormivano all’aperto in un gelido sabato notte, nel pieno centro di Genova, si presenta ora nuda e cruda sotto i nostri occhi, grazie ai fotogrammi sconvolgenti di una telecamera di sorveglianza. Guardiamoli. Impossibile girare la testa. Vediamo quattro giovani resi anonimi dalle felpe o da passamontagna. Hanno i guanti per non lasciare impronte. Impugnano chi un tubo Innocenti, chi un manganello, chi mazze d’altro genere . Si appostano, fermi in attesa che il capo dia un segnale. Quindi, all’unisono, si avventano sui corpi addormentati. Bastonano con furia mirando alle teste sopra un giaciglio di cartone e una tendina da campeggio estivo. Li vediamo usare tutte e due le mani per colpire con maggior forza. Trentuno secondi in tutto, poi fuggono. Anche i clochard meritano di essere riconosciuti per nome. Si chiamano Alice Velochova e Jan Bobak (ora è fuori pericolo, dopo una difficile operazione alla testa); e poi Susana Jonasova e Jonas Koloman (lui pure ferito grave). Hanno cittadinanza europea, slovacca. Sono vivi per miracolo. E allibiti. I frequentatori del salotto buono di Genova, fra piazza De Ferrari e i portici di Piccapietra, fino al Teatro Carlo Felice e alla Galleria Mazzini, hanno una certa familiarità con questi clochard talvolta alticci e importuni, senza mai essere pericolosi. Cercano una grata che sputi aria calda dal parcheggio sottostante, s’imbottiscono di giornali, bevono vino dal cartone e tirano su una coperta. Getti uno sguardo, provi disagio e passi oltre.   tentazione è di liquidarli come umanità di scarto, destinata prima o poi allo smaltimento. Gli stessi volontari e assistenti sociali che cercano di farsene carico offrendo loro un ricovero, spesso trovano ostacolo nel loro disagio psichico che li spinge ad aggrapparsi a un’illusoria autonomia: il loro illusorio simulacro di libertà. Talora occorrono anni di consuetudine per vincere la loro diffidenza e convincerli a lasciarsi curare. È anche il nostro alibi: cosa possiamo farci se rifiutano un  tetto? Solo che il “fenomeno”, se così vogliamo chiamarlo, lungi dal circoscriversi tende all’espansione. In mezzo alla strada arrivano pure gli sfrattati italiani e magari vanno fuori di testa persone che fino a ieri erano i nostri vicini di casa. Gli scarti umani si moltiplicano e insieme a loro non cresce la pietà ma piuttosto quella oscura tentazione dello smaltimento. Già, perché gli scarti  mani tendono a raggrupparsi in centro, dove trovano isole pedonali, compagnia, illuminazione, qualche grado entigrado in più e il lusso da rimirare. Secondo la Comunità di Sant’Egidio, a Genova i clochard sarebbero duecento. A Milano gli studenti della Bocconi hanno fatto un censimento (“raccontaMi”) e ne hanno contati 2616. Nasconderli è diventato impossibile, e ora tocca fare i conti con chi vorrebbe semplicemente spazzarli via. Speriamo che la polizia sappia dirci presto chi sono i quattro giustizieri della notte, con età compresa fra i 20 e i 30 anni, che volevano ripulire a modo loro le strade della movida. Si vocifera di ultrà da stadio, ma chissà. In cerca di spiegazioni si ipotizza una vendetta seguita a un conflitto territoriale nei giorni precedenti. Ha poco senso anche parlare di razzismo: questi si sono avventati su corpi dormienti come gli toccasse debellare non persone, ma una nuvola di insetti nocivi. Già prima di guardare le fotografie in cui si descrive l’odio che culmina nel crimine, si era mossa una trentina di cittadini genovesi,  andosi appuntamento per una notte di condivisione all’addiaccio in Galleria Mazzini. Si sono appuntati sul sacco a pelo un foglietto con scritto: “Io è te”. D’accordo, “Io è te”. Ma invece chi sono loro? Chi sono i quattro incappucciati propagatori di questa atroce pulizia cittadina? Da tempo avvertiamo che la serpeggiante propaganda del disprezzo per gli untermensch (sottouomini) — così i nazisti etichettavano i popoli inferiori non degni di vivere — rischia di sfuggire al controllo di chi aspira solo a lucrarci vantaggi politici. Il passaggio dalle parole ai fatti, la militarizzazione del rancore, l’importazione dalla Grecia dell’ideologia criminale organizzata di Alba Dorata, forse sono già un fatto compiuto anche tra noi. I pogrom, i linciaggi del Ku Klux Klan, non sono eventi lontani. Le obbrobriose fotografie del massacro di Piccapietra ci resteranno impresse come una testimonianza indelebile  .

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