il commento al vangelo

LA VOSTRA LIBERAZIONE E’ VICINA

commento al vangelo della prima domenica d’avvento (29 novembre 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Lc  21, 25-28, 34-36

[In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli:] «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

Il vangelo di questa domenica, il 29 novembre, prima domenica di avvento, è una parola di grande incoraggiamento che Gesù dà alla sua comunità. Una comunità piccola, inerme e indifesa che può scoraggiarsi di fronte alle strutture di potere che dominano la società.
Ebbene le parole di Gesù sono un grande incoraggiamento.
Ogni potere hai piedi d’argilla e prima o poi è destinato a crollare. Ma leggiamo e vediamo il significato del vangelo di questa domenica.
E’ il capitolo 21 del vangelo di Luca dai versetti 25 a 36. Dice Gesù: “Vi saranno segni”. Gesù risponde alla domanda che i discepoli gli hanno fatto. Gesù aveva annunziato la distruzione del tempio di Gerusalemme. Perché? Un’istituzione religiosa che adopera il nome di Dio per sfruttare il popolo, per sfruttare i poveri, non ha diritto di esistere. 
Dio comunica vita, non la toglie alle persone. Il Dio di Gesù è un padre che non assorbe le energie degli uomini, ma comunica loro le sue. Ebbene un’istituzione religiosa che invece presenta un Dio che sfrutta gli uomini non ha diritto di esistere. Quindi Gesù ha annunziato la distruzione del tempio di Gerusalemme, immagine di questa istituzione.
Allora i discepoli gli hanno chiesto: “E quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?” Ecco la risposta di Gesù: “Vi saranno segni …” e qui Gesù adopera il linguaggio dei profeti, in particolare cita il profeta Gioele, segni con i quali si annuncia l’arrivo del Signore. Vediamoli. “Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle”. Il sole e la luna, nella cultura del tempo, nel mondo pagano, erano degli dei che venivano adorati dai popoli. E le stelle chi sono?
A quel tempo tutti coloro che detenevano un potere si consideravano risiedenti nei cieli; il faraone era un Dio, l’imperatore romano era un Dio o un figlio di Dio. Tutti quelli che detenevano un potere si consideravano come stelle.
Ebbene Gesù assicura che, grazie all’annunzio del vangelo, tutte queste strutture di potere una dopo l’altra verranno a crollare. “E sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti”. E’ il crollo degli imperi che dominavano, però davano sicurezza, ordine. Lo stesso Sant’Agostino quando sente scricchiolare l’impero romano, questa struttura portentosa, dice: “E’ arrivata la fine del mondo”. Non era pensabile concepire un mondo senza la struttura dell’impero romano.
Ebbene gli uomini hanno paura perché quello che sembrava eterno, quello che sembrava stabile, quello che sembrava vero non lo è più. E soprattutto nel campo religioso quello che sembrava sacro in realtà non lo era. E Gesù annunzia: “Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte”. Chi sono queste potenze dei cieli? Nei cieli secondo i vangeli c’è il Padre, c’è Gesù, il figlio dell’Uomo e ci sono gli angeli.
Chi sono quindi questi usurpatori che stanno nei cieli? Sono appunto questi potenti che si arrogano la condizione divina per dominare e sfruttare le persone. Nelle lettere di San Paolo queste potenze dei cieli vanno sotto il nome di “troni, dominazioni, principati, potestà”, tutte immagini legate al potere, al dominio.
Allora “le potenze dei cieli”, quindi questi potenti che detengono il potere, che dominano e sfruttano le persone, “saranno sconvolte”. L’annunzio della buona notizia di Gesù mostrerà il vero Dio e le false divinità perderanno il loro splendore e quei re, quei potenti che appoggiano il loro potere su queste divinità, vedranno la fine del loro dominio.
“Allora vedranno”. E’ interessante che Gesù non dica “vedrete”. Chi sono quelli che vedranno? Questi grandi potenti, nel momento in cui si sfalda e si sbriciola il loro potere, sono loro che nel momento della caduta, vedranno il Figlio dell’uomo. Figlio dell’uomo è un termine con il quale Gesù indica se stesso, l’uomo nella pienezza della condizione divina. “Venire su una nube”, immagine della condizione divina, “con grande potenza”.
Nel momento in cui le potenze saranno sconvolte, si afferma la potenza del Figlio dell’uomo. Con Gesù si inaugura il regno dell’umano e tutto quello che è disumano è destinato a scomparire. “E gloria”. La gloria del Figlio dell’uomo è l’amore incondizionato di Dio per la sua gente.
Ed ecco le parole di grande consolazione, di grande speranza e di grande incoraggiamento. “Quando cominceranno ad accadere queste cose”… queste immagini non devono mettere paura, ma anzi devono mettere allegria. Infatti Gesù aggiunge: “Risollevatevi e alzate il capo”, laddove il capo rappresenta la dignità della persona,” perché la vostra liberazione è vicina”.
Tutti i regimi di potere civili e religiosi che, anziché servire l’uomo lo dominano e lo sfruttano, sono destinati a scomparire. Poi qui ci sono dei versetti che stranamente i liturgisti hanno creduto di omettere, ma sono importanti.
E Gesù disse loro una parabola. “Osservate una pianta di fico e tutti gli alberi. Quando già germogliano capite voi stessi, guardandoli, che ormai l’estate è vicina”. Ed ecco il punto centrale: “Così anche voi, quando vedrete accadere queste cose…”, quindi la fine di Gerusalemme e l’inizio dello sfaldamento di tutti i regimi che dominano le persone, “sappiate che il Regno di Dio è vicino”.
La società alternativa proposta da Gesù, con l’avvento del Regno di Dio diventerà realtà. E anche i pagani saranno ammessi. E poi Gesù mette in guardia con un monito. “Attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. Ricorda la parabola che giù Gesù ha già annunziato al capitolo 4, del seme che viene soffocato dalle preoccupazioni economiche che portano l’individuo a centrarsi su se stesso.
Cosa vuole dire Gesù? Se i discepoli si sono integrati nella società ingiusta, quella che deve scomparire, incorreranno nella stessa sorte di questa società. Allora la frase finale di Gesù:  “Vegliate”, cioè vigilate, “in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo». Gesù invita a non essere conformi ad una società ingiusta perché questa è destinata a scomparire.

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intellettuali francesi contro la guerra

contro la guerra non si può restare in silenzio

 «Quando furono scatenate le guerre in Afghanistan e Iraq sapevano che quei conflitti avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Per questo non si può non reagire»

un appello di intellettuali francesi

Nessuna interpretazione monolitica, nessuna spiegazione meccanicistica può far luce sugli attentati. Ma possiamo forse rimanere in silenzio? Molte persone — e le comprendiamo — ritengono che davanti all’orrore di questi fatti, l’unico atto decente sia il raccoglimento. Eppure non possiamo tacere, quando altri parlano e agiscono in nostro nome: quando altri ci trascinano nella loro guerra. Dovremmo forse lasciarli fare, in nome dell’unità nazionale e dell’intimazione a pensare in sintonia con il governo?

Si dice che adesso siamo in guerra. E prima no? E in guerra perché? In nome dei diritti umani e della civiltà? La spirale in cui ci trascina lo Stato pompiere piromane è infernale. La Francia è continuamente in guerra. Esce da una guerra in Afghanistan, lorda di civili assassinati. I diritti delle donne continuano a essere negati, e i talebani guadagnano terreno ogni giorno di più. Esce da una guerra alla Libia che lascia il paese in rovine e saccheggiato, con migliaia di morti, e montagne di armi sul mercato, per rifornire ogni sorta di jihadisti. Esce da una guerra in Mali, e là i gruppi jihadisti di al Qaeda continuano ad avanzare e perpetrare massacri. A Bamako, la Francia protegge un regime corrotto fino al midollo, così come in Niger e in Gabon. E qualcuno pensa che gli oleodotti del Medioriente, l’uranio sfruttato in condizioni mostruose da Areva, gli interessi di Total e Bolloré non abbiano nulla a che vedere con questi interventi molto selettivi, che si lasciano dietro paesi distrutti? In Libia, in Centrafrica, in Mali, la Francia non ha varato alcun piano per aiutare le popolazioni a uscire dal caos. Eppure non basta somministrare lezioni di pretesa morale (occidentale). Quale speranza di futuro possono avere intere popolazioni condannate a vegetare in campi profughi o a sopravvivere nelle rovine?

La Francia vuole distruggere Daesh? Bombardando, moltiplica i jihadisti. I «Rafale» uccidono civili altrettanto innocenti di quelli del Bataclan. E, come avvenne in Iraq, alcuni civili finiranno per solidarizzare con i jihadisti: questi bombardamenti sono bombe a scoppio ritardato.

Daesh è uno dei nostri peggiori nemici: massacra, decapita, stupra, opprime le donne e indottrina i bambini, distrugge patrimoni dell’umanità. Al tempo stesso, la Francia vende al regime saudita, notoriamente sostenitore delle reti jihadiste, elicotteri da combattimento, navi da pattugliamento, centrali nucleari; l’Arabia saudita ha appena ordinato alla Francia tre miliardi di dollari di armamenti; ha pagato la fattura di due navi Mistral, vendute all’Egitto del maresciallo al Sisi che reprime i democratici della primavera araba. In Arabia saudita, non si decapita forse? Non si tagliano le mani? Le donne non vivono in semi-schiavitù? L’aviazione saudita, impegnata in Yemen a fianco del regime, bombarda le popolazioni civili, distruggendo anche tesori dell’architettura. Bombarderemo l’Arabia saudita? Oppure l’indignazione varia a seconda delle alleanze economiche?

La guerra alla jihad, si dice con tono marziale, si combatte anche in Francia. Ma come evitare che vi cadano dei giovani, soprattutto quelli provenienti da ceti non abbienti, se non cessano le discriminazioni nei loro confronti, a scuola, rispetto al lavoro, all’accesso all’abitazione, alla loro religione? Se finiscono continuamente in prigione, ancor più stigmatizzati? E se non si aprono per loro altre condizioni di vita? Se si continua a negare la dignità che rivendicano?

Ecco: l’unico modo per combattere concretamente, qui, i nostri nemici, in questo paese che è diventato il secondo venditore di armi a livello mondiale, è rifiutare un sistema che in nome di un miope profitto produce ovunque ingiustizia. Perché la violenza di un mondo che Bush junior ci prometteva, 14 anni fa, riconciliato, riappacificato, ordinato, non è nata dal cervello di bin Laden o di Daesh. Nasce e prospera sulla miseria e sulle diseguaglianze che crescono di anno in anno, fra i paesi del Nord e quelli del Sud, e all’interno degli stessi paesi ricchi, come indicano i rapporti dell’Onu. L’opulenza degli uni ha come contropartita lo sfruttamento e l’oppressione degli altri. Non si farà indietreggiare la violenza senza affrontarne le radici. Non ci sono scorciatoie magiche: le bombe non lo sono.

Quando furono scatenate le guerre dell’Afghanistan e dell’Iraq, le manifestazioni di protesta furono imponenti. Sostenevamo che questi interventi militari avrebbero seminato, alla cieca, caos e morte. Avevamo torto? La guerra di Hollande avrà le stesse conseguenze. Dobbiamo unirci con urgenza contro i bombardamenti francesi che accrescono le minacce, e contro le derive liberticide che non risolvono nulla, anzi evitano e negano le cause del disastro. Questa guerra non sarà in nostro nome.

primi firmatari:

Etienne Balibar, Ludivine Bantigny (storica), Emmanuel Barot (filosofo), Jacques Bidet (filosofo), Déborah Cohen (storica), François Cusset (storico delle idee), Laurence De Cock (storica), Christine Delphy (sociologa), Cédric Durand (economista), Fanny Gallot (storica), Eric Hazan (editore), Sabina Issehnane (economista), Razmig Keucheyan (sociologo), Marius Loris (storico e poeta), Marwan Mohammed (sociologo), Olivier Neveux (storico dell’arte), Willy Pelletier (sociologo), Irene Pereira (sociologa), Julien Théry-Astruc (storico), Rémy Toulouse (editore), Enzo Traverso (storico)

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la risposta alla grande violenza

l’ora della ragione e della mitezza

di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 18 novembre 2015

Gesualdi

caro direttore,

dalla Francia arrivano dolore e terrore.

Umanissimo dolore e quel terrore che genera rabbia, facile a trasformarsi in odio e vendetta. Quando il sangue che scorre è il tuo, sangue dei tuoi figli e dei tuoi fratelli, vengono fuori gli istinti più atavici. Affiora la voglia di punire, di infliggere una sofferenza più grande di quella subita, per intimorire e indurre l’aggressore a non riprovarci mai più. Peccato che tutti si comportino nella stessa maniera, per cui persino gli insulti più lievi possono trasformarsi in faide e guerre fra famiglie e comunità, costellate di stupri, incendi, assassini. In una spirale senza fine. È la storia dell’umanità, che però non ha mai portato a niente di buono. E che ci insegna in tutti i modi che la violenza genera violenza, e che l’unico modo per uscirne è mettere da parte l’istinto di vendetta facendo trionfare la ragione.

Che significa abbandonare se stessi e ‘trasferirsi nell’altro’ per capire le sue ragioni. Solo presentandoci all’altro disarmati, non per imporre la nostra visione, ma per chiedergli che cosa ha contro di noi, potremo avviare quel dialogo che può mettere a tacere le armi e metterci in condizione di fare capire anche all’altro le nostre ragioni e da lì partire per trovare delle soluzioni comuni. In altre parole la pace si fa accettando che la ragione non sta solo da una parte e che anche noi possiamo aver commesso degli errori per i quali chiedere scusa. Gesù ha detto: «Chi di spada ferisce, di spada perisce» e anche in questa circostanza l’esercizio che dobbiamo fare è chiederci se per caso abbiamo procurato ferite che oggi si ritorcono contro di noi. Chi evita di pararsi dietro a un dito, sa che le vere cause del terrorismo islamico vanno ricercate in quella polveriera che viene chiamata Medio Oriente, ‘abitata’ da realtà religiose e linguistiche che hanno difficoltà a stare ancora insieme perché ciascuna con un senso di sé così intenso da rivendicare totale autonomia. Equilibri difficili, che gli occidentali a più riprese hanno contribuito a incrinare. Come se ne esce? Trovare la soluzione a un’esasperazione costruita lungo decenni di violenze a parti alterne, umiliazioni e scorrerie straniere, è tutt’altro che semplice. Ma l’importante è cominciare a mandare segnali di distensione, smettendo innanzi tutto di inviare bombardieri per assicurarsi un posto al sole, da un punto di vista militare, politico, economico. Sul piano militare, poi, c’è qualcosa che va fatto: tagliare i rifornimenti di armi a tutte le parti in causa, affinché la guerra non possa più continuare per mancanza di strumenti. E poi bisognerà accettare di parlare con tutti, per conoscere le rivendicazioni di ciascuno, il grado di consenso popolare, le vie di attuazione. Non possiamo dire ‘con loro non parliamo perché seminano morte’. In guerra tutti uccidono, e se parlare è l’unico modo per uscirne, bisogna farlo. Questa è l’ora della ragione e della mitezza. Non mi illudo che una simile strada possa portare a soluzioni immediate, ma può contribuire ad arrestare gli attacchi terroristici all’Europa. Se l’Europa dimostrasse di non perseguire progetti imperialistici, ma di lavorare disinteressatamente per aiutare i Paesi mediorientali e nordafricani a ritrovare i propri equilibri, forse sarebbe vista con occhi diversi. Se poi fosse abbastanza intelligente da lavorare sul piano interno per garantire agli immigrati di seconda e terza generazione una situazione di piena inclusione sociale, smetterebbe di allevarsi serpi in seno che magari non vedono l’ora di dare sfogo alla propria frustrazione arruolandosi nelle file dell’islamismo radicale. Ma che fare come cittadini per spingere in questa direzione? Un primo passo è informarci in maniera autonoma per sfuggire al «pensiero unico» imposto da politici e mass media. Pensare con la nostra testa, farci la nostra idea e saperla sostenere anche se controcorrente, è indispensabile per attivare quel senso del dubbio, senza il quale nessun cambiamento può prendere forma

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