la schiavitù subita dai rom

Rom

storia degli ultimi schiavi dell’Europa moderna

Presidente Associazione 21 luglio
Rom-Sinti-675

il prossimo 2 dicembre si celebra nel mondo la Giornata Internazionale per l’Abolizione della Schiavitù istituita dall’Assemblea Generale nelle Nazioni Unite.

il dibattito storiografico è spesso orientato dalle “dimenticanze” degli storici e così pochi sanno che l’ultima schiavitù in Europa è quella che vide come vittime le comunità rom presenti in vaste aree dell’attuale Romania. Rileggendo la loro storia scopriamo di poterla sovrapporre senza troppe sfasature a quella della popolazione afro-americana degli Stati Uniti. I rom rumeni sono l’appendice di una storia europea caduta nell’oblio e scandita dalle sofferenze e dai soprusi. La lettura delle loro vicende, durante e dopo la schiavitù avvenuta nel cuore dell’Europa, ci potrebbe facilitare approcci diversi e modalità operative che oggi fatichiamo a promuovere verso chi, discendente degli ultimi schiavi, abita le nostre periferie.

All’inizio del 1800 sul Codice della Valacchia troviamo scritto: “Gli zingari sono nati per essere schiavi, chiunque sia nato da una madre schiava non può essere altro che schiavo”. Nelle terre che oggi chiamiamo Romania, i rom dal 1400 possono essere schiavi di proprietà di privati, dei principi e dei monasteri; sono considerati come merce di scambio, come regali per nozze, come dono fatto ai monasteri. Mai equiparati ad essere umani, sono posti sullo stesso piano di un animale o di un oggetto.

Mentre il 27 aprile 1848 in Francia la Seconda Repubblica abolisce definitivamente la schiavitù nelle colonie, nell’Europa centrale intere comunità rom continuano a vivere nel silenzio generale come schiavi nelle regioni dell’ex Valacchia e della Moldavia. Solo sette anni dopo, nel 1855 con un’iniziativa del principe Grigore Ghica viene sancita l’emancipazione degli ultimi schiavi rom in Moldavia. Il 22 dicembre dello stesso anno viene approvata una legge che regolamenta la fine della schiavitù mentre qualche mese dopo, l’8 febbraio 1856 il principe di Stirbei adotta la “Legge per l’emancipazione di tutti gli zingari nel Principato romeno”. Per ogni schiavo rom contadino viene fissata una ricompensa per il proprietario pari a 10 pezzi d’oro. I rom della ex Moldavia dopo cinque secoli di dura schiavitù vedono la libertà.

Alcune famiglie rom fuggono verso l’Europa centrale e le Americhe. La maggioranza resta nell’attuale Romania, dove la storia passata risulta mantenere un riflesso tra i discendenti. Considerati sempre “diversi”, i rom ora liberi abbandonano i lavori agricoli svolti come schiavi per cercare un riscatto in lavori artigianali. Numerose sono le deportazioni e le persecuzioni vissute all’inizio del Novecento, culminate con i genocidi di massa nel periodo Antonescu. All’assimilazione forzata promossa sotto il regime di Ceausescu corrisponde un miglioramento di vita delle famiglie rom che si mescolano con il resto della popolazione condividendo la vicinanza di casa e il posto nel lavoro in agricoltura.  Nel 1991 la “Legge del Fondo Fondiario” smantella le grandi imprese agricole rumene provocando un’impennata della disoccupazione delle famiglie rom che raggiunge l’80%. Dopo la caduta del regime comunista si assiste ad un’esplosione di violenza razzista che ha come oggetto interi quartieri abitati da rom. In decine di villaggi folle inferocite assaltano e incendiano le case dei rom, distruggono le loro proprietà e li cacciano dai villaggi, impedendo loro di ritornare; durante queste violenze collettive alcuni rom vengono assassinati. Esemplare in questo senso, e ormai tristemente famosa, è la sommossa di Hadareni, avvenuta nel 1993, durante la quale tre rom vengono uccisi, 19 case bruciate e 5 distrutte. Tutto ciò favorisce la fuga incontrollata dei rom rumeni a partire dagli anni Novanta con un picco di arrivi nel nostro Paese tra il 2000 e il 2001 quando l’Italia abolisce l’obbligo di visto per i cittadini rumeni.

Gli ultimi schiavi dell’Europa moderna, hanno visto i loro figli tra le vittime della rabbia popolare post comunista ed i loro nipoti tra i “nomadi” del moderno apartheid italiano, quello che parla il linguaggio degli sgomberi e dell’emarginazione abitativa. Con questa umanità ferita che bivacca nelle nostre periferie siamo giornalmente chiamati a fare i conti, così come con la storia, quella scritta dai vincitori, che dimentica o nega, che assolve o giustifica, che crea muri fisici o mentali. Dobbiamo farlo, per il bene loro e per il bene nostro.

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‘chiamatemi Francesco’ il film ‘non santino’ del regista Luchetti

«Chiamatemi Francesco»

 i tormenti di padre Bergoglio tra dittatura e rigore teologico

il regista Luchetti evita l’agiografia e racconta i difficili anni in Argentina

di Paolo Mereghetti

Il film, interpretato da Rodrigo de la Serna (foto sopra) è stato venduto in 40 Paesi
il film, interpretato da Rodrigo de la Serna (foto sopra) è stato venduto in 40 Paesi

Il film, che si apre e si chiude nei giorni del Conclave e dell’elezione al Soglio pontificio del cardinale argentino (affidato all’attore Sergio Hernández), sceglie di raccontare alcuni momenti della sua vita da gesuita: la conversione, il periodo al Colegio Máximo e la vita ai tempi della dittatura, il confronto/scontro con i confratelli vicini alla teologia della liberazione, le sue scelte a favore di una Chiesa che si dedichi agli ultimi e ai disagiati. Non tutto è raccontato in maniera piana e distesa, alcune situazioni e persone lasciano aperti problemi di identificazione in chi non sia esperto di storia ecclesiastica latino-americana (il prelato da cui va dopo l’uccisione del vescovo Angelelli e che gli offre i dolci è il nunzio apostolico Pio Laghi? Quello tanto amico dei militari torturatori?), così come si vorrebbe saperne di più sulle ragioni della sua carriera: che cosa ha fatto per essere nominato superiore provinciale? Perché il cardinale Guarracino vuole proprio lui, «esiliato» in una parrocchia periferica, per la carica di vescovo ausiliario di Buenos Aires? Ma forse questi salti e queste ellissi servono proprio per evitare di trasformare il film in una «semplice» biografia e puntare invece l’obiettivo sul sacerdote e le sue qualità.

 

Affidato al volto severo dell’attore Rodrigo de la Serna, il giovane Bergoglio del film deve confrontarsi con un mondo che fatica a tener salda la barra dell’insegnamento cristiano. In tutti i momenti cruciali del film, la tentazione sembra essere quella di deviare dalla «retta via», sia accentuando l’impegno nel sociale sia facendosi complici della dittatura. Non è semplice tenere una posizione «equidistante», capace di conciliare il rigore teologico con l’amore per il prossimo (specie quello più sfortunato), ma sembra proprio questa la scelta del gesuita Bergoglio. Ed è questo che il film vuol far emergere.

Ecco allora il salvataggio dei giovani seminaristi fatti fuggire in Uruguay ma anche il suo rifiuto della teologia della liberazione, la sua disapprovazione per i confratelli che hanno scelto di vivere fuori dalle parrocchie ma il suo intervento per liberare chi è stato fatto prigioniero e torturato. E l’impegno di dare voce a chi non ce l’ha di fronte al potere. Momenti diversi che trovano il loro senso più profondo nella scena finale del Papa che si affaccia su piazza San Pietro e che il film affida allo sguardo dello spettatore con pudore e rispetto.

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guerra di civiltà? no, di religione! Il dolore e l’emozione per quello che è successo a Parigi non giustificano l’orgia militarista

Europa vs. Islam

una guerra di religione

Sun Tzu, stratega cinese, vissuto tra il VI o V secolo avanti Cristo, sosteneva che la guerra è l’ultima risorsa di uno statista e la battaglia l’ultima risorsa di un comandante. Queste parole tornano alla mente quando si pensa al crescendo di appelli alle armi che risuonano a Parigi, a Bruxelles come a Londra. Quello che si vuole da tante parti non è neanche più uno scontro di civiltà alla Huntington.
È una guerra di religione, contro l’Isis o Daesh, ma anche contro l’Islam, contro gli immigrati, contro tutti i fantasmi o gli incubi che assillano un’Europa impaurita e paranoica.

 

Certo, gli accenti sono diversi. Si va dai fanatici dei diritti umani, nostalgici della guerra lampo del Kosovo, a quelli che vedono nell’Islam una volontà millenaria di rivalsa contro l’occidente cristiano, agli opinionisti “ragionevoli” che esigono dai musulmani che “escano allo scoperto” e “si pronuncino contro il terrorismo”, ai simpatizzanti di Netanyahu, che mettono nello stesso sacco Isis e resistenza palestinese, ecc.. Ma l’idea di fondo è che si faccia una bella coalizione di tutti contro l’Isis, che lo si polverizzi, magari insieme ai civili di Raqqa tra cui si nasconde, e poi… E poi?

dallago

Sembra che venticinque anni ininterrotti di guerre dell’Occidente nei paesi arabi e/o musulmani non abbiano insegnato nulla. Che cioè i bombardamenti non fanno un gran male ai militanti e agli armati, ma prostrano le popolazioni e creano le condizioni per future insurrezioni, fanatismi e reti terroristiche. Così è stato in Iraq nel 1991, in Afghanistan, di nuovo in Iraq, in Libia e oggi in Siria. Se si considerano i risultati politici, e non la mera contabilità militare di morti nostri e morti loro (per non parlare delle vittime civili che pagano sempre il prezzo più alto), tutte le guerre occidentali sono finite con sconfitte, con immani spargimenti di sangue dopo i quali Usa, Inghilterra, Francia e così via sono più deboli di prima. Se oggi l’Isis è contenuto in Siria è grazie ai curdi, come in Iraq grazie alle milizie sciite e iraniane. Ma se anche qualche stato occidentale volesse mettere i boots on the ground, e cioè mandare le forze di terra, non cambierebbe nulla. L’esercito americano, il più potente al mondo, si è dovuto ritirare, di fatto, sia dall’Afghanistan, sia dall’Iraq Quanto alla Francia, la sua vittoria in Mali non è servita a granché, se la guerriglia può attaccare di sorpresa Bamako.

Il punto decisivo della questione è che se gli altri, i cattivi, i terroristi, sono disposti preventivamente a morire, a farsi uccidere per qualsiasi motivo e cioè a non sopravvivere, quando uccidono noi, ebbene, in un certo senso hanno già vinto. Questo Obama l’ha perfettamente compreso, diversamente dai fanatici neo-con che hanno contribuito a creare tutto questo invadendo l’Iraq nel 2003. Ma se persino Tony Blair, oggi, sente il bisogno di chiedere scusa per quella guerra, così stupida per lui e così letale per centinaia di migliaia di iracheni!

Il dolore e l’emozione per quello che è successo a Parigi non giustificano l’orgia militarista, in Francia come da noi, con cui si vorrebbe rispondere al terrorismo. Invece di ragionare, di riflettere sul groviglio di ragioni che hanno portato a tutto questo, e cioè sul fatto che giovani europei si trasformano in alleati dell’Isis in nome della religione, si preferisce evocare il nemico assoluto, tirar fuori argomenti da prima crociata, eccitare un’opinione pubblica già scossa per conto suo.

Probabilmente, il terrorismo ci accompagnerà per molto tempo. Bastano poche centinaia di aspiranti martiri in Europa, cresciuti nelle banlieue più derelitte, frustrati dalla marginalità e magari fanatizzati da predicatori retrogradi a compiere azioni come quelle di Parigi. Al di là del lavoro di intelligence, che nel caso francese presenta ampie zone di opacità, il terrorismo si può contrastare con un lavoro di educazione civile e politica di lungo periodo e rimuovendo le cause della frustrazione e dell’odio. Un lavoro lungo che non darà, ammesso che lo si voglia cominciare, risultati nel breve periodo. E si potrà contrastare, soprattutto, rinunciando alle tentazioni neo-colonialiste che si manifestano nella difesa dei diritti umani a suon di bombe.

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