il ‘dio impotente’ di p. Alberto Maggi

p. Maggi

IL DIO IMPOTENTE

da una conferenza di p. Alberto Maggi:
Le opere di Gesù sono in una comunicazione vitale all’uomo che spetta poi all’uomo trasmettere. Dio non …si sostituisce all’uomo.  Vedete che non c’è bisogno di andare nelle azioni prodigiose, straordinarie di una divinità, ma nel comune quotidiano. Tutte le opere di Gesù, sono una Comunicazione incessante di vita perché quanti lo accolgono trasmettano vita agli altri.  In questa progressiva conoscenza del volto di Dio che Gesù ci fa, c’è una dichiarazione importante che troviamo in tutti i vangeli e che vedremo in due episodi importantissimi: quello della lavanda dei piedi di Gesù, che non è un gesto di umiltà, non è quello che fanno i nostri vescovi il giovedì santo quando fanno finta di lavare i piedi a gente che è una settimana che se li lava e poi dopo non hanno più nessun contatto con quelli. Gesù distrugge quella piramide costruita dalla società dove Dio sta in alto, tra quelli che comandano. No, Dio non sta in alto, Dio sta in basso con quelli che servono.   In questa progressiva conoscenza del volto di Dio, Gesù ha una dichiarazione importantissima che è ripresa in tutti i vangeli ed è fondamentale, ed è la prima ed unica volta nella storia di tutte le religioni che si manifesta una idea del genere.   Ricordate ieri sera quando ci rifacevamo alle domande del nostro catechismo: chi è Dio? Per quale fine ci ha creato? Ci ha creato per servirlo. Gesù non è d’accordo. Dio non crea l’umanità per essere servito, come se lui avesse bisogno di qualcosa. Ma è lui che crea per mettersi lui al servizio dell’umanità.   Questa è un’idea inaccettabile. E’ inaccettabile che Dio si metta a servizio dell’uomo, perché se la gente crede che Dio è al servizio degli uomini, tutti quelli che si sono messi tra Dio e gli uomini, pretendendo che gli uomini fossero a servizio di questo Dio e quindi a loro servizio, questi hanno i minuti contati.   La paura che prende le autorità giudaiche è quando Gesù apre gli occhi alla gente. Quando Gesù apre gli occhi al cieco nato, succede il panico, perché se la gente apre gli occhi, la prima cosa che si chiede è: “e a voi lì, chi vi ci ha messo, con queste maschere, con questi indumenti, con questi distintivi? Ci comandate, ci dite cosa dobbiamo fare, regolate la nostra vita. Ma chi vi ha messo lì in questo posto?” Il terrore delle autorità religiose è che la gente apra gli occhi. Se la gente apre gli occhi, per loro è finita. Tutta l’istituzione religiosa vigeva su questa idea che l’uomo doveva servire Dio. Come? Principalmente nel culto.  • Allora ci vuole un luogo, ed ecco il tempio; • ci vogliono degli ordinamenti per questo servizio, ecco la liturgia; • ci vogliono degli individui preposti a questo servizio, ecco i sacerdoti; • ci vogliono delle regole, ecco la legge. Tutto perché l’uomo deve servire Dio. L’uomo deve togliersi il pane per offrirlo a Dio, deve sacrificarsi per Dio e tutto questo rappresenta l’istituzione religiosa.   Gesù demolisce tutto questo. Gesù afferma che il Dio che lui ha sperimentato e che ci propone di accogliere, non è un Dio che vuol essere servito dagli uomini, ma è un Dio che si mette a servizio degli uomini.   La differenza fra Gesù e un profeta e un genio religioso, è che profeti e geni hanno dilatato al massimo grado la loro esperienza  religiosa, mistica e spirituale. Sono andati avanti anni dall’esperienza dei loro simili, ma sono rimasti sempre nell’ambito della religione.   Ciò che ha prodotto Gesù, è che ha distrutto l’idea stessa di religione. Ha estirpato le radici della religione e ne ha mostrato il marcio. La religione, non solo non permetteva la comunione con Dio, ma era ciò che lo impediva, per questa idea di sottomissione dell’uomo a Dio, di servizio dell’uomo a Dio, di un Dio esigente, mai contento, insaziabile.   Gesù nei vangeli dice: “Il figlio dell’uomo” – è la sua espressione nella quale dimostra la sua condizione divina – “non è venuto per farsi servire, ma per servire”. Il Dio che noi conosciamo è un Dio al servizio degli uomini. Ma non è vero allora che dobbiamo offrirgli delle cose? Ma cosa gli volete offrire a Dio, cosa volete offrire a Dio quando è lui che offre tutto?  C’è tra l’altro un gruppo, poverini – sono in buona fede, ma a me non cessa mai di stupire – si chiama: i volontari della sofferenza, offrono a Dio la sofferenza. Dio, una contentezza quando gli arrivano tutte queste sofferenze!! Dicono: ‘Io le sofferenze le offro al Signore’. Una goduria, il padreterno ci si ingrassa con queste sofferenze.  Cosa volete offrire a Dio? E’ Dio che si offre e chiede di essere accolto. Il Dio di Gesù non è più un Dio da cercare. Se uno cerca Dio, cerca una sua immagine di Dio e si smarrisce nei labirinti di tutte queste religioni, di questi misticismi. Con Gesù, Dio non è più da cercare, ma è da accogliere e con lui e come lui andare verso agli altri.  Questo è il senso della fede. Gesù dice: “Non sono venuto per essere servito, ma per servire”. Il nostro dramma è che non ci crediamo. Noi, che Dio sia al nostro servizio, non ci crediamo. Se soltanto arrivassimo a comprendere e a credere questo, la nostra vita cambia completamente.
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le donne fanno domande ‘impertinenti’ al papa

 

Tre domande sulle donne a Bergoglio

 

papa-francesco

sette donne giovani e meno giovani, credenti e laiche scrivono al Papa sull’ultimo numero della rivista Leggendaria, in “pagina99” del 12 febbraio 2014

a nome loro Giovanna così scrive, con simpatia ma anche con franchezza:

 Caro Francesco,

non si preoccupi, se mai vedrà queste righe, né si preoccupino le lettrici: non si tratta di una vera missiva. È difficile rivolgere delle domande in astratto. Dunque la lettera è la forma retorica che meglio si attaglia alle mie impertinenze. Si, perché sarò impertinente. Dunque, per farmi perdonare, premetto una captatio benevolentiae. Sincera, però. Lei mi è molto simpatico. Dirò di più, la sua vicinanza (la sua casa dista dalla mia una sola fermata di trenino urbano) mi ispira un senso di protezione e di quiete. Mi capita talvolta di percepirlo. Sarà la mia senescenza, sarà la totale assenza di autorevolezza maschile in questo nostro povero Paese, fatto sta che lei mi piace molto. Lei penserà che sono una credente o una convertita. In realtà non sono niente. E il niente è un luogo dove molti spiriti religiosi sostengono che non è troppo scomodo stare. Penso, come il Cardinal Martini, che «il mondo, più che tra credenti e non credenti, si divida fra pensanti e non pensanti» e credo anche, come i miei amici del monastero di Bose, che tutti a tratti siamo credenti e a tratti non lo siamo. I miei tratti da credente sono molto brevi, ma mi portano   intuire qualcosa, forse, di elementare: che gli atei portano in sé un’ingenua invidia per i  redenti, l’invidia per l’illusione dell’immortalità, e che questa invidia li rende aggressivi o  sufficienti.

1. Perché non capisce che il concetto di parità e quello di differenza non sono in conflitto l’uno con l’altro? Non mi è piaciuta per nulla la sua risposta a un giornalista della Stampa: «Nominare una donna Cardinale sarebbe una forma di clericalizzazione; non dobbiamo clericalizzare le donne». Guardi, questa è un trappola infernale. L’unica sua attenuante è che persino il femminismo le offre un alibi: troppo spesso ha usato il pensiero della differenza per sottrarsi alle durissime sfide dell’uguaglianza. Nomini le donne cardinali, le metta a capo delle congregazioni, si decida all’ordinazione sacerdotale in tempi storici, visto che nulla osta in termini di dogma e di dottrina. Poi, se le consacrate o le principesse della chiesa sapranno esprimere una differenza, saranno in grado di rendere la Chiesa più democratica e inclusiva, più comunità dei credenti e meno Curia, tanto meglio così. Io, a dirle la verità, sarei pronta a scommetterci, se praticherete la  giustizia e l’uguaglianza come conviene a una comunità che aspira alla virtù. Del resto, il  trucco della diversa vocazione femminile lo conoscono anche i laici e benissimo: hanno dovuto rinunciarci obtorto collo perché nel contratto sociale la tradizione non è un valore. Ma deve sbrigarsi.

2. Il suo linguaggio è molto bello. Misericordia, custodia, dialogo, discernimento, frontiera. Non so quale di queste parole mi piace di più e mi incanta il suo modo di dipanarle come una gomitolo nell’intervista con Antonio Spadaro. Lei di sicuro non è un pretino ingenuo: ha anche studiato di psicoanalisi sui testi di Michel De Certeau, allievo di Lacan. Ma allora come le viene in mente di dire, sempre nell’intervista a Spadaro: «Credo in Maria […] quel volto meraviglioso […] che voglio conoscere e amare»? Mi ha fatto venire le bolle. Ma insomma, proprio lei che dice magnificamente che «la verità è relazione» non ha nessuna relazione con il suo inconscio? Non le viene il dubbio che in un mondo e in una vita fatta tutta di uomini e fra uomini quella «vergine bella più che creatura» sia una sua proiezione irrisolta del femminile, una parte di Anima, direbbe uno junghiano, che lei non ha integrato? Meister Eckhart, un grande mistico diceva: «Prego Dio che mi liberi da Dio». Penso intendesse dalle incrostazioni antropologiche dell’immagine del divino. Lo si potrebbe pregare anche per essere liberati dalla Madonna? O è blasfemo?

3. Ancora non mi rassegno al fatto che, nel congedarsi da Eugenio Scalfari, lei abbia detto «rivediamoci per parlare del ruolo delle donne nella Chiesa». Ma cosa vuole che ne capisca Scalfari delle donne e delle donne nella Chiesa? Un anziano patriarca burbanzoso. Ascolti Francesco, parli con noi. Non ha che l’imbarazzo della scelta. Dal Vaticano II in poi la scienza teologica e la competenza delle donne si è moltiplicata e ormai esiste una tradizione di parole femminili sul divino. Per non dire delle cosiddette non credenti, schiere di creature colte e intelligenti. Si faccia vivo, non ci sottrarremo. Se vuole possiamo portare un’anfora come la Samaritana e darle da bere se ha sete.

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il Francesco d’Assisi di Dario Fo

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Francesco santo e giullare

Chiara Affronte in “l’Unità” del 16 febbraio 2014 descrive così la ripresentazione  de Lu Santu giullare Francesco di Dario Fo 15 anni dopo il debutto, in cui l’autore intende rappresentare ” la «vera» storia del frate di Assisi, ripulita dalla censura che tentò di edulcorare l’immagine di un ribelle, santo, ma rivoluzionario”:

Dario Fo è tornato in teatro, sei mesi dopo la scomparsa di Franca Rame, sua compagna di vita e di scena. «Un po’ di timore», confessa lui, alla fine del primo tempo. Forse una lacrima e un «grazieeee» roboante, liberatorio che ricorda tanto quel «ciaoooo» infinito con cui sei mesi fa Fo salutò l’attrice. Bologna la palestra della ripresentazione de Lu Santu giullare Francesco, 15 anni dopo il debutto, e questa volta lo spettacolo dovrebbe diventare una trasmissione televisiva: la «vera» storia del frate di Assisi, ripulita dalla censura che tentò di edulcorare l’immagine di un ribelle, santo, ma rivoluzionario. E basta guardare uno dei tanti dipinti – tantissimi e tutti da lui realizzati – che Fo mostra al pubblico per immortalare in immagini la scena che sta raccontando. «La gioia di Francesco e dei suoi fratelli per l’accettazione della regola», è un esempio di ciò che lo spettacolo restituisce: un tripudio di colori per esprimere una gioia dirompente, che non ha niente a che vedere con la riverenza modesta e contenuta, perché è un vero e proprio ballo, che pare  dirittura sfrenato. Questo, infatti, è uno dei momenti più forti dello spettacolo, insieme a quello in cui il santo decide di abbandonare i beni materiali, e si aggira «ignudo» per le strade di Assisi. Così come quello dell’incontro con il lupo è forse uno dei racconti più divertenti, insieme all’episodio delle Nozze di Cana. Francesco vuole raccontare il Vangelo ovunque, nelle piazze, nei mercati. «Nelle chiese mai?», chiede il cardinale Colonna. «Lì ci sono già i preti, non vogliamo creare confusione», la replica del santo. Ma è papa Innocenzo a dover dare il suo benestare. E lui prima cerca di umiliarlo mandandolo a predicare ai porci: Francesco lo fa, torna, sporco e felice, perché «per farsi ascoltare dagli umani bisogna prima parlare con gli animali». Ma poi lo accoglie, forse a suo modo colpito alla forza della carità di quell’uomo che si taglia i capelli in un modo così strano. Non c’è  sberleffo satirico diretto verso la società contemporanea, nessun politico di oggi viene nominato. Solo il papa, Bergoglio, che non a caso per Fo ha scelto questo nome. Ma tutto lo spettacolo è un’immensa allegoria, dove tornano i temi più attuali: dalla bramosia di potere alla corruzione, dalla violenza alla pena di morte, dalla forza dei puri all’ottusità dei conservatori. Fo spiega di avere utilizzato per questo spettacolo testi riscoperti in lontani monasteri due secoli fa, e rimasti per tantissimo tempo nascosti. Ma anche leggende popolari e testi canonici del ‘300. L’obiettivo è quello di raccontare la forza dirompente di Francesco che dialoga con il lupo e gli chiede – ululando nella sua lingua – di diventare un po’ meno lupo e un po’ più cane così che i pastori smettano di odiarlo: «Famme homo, anche moderato!», esclama l’animale non più feroce, scodinzolando.  Se ci si trova un po’ spaesati all’inizio, per la scelta di Fo di parlare nel volgare del tempo, con quella forte inflessione umbra – la sensazione passa in fretta: la lingua diventa familiare dopo le prima battute e la gestualità del premio Nobel conduce verso al stessa direzione: lui può anche solo spalancare gli occhi, ma ha già detto mille cose. Come Francesco, del resto, che utilizzava il linguaggio giullaresco del corpo e degli occhi per comunicare alla gente. Così infatti fece quella volta, il 15 agosto del 1522, quando venne chiamato a Bologna per tenere un’ orazione sul tema «caldo» del momento: la guerra con i nemici imolesi. Il frate poteva scegliere se parlare ai pochi in latino o ai tanti in volgare. E scelse la seconda strada: un volgare ben diverso da quello compreso a Bologna. Ma il codice giullaresco fece il resto e l’operazione riuscì. Sarà anche per questo motivo, forse, che Fo ha deciso di ricominciare proprio dalle due torri.

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