basta, basta guerre armate da noi!

 

il male che anche noi nutriamo

basta armare la guerra!

di Luigino Bruni

le guerre sono sempre state combattute da molti poveri, giovani e innocenti inviati a morire da pochi ricchi, potenti, colpevoli, che non morivano in quelle guerre da loro stessi volute e alimentate dai loro interessi

Questa verità, antica e profonda, oggi è meno evidente ma non meno vera. Siamo realmente dentro una guerra mondiale, diversa dalle guerre del Novecento ma non meno drammatica. Una guerra che non si sa bene quando e dove sia iniziata, quando, dove e come finirà. È una guerra liquida in una società liquida. Sono (quasi) invisibili gli interessi in gioco, non sappiamo bene chi la vuole, chi ci guadagna, chi non vuole che finisca. Questa incapacità di capire, presente in tutte le guerre complesse, è particolarmente forte in questa guerra, che non deve però esimerci dallo sforzo di pensare, e poi combattere soprattutto le tesi false e ideologiche che ci stanno inondando all’indomani della strage di Parigi.

Una tesi molto popolare è quella che individua nella religione, e in particolare nella natura intrinsecamente violenta dell’islam, la principale, se non unica, ragione di questa guerra. Una tesi, questa, tanto diffusa quanto sbagliata. Il Corano ha una sua ambivalenza riguardo alla violenza, lo sappiamo. Ci sono passaggi dove invita alla «guerra santa». Ma c’è anche una versione del fratricidio tra Caino e Abele che più della Bibbia ebraico-cristiana, parla forte di non violenza. Nel racconto coranico i due fratelli parlano nei campi. Abele intuisce che Caino sta levando la sua mano contro di lui per ucciderlo, e gli dice: «Anche se userai la tua mano per uccidermi, io non userò la mia mano per ucciderti» (“Il sacro Corano”, al-Ma’idah: Sura 5,28).

Abele presentato come il primo non-violento della storia, che muore per non diventare esso stesso assassino. Nel Corano c’è anche questo.
È un fatto, però, che oggi l’islam vive una stagione difficile. Sette fondamentaliste usano pezzi del Corano per plagiare giovani, vittime e carnefici di un sogno-incubo folle nel quale sono caduti. Prede finite nella trappola del cacciatore di “martiri” da usare per scopi dove il Corano è semplicemente il laccio della trappola. Per combattere questa malattia che oggi si è insidiata nel cuore dell’islam e che lo sta minando dal di dentro, è necessario rafforzare le difese immunitarie per sostenere l’organismo, che nel suo insieme è sano ma sta soffrendo. È lo stesso corpo che deve espellere con maggiore decisione il virus che è entrato, resistere contro quelle cellule impazzite che lo stanno indebolendo, infliggendogli molto dolore. Ma tutti gli amanti della vita devono aiutare l’islam a farcela. Nell’epoca della globalizzazione, non può farcela da solo.

Al tempo stesso, non dobbiamo essere così ingenui da dimenticare che in questa guerra gli aspetti economici in gioco sono enormi. Non a caso i terroristi belgi di Parigi venivano dalla cittadina più povera del Belgio, con una disoccupazione giovanile attorno al 50%. La prima guerra del Golfo del 1991 non fu certo originata dalla prevenzione del fondamentalismo.

In questi mesi si parla molto delle armi che alimentano questa guerra. Occorre parlarne ancora di più, perché è un elemento decisivo. Proprio pochi giorni fa da Cagliari sono partiti missili verso la Siria, prodotti e venduti da imprese italiane. L’Italia, assieme alla Francia, è tra i maggiori esportatori di armi da guerra nelle regioni arabe, nonostante ci sia nel nostro Paese una legge del 1990 che vieterebbe la vendita di armi a Paesi in guerra. I politici che piangono, magari sinceramente, e dichiarano lotta senza quartiere al terrorismo, sono gli stessi che non fanno nulla per ridurre l’export di armi, e che difendono queste industrie nazionali che muovono grosse quote di Pil e centinaia di migliaia di posti di lavoro.

Una moratoria internazionale seria che imponesse un divieto assoluto di vendita di armi ai Paesi in guerra, non segnerebbe certo la fine del califfato e del terrorismo, ma sarebbe una mossa decisiva nella direzione giusta. Non si può nutrire il male che si vuol combattere. Noi lo stiamo facendo, e da molti anni. Non ce ne accorgiamo finché qualche scheggia di quelle guerre non arriva dentro le nostre case e uccide i nostri figli. In realtà sappiamo che finché l’economia e il profitto saranno le parole ultime delle scelte politiche, poteri così forti che nessuna politica riesce a frenare, continueremo a piangere per lutti che contribuiamo a provocare.

Il presidente francese Hollande ha sbagliato a parlare di «vendetta» all’indomani della strage, e poi a perpetrarla bombardando domenica la roccaforte del califfato in Siria, rispondendo col sangue ad altro sangue. Questa è soltanto la legge di Lamek, precedente la stessa “legge del taglione”. La vendetta non deve mai essere la reazione dei popoli civili, neanche dopo una delle notti più buie della storia recente dell’Europa. La sconfitta più grande sarebbe far tornare parole come «vendetta» nel lessico delle nostre democrazie, che le hanno eliminate dopo millenni di civiltà, di sangue, dolore.

Infine dobbiamo sostenere, seriamente e decisamente, chi sta osando la pace e il dialogo in questi tempi così difficili. In primis papa Francesco, che non può restare solo né l’unica voce a chiedere la pace e la non-violenza. Se gridassimo in milioni che l’unica risposta alla morte è la vita, e lo dicessimo insieme ai tanti musulmani feriti e straziati come noi, se facessimo sentire nelle strade, nei social, davanti ai Parlamenti, il nostro “no” alla produzione e vendita delle nostre armi a chi le usa per uccidere e ucciderci, allora forse le parole profetiche di Francesco troverebbero un’eco più grande. Potrebbero avere la forza di muovere persino i bassi interessi economici, che sempre più controllano e dominano il mondo, le religioni, la vita.

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J. Sobrino e la violenza dell’Isis

l’orrore di Parigi e le vittime di tutto il mondo

 intervista a Jon Sobrino

Sobrino

è iniziato con una nota di profondo dolore, nel ricordo delle vittime degli attacchi di Parigi, il seminario su “Una Chiesa povera al servizio dei poveri”, svoltosi il 14 novembre, alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, in occasione del 50° anniversario del Patto delle Catacombe, il documento firmato pochi giorni prima della fine del Concilio da circa quaranta vescovi impegnati a dar vita a una Chiesa dei poveri. E ci ha pensato il teologo della liberazione e gesuita salvadoregno Jon Sobrino, aprendo il suo intervento su “Il significato del Patto delle Catacombe per la Chiesa di oggi”, a ricordare, insieme alle vittime del massacro di Parigi, quelle di tutte le stragi, di oggi e di ieri, a cominciare dagli innocenti e indifesi contadini dei massacri del Sumpul e del Mozote, avvenuti in El Salvador durante gli anni del conflitto armato interno

al termine del suo intervento, il teologo, il quale ha incontrato papa Francesco il giorno precedente al seminario, durante la messa mattutina a Santa Marta, ha accettato di rispondere alle domande di alcuni giornalisti (di Adista, Radio Vaticana e Vida Nueva)

 l’intervista:

All’indomani dei fatti di Parigi, con gli occhi ancora pieni di quell’orrore, non si può non avvertire la sensazione che, un po’ su tutti i versanti, dal terrorismo fino al cambiamento climatico, tutti i nodi stiano venendo al pettine. È arrivato per l’ Occidente il momento di pagare i suoi errori?

Ellacuría denunciava le colpe di quella che chiamava “civiltà della ricchezza”, ritenendola responsabile della grave malattia di cui soffre il mondo. E non vi sono dubbi che essa sia presente soprattutto in Europa, prima e dopo la nascita dell’Unione Europea, e negli Stati Uniti. Credo che, nel loro insieme, questi Paesi non abbiano assunto la propria responsabilità, che va oltre quello che dicono i loro politici e i loro capi di governo. E penso che questa vicinanza con l’Africa, il fatto che l’Africa stia arrivando qui, sia un bene per l’Europa. Perché può aiutarla a comprendere cosa significa essere umani. L’auspicio è che l’orrore di Parigi ci faccia pensare a noi non solo come vittime. Siamo tutti noi, molto spesso, a creare un mondo ingiusto. Ma, una volta che l’orrore è stato commesso, cosa intendiamo fare? Protestare? Prendere il fucile e uccidere tutti gli islamici? Oppure, a piccoli passi, possiamo cercare un’altra strada, noi cristiani che vogliamo essere come Gesù e gli islamici che perseguono il bene? E, perlomeno, non dobbiamo perdere il senso del dolore altrui, dobbiamo fare in modo che le cose ci facciano male, oltre a spingerci alla protesta e all’indignazione, perché l’indignazione non è necessariamente dolore. Che ci sia indignazione, che ci sia dolore, e che ci sia volontà di camminare nella storia facendo giustizia e amando con tenerezza.

Qual è il cammino che la Chiesa è chiamata oggi a percorrere?

Bisogna individuare quelle che sono le pietre miliari del nostro cammino. Io ho scelto quelle rappresentate da Giovanni XXIII, dal Patto delle Catacombe, da Medellín e da Puebla, dove si è affermato che i poveri, per il mero fatto di essere tali, Dio li difende e li ama. L’opzione per i poveri non vuol dire solo amare i poveri, ma anche difenderli da chi fa loro del male, difenderli da chi li impoverisce. E difendere chi sta in basso significa sempre storicamente correre rischi. Chi li difende deve essere aperto, preparato e disposto ad affrontare pericoli. Padre Arrupe, nel 1975, parlò in tal senso di una lotta cruciale, quella per la fede e per la giustizia. Non so se le nostre chiese, università, facoltà di teologia la pensano realmente così, se credono davvero alla necessità che ci si cali in questa lotta cruciale. E si è detto anche, nella scia dell’entusiasmo di padre Arrupe, che ciò non può avvenire senza pagare un prezzo. Io mi sento orgoglioso di alcune cose fatte da noi gesuiti, a cominciare dall’onestà nei confronti della realtà. Bisogna pagare un prezzo, e la Compagnia di Gesù lo sa molto bene: da quando si sono pronunciate queste parole, nel 1975, sono stati assassinati più o meno 60 gesuiti, tutti fondamentalmente colpevoli di aver difeso in qualche modo la giustizia. Il cammino, insomma, è già tracciato: dire la verità, ripeterla, insistere a dirla, pubblicarla. Dire una verità che, oltre a essere tale, sia a favore del povero. Comunicare il fatto che stiamo difendendo il povero, con la consapevolezza che, se lo facciamo, correremo rischi. Quando ci troviamo di fronte all’orrore, quando è in atto una persecuzione, occorre, certo, denunciarla, ma anche dire quello che affermava mons. Romero: «Mi rallegro fratelli che la Chiesa sia perseguitata… Sarebbe molto triste se nella nostra Chiesa non ci fossero sacerdoti assassinati». Perché, quando c’è persecuzione, vuol dire che qualcosa di buono sta avvenendo nella Chiesa. Ciò aiuta a umanizzare un pochino il pianeta. In gran parte l’aria che respiriamo è contaminata e questo cammino aiuta a purificarla, a camminare più umanamente insieme all’altro.

Cosa ha significato la beatificazione di mons. Romero?

Dinanzi a un gruppo di circa 500 salvadoregni, accompagnati dall’arcivescovo di San Salvador, il papa ha dichiarato che il martirio di mons. Romero non si è limitato al momento della sua morte, in quanto l’arcivescovo è stato perseguitato prima e anche successivamente al suo assassinio, «diffamato, calunniato e infangato» anche «dai suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato». I quali hanno continuato a ucciderlo anche dopo, con l’arma più potente e mortale, che è la parola. In questo quadro, qual è il significato della canonizzazione? Non si tratta di una riabilitazione: riabilitare significa restituire a qualcuno ciò che gli è stato tolto. Ma a mons. Romero non interessa una tale riabilitazione e io non credo che la beatificazione sia stato questo: è stato molto più di questo. A mio giudizio, per il papa, è stato un modo di animare la gente del mondo, e naturalmente di El Salvador, alla misericordia. Mons. Romero è stato assolutamente misericordioso. Che il papa affermi che mons. Romero è una persona buona è un fatto che dà molto animo, e in El Salvador credo che sia avvenuto questo. Poi, riguardo al modo in cui si è svolta la beatificazione, dal punto di vista del culto, della messa, delle parole pronunciate, degli inviati, della curia, non è stato nulla di speciale. Ma la gente ha comunque festeggiato e applaudito, senza interrogarsi se le parole del culto fossero giuste o meno. Penso che il papa si fosse proposto questo con la beatificazione di mons. Romero, ma, più in profondità, credo che l’intenzione sia quella di dare riconoscimento a un continente di martiri. Così, ora si parla di una canonizzazione di Angelelli in Argentina, di quella di Rutilio Grande in El Salvador… È, insomma, l’idea che non è possibile lasciar morire i martiri di silenzio. L’America Latina è un continente che è passato per un grande orrore: dittature, oligarchie, squadroni della morte, eserciti criminali. In questa situazione, molte persone di Chiesa, vari sacerdoti e alcuni vescovi sono andati incontro al martirio. Credo che il papa, riconoscendo questa realtà, voglia spingere perché si torni a un modello di Chiesa più simile a Gesù.

Come è andato il suo incontro con papa Francesco?

Quando il gesuita Martin Maier mi ha chiesto se volevo andare a una messa del papa, ho detto subito di sì. Per temperamento, non sono molto adatto a queste cose, ma questo papa è un buon papa e avere occasione di incontrarlo è un motivo di gioia. Al termine della messa, io e Martin siamo rimasti in fondo alla fila. Quando poi ci siamo avvicinati, gli ho detto: «Vengo da El Salvador, sono gesuita, compagno dei gesuiti della Uca che sono stati assassinati». E

mi ha detto: «Sobrino!». E siamo rimasti a parlare per un po’, semplicemente. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha detto: «scriva, scriva».

testo Sobrino  : il testo della conferenza di Sobrino al seminario sul patto delle catacombe

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lo sguardo di Dio sull’islam visto da occhi cristiani … impopolarmente, soprattutto oggi!

l’Islam nel disegno di Dio: sguardi cristiani

in occasione dell’appuntamento annuale dedicato al dialogo cristiano-islamico e all’indomani del 50mo anniversario della dichiarazione conciliare “Nostra aetate” sulle religioni non cristiane, “L’Osservatore Romano” pubblica la lectio magistralis del padre Maurice Borrmans per la laurea honoris causa in Missiologia conferita dalla Pontificia università Urbaniana in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico. Nato nel 1925, francese, membro della Società dei missionari d’Africa, studioso di diritto islamico e spiritualità musulmana, padre Borrmans è stato a lungo docente presso l’Urbaniana e il Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai) nonché consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso:

Boormans

 ‘lectio magistralis’ di Maurice Boormans

Di fronte all’emergenza della religione musulmana all’inizio del secolo 7° e alla sua affermazione politica nel corso della storia, i credenti cristiani si sono sentiti sfidati nella loro fede e invitati a dare una valutazione teologica nei riguardi di questa nuova religione. Padre Jean-Marie Gaudeul, professore al Pontificio Istituto di studi arabi e d’islamistica (Pisai) di Roma, ha riassunto la lunga storia di questi sguardi incrociati tra discepoli di Gesù e fedeli del Corano in due volumi dal titolo provocatorio, Disputes? ou Rencontres?, nel 1998, precisando come L’Islam et le christianisme au fil des siècles hanno visto sia i cristiani sia i musulmani valutare diversamente il loro confronto spirituale. Prima di lui, padre Youakim Moubarac, maronita libanese, aveva consacrato a Parigi le sue Recherches sur la pensée chrétienne et l’Islam studiandone, in un primo tempo, il contenuto Des origines à la prise de Constantinople e poi l’espressione dettagliata Dans les temps modernes et à l’époque contemporaine, seguendola secolo per secolo fino ai testi innovatori del concilio Vaticano ii. È proprio partendo dalle sue conclusioni che conviene tentare la presente riflessione teologica, dato che vi si parla successivamente di «lacune», di «acquisizioni» e di «nuova problematica».

Dopo aver riconosciuto alcune «lacune» del suo testo, Moubarac passa alle «acquisizioni» e ne precisa «le più significative»: «Appare oramai certo che sia la politica della Santa Sede sia la dotttrina della Chiesa cattolica sembrano chiare sui rapporti islamo-cristiani». Un certoconsensus riunisce tutti i cristiani attorno a «due gruppi di dati». Il primo sta nell’«ampia concordanza della coscienza cristiana sull’islam in quanto “religione della natura”, che merita rispetto, a parte alcune debolezze sulla morale della famiglia o della società». Per quanto riguarda il secondo dato, «sembra che il giudizio cristiano sia più positivo sulla mistica musulmana. In breve, si può dire che il giudizio cristiano ha concesso alla mistica musulmana quello che ha rifiutato all’islam. Fatto significativo, dato che l’islam sedicente tradizionale ha rifiutato la propria mistica. Di qui il problema fondamentale: nel dare un suo giudizio sull’islam, il cristianesimo si vede costretto a fare una scelta: quale islam prendere in considerazione? Diciamolo allora: se il giudizio cristiano non si è ancora pronunciato nei riguardi dell’islam, è anche perché l’islam è sempre in tensione con se stesso, non ha ancora definito la sua vera natura».

Per quanto riguarda la «nuova problematica», Moubarac intende fare suo l’approccio spirituale di padre Jean de Menasce, domenicano, e del cardinale Charles Journet. Per il primo, appare chiaro che «l’islam deve essere collocato tra le eresie», per cui Moubarac può dire che «si ritorna così alla prima pagina del pensiero cristiano di fronte all’islam, quella proprio di san Giovanni Damasceno», come aveva già interpretato Charles Journet. Moubarac si riferisce «a un testo inedito del 1967» in cui il cardinale Journet esprimeva questo giudizio teologico: «Il messaggio di Maometto, tesoro supremo dell’islam, è la “rivelazione soprannaturale” del Dio unico e trascendente fatta ad Abramo, aperta (per Abramo) al mistero della Trinità e dell’Incarnazione redentrice, ma bloccata al momento dello sbaglio di Israele, e ricevuta da Maometto, in virtù di un errore involontario, come antitrinitaria e anticristiana; donde la terribile e duratura ambiguità di questo messaggio».

Per il cardinale, Dio non potrebbe mai essere ritenuto responsabile di questo «tragico malinteso», tanto più che quasi subito egli aggiunge questa «preziosa osservazione»: «Basterà da parte di Dio mandare un raggio della sua luce per aprire, dare vita, far sbocciare la nozione del Dio unico e trascendente, mutilata nell’islam (e in Israele) nella nozione di un Dio d’amore che i sûfi (e i hassidim) hanno presentito, riscoperto e anche proclamato».

Su questa linea Moubarac precisa la sua «nuova problematica», appoggiandosi su una frase conclusiva del cardinale: «Una sola certezza ci rimane nella nostra ignoranza: Dio sa quello che permette». Padre Moubarac ha esplicitato tutto questo, nel 1976, in un suo articolo La pensée chrétienne et l’islam. Principales acquisitions et problématique nouvelle della rivista Concilium alla quale affidava i suoi «interrogativi», sulle «esigenze e le difficoltà del dialogo». Distinguendo opportunatamente tra «approccio teologico e sensibilità religiosa», egli faceva osservare «la preminenza del contemplativo, che integra l’esistenziale e redime o compensa tanto il politico quanto il teologico». Ma confessava, sulle orme di Roger Arnaldez, che il dialogo islamo-cristiano si rivela difficile, eppure ineluttabile, e riconosceva che le idee di Louis Massignon e la loro apertura dovevano essere precisate. Nelle intuizioni profetiche di quest’ultimo, infatti, alcuni vorrebbero vedere un primo giudizio di stampo teologico.

Louis Massignon ha rinnovato lo sguardo dei cristiani sull’islam. Si potrebbe sintetizzare il suo ricco e articolato pensiero nello sguardo d’insieme che egli scrive in una lettera del 1958: «Nella storia dell’umanità, abbiamo tre periodi religiosi: lo stato di natura, ferita dal peccato di Adamo, corrispondente all’epoca patriarcale; lo stato legale, che comincia al Decalogo del Sinai; lo stato evangelico, che comincia con Cristo e alla Pentecoste. È assurdo discutere con un ebreo credente, come se fosse arrivato allo stato evangelico: è ancora sottomesso alla Legge del timore; similmente, è assurdo discutere con un musulmano come se fosse arrivato sia allo stato legale sia allo stato evangelico». Egli conclude così: «L’islam è ancora allo stato patriarcale, al tempo di Abramo». Secondo Massignon, dunque, l’islam sembrerebbe essere «una religione naturale ravvivata da una rivelazione profetica», in quanto prende in prestito dalla tradizione giudeo-cristiana la parte principale del suo vocabolario e alcuni elementi semplificati del suo insegnamento.

Alcuni hanno pensato possibile concludere da questo «abramismo» di Louis Massignon che l’islam sarebbe una via parallela di salvezza per i musulmani, data la sua origine dalla benedizione di Abramo a favore di Ismaele, che l’abiliterebbe a partecipare a un disegno divino positivo a tale scopo. Padre Georges Anawati, in una conferenza del 1985, distingue tre correnti cattoliche d’interpretazione teologica dell’islam: «Una “corrente minimalista”, soprattutto preconciliare, la quale vede nell’islam soltanto gli aspetti che contraddicono i dogmi cristiani. Questa corrente è diventata piuttosto anacronistica. Una “corrente massimalista”, la quale riconosce, in un modo o nell’altro, il profetismo di Muhammad e il carattere rivelato del Corano. Le basi di tale interpretazione sono fragili, tanto dal punto di vista storico quanto da quello esegetico e teologico. La maggioranza degli “islamizzanti” cattolici preferiscono seguire una “via media”. Pur dimostrando molta simpatia verso i musulmani e una grande apertura al dialogo, questa via tiene conto delle divergenze radicali che separano le due religioni».

Così scrivendo, padre Anawati faceva sua la medesima domanda di padre Moubarac: «Quale islam il cristianesimo viene chiamato a riconoscere?». L’islam coranico e la sua pratica ortodossa, o l’islam della saggezza filosofica e dell’etica umanizzante, o l’islam del sufismo e della devozione delle confraternite? L’approccio teologico di questi tre tipi di islam deve essere differenziato, a meno che ci si accontenti di quanto essi hanno in comune per quanto riguarda il credo, i riti e la morale. Sembra che questo sia stato l’approccio globale della dichiarazione conciliare Nostra aetate.

Per chiarirne il contenuto è necessario fare riferimento ai documenti promulgati negli anni successivi dal Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, dalla Commissione teologica internazionale e dalla Congregazione per la dottrina della fede. Se l’insieme di questi documenti sembra rappresentare il patrimonio comune di coloro che sono oggi impegnati nel dialogo islamo-cristiano, qualunque sia la loro corrente di appartenenza, è anche vero che la posizione minimalista, massimalista o mediana, dipende in gran parte dalle premesse della scelta che i loro membri fanno tra le varie ipotesi scientifiche sulle origini dell’islam nelle sue dimensioni religiose, culturali e politiche.

Alcuni, che possiamo annoverare nella schiera dei “minimalisti”, contestano l’esistenza stessa della dichiarazione conciliare Nostra aetate o alcune delle sue affermazioni ritenute troppo avanzate e compromettenti, contestando la presunta vicinanza dei valori e mettendo in guardia i cristiani “sprovveduti” da affermazioni ambigue, dato che le medesime parole hanno significati diversi nel cristianesimo e nell’islam. Sulla stessa linea viene messa in dubbio l’affermazione di Lumen gentium 16, dove si dice che i musulmani adorano «con noi» l’unico Dio. Con differenze più o meno accentuate fanno dunque parte di questa corrente Alain Besançon, Edouard-Marie Gallez, François Jourdan, Dominique e Marie-Thérèse Urvoy e Annie Laurent.

Al contrario dei “minimalisti”, alcuni pensatori impegnati nel dialogo in corso, intendono concludere dai testi del magistero cattolico, interpretati univocamente e letteralmente, che tutte le religioni storiche appartengono allo stesso disegno di salvezza e che l’islam si rivela molto vicino al cristianesimo per tanti aspetti. Essi, che possiamo classificare come “massimalisti”, sono propensi a considerare le credenze e le esperienze dei cristiani e dei musulmani come simili, finendo per riconoscere la missione profetica di Muhammad e il carattere rivelato del Corano. Tra questi, sempre con le dovute sfumature di pensiero e di tendenza, potremmo annoverare padre Paolo Dall’Oglio, Charles Ledit, Denise Masson, padre Giulio Basetti-Sani e, in particolare per Lumen gentium 16, Gerhard Gäde.

Potrebbe essere in parte annoverato in questa tendenza anche il Gruppo di ricerche islamo-cristiano (Gric), benché esso partecipi a pieno titolo anche della “via media”. In uno dei libri pubblicati da questo gruppo, il padre Robert Caspar, che fu professore presso il Pisai, insiste sul criterio della «fecondità del messaggio proposto agli uomini: “Si valuta l’albero dai suoi frutti”, ciò che potremmo chiamare i suoi frutti di santità». Orbene, la fecondità del messaggio coranico si manifesta nel passare di molti popoli dal politeismo al monoteismo e nelle avventure metafisiche o sovrannaturali dei mistici e dei santi dell’islam. Per tutti questi motivi, si stima che il cristiano «può legittimamente riconoscere nel Corano una Scrittura che esprime una Parola di Dio», ma «rendendo conto di questo fenomeno a partire dalla propria fede».

Padre Caspar riassume le sue riflessioni specificando quali sono i tre approcci all’islam possibili per i discepoli di Gesù Cristo. C’è l’approccio “esistenziale”: «Esso consiste nel vivere concretamente la contraddizione, senza potere, per il momento, superarla, in una visione più allargata». C’è l’approccio “classico” che si attiene alla distinzione fatta dalla teologia scolastica tra «due tipi di rivelazioni o profezie: quella che fa “conoscere la verità divina” e quella che ha soltanto per fine di “dirigere gli atti umani”». C’è in terzo luogo un “allargamento della rivelazione come storia e come significato”, allargamento che può prendere due forme: quello del ricordare la nostra Rivelazione e quello del riconoscere un’altra espressione della Parola di Dio.

Nel primo caso, il cristiano potrebbe dire con padre Claude Geffré che «l’islam è per me un richiamo profetico alla confessione della fede iniziale d’Israele: “Adorerai un solo Dio”. La rivelazione coranica mi invita a rileggere la rivelazione biblica che trova il suo compimento in Gesù Cristo sottolineando l’assolutezza del Dio unico e preservandomi da ogni peccato di idolatria. Non dico che il Corano sia “la” Parola di Dio, ma accetto di dire che nel Corano ci sia “una” confessione di fede nel Dio che mi riguarda come cristiano e che mi invita quindi a considerare Muhammad come un autentico testimone del Dio in cui io credo. Nel secondo caso, si tratta di riconoscere nel Corano un’altra espressione della Parola di Dio». Ma come? Le spiegazioni proposte da padre Caspar non sono del tutto soddisfacenti perché anche se offrono prospettive utili, riaffermano comunque le divergenze fondamentali tra cristianesimo e islam sul mistero di Dio e sul suo atto creatore.

La “via media” sembra finora essere quella scelta da Giovanni xxiii, Paolo vi, Giovanni Paolo ii, Benedetto xvi e Francesco nel loro insegnamento solenne e nel loro ministero pastorale. Ed è anche quella di molte persone impegnate istituzionalmente nel dialogo islamo-cristiano. Basta rileggere le encicliche, i discorsi e i messaggi dei primi e le pubblicazioni, le riviste e le dichiarazioni dei secondi. È proprio secondo questa “via media” che furono fatte le prime ricerche del Segretariato per i non cristiani e quindi redatti i suoi primi Orientamenti per un dialogo tra cristiani e musulmani nel 1969 prima che questi ultimi fossero aggiornati nel 1981. Che si tratti dei responsabili o dei loro collaboratori, tutti riconoscono realisticamente le differenze profonde, quasi abissali, tra cristianesimo e islam, sia che si parli dello «scontro delle teologie», come spiega padre Emilio Platti, sia che si vada a esplorare quanto concludono le scienze delle religioni sul carattere irrimediabilmente diverso, nell’islam e nel cristianesimo, della teologia, dell’antropologia e della sociologia.

Si ritorna quindi ai primi due approcci proposti da padre Caspar stesso: l’esistenziale e il classico, in uno spirito di apertura comprensiva nei riguardi del Corano, considerato come viatico di valori spirituali per i musulmani. Non rappresenta forse per loro un ricco patrimonio religioso per rispondere alle domande esistenziali che ogni uomo si pone sul suo destino personale? L’islam nella sua triplice dimensione di legge, di sapienza e di mistica non ha finito di sfidare la riflessione cristiana, la quale non può accontentarsi di rispondervi con affermazioni dogmatiche o valutazioni storiche.

I “profeti” del dialogo e i loro attori attuali si interrogano ancora sulla validità dell’islam per i suoi seguaci. È stato il caso di Massignon e di Moubarac come quello di Caspar e di Anawati, e di tanti altri. Roger Arnaldez, consapevole del ricco apporto umanistico dell’islam classico e della sua anchilosi interpretativa alle soglie del mondo moderno, prendeva atto delle «divergenze profonde tra islam e cristianesimo», poiché il Dio dell’islam si presenta come «trascendenza di comandamenti» e il Dio dei cristiani come «trascendenza di amore». Padre Jean-Muhammed Abd-al-Jalil riconosceva che «l’islam (è) la religione che, su alcuni punti, sembra vicina al cristianesimo più dell’ebraismo ma in realtà è anche la più opposta ai misteri cristiani». Di Louis Gardet, filosofo cristiano delle culture, Arnaldez diceva che «i suoi giudizi sull’islam avevano un carattere dialettico: volontariamente favorevoli e senza restrizione alcuna quando si trattava di opporsi a opinioni false o parziali sulla religione di Muhammad, ma critici, nel senso filosofico della parola, ogni volta che si doveva mettere in evidenza la sua grande differenza dal cristianesimo».

Infine, padre Jacques Jomier concludeva i suoi lavori dicendo: «La differenza proviene dall’insegnamento dei rispettivi testi sacri. Mentre l’islam vuole essere il restauro della religione patriarcale, sempre valida e rifiuta ogni tipo di monoteismo diverso dal suo, il cristianesimo insegna che c’è stato un progresso nella rivelazione, movimento spirituale che raggiungerà il suo vertice con Cristo. Non sarebbe forse più giusto dire che Dio, nel Corano, è fondamentalmente il Dio della teologia naturale? Per misericordia, egli ha preso l’iniziativa di guidare l’uomo nella sua debolezza, e di mostrargli come controllare le sue passioni per compiere il bene ed evitare il male. Il Corano non accetta che Dio abbia chiamato l’uomo a un livello superiore a quello della teologia naturale».

Si potrebbe osservare che esiste, paradossalmente, una strana sintonia tra le opinioni della “via media” e quanto è stato detto dai 38 «rappresentanti dell’islam» dell’Accademia di Amman nella loro Lettera aperta a Benedetto xvi, il 16 ottobre 2006. Essi, infatti, specificano che «non si deve rimproverare a Muhammad di non aver apportato “niente di fondamentalmente nuovo” poiché la sua missione era soltanto di ripetere e ricordare il messaggio primordiale del patto adamico». Tale autopresentazione dell’islam come religione primordiale corrisponde abbastanza bene alla comprensione che i cristiani della “via media” si fanno della religione dei musulmani.

L’approccio cristiano all’islam che abbiamo tentato di presentare nella varietà degli accostamenti che vanno dai minimalisti ai massimalisti, esprime l’aspetto migliore di quanto hanno prodotto i pensatori e i teologi impegnati nel dialogo islamo-cristiano. Molti di loro si riconoscerebbero volentieri nella “via media” seguita da padre Anawati e da coloro che furono, dopo di lui, gli attori di questo dialogo.

Si distinguono in particolare coloro le cui testimonianze sono raggruppate in un libro dal titolo significativo Christian Lives Given to the Study of Islam, pubblicato nel 2012. Tutti, con Massignon e Moubarac, vedono nell’islam una “religione naturale”, che corrisponde alla virtù morale naturale di giustizia, la quale prende il nome di religione quando tratta dei rapporti di giustizia tra la creatura e il Creatore. Per di più, si tratta di un monoteismo che riprende, in modo diverso, il messaggio essenziale del Dio unico e trascendente della tradizione giudeo-cristiana. La meditazione del cardinale Journet permette di apprezzarne tutto il valore e nello stesso tempo i limiti, come ostacoli alla piena rivelazione di Dio in Gesù Cristo. Se questa «religione naturale» viene detta «ravvivata da una rivelazione profetica», come diceva Massignon, ciò non significa che l’islam sia parte integrante della «rivelazione biblica».

Ma cosa pensare allora di Muhammad e del Corano? Gli storici si pongono tuttora molti interrogativi sul Profeta dell’islam, la sua personalità, la sua sincerità e la sua autenticità, e alcuni teologi accetterebbero di attribuirgli un certo carisma, intellettuale o pratico. D’altra parte il Corano si esprime in un linguaggio biblico che sembra farne una parafrasi dei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, soprattutto nella loro parte sapienziale. Di conseguenza, un certo patrimonio di vita spirituale viene offerto per esser trasmesso, così “ravvivato”, a coloro che vi aderiscono in buona fede e con cuore sincero. Ed ecco qui aprirsi lo spazio offerto ai teologi per pronunciarsi in modo più o meno positivo sulle chances che l’islam offre ai musulmani di tutte le sensibilità, di rispondere alle sollecitazioni interiori dello Spirito Santo in vista della salvezza, che viene loro assicurata in e da Gesù Cristo.

Si tratta di un approccio che non potrebbe essere accusato o sospettato di sincretismo o di relativismo. Padre Moubarac stesso lo confessava in un’intervista del 26 novembre 1971: «Non credo che, nell’ottica di qualsiasi religione, si possa parlare di “due” rivelazioni; la rivelazione, se c’è rivelazione, non può che essere unica, come il disegno di Dio sul mondo è unico. Da cui la pretesa di tutte le grandi religioni all’universalità e quindi la missione cattolica della Chiesa per radunare l’umanità nell’obbedienza al Vangelo». È proprio in questa prospettiva che bisogna rileggere i testi del Vaticano ii (Lumen gentium, 16 e Nostra aetate, 3) e quelli del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, aggiungendovi il discorso di Giovanni Paolo ii a Casablanca, del 19 agosto 1985. Tra l’altro egli diceva: «Noi, cristiani e musulmani, dobbiamo riconoscere con gioia i valori religiosi che abbiamo in comune e renderne grazie a Dio. Cristiani e musulmani, generalmente, ci siamo malcompresi, e qualche volta, in passato, ci siamo opposti e anche persi in polemiche e in guerre. Io credo che Dio c’inviti oggi, a cambiare le nostre vecchie abitudini. Dobbiamo rispettarci e anche stimolarci gli uni gli altri nelle opere di bene sul cammino di Dio».

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un messaggio di grande libertà

“non avrete mai il mio odio”

la lettera del marito di una vittima di Parigi

           letterauna lettera toccante, d’amore ma non di odio. A scriverla è Antoine Leiris. Nelle strage del Bataclan ha perso sua moglie o, per dirlo con le sue parole, “l’amore della sua vita”. Nonostante questo, nonostante i terroristi abbiano privato il figlio di 17 mesi di una madre, l’uomo non ha alcuna intenzione di detestare i carnefici della sua amata. Le sue parole mostrano dignità, fierezza e voglia di libertà

qui sotto la traduzione della lettera fatta da Massimo Gramellini nella sua rubrica odierna ‘buongiorno’ :

Gramellini

se ciò che chiamiamo Occidente ha un senso, questo senso palpita nelle parole con cui il signor Antoine Leiris si è rivolto su Facebook ai terroristi che al Bataclan hanno ucciso sua moglie 

 

«Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi. Sarebbe cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete. Voi vorreste che io avessi paura, che guardassi i miei concittadini con diffidenza, che sacrificassi la mia libertà per la sicurezza. Ma la vostra è una battaglia persa.  

L’ho vista stamattina. Finalmente, dopo notti e giorni d’attesa. Era bella come quando è uscita venerdì sera, bella come quando mi innamorai perdutamente di lei più di 12 anni fa. Ovviamente sono devastato dal dolore, vi concedo questa piccola vittoria, ma sarà di corta durata. So che lei accompagnerà i nostri giorni e che ci ritroveremo in quel paradiso di anime libere nel quale voi non entrerete mai. Siamo rimasti in due, mio figlio e io, ma siamo più forti di tutti gli eserciti del mondo. Non ho altro tempo da dedicarvi, devo andare da Melvil che si risveglia dal suo pisolino. Ha appena 17 mesi e farà merenda come ogni giorno e poi giocheremo insieme, come ogni giorno, e per tutta la sua vita questo petit garçon vi farà l’affronto di essere libero e felice. Perché no, voi non avrete mai nemmeno il suo odio».

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