per p. Maggi i testi di Dario Fo sono profondamente spirituali e di valore teologico

Dario Fo, il ricordo del biblista A. Maggi

“altro che blasfemi. I testi suoi e di Franca Rame erano spirituali”

di Alberto Maggi


Ho una certezza: in futuro, il tanto bistrattato “Mistero Buffo”, sarà testo di spiritualità nelle Facoltà Teologiche. Questa rivisitazione dei vangeli apocrifi e tradizioni popolari su Gesù, più il talento geniale di Dario Fo, ne fanno un testo così intriso di profonda spiritualità e di grande ricchezza umana che fa del premio Nobel, e della moglie Franca Rame, non solo quei grandi attori che tutti conoscono, e le cui opere sono rappresentate in tutto il mondo, ma dei maestri di vita, d’arte e di teologia.

 

“Da giovane volevo farmi suora… La mia è una vocazione materna, samaritana, stronza…”. Così mi disse Franca Rame, aggiungendo, “sto sempre dalla parte delle cause perse, ma è più forte di me”. Fu un privilegio conoscere la Rame, e lei nella sua generosità accettò di presentare il mio libro “Nostra Signora degli Eretici” con il monologo di Maria presso la croce, creando un’atmosfera carica di emozione. Alla fine della sua rappresentazione c’era in sala un incredibile silenzio e tanti occhi lucidi.

Poi la Rame mi volle anche sul palcoscenico, durante un suo spettacolo teatrale a Firenze, per un collegamento televisivo. Avevo scritto infatti un articolo nel quale la difendevo dagli attacchi degli ultrà cattolici, affermando che i suoi testi anziché essere blasfemi erano intrisi di spiritualità. Infatti Franca Rame aveva una profonda spiritualità, che manifestava, insieme a Dario Fo, nella sua incredibile generosità a favore degli ultimi. Quando le chiesi, dopo averla rivista nel suo monologo di Maria presso la croce, come mai avesse cambiato il rantolo del Cristo agonizzante, lei rispose: “È stato assistendo i malati terminali di AIDS, all’ospedale Sacco (di Milano)”. Era il tempo in cui i malati di AIDS mettevano paura, si temeva il contagio del tremendo virus, venivano isolati ed evitati, nella Chiesa qualcuno arrivò a definirli castigati da Dio per i loro peccati, e quando le domandai: “E che fai, in che modo li assisti?”, lei rispose “Niente, tengo la loro mano, tutta la notte”.

E grazie a lei conobbi poi suo marito, l’incredibile Dario Fo. Stava scrivendo “Johan Padan a la descoverta de le americhe”, e mi chiese di portargli tutti i libri della teologia della liberazione che fossero stati pubblicati. Glieli portai nella loro casa estiva a Sala di Cesenatico, e rimasi sorpreso dall’enorme tavolo di lavoro tutto ricoperto di libri sulla fauna e la flora del sud America… Dario si stava documentando in maniera scrupolosa e attenta per fare, magari, poi solo una battuta nella sua opera.

Compresi che non era solo talento, ma anche disciplina, non solo un genio, ma anche rigore. Dario Fo fu gentilissimo e generosissimo. E credo fosse profondamente sincero quando, prendendo in mano il mio libro Nostra Signora degli Eretici, quello che Franca aveva presentato, mi disse: “È il più bel libro che abbia mai letto!”.

Dario Fo e Franca Rame (lei diceva: lui è il monumento, ma io sono il piedistallo!), erano straordinariamente generosi. Non aspettavano che venisse loro richiesto un aiuto, lo precedevano, e con tanto altruismo hanno aiutato, sostenuto, incoraggiato, tutto di tasca propria.

Molti anni fa, nel presentare Dario Fo a un convegno presso la Pro Civitate Cristiana di Assisi, affermai che “il Dio di Fo è talmente umano da essere quasi divino”. Con il suo genio teatrale Fo riusciva a disincrostare secoli di sovrastrutture che avevano finito per oscurare l’umanità del Cristo, l’Uomo-Dio. Certo, Dario Fo lo faceva attraverso la tecnica del graffio, ma anche il graffio, se fatto ad arte, serve per ripulire!

Da Dario Fo ho imparato l’arte di presentare il Vangelo senza necessariamente far addormentare le persone, con le pause, la mimica, la gestualità, le sorprese, per rendere vivo e attuale un testo antico.

Come ringraziamento per il contributo librario alla sua opera teatrale, Dario si mise a disegnare, dicendo “Ora sono ispirato: questo sei tu che liberi la parola…”, e ora conservo questo suo prezioso disegno, dove Fo mi rappresenta come un frate che libera una colomba, quale compito da proseguire, con rinnovato entusiasmo, l’annuncio della buona notizia.

alberto maggi dario fo

 

L’AUTORE – Alberto Maggi, frate dell’Ordine dei Servi di Maria, ha studiato nelle Pontificie Facoltà Teologiche Marianum e Gregoriana di Roma e all’École Biblique et Archéologique française di Gerusalemme. Fondatore del Centro Studi Biblici «G. Vannucci» (www.studibiblici.it) a Montefano (Macerata), cura la divulgazione delle sacre scritture interpretandole sempre al servizio della giustizia, mai del potere. Ha pubblicato, tra gli altri: Roba da preti; Nostra Signora degli eretici; Come leggere il Vangelo (e non perdere la fede); Parabole come pietre; La follia di Dio e Versetti pericolosi. E’ in libreria con Garzanti Chi non muore si rivede – Il mio viaggio di fede e allegria tra il dolore e la vita.

il Francesco d’Assisi di Dario Fo

s. Francesco1

 

Francesco santo e giullare

Chiara Affronte in “l’Unità” del 16 febbraio 2014 descrive così la ripresentazione  de Lu Santu giullare Francesco di Dario Fo 15 anni dopo il debutto, in cui l’autore intende rappresentare ” la «vera» storia del frate di Assisi, ripulita dalla censura che tentò di edulcorare l’immagine di un ribelle, santo, ma rivoluzionario”:

Dario Fo è tornato in teatro, sei mesi dopo la scomparsa di Franca Rame, sua compagna di vita e di scena. «Un po’ di timore», confessa lui, alla fine del primo tempo. Forse una lacrima e un «grazieeee» roboante, liberatorio che ricorda tanto quel «ciaoooo» infinito con cui sei mesi fa Fo salutò l’attrice. Bologna la palestra della ripresentazione de Lu Santu giullare Francesco, 15 anni dopo il debutto, e questa volta lo spettacolo dovrebbe diventare una trasmissione televisiva: la «vera» storia del frate di Assisi, ripulita dalla censura che tentò di edulcorare l’immagine di un ribelle, santo, ma rivoluzionario. E basta guardare uno dei tanti dipinti – tantissimi e tutti da lui realizzati – che Fo mostra al pubblico per immortalare in immagini la scena che sta raccontando. «La gioia di Francesco e dei suoi fratelli per l’accettazione della regola», è un esempio di ciò che lo spettacolo restituisce: un tripudio di colori per esprimere una gioia dirompente, che non ha niente a che vedere con la riverenza modesta e contenuta, perché è un vero e proprio ballo, che pare  dirittura sfrenato. Questo, infatti, è uno dei momenti più forti dello spettacolo, insieme a quello in cui il santo decide di abbandonare i beni materiali, e si aggira «ignudo» per le strade di Assisi. Così come quello dell’incontro con il lupo è forse uno dei racconti più divertenti, insieme all’episodio delle Nozze di Cana. Francesco vuole raccontare il Vangelo ovunque, nelle piazze, nei mercati. «Nelle chiese mai?», chiede il cardinale Colonna. «Lì ci sono già i preti, non vogliamo creare confusione», la replica del santo. Ma è papa Innocenzo a dover dare il suo benestare. E lui prima cerca di umiliarlo mandandolo a predicare ai porci: Francesco lo fa, torna, sporco e felice, perché «per farsi ascoltare dagli umani bisogna prima parlare con gli animali». Ma poi lo accoglie, forse a suo modo colpito alla forza della carità di quell’uomo che si taglia i capelli in un modo così strano. Non c’è  sberleffo satirico diretto verso la società contemporanea, nessun politico di oggi viene nominato. Solo il papa, Bergoglio, che non a caso per Fo ha scelto questo nome. Ma tutto lo spettacolo è un’immensa allegoria, dove tornano i temi più attuali: dalla bramosia di potere alla corruzione, dalla violenza alla pena di morte, dalla forza dei puri all’ottusità dei conservatori. Fo spiega di avere utilizzato per questo spettacolo testi riscoperti in lontani monasteri due secoli fa, e rimasti per tantissimo tempo nascosti. Ma anche leggende popolari e testi canonici del ‘300. L’obiettivo è quello di raccontare la forza dirompente di Francesco che dialoga con il lupo e gli chiede – ululando nella sua lingua – di diventare un po’ meno lupo e un po’ più cane così che i pastori smettano di odiarlo: «Famme homo, anche moderato!», esclama l’animale non più feroce, scodinzolando.  Se ci si trova un po’ spaesati all’inizio, per la scelta di Fo di parlare nel volgare del tempo, con quella forte inflessione umbra – la sensazione passa in fretta: la lingua diventa familiare dopo le prima battute e la gestualità del premio Nobel conduce verso al stessa direzione: lui può anche solo spalancare gli occhi, ma ha già detto mille cose. Come Francesco, del resto, che utilizzava il linguaggio giullaresco del corpo e degli occhi per comunicare alla gente. Così infatti fece quella volta, il 15 agosto del 1522, quando venne chiamato a Bologna per tenere un’ orazione sul tema «caldo» del momento: la guerra con i nemici imolesi. Il frate poteva scegliere se parlare ai pochi in latino o ai tanti in volgare. E scelse la seconda strada: un volgare ben diverso da quello compreso a Bologna. Ma il codice giullaresco fece il resto e l’operazione riuscì. Sarà anche per questo motivo, forse, che Fo ha deciso di ricominciare proprio dalle due torri.

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