J. Sobrino e la pandemia

 

cosa si pensa e come si parla di Dio nella pandemia
Jon Sobrino 

 da: Adista Documenti n° 24 del 20/06/2020

Il segretario generale delle Nazioni Unite ha dichiarato due mesi fa: «Questa è la sfida più grande che abbiamo affrontato dalla Seconda Guerra Mondiale». Quindi, secondo le sue parole, la maggiore crisi che ha avuto luogo sul pianeta in quasi un secolo. Il suo accento è caduto sulle vittime: «I più vulnerabili (donne e bambini, disabili, emarginati e sfollati) pagano il prezzo più alto. I rifugiati e altri sfollati per conflitti violenti sono doppiamente vulnerabili». E ha avanzato due richieste: «Mettere fine alla malattia della guerra e lottare contro la malattia che sta devastando il nostro mondo».

Affinché queste parole ci scuotano come dovrebbero, è bene ricordare che il numero di vittime della Seconda Guerra Mondiale è stato calcolato tra i 55 e i 60 milioni. E, per capire fino a che punto possa arrivare l’orrore di una pandemia – ovviamente sperando che ciò non avvenga –, bisogna considerare che, nel 1918-1919 la cosiddetta Spagnola causò almeno 50 milioni morti e circa 500 milioni di persone contagiate, un terzo della popolazione mondiale. La pandemia è un male particolare. È un orrore. In un primo momento può generare un timore paralizzante, ma, soprattutto, produce indignazione e dolore, ed esige l’impegno a trovare una soluzione finché non sia scomparsa del tutto. Non si deve dimenticare. E non produce alcun bene ignorare il suo orrore recitando il Padre nostro: liberaci dal male, libera nos a malo. Nel giorno in cui sto scrivendo, 15 maggio, nel mondo si riportano 4.477.351 contagiati, 303.389 morti, 1.606.796 guariti. In El Salvador 1.112 contagiati, 23 morti, 405 guariti. Nella stampa salvadoregna si legge in questi giorni: «Un milione e mezzo di persone protestano per non aver ricevuto i 300 dollari». «La miseria colpisce il centro di San Salvador ». «La quarantena porta le famiglie a chiedere cibo». «Negli ultimi quattro giorni sono state assassinate 19 persone». «Per la fine dell’anno si potrebbero perdere fino a 1.200 milioni di dollari». «A rischio 20.000 posti di lavoro». E così via. E soprattutto situazioni psicologiche di insicurezza totale, dolore senza consolazione, sfiducia paralizzante, separazione all’interno delle famiglie… Voglio terminare affrontando un tema di cui oggi penso che non si parli molto. È il tema di Dio, “la questione Dio”. Non è la questione della religione, né quella della Chiesa o delle Chiese. Neppure la questione di Gesù Cristo. Forse il lettore rimarrà sorpreso. Ma spero comprenda la mia decisione di parlare di questo tema, spero con onestà e lucidità e sicuramente con il desiderio che porti del bene. Farò, allora, alcune riflessioni su Dio, e più in concreto su come si sta pensando e si sta parlando di Dio oggi. E terminerò con una riflessione personale su Dio, anche in tempo di pandemia.

Una questione con una lunga storia

Nel corso della storia, in diverse culture e religioni, si è pensato a Dio in differenti modi. Ma l’esistenza del male, di qualcosa di cattivo o di molto cattivo, ha spesso condotto a pensare a Dio in maniera particolare. Certamente ciò è dipeso da catastrofi come Auschwitz o il terremoto de Lisbona. In tali riflessioni sorge solitamente quello che è stato chiamato il problema di Dio e che io, più pacificamente, definisco la questione di Dio. In qualunque caso, è Dio a venir fuori, ed è comprensibile.

Il tema è complesso e per nulla facile da trattare. Ma è importante rendersi conto ed essere coscienti di cosa ne è di Dio e di cosa resta di Dio in questa lunga storia di modi di pensare e di dibattere. A seguire, senza molte spiegazioni, mi fermerò a constatare i diversi modi in cui si è parlato e si parla di Dio soprattutto in tempi difficili. Il lettore noterà la grande varietà di modi di parlare e di pensare, che possono giungere anche a contraddirsi. Nel prossimo paragrafo, non esprimerò giudizi su questi modi diversi, mi limiterò a prenderne atto.

Un po’ di storia. Dov’è Dio, che fa e che non fa. Il terremoto di Lisbona

Avvenne nel 1755, producendo un’enorme distruzione. Nel ricordarlo, in questi giorni qualcuno ha scritto, e a mio giudizio non senza ragione, che quello di Lisbona «sarebbe stato solo un altro terribile terremoto… se non fosse che ebbe un impatto più sulle menti che sui corpi». In effetti, questo terremoto ha fatto sì che il pensiero razionale soppiantasse il dogmatismo più rigido. Non avvenne in maniera automatica. I pensatori cattolici dell’epoca (quasi tutti lo erano) seguivano le idee di Leibnitz, secondo cui, se compie la volontà di Dio, l’essere umano «vive nel migliore dei mondi possibili».

Se qualcosa va male in questo mondo, sarà stato per volontà di Dio, ma come castigo per il male commesso dagli esseri umani. Voltaire, tra gli altri, si oppose a questa giustificazione di Dio, a questa teodicea.

Il dilemma di Epicuro

Tornando al terremoto di Lisbona, l’implicazione più importante fu quella di interrogarsi su Dio con libertà, quale che fosse la conoscenza a cui tale libertà avrebbe condotto, con ciò sollevando un dubbio su Dio e, più concretamente, su un Dio al tempo stesso potente e buono. Si tornava così al dilemma attribuito fin dall’antichità a Epicuro, riguardo all’esistenza di un Dio che è buono, che non vuole il male e che ha il potere di evitare il male. Dinanzi a quanto avviene nel mondo, la conclusione obbligata sarebbe la seguente: “Se Dio è buono non è onnipotente. E se è onnipotente non è buono”.

Con questa logica Epicuro non dimostrava la non esistenza di Dio, ma poneva radicalmente in discussione attributi di Dio ritenuti evidenti per secoli: la sua onnipotenza e la sua bontà, il suo amore nei confronti degli esseri umani.

Nel corso della storia, grandi pensatori – come Tommaso d’Aquino con le sue vie per arrivare a Dio – hanno cercato di dimostrare l’esistenza di Dio, pur ammettendo i mali di questo mondo. E specificamente si sono sforzati di dimostrare che Dio non è responsabile di tali mali. Ora è sufficiente ricordarlo. La ragione rimane, o può rimanere, in pace. Ma può anche restare inquieta.

Terremoti, terrorismo e barbarie in tempi vicini

Nel 2002, su richiesta della casa editrice Trotta di Madrid mi posi, in un piccolo libro intitolato Terremoto, terrorismo, barbarie y utopía, l’interrogativo su dove sia Dio: alcune riflessioni – poi riproposte nel 2003 in un libro della Uca Editores – a proposito delle catastrofi che avevano avuto luogo in quei giorni. In El Salvador, il 13 gennaio del 2001, c’era stato un forte terremoto. A New York, l’11 settembre dello stesso anno, aveva avuto luogo l’attentato alle torri gemelle. L’Afghanistan viveva anni di terrorismo. E per onestà, con la speranza che pure vedevo, aggiunsi una riflessione sull’utopia.

La preghiera e l’eccesso di credulità

In Paesi come El Salvador, tanto in mezzo alle serie difficoltà della vita quotidiana come ora nella catastrofe del coronavirus, Dio è invocato assai spesso dai poveri e anche dai preti. Si chiede a Dio che ci aiuti, risani, conforti e consoli i contagiati e tutti coloro che sono in stato di bisogno. Gli si chiede anche di mantenere in forze, e in vita, quanti se ne prendono cura. E di premiarli.

Ma con o senza pandemia, penso che la questione della fede in Dio non venga solitamente affrontata come un problema importante. Più concretamente, nel mondo dell’abbondanza molti possono vivere tranquillamente senza occuparsi di Dio, del fatto che ci sia o meno. E, non ponendosi il problema, neppure si preoccupano molto di dimostrare la sua esistenza. Prima c’erano atei che si interrogavano sulla responsabilità di Dio nei mali di questo mondo, concludendo: “la giustificazione di Dio è che non esiste”. Ora non è più dato ascoltare tali ironie. Con o senza catastrofe, la teodicea, che letteralmente significa “giustificazione di Dio”, oggi non è più così importante. Né credo che se ne parli qualche volta nelle chiese, nelle aule dei seminari, nell’infinità di riunioni dell’infinità di movimenti delle Chiese.

Abbandono di Gesù sulla croce da parte di Dio

Personalmente, è da anni che non mi attraggono le liturgie che parlano molto del potere di Dio e che insistono ripetutamente e unilateralmente sulla sua bontà e sulla sua misericordia. In questi giorni abbiamo potuto ascoltare che Dio ci accompagna sempre, che possiamo sempre riporre in Lui la nostra speranza, che Dio non ci inganna mai.

Permettetemi una digressione. Nel Vecchio Testamento Dio ha potere, che usa solitamente a favore del popolo eletto e a volte contro di esso, se non si comporta bene. Molto spesso sconfigge i nemici di Israele, molti dei quali a volte vengono distrutti. Nel Vecchio Testamento però appaiono anche altri modi di procedere da parte di Dio. I canti del servo di Isaia presentano un Dio il cui potere non consiste nello schiacciare e il cui servo è portatore di salvezza non distruggendo l’avversario ma lasciandosi sconfiggere da esso.

L’abbandono di Dio

Alcuni giorni fa, nell’eucarestia celebrata da papa Francesco nella cappella di Santa Marta è risuonato il salmo 22 con il noto lamento: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », così come viene raccolto dal vangelo di Marco. Papa Francesco, a modo suo, ha affrontato tale questione nella sua omelia. E si è chiesto cosa faccia Dio dinanzi a tanta sofferenza.

Da molti anni ho l’impressione che nella teologia, nella liturgia e non so se anche nella pastorale, parlando della morte di Gesù, si sorvoli assai rapidamente sul racconto di Marco – e poi di Matteo – in cui Gesù muore con il lamento del salmo 22 sulle labbra. Con maggiore facilità si affronta il racconto di Luca, in cui Gesù muore recitando un altro salmo, più fiducioso, dicendo «nelle tue mani affido il mio spirito». E meno problemi offre il vangelo di Giovanni, in cui Gesù muore con una certa solennità, padrone di se stesso, dicendo: «tutto è compiuto». Di fatto, Gesù ha dovuto morire senza pronunciare parole, se non con un grido per l’asfissia provocata dal fatto di essere in croce. Grido che menzionano tutti i sinottici.

Penso anche che si parli con grande facilità del fatto che l’orrore della croce di Gesù esprima l’amore infinito di Dio. Il Padre ha sacrificato suo figlio Gesù, non lo ha risparmiato. E così siamo stati salvati. Poi lo ha esaltato e lo ha reso Signore per essersi consegnato a una morte in croce.

Dinanzi all’orrore della croce non mi pacificano queste affermazioni, né mi pacifica il riferimento alla resurrezione di Gesù come una specie di lieto fine. Con questa inquietudine dinanzi alla facilità con cui si evita di affrontare il tema di Dio e della croce, già molti anni fa scrissi un breve articolo sulla rivista Sal Terrae dal titolo “Il risorto è il crocifisso”. Il risorto è la dimensione trascendente e il crocifisso è quella storica. E sono più incline a intendere il trascendente partendo assai esplicitamente dallo storico che viceversa.

Queste riflessioni non sono di grande attualità, e non è facile, almeno per me, svilupparle. Ma non posso evitare di pormi tali questioni. Possono stranire o almeno sorprendere. Possono disgustare. Ma le pongo sul tappeto perché, in definitiva, l’inquietudine che possono produrre può generare a sua volta una pace diversa, maggiore, più calma.

Il Dio crocifisso di Moltmann

È il titolo di un libro di Jurgen Moltmann. Quando i gesuiti vennero assassinati alla UCA, portarono il cadavere di Juan Ramón Moreno nella mia stanza che era vicina, poiché io mi trovavo in Thailandia. Nel trambusto, dallo scaffale della mia stanza cadde il libro di Moltmann Il Dio crocifisso e rimase impregnato del sangue di Juan Ramón. Inviai a Moltmann una foto del suo libro insanguinato. Alcuni anni dopo venne a visitarci. Nella Sala dei Martiri si fermò a guardare il suo libro insanguinato, e terminò la sua visita nel Giardino delle rose, dove rimase a lungo.

Il grande contributo di Moltmann è quello di affermare che Dio è toccato dalla sofferenza. Lo ha dimostrato con audacia e – a mio giudizio – con sufficiente lucidità. Onnipotente o no, Dio è toccato dalla croce. E l’enigma della croce di Gesù non si chiarisce, non si trasforma in mistero, facendo appello alla resurrezione.

Precedentemente, Moltmann già era diventato famoso per un altro libro intitolato Teologia della speranza. Tuttavia, sotto l’impatto di un Dio crocifisso introdusse la croce nella sua teologia della speranza. «Non ogni vita è motivo di speranza, ma sì lo è la vita di chi per amore si è preso carico di una croce ». Personalmente, trovo assai illuminante questo modo di esprimere la speranza che proviene da Gesù.

Il Dio crocifisso di Dietrich Bonhoeffer

Al lettore di Carta a las Iglesias credo che Bonhoeffer non sia molto noto. È stato un pastore della Chiesa luterana e un grande teologo. È stato tra i primi a parlare di secolarizzazione ed è diventata famosa la sua frase che bisogna vivere etsi Deus non daretur, come se Dio non esistesse. Ed è stato un martire la cui figura appare ora sulla facciata della cattedrale di Westminster insieme a quella di monsignor Romero. Il 9 aprile si è celebrato il 75.mo anniversario della sua morte in un carcere di Berlino. Dopo aver partecipato a un complotto, fallito, per eliminare Hitler, Bonhoeffer fu arrestato e impiccato su esplicita richiesta di Hitler. In prigione, il 18 luglio del 1944, scrisse questi versi: «Gli esseri umani nel loro dolore arrivano a Dio, implorano aiuto, chiedono felicità e pane, che salvi dalla malattia, dalla colpa e dalla morte i loro cari. Questo lo fanno tutti, tutti, tutti, cristiani e pagani. Gli esseri umani si avvicinano a Dio nel dolore di Dio, e lo trovano povero, insultato, senza difese, senza pane, lo vedono vinto e morto per il nostro peccato, oh, Signore!».

I cristiani rimangono con Dio nella passione

Quando molti anni fa lessi questi versi in classe, scese un silenzio come non ne ricordo altri. Neppure quando ricordavo che Dio aveva resuscitato suo Figlio si creava un simile silenzio. Per parlare cristianamente della relazione tra le vittime e Dio, mi pare importante relazionare entrambe le realtà a una pericoresi, compenetrazione. Significa che bisogna porre Dio nelle vittime: divinizzazione delle vittime. E che bisogna porre le vittime in Dio: vittimizzazione di Dio.

La novità dei martiri della pandemia

Questa novità si rivela chiara soprattutto nel popolo crocifisso generato dalla pandemia, la quale non è derivata dalla volontà umana, ma dalla natura, come i terremoti. E le cui vittime possono superare in numero quelle di altre catastrofi prodotte della volontà umana. E tale novità è chiara anche nei martiri gesuanici, le persone che, per prendersi cura dei contagiati, soffrono disagi, stanchezza, problemi, malattia e morte: familiari, personale medico e infermieristico, religiose, preti, volontari e volontarie.

Solo un dato. In Italia la notizia del coronavirus ha cominciato a pesare sul clero il 15 marzo. Molti preti hanno iniziato ad aiutare i contagiati in diversi modi. In due-tre settimane circa 60 di loro sono morti. Personalmente mi ricordano san Luigi Gonzaga. Molti anni fa ce lo ponevano come modello di giovane gesuita per le sue virtù, insistendo sulla castità e sulla modestia. Anni dopo venni a sapere che era morto a Roma il 21 giugno 1591 a 23 anni per essersi preso cura dei malati di peste.

L’eredità dei martiri della pandemia

Penso che l’eredità di questi martiri sia la stessa di tutti gli esseri umani che hanno perso la vita innocentemente. Alcuni di loro, i martiri gesuanici, sono stati uccisi per essersi presi cura dei bisognosi, per aver difeso gli oppressi, le vittime della repressione. Tutti questi martiri proclamano l’ovvia verità di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i fratelli» (Gv 15,13). Il martirio si relaziona primariamente all’amore, e ai suoi derivati fondamentali. Oggi, alla giustizia e alla dignità. E si relaziona primariamente al sacrificio dei martiri, unificando nel modo migliore l’amare e il dare la propria vita. E in un’altra maniera ciò avviene anche con i popoli crocifissi. Ho scritto che in loro c’è stata una santità primordiale.

Come Dio passa per questo mondo. Passa con ciò che è insolito

In questi giorni di coronavirus l’ambiente religioso pullula di parole e di scritti su cose strane, su cose che non avvengono nella quotidianità: ricordi di apparizioni celesti, di uomini, donne, bambini e bambine, soprattutto, a cui è stato concesso di vedere e di fare prodigi impossibili al resto dei mortali. E non manca chi in questi giorni ha visto una luce tra le nuvole trasformata in una croce.

Qui in El Salvador, il 13 maggio, giorno della vergine di Fatima, una sua immagine ha percorso il territorio nazionale in elicottero. Il tragitto si è prolungato per più di sei ore. Lo hanno organizzato gli Araldi del Vangelo. «Ci è sembrato interessante e speciale festeggiare, perché la Vergine benedica le persone contagiate e non contagiate di tutto il Paese». Il sacerdote responsabile ha espresso il desiderio che i salvadoregni ricevessero le loro benedizioni dal cielo e la cura miracolosa per questa malattia. Sembrano sognare e desiderare che Dio passi per questo mondo di pandemia come non lo ha fatto quando passò per questo mondo con Gesù di Nazaret.

«Con monsignor Romero Dio passò per El Salvador»

Ma il passaggio di Dio non è stato sempre visto in questa maniera esotica, bensì in un’altra assai diversa. «Con monsignor Romero Dio passò per El Salvador», disse Ellacuría. E spiegò molto bene ciò che voleva dire. «Monsignore fu un inviato, non un mero prodotto delle nostre mani. Diventò – non per tutti ugualmente – il grande regalo di Dio, e un regalo molto speciale». E proseguì: «I saggi e i prudenti di questo mondo, ecclesiastici, civili e militari, i ricchi e i potenti di questo mondo, dicevano che faceva politica. Ma il popolo di Dio, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i puri di cuore, i poveri con spirito, sapevano che tutto questo era falso. Mai avevano sentito Dio così vicino, lo spirito così evidente, il cristianesimo così vero, così pieno di grazia e di verità».

Permettetemi un’ultima digressione. Recentemente ho pubblicato un libro in cui ho parlato della mia oscurità dinanzi a Dio, negli Stati Uniti e in Germania, lunga circa dieci anni, senza trovare pace. Però, di ritorno a El Salvador, apparvero i poveri e apparvero i martiri, i martiri gesuanici e il popolo crocifisso. E Dio si affacciò. In questi poveri e in questi martiri Dio non si mostrò con evidenza, come un raggio di luce, né come la solidità della roccia. Tuttavia, con il permesso di san Giovanni della Croce, – e senza la sua altezza poetica – rimase in me «un non so che» che continua ad affacciarsi. Che si senta Dio così vicino, lo spirito così reale e il cristianesimo così vero, questa è l’eredità dei martiri. Questa è l’eredità di coloro che sono vissuti e sono morti come Gesù. Ed è l’eredità del popolo crocifisso che vive più poveramente di Gesù.

Con pandemia o senza pandemia, con questi uomini e queste donne, con il nostro fratello Romero, Dio passa per El Salvador.

teologia da liberare – a proposito della condanna della teologia di Jon Sobrino

teologia della liberazione e liberazione della teologia

Jon Sobrino Ellacuria

di Fr. Alberto Degan

 

si tratta di una riflessione che A. Degan scrisse 5 anni fa in Ecuador ‘provocata’ dal provvedimento della Congregazione della fede contro Jon Sobrino, “uno dei teologi che più hanno inciso sulla mia spiritualità” (nonché della mai). Ritengo che la problematica alla radice di questo provvedimento sia ancor oggi più attuale che mai.deporre i poveri

Liberazione della teologia. Il caso Sobrino

É di alcuni mesi fa la notizia di un proveddimento disciplinare preso dalla Congregazione per la Dottrina della fede contro Jon Sobrino, il teologo che  ispirò il vescovo-martire mons. Romero e famoso, tra le altre cose, per essere sopravvissuto alla strage contro i gesuiti dell’UCA, nel Salvador, nel 1989.
Dico sopravvissuto perché lui, che era il principale obiettivo dell’attacco criminale delle forze paramilitari, quel giorno casualmente non era in casa,  e così si salvò.

L’accusa contro Sobrino é di accentuare troppo l’umanità di Cristo a scapito della sua divinità. Ma in realtà, la Notificatio contro Sobrino é l’ultimo  atto di una serie di misure disciplinari contro alcuni teologi sudamericani, accusati – in sostanza – di accentuare in maniera esagerata la dimensione sociale della fede a scapito della dimensione spirituale, e di ridurre il messaggio cristiano a un messaggio terreno, politico. Secondo un documento del  Vaticano di qualche anno fa, la vera liberazione é la “liberazione dalla schiavitù radicale del peccato”, mentre i teologi della liberazione, di fronte  “all’urgenza dei problemi”, cadono nella ”tentazione” di “porre l’accento in modo unilaterale sulla liberazione dalla schiavitù di ordine terreno e temporale”.Jon Sobrino1
Si presenta così una contrapposizione fra “la schiavitù del peccato” e la “schiavitù di ordine terreno”. Il piano spirituale e il piano temporale sono  visti – se non come contrapposti – per lo meno come conflittivi. E così si afferma che, per non distoglierci dalle preoccupazioni di ordine propriamente  spirituale, dobbiamo evitare la “tentazione” di lasciarci prendere – in maniera “unilaterale” – dalle “urgenze” della realtà e del tempo in cui viviamo.

Io penso che, in realtà, Dio cade spesso in questa ‘tentazione’: “Ho visto la miseria del mio popolo, ho ascoltato il suo grido davanti ai suoi oppressori,  e conosco la sua sofferenza. Sono sceso per liberarlo…. Ho visto l’oppressione con cui gli egiziani li tormentano” (Es 3,7-9). Possiamo immaginare che  Dio avesse molte preoccupazioni di carattere ‘spirituale’, ma davanti al grido del suo popolo, lascia tutto il resto e si fa coinvolgere, si fa prendere  dall’urgenza del problema della schiavitù e dell’oppressione, e decide di agire nella storia per liberare il suo popolo.

Questo intervento di Dio é a livello spirituale o a livello temporale? La schiavitú che Dio vuole combattere é una schiavitù di tipo spirituale o una schiavitù  di tipo terreno? Anch’io credo che la radice di tutte le schiavitù é il peccato, però poi questo peccato si manifesta e si concretizza in abitudini, atteggiamenti,  azioni e strutture concrete, che Giovanni Paolo II chiamava “strutture di peccato”: la lotta contro queste strutture é un’azione di carattere spirituale  o temporale? Dio chiede al Faraone – il più potente uomo politico di quei tempi – di liberare gli schiavi, di mettere fine all’oppressione. Questa richiesta   di Dio é una richiesta di ordine spirituale o di ordine temporale?

Per me la risposta é ovvia: con questi interventi Dio agisce contemporaneamente sui due livelli, perché lo Spirito agisce nel tempo; e così, quando lottiamo  contro le schiavitù di ordine politico-temporale, stiamo collaborando con il disegno di Dio, che vuole vincere la morte in tutte le sue dimensioni e stabilire  il regno dell’Amore e della Vita. La lotta contro le schiavitù di tipo politico é un tassello molto importante della lotta globale dello Spirito contro  il male.

Purtroppo, oggigiorno si nota una tendenza a tornare alla vecchia separazione – e a volte addirittura a una vera e propria contrapposizione – tra le due  suddette dimensioni. Si tratta di un ritorno al dualismo neoplatonico, secondo il quale l’elemento religioso-spirituale e l’elemento temporale si oppongono  e si contraddicono reciprocamente. Può essere che qualche sacerdote sudamericano abbia ridotto la religione a impegno politico, ma la stragrande maggioranza ei teologi della Liberazione si sono mossi in un altro orizzonte, in un’ottica genuina di fede e di amore ai più poveri, in linea con la più autentica  Tradizione cattolica. Però, come fa notare Luis Segundo, per poter apprezzare – senza pregiudizi filosofici – tutta la ricchezza spirituale della Teologia  della Liberazione, é necessaria e urgente una liberazione della teologia. Dobbiamo liberare la riflessione teologica da questo dualismo neoplatonico, che  ha le sue radici nella filosofia pagana e ha ben poco a che vedere con il Vangelo e con la Parola di Dio.Romero1

Il Concilio Vaticano II condannó chiaramente questo dualismo per bocca di Paolo VI: “L’unione dei valori umani e temporali con quelli propiamente spirituali,  religiosi ed eterni, é affermata e promossa sempre dal Concilio”. Sappiamo che una delle accuse che gli ambienti piú conservatori della Curia Romana rivolsero  ai padri Conciliari era quella di aver dato troppo importanza al dialogo con il mondo e, più in generale, troppa importanza alla dimensione antropologica  e sociale, a scapito della dimensione propriamente religiosa. Tenendo presenti queste obiezioni, nel discorso finale per la chiusura del Concilio, Paolo  VI affermó: “Il valore umano del Concilio ha forse deviato la mente della Chiesa verso la direzione antropocentrica della cultura moderna?”. Uno si aspetterebbe  che il papa dicesse: “Certamente no!”. E invece il papa continua dicendo: “Deviato no, rivolto sì”. Come dire: senza dubbio, il Concilio ha rivolto l’attenzione
della Chiesa verso l’uomo e verso le realtà temporali, ma questa non é una deviazione, bensì una fedeltà al Vangelo del nostro Dio che ha voluto farsi  uomo. Grande, straordinario Paolo VI !

Questa stessa idea si ripete nel messaggio finale del Concilio all’umanità: “É nella vostra città terrestre e temporale che Dio costruisce misteriosamente  la sua città spirituale ed eterna” (n.4). Non c’é nessuna contrapposizione fra i due livelli, ma anzi, come dice la Gaudium et Spes, c’é una “compenetrazione  della città terrena e la città celeste” (GS 40).Romero

Tutte queste idee – che fino a poco tempo fa potevamo dare più o meno per scontate – sono adesso messe apertamente in discussione in alcuni ambienti cattolici  fondamentalisti. E così, con mia grande sorpresa, ho scoperto che la pagina web “Una Vox”, la pagina forse più completa sui documenti del Magistero ecclesiale,  accompagna questi documenti con alcuni commenti ultraconservatori, spesso irrispettosi delle parole dei papi e dei Padri Conciliari. É evidente l’incapacità  di questi gruppi fondamentalisti di capire che “la gloria di Dio é l’uomo vivente”, come dice S.Ireneo, e che perciò, se vogliamo davvero servire e glorificare  Dio, possiamo farlo solo nella storia, nella società, nella cultura e nel tempo che ci é dato di vivere, mettendoci al servizio dell’umanità. La dimensione  temporale non si contrappone alla dimensione spirituale!!

Guayaquil, 20 giugno 2007

J. Sobrino e la violenza dell’Isis

l’orrore di Parigi e le vittime di tutto il mondo

 intervista a Jon Sobrino

Sobrino

è iniziato con una nota di profondo dolore, nel ricordo delle vittime degli attacchi di Parigi, il seminario su “Una Chiesa povera al servizio dei poveri”, svoltosi il 14 novembre, alla Pontificia Università Urbaniana di Roma, in occasione del 50° anniversario del Patto delle Catacombe, il documento firmato pochi giorni prima della fine del Concilio da circa quaranta vescovi impegnati a dar vita a una Chiesa dei poveri. E ci ha pensato il teologo della liberazione e gesuita salvadoregno Jon Sobrino, aprendo il suo intervento su “Il significato del Patto delle Catacombe per la Chiesa di oggi”, a ricordare, insieme alle vittime del massacro di Parigi, quelle di tutte le stragi, di oggi e di ieri, a cominciare dagli innocenti e indifesi contadini dei massacri del Sumpul e del Mozote, avvenuti in El Salvador durante gli anni del conflitto armato interno

al termine del suo intervento, il teologo, il quale ha incontrato papa Francesco il giorno precedente al seminario, durante la messa mattutina a Santa Marta, ha accettato di rispondere alle domande di alcuni giornalisti (di Adista, Radio Vaticana e Vida Nueva)

 l’intervista:

All’indomani dei fatti di Parigi, con gli occhi ancora pieni di quell’orrore, non si può non avvertire la sensazione che, un po’ su tutti i versanti, dal terrorismo fino al cambiamento climatico, tutti i nodi stiano venendo al pettine. È arrivato per l’ Occidente il momento di pagare i suoi errori?

Ellacuría denunciava le colpe di quella che chiamava “civiltà della ricchezza”, ritenendola responsabile della grave malattia di cui soffre il mondo. E non vi sono dubbi che essa sia presente soprattutto in Europa, prima e dopo la nascita dell’Unione Europea, e negli Stati Uniti. Credo che, nel loro insieme, questi Paesi non abbiano assunto la propria responsabilità, che va oltre quello che dicono i loro politici e i loro capi di governo. E penso che questa vicinanza con l’Africa, il fatto che l’Africa stia arrivando qui, sia un bene per l’Europa. Perché può aiutarla a comprendere cosa significa essere umani. L’auspicio è che l’orrore di Parigi ci faccia pensare a noi non solo come vittime. Siamo tutti noi, molto spesso, a creare un mondo ingiusto. Ma, una volta che l’orrore è stato commesso, cosa intendiamo fare? Protestare? Prendere il fucile e uccidere tutti gli islamici? Oppure, a piccoli passi, possiamo cercare un’altra strada, noi cristiani che vogliamo essere come Gesù e gli islamici che perseguono il bene? E, perlomeno, non dobbiamo perdere il senso del dolore altrui, dobbiamo fare in modo che le cose ci facciano male, oltre a spingerci alla protesta e all’indignazione, perché l’indignazione non è necessariamente dolore. Che ci sia indignazione, che ci sia dolore, e che ci sia volontà di camminare nella storia facendo giustizia e amando con tenerezza.

Qual è il cammino che la Chiesa è chiamata oggi a percorrere?

Bisogna individuare quelle che sono le pietre miliari del nostro cammino. Io ho scelto quelle rappresentate da Giovanni XXIII, dal Patto delle Catacombe, da Medellín e da Puebla, dove si è affermato che i poveri, per il mero fatto di essere tali, Dio li difende e li ama. L’opzione per i poveri non vuol dire solo amare i poveri, ma anche difenderli da chi fa loro del male, difenderli da chi li impoverisce. E difendere chi sta in basso significa sempre storicamente correre rischi. Chi li difende deve essere aperto, preparato e disposto ad affrontare pericoli. Padre Arrupe, nel 1975, parlò in tal senso di una lotta cruciale, quella per la fede e per la giustizia. Non so se le nostre chiese, università, facoltà di teologia la pensano realmente così, se credono davvero alla necessità che ci si cali in questa lotta cruciale. E si è detto anche, nella scia dell’entusiasmo di padre Arrupe, che ciò non può avvenire senza pagare un prezzo. Io mi sento orgoglioso di alcune cose fatte da noi gesuiti, a cominciare dall’onestà nei confronti della realtà. Bisogna pagare un prezzo, e la Compagnia di Gesù lo sa molto bene: da quando si sono pronunciate queste parole, nel 1975, sono stati assassinati più o meno 60 gesuiti, tutti fondamentalmente colpevoli di aver difeso in qualche modo la giustizia. Il cammino, insomma, è già tracciato: dire la verità, ripeterla, insistere a dirla, pubblicarla. Dire una verità che, oltre a essere tale, sia a favore del povero. Comunicare il fatto che stiamo difendendo il povero, con la consapevolezza che, se lo facciamo, correremo rischi. Quando ci troviamo di fronte all’orrore, quando è in atto una persecuzione, occorre, certo, denunciarla, ma anche dire quello che affermava mons. Romero: «Mi rallegro fratelli che la Chiesa sia perseguitata… Sarebbe molto triste se nella nostra Chiesa non ci fossero sacerdoti assassinati». Perché, quando c’è persecuzione, vuol dire che qualcosa di buono sta avvenendo nella Chiesa. Ciò aiuta a umanizzare un pochino il pianeta. In gran parte l’aria che respiriamo è contaminata e questo cammino aiuta a purificarla, a camminare più umanamente insieme all’altro.

Cosa ha significato la beatificazione di mons. Romero?

Dinanzi a un gruppo di circa 500 salvadoregni, accompagnati dall’arcivescovo di San Salvador, il papa ha dichiarato che il martirio di mons. Romero non si è limitato al momento della sua morte, in quanto l’arcivescovo è stato perseguitato prima e anche successivamente al suo assassinio, «diffamato, calunniato e infangato» anche «dai suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato». I quali hanno continuato a ucciderlo anche dopo, con l’arma più potente e mortale, che è la parola. In questo quadro, qual è il significato della canonizzazione? Non si tratta di una riabilitazione: riabilitare significa restituire a qualcuno ciò che gli è stato tolto. Ma a mons. Romero non interessa una tale riabilitazione e io non credo che la beatificazione sia stato questo: è stato molto più di questo. A mio giudizio, per il papa, è stato un modo di animare la gente del mondo, e naturalmente di El Salvador, alla misericordia. Mons. Romero è stato assolutamente misericordioso. Che il papa affermi che mons. Romero è una persona buona è un fatto che dà molto animo, e in El Salvador credo che sia avvenuto questo. Poi, riguardo al modo in cui si è svolta la beatificazione, dal punto di vista del culto, della messa, delle parole pronunciate, degli inviati, della curia, non è stato nulla di speciale. Ma la gente ha comunque festeggiato e applaudito, senza interrogarsi se le parole del culto fossero giuste o meno. Penso che il papa si fosse proposto questo con la beatificazione di mons. Romero, ma, più in profondità, credo che l’intenzione sia quella di dare riconoscimento a un continente di martiri. Così, ora si parla di una canonizzazione di Angelelli in Argentina, di quella di Rutilio Grande in El Salvador… È, insomma, l’idea che non è possibile lasciar morire i martiri di silenzio. L’America Latina è un continente che è passato per un grande orrore: dittature, oligarchie, squadroni della morte, eserciti criminali. In questa situazione, molte persone di Chiesa, vari sacerdoti e alcuni vescovi sono andati incontro al martirio. Credo che il papa, riconoscendo questa realtà, voglia spingere perché si torni a un modello di Chiesa più simile a Gesù.

Come è andato il suo incontro con papa Francesco?

Quando il gesuita Martin Maier mi ha chiesto se volevo andare a una messa del papa, ho detto subito di sì. Per temperamento, non sono molto adatto a queste cose, ma questo papa è un buon papa e avere occasione di incontrarlo è un motivo di gioia. Al termine della messa, io e Martin siamo rimasti in fondo alla fila. Quando poi ci siamo avvicinati, gli ho detto: «Vengo da El Salvador, sono gesuita, compagno dei gesuiti della Uca che sono stati assassinati». E

mi ha detto: «Sobrino!». E siamo rimasti a parlare per un po’, semplicemente. Alla fine mi ha abbracciato e mi ha detto: «scriva, scriva».

testo Sobrino  : il testo della conferenza di Sobrino al seminario sul patto delle catacombe

Sobrino ricorda il suo ‘monsignore’

 
 

”Il mio ricordo di Romero”

Ronero

 

 

 

di Jon Sobrino

Il mio primo incontro personale con monsignor Romero avvenne il 12 marzo 1977. Quel pomeriggio padre Rutilio Grande e due contadini, un bambino e un anziano, erano stati assassinati vicino a El Paisnal. La sera ci riunimmo in molti nel convento di Aguilares, gesuiti, sacerdoti, religiose e centinaia di contadini, a piangere la morte di Rutilio, il sacerdote che aveva annunciato la buona notizia del Vangelo.

Sobrino

Stavamo aspettando monsignor Romero, che aveva preso possesso dell’arcidiocesi pochi giorni prima, il 22 febbraio, e il suo vescovo ausiliare monsignor Rivera, per celebrare la prima eucaristia davanti ai cadaveri dei tre assassinati. (…). Bussarono alla porta del convento, andai ad aprire e monsignor Romero entrò, insieme a monsignor Rivera. Il volto di monsignor Romero era serio e pieno di preoccupazione. Lo salutai e senza dire una parola lo accompagnai in chiesa. Fu il mio primo contatto personale con monsignor Romero. Fu breve, solo simbolico, però l’occasione lo fece diventare molto importante per me.

Indubbiamente in quei momenti il nostro pensiero andava a Rutilio e ai contadini assassinati. Tutti ci chiedevamo che cosa ci avrebbe riservato il futuro: infatti, sebbene la repressione contro i contadini fosse già cominciata e alcuni sacerdoti fossero già stati arrestati ed espulsi dal Paese, per El Salvador l’assassinio di un sacerdote era un fatto inaudito. Venivano meno non soltanto le regole del bene, ma anche quelle del male. Se i potenti si erano spinti ad assassinare un sacerdote, nel Paese sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa. Di fatto il 1977, per i contadini, per i sacerdoti e anche per noi gesuiti, fu un anno davvero tribolato. Due mesi dopo vennero espulsi dal Paese i tre gesuiti che erano rimasti ad Aguilares e il 20 giugno tutti noi gesuiti fummo minacciati di morte.

Senz’altro la cosa più importante di quella notte era il cadavere di Rutilio. Per me, tuttavia, fu importante anche guardare il volto serio e preoccupato di monsignor Romero. Quel vescovo, del quale io sapevo solo che era stato molto conservatore e fragile psicologicamente, cominciava il suo ministero arcivescovile non tra celebrazioni solenni ma tra sequestri, torture, espulsioni di sacerdoti e, ora, davanti al sangue di uno dei sacerdoti che aveva conosciuto meglio: Rutilio. E, ancor peggio, in mezzo a una crescente repressione di contadini e operai, che i vescovi, particolarmente motivati da monsignor Rivera, avevano denunciato coraggiosamente in un messaggio del 5 marzo.

Il volto serio e preoccupato di monsignor Romero quando gli aprii la porta mi attrasse subito, e dentro di me, pensai che avrei dovuto aiutarlo. Di fatto l’idea che tutti noi ci eravamo fatti di lui era già cambiata nelle riunioni col clero che si erano tenute negli ultimi giorni di febbraio, dove si era presentato come nuovo arcivescovo e ci aveva chiesto di aiutarlo in quelle gravi difficoltà. La decisione di aiutarlo era stata spontanea e condivisa da molti. Per tutti noi era anche una necessità, dato che presagivamo che le cose si sarebbero fatte molto difficili: meglio affrontarle uniti come Chiesa, piuttosto che separati e divisi. (…). Ma quella notte del 12 marzo fu decisiva. E devo dire che quel cambiamento fu sorprendente, perché le mie scarse relazioni con lui erano state piuttosto tese dal mio rientro nel Salvador, nel 1974.

A quell’epoca di monsignor Romero avevo saputo soltanto che era un vescovo molto influenzato dall’Opus Dei, contrario – a volte con aggressività intellettuale – ai sacerdoti e ai vescovi che avevano accettato la linea di Medellín. Considerava marxisti e politicizzati diversi gesuiti del Salvador, proprio quelli dai quali stavo imparando a muovere i miei primi passi di gesuita e di teologo, dopo sette anni di assenza. (…).

Questo trovò conferma il 6 agosto 1976. Quel giorno si celebra la festa del Divino Salvatore, patrono del Paese, con un’immancabile messa solenne. In quegli anni si invitava un’importante personalità ecclesiale a tenere l’omelia in presenza di tutti i vescovi, del governo e del corpo diplomatico. (…).

Se mi si permette una parentesi, l’omelia del 1970 era stata pronunciata da padre Rutilio Grande, noto e apprezzato sacerdote dell’arcidiocesi e candidato a diventare rettore del seminario. Rutilio aveva dedicato la sua omelia a commentare le tre parole che sono scritte sulla bandiera nazionale: Dio, unità, libertà. Quell’omelia fu una forte denuncia della situazione del Paese: senza unità e senza libertà, e, pertanto, senza Dio. L’omelia aveva causato grande sorpresa e un grande impatto; e Rutilio non divenne rettore del seminario. Tornando al 1976, questa volta l’oratore sacro scelto fu monsignor Romero, allora vescovo di Santiago de Maria. Non assistetti alla messa del 6 agosto, ma poche ore dopo la celebrazione un sacerdote mi portò la registrazione dell’omelia. L’ascoltai e rimasi di sasso. Nel primo punto dell’omelia, monsignor Romero criticava le cristologie sviluppate nel Paese: cristologie razionaliste, cristologie inneggianti alla rivoluzione, cristologie che portavano odio… In altre parole, la sua omelia era stata un’accesa critica della mia cristologia.

Quindi è comprensibile che non vedessimo di buon occhio la scelta di monsignor Romero come successore dell’arcivescovo Luis Chávez, che era stato un vescovo pastorale, molto vicino al popolo, col quale avevamo ottimi rapporti. (…). Mi domandai se monsignor Romero avrebbe avuto il coraggio di denunciare la repressione o se, al contrario, l’avrebbe agevolata; se avrebbe difeso i contadini e i sacerdoti minacciati. Pochi giorni dopo ricevetti una cartolina da un gesuita messicano, che quasi mi faceva le condoglianze. Tutti, in effetti, vedevamo un panorama triste. Fortunatamente ci sbagliavamo.

Questi ricordi, ovviamente, in quella sera del 12 marzo non avevano alcuna importanza. (…).

In quei momenti cominciò a venirmi in mente un altro pensiero, importante solo a livello personale. Sapevo che monsignor Romero aveva avuto l’umiltà e la delicatezza di chiedere scusa per le sue azioni precedenti. Era giunto, con parecchi anni di ritardo, a chiedere perdono a una comunità di base, per quanto aveva detto nel 1972: parole che in pratica giustificavano la militarizzazione dell’Università nazionale e la repressione che ne era scaturita. Chiese perdono anche a un compagno gesuita che era rettore del seminario quando i vescovi – e tra loro, con forza, monsignor Romero – avevano deciso che i gesuiti abbandonassero la direzione del seminario. E c’erano stati altri analoghi casi di umiltà e sensibilità.

Non so perché, mi turbava l’idea che un giorno monsignor Romero potesse rievocare i suoi attacchi contro di me e chiedermi scusa. Fortunatamente non l’ha mai fatto, e ne sono stato sollevato. Però ricordo un giorno, credo fosse la fine di aprile del 1977, in cui monsignor Romero mi vide in un angolo della cattedrale e venne a parlarmi. «La ringrazio» mi disse, «per la riflessione che ha fatto sulla Chiesa. Credo abbia aiutato molto». Si riferiva al dossier che aveva spedito a Roma per spiegare la situazione del Paese e l’azione ecclesiale dopo la morte di Rutilio. Io avevo collaborato per la parte della riflessione teologica.

In verità monsignor Romero non aveva bisogno di ringraziare né me né tanti altri per esserci posti al suo servizio. Ma il suo gesto mi fece piacere: era una specie di accettazione ecclesiale di quanto facevamo e, soprattutto, un gesto di fiducia. (…).
LA CONVERSIONE

Ritorniamo alla sera del 12 marzo. Dopo la messa, monsignor Romero chiese ai sacerdoti e ai religiosi di rimanere lì con lui; si fermarono anche alcuni contadini e laici, naturalmente senza alcuna discriminazione. (…). Ci pose una domanda elementare: che cosa dobbiamo e che cosa possiamo fare, come Chiesa, dopo la morte di Rutilio.

Mi resi conto che, per quanto potesse essere nervoso e turbato, era disposto a compiere tutto il necessario, sebbene il solo pensiero probabilmente lo terrorizzasse: infatti era giunto il momento di affrontare i potenti, l’oligarchia e il governo. E senza dubbio ricordo che le parole con cui ci chiedeva aiuto erano totalmente sincere, gli venivano dal cuore. Un arcivescovo ci chiedeva veramente aiuto. E lo chiedeva a coloro che qualche settimana prima aveva considerato sospetti, marxisti… Quel gesto di dialogo e di umiltà mi arrecò una grande gioia. E pensavo che benché apparentemente per monsignor Romero tutto iniziasse tanto male, in realtà iniziava bene. Germogliava il seme di una Chiesa unita, determinata e profetica, che in seguito sarebbe cresciuto tanto. (…).

Sentii anche, o almeno intuii, che nel suo intimo stava accadendo qualcosa di profondo. Certamente era nervoso, però credo che in quel nervosismo e in quel non sapere che cosa fare di quei primi momenti, monsignor Romero abbia preso l’intima decisione di reagire come Dio gli domandava: fece una vera scelta per i poveri, rappresentati in quella notte da centinaia di contadini radunati intorno a tre cadaveri, indifesi davanti alla repressione che già subivano e che prevedevano. (…). Credo che quella notte iniziò a maturare definitivamente la conversione di monsignor Romero.

In effetti monsignor Romero non gradiva che si parlasse di una sua «conversione», e non aveva tutti i torti. Era solito ricordare che proveniva da una famiglia umile, che non era mai vissuto nella ricchezza e abbondanza, ma nella povertà e nell’austerità. Inoltre tutti riconoscevano che la sua vita sacerdotale ed episcopale fin lì era stata notevolmente virtuosa. A suo modo era stato aperto verso i poveri e li aveva anche difesi a Santiago de Maria, nel momento della repressione. (…). Credo inoltre che monsignor Romero abbia sempre mantenuto un cuore puro e un discernimento morale che né la sua ideologia conservatrice né l’agire retrogrado di buona parte della gerarchia a cui apparteneva erano valsi a soffocare. Tuttavia la sua personalità interiore era come sdoppiata: nel cuore manteneva gli ideali religiosi, accettava le direttive del Vaticano II e di Medellín, ma la sua mente interpretava la novità del Concilio e di Medellín in una prospettiva assai conservatrice, impaurita di qualsiasi cosa potesse immischiare la Chiesa nella cruda realtà conflittuale e ambigua della storia. Fu questo sdoppiamento interiore, credo, a dissolversi quella notte, e direi che questo si possa chiamare conversione; non tanto come chi smetta di fare il male e abbracci il bene, ma come un radicale cambiamento nel cogliere e nel porre in opera la volontà di Dio. (…).

Lo si chiami o non lo si chiami conversione, il radicale cambiamento di monsignor Romero è uno degli avvenimenti che più hanno colpito tutti, me compreso. In quel momento monsignor Romero aveva cinquantanove anni, età in cui le persone hanno già consolidato la propria struttura psicologica e mentale, la loro comprensiöne della fede, la spiritualità e l’impegno cristiano. Inoltre era arcivescovo di fresca nomina, vale a dire che era stato posto come massima autorità e responsabile dell’istituzione ecclesiale, che, come tutte le istituzioni, è più propensa alla continuità e alla prudenza, se non al passo del gambero. Infine, le circostanze storiche non erano affatto favorevoli. Monsignor Romero fu pienamente consapevole, fin dal principio, di essere stato il candidato della destra, e subito conobbe le adulazioni dei potenti che gli offrirono la costruzione di un palazzo episcopale sperando che cambiasse linea rispetto al suo predecessore, Luis Chávez y Gonzáles. Cambiare, e cambiare radicalmente, significava non solo deluderli (…), bensì anche affrontarli. Se avesse cambiato, si sarebbe attirato le ire dei potenti, dell’oligarchia, del governo, dei partiti politici, dell’esercito e dei corpi di sicurezza; e, poi, della maggioranza dei suoi fratelli vescovi, di vari dicasteri vaticani e perfino del governo degli Stati Uniti. Se per spiegarci la sua conversione soppesiamo le forze in campo, monsignor Romero aveva dalla sua un gruppo di sacerdoti e religiose e, certamente, il dolore e la speranza di tutto un popolo; ma dalla parte avversa erano schierati tutti i potenti. L’equilibrio evangelico delle forze andava a suo favore, ma non quello storico. Se monsignor Rornero si è lanciato per strade così nuove alla sua età, dal punto più alto dell’istituzione e con tanti sicuri avversari, vuol dire che la sua conversione è stata piena e reale, ha toccato il più profondo del suo essere, l’ha definito per sempre e l’ha portato fino al dono della vita. (…).

Credo che l’assassinio di Rutilio Grande – che è stato anche luce e incoraggiamento per i suoi successivi percorsi – sia stato l’occasione della conversione di monsignor Romero. Monsignor Romero conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un sacerdote esemplare e un amico (…). Tuttavia monsignor Romero non aveva condiviso la pastorale di Rutilio negli anni in cui quest’ultimo era stato parroco ad Aguilares: la considerava troppo politicizzata, troppo orizzontale, lontana dalla missione fondamentale della Chiesa e pericolosamente vicina alle idee rivoluzionarie. Rutilio fu quindi per monsignor Romero un «problema»; più ancora, un «enigma». Per un verso era un sacerdote virtuoso, zelante, davvero credente; per l’altro verso la sua missione pastorale pareva, a Romero, scorretta e sbagliata. Quell’«enigma», credo, si chiarì con l’assassinio di Rutilio. Credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero siano cadute le bende dagli occhi: Rutilio aveva ragione. (…). Insomma, a sbagliare non era stato Rutilio Grande, ma Oscar Romero; non Rutilio doveva cambiare, ma lui stesso. E queste riflessioni, che in teoria sarebbero potute restare sul mero piano razionale, si tradussero in decisioni di cambiamento, di proseguire la linea di Rutilio e, soprattutto, la strada di Gesù. (…). Credo che la morte di Rutilio abbia scosso monsignor Rornero e gli abbia dato la forza per un nuovo modo di agire, e che la vita di Rutilio abbia impresso la direzione fondamentale anche alla sua vita, benché egli dovesse poi tradurla in atto nella sua situazione personale di arcivescovo e nelle circostanze storiche sempre più critiche. In quei giorni si parlava della conversione di monsignor Romero come del «miracolo di Rutilio».

Una seconda cosa che dovette colpire a fondo monsignor Romero in quei primi giorni da vescovo fu la differente reazione dei diversi gruppi ecclesiali. Monsignor Rornero era al corrente del fatto che la sua nomina non era stata ben accolta, che i sacerdoti «progressisti», le comunità di base e tutti coloro che lavoravano nella linea della coscientizzazione e liberazione di Medellín, lo avevano accolto con timore. E conosceva anche le aspettative che la sua nomina aveva risvegliato nei cattolici accomodanti – quelli a volte conniventi con i gruppi di potere che avevano attaccato e calunniato monsignor Chávez – e nel gruppetto di sacerdoti collocabili in quell’orbita. Dovette rimanere davvero sorpreso nel constatare che, in quei giorni tanto duri per lui e densi di rischi concreti, i primi lo avevano accolto e i secondi lo avevano abbandonato. Nell’ora della verità, quelli che aveva guardato con sospetto, che aveva combattuto, e anche accusato e condannato, restavano con lui. Gli altri, coloro che giudicava pii e ortodossi, i prudenti e i non politicizzati, gli apparentemente fedeli a qualsiasi indicazione della Chiesa, lo lasciavano solo, come i discepoli con Gesù; e presto cominciarono a criticarlo, ad attaccarlo, a disobbedirgli (dimostrando così che la loro asserita fedeltà alla gerarchia ecclesiastica finiva quando l’arcivescovo non era di loro gradimento e le cose si mettevano male).

(…). Non si poteva dedurne che tutto quanto facevano i sacerdoti progressisti era perfetto; però se ne ricavava, almeno, che avevano molta più verità e molto più amore cristiano rispetto agli altri. (…). E che erano disposti a correre rischi personali, a parlare e a denunciare pubblicamente, sebbene in quel momento ciò comportasse essere schedati, arrestati o assassinati. (…).

Ricordo che una sera, pochi giorni dopo l’assassinio di Rutilio, lo incontrai alla Ysax – la radio dell’arcivescovado, molto nota perché ritrasmetteva le omelie di monsignor Romero e per i tanti attentati dinamitardi – e mi mostrò una lettera, su carta lussuosa e, se non ricordo male, adorna con disegni di fiori. La lettera era di una persona che era stata vicina a monsignor Romero. Questa si mostrava sorpresa del suo cambiamento e non condivideva il suo modo di agire. Monsignor Romero non si mostrò per nulla colpito. Ricordo che mi disse semplicemente: «È di una persona dell’Opus». Credo intendesse dirmi che «non capisce, come neanch’io prima capivo».

(…). Coloro che abbandonarono il Paese alla sua tragedia, nascondendosi nel loro essere cristiani, per monsignor Romero smisero di essere luce. Quelli che scelsero in favore del Paese, dicendo la verità, denunciando le atrocità e impegnandosi nella giustizia – con tutti i loro limiti e le loro esagerazioni -, per monsignor Romero divennero luce.

Un terzo elemento che spiega la conversione di Romero, quella definitiva e che lo mantenne fedele alla volontà di Dio fino alla fine, sono stati i poveri del suo popolo. Subito gli mostrarono accoglienza, appoggio, tenerezza e amore. (…). Appena monsignor Romero fece i suoi primi passi, appena fece le sue prime denunce e le prime visite alle comunità, i poveri si volsero a lui, entrarono nel suo cuore e vi rimasero. Monsignor Romero a sua volta entrò nel loro cuore, dov’è rimasto fino a oggi. (…). I poveri gli imposero di convertirsi; e tuttavia, offrendogli al tempo stesso luce e salvezza, gliela resero una via agevole. E monsignor Romero lo riconobbe. Per me non c’è dubbio che qui risieda il definitivo segreto di monsignor Romero, come lui stesso ha affermato. Con parole straordinariamente appropriate, parole che non ci si può inventare se non scaturiscono dalla verità nel cuore, ha detto: «Con questo popolo non pesa essere un buon pastore».
LA VERA “GLORIA DI DIO”

Nei giorni successivi l’assassinio di Rutilio, la curia arcivescovile e tutta la diocesi vissero momenti di grande fermento, che a loro volta tracciarono per monsignor Romero una traiettoria che poi percorse sino alla fine senza deflettere. Capì ben presto che in quanto arcivescovo doveva spiegare al popolo che cos’è la Chiesa, la sua denuncia profetica e la difesa dei poveri. (…).

Rompendo molti anni di tradizione, monsignor Romero fece il gesto davvero straordinario di promettere pubblicamente che non avrebbe partecipato ad alcuna cerimonia ufficiale del governo finché quei crimini non fossero stati chiariti e non si fosse interrotta la repressione. Mantenne la parola: in tre anni non partecipò ad alcun atto del governo, non l’approvò con la sua presenza.

Queste prime azioni di monsignor Romero cominciavano a mostrare quale sarebbe stato il suo modo di agire. Prendeva decisioni sul da farsi dopo averne discusso e dialogato con il clero, le religiose e i laici. Ricordo che una delle riunioni di quei primi giorni durò dalle otto di mattina fino alle otto di sera. Fin dal principio il suo modo di fare fu profetico, denunciando con chiarezza le aberrazioni; fu evangelico, con semplicità, senza lasciarsi intimidire dalle conseguenze politiche delle sue azioni; fu pubblico, parlando al Paese, promettendo cose verificabili, che gli si sarebbero potute contestare se non le avesse realizzate.

Fra ciò che ha promesso pubblicamente e ha mantenuto, in quei giorni, spiccarono due cose: la sospensione delle lezioni per tre giorni nelle scuole cattoliche e la messa unica del 20 marzo (in segno di protesta per l’assassinio di Rutilio Grande, fu stabilita la celebrazione di un’unica messa domenicale, di funerale, in tutta l’arcidiocesi, NdT).

La sospensione delle lezioni non fu una vacanza, come dissero i suoi detrattori, ma tre giorni di studio, riflessione e preghiera sulla Bibbia, sul Concilio e su Medellín. (…).

La messa unica causò maggior agitazione, e penso che quella decisione sia stata molto importante per monsignor Romero, perché lo portò a confrontarsi con la sua stessa fede e cominciò a metterlo a confronto con l’istituzione ecclesiastica. (…). Era convinto di dover fare qualcosa d’importante, che richiamasse l’attenzione del Paese e risvegliasse le coscienze; ma aveva uno scrupolo teologico che formulò nella riunione, con la sincerità che lo caratterizzava: «Se l’eucaristia è un atto nel quale si dà gloria a Dio, non gli darà maggior gloria la molteplicità abituale delle messe domenicali?» (…). Ci fu una lunga discussione, fin quando padre Jerez prese la parola e disse: «Io credo che monsignor Romero abbia ragione nel sostenere che dobbiamo preoccuparci della gloria di Dio, però, se non ricordo male, i padri della Chiesa dicevano gloria Dei vivens homo, la gloria di Dio è l’uomo vivente». Quest’intervento in pratica chiuse la discussione. Monsignor Romero parve convinto e sollevato dal suo scrupolo, e decise che si sarebbe celebrata la messa unica. (…).

Non si trattava soltanto di accettare una nuova formulazione teologica, ma una nuova comprensione di Dio. E monsignor Romero l’accettò. Ha ripetuto fino alla sazietà che per Dio non c’è nulla di più importante della vita dei poveri. (…). Ha riformulato il detto di sant’Ireneo citato da padre Jerez come gloria Dei vivens pauper, «la gloria di Dio è il povero che vive». E all’opposto si è scagliato contro gli idoli, le divinità false ma molto reali, che producono morte e per sussistere esigono vittime.

Credo che a cinquantanove anni monsignor Romero non soltanto abbia attraversato una conversione, ma abbia anche fatto una nuova esperienza di Dio. Da allora non poté più separare Dio dai poveri, la sua fede in Dio dalla difesa dei poveri. Credo che abbia visto in Dio il prototipo dell’opzione per i poveri, e che questo l’abbia indotto a metterla in pratica per primo, ma l’abbia anche illuminato su chi è Dio. Sicché non lo spaventavano più le nuove formulazioni su Dio: Dio di vita, Dio del Regno, Dio dei poveri; le faceva proprie in tutta naturalezza. (…).

Tutto questo però gli fece approfondire anche il mistero del Dio sempre maggiore, trascendente, ultima sede della verità, della bontà, dell’umanità su cui gli esseri umani possono contare. (…). Il 10 febbraio 1980, in una situazione ormai caotica, in pieno conflitto con il governo, l’esercito, l’oligarchia e gli Stati Uniti, monsignor Romero fu ancora una volta profeta valoroso e implacabile: parlò delle cose di questo mondo e si schierò in difesa del suo popolo oppresso. Ma in quella stessa omelia, con la medesima naturalezza con cui pronunciava le sue denunce storiche, disse le seguenti parole: «Come vorrei, cari fratelli, che il frutto di questa predicazione di oggi, per ciascuno di noi, fosse che giungessimo a incontrare Dio e a vivere la gloria della sua maestà e della nostra piccolezza! Nessun uomo si conosce finché non ha incontrato Dio».

Chi pronuncia queste parole ha una profonda esperienza di Dio. In nome di Dio monsignor Romero ha difeso la vita dei poveri: e quando voleva offrire a tutti il meglio di se stesso, ci offriva semplicemente Dio.

Il Dio dei poveri e il mistero di Dio: ecco che cosa monsignor Romero fece presente a tutti quelli che desideravano ascoltarlo. (…).
IL CONFLITTO CON I VESCOVI

Fu tale il tumulto suscitato dall’annuncio della messa unica, che monsignor Romero decise di comunicarlo personalmente al nunzio e mi chiese di accompagnarlo insieme ad altri sacerdoti. Il nunzio non c’era e ci ricevette il suo segretario. Notai che fin dall’inizio il segretario della nunziatura era visibilmente arrabbiato per la messa unica e non faceva alcuno sforzo per nasconderlo, benché fosse davanti a monsignor Romero: lui un semplice segretario, monsignor Romero l’arcivescovo di San Salvador. È stata un’esperienza di quel po’ di arroganza che con frequenza esiste nelle curie d’ogni tipo, insieme alla mancata comprensione della sofferenza di un popolo e della condizione di un arcivescovo tormentato da responsabilità tanto serie. Credo di essermi indignato poche volte come mi è accaduto quel giorno.

Il segretario cominciò col dire che l’argomentazione pastorale e teologica a favore della messa unica era buona; credo abbia detto addirittura che era molto buona. (…). «Eppure», aggiunse, «voi avete dimenticato la cosa più importante». Non riuscivo a immaginare che cosa potesse essere più importante in quei momenti, ma il segretario sentenziò: «Avete dimenticato l’aspetto canonico». Non potevo credere a quel che sentivo, e come me nessuno dei presenti. Gli risposi che non c’è niente di più importante del corpo di Cristo che veniva represso e dissanguato nel Paese; che nulla era più importante per la Chiesa, in quei momenti, che denunciare la repressione e dare speranza al popolo; che in simili occasioni gli aspetti canonici erano secondari; gli ricordai quanto detto da Gesù sul fatto che il sabato è per l’uomo. (…).

Fu un’ora lunga e molto sgradevole, ma quel che mi impressionò di più fu l’assoluto silenzio di monsignor Romero durante tutto il tempo. (…). Conclusa la riunione, senza alzare la voce, senza entrare in discussioni sugli argomenti, disse più o meno queste parole: «Il Paese sta attraversando una situazione eccezionale di denuncia ed evangelizzazione. Io sono il responsabile dell’arcidiocesi e celebreremo la messa unica». (…). «Non capiscono» mi disse laconicamente, riferendosi alla nunziatura.

Il 20 marzo si tenne la messa unica, e fu un successo pastorale senza precedenti. (…). Con quella messa, per monsignor Romero iniziò anche un lungo calvario di incomprensione e rifiuto gerarchico. (…). Nel Salvador soltanto monsignor Rivera gli rimase fedele. (…).

Dal Vaticano gli inviarono tre visitatori apostolici in un anno e mezzo, con grande stupore dei salvadoregni che si domandavano quando sarebbe stato mandato anche un solo visitatore alle diocesi che non avevano alcun piano pastorale e a volte avallavano le azioni di un esercito criminale. A Roma le sue relazioni col cardinal Baggio furono molto tese. Il cardinale giunse a parlargli perfino della possibilità che fosse nominato un amministratore apostolico – con pieni poteri -, ipotesi di fronte alla quale monsignor Romero chiese soltanto che la cosa fosse fatta con dignità, affinché il suo popolo non ne soffrisse, benché non credesse che quella fosse una soluzione valida. (…).

Monsignor Romero scoprì quindi, proprio quando meno se l’aspettava, i limiti, gli intrighi e le meschinità dell’istituzione ecclesiale. Gli era difficile capire come fosse possibile che mentre il Paese era in fiamme e persino i sacerdoti venivano assassinati, lui trovasse non appoggio ma opposizione; come fosse possibile che mentre era in gioco il regno di Dio, i vescovi salvadoregni si preoccupassero che non accadesse nulla all’istituzione. Questo lo fece soffrire molto e negli ultimi tempi provava una vera e propria nausea all’idea di partecipare alle riunioni della Conferenza episcopale, perché vi si parlava una lingua totalmente diversa dalla sua. (…).

Ho partecipato alla Conferenza di Puebla insieme ad altri teologi e sociologi per seguire più da vicino un avvenimento tanto importante e per offrire aiuto ai vescovi che l’avessero richiesto, dato che non eravamo stati invitati a partecipare ufficialmente. Una sera si tenne una riunione congiunta tra il nostro gruppo e un buon numero di vescovi che erano venuti a trovarci. (…). C’era anche monsignor Romero. (…). Ricordo che monsignor Romero era emozionato da tutto. Dalla fraternità della riunione, dalla sincerità delle nostre discussioni, dall’ambiente di fede e di Chiesa, soprattutto dalla vicinanza e solidarietà che mostravano i vecovi. Quasi con le lacrime agli occhi, disse: «Mi sono trovato come un fratello tra altri fratelli vescovi».

(…) In breve tempo monsignor Romero dovette imparare a prendere, in prima persona, decisioni importanti e a dialogare con i suoi sacerdoti; dovette imparare la serenità per non aggravare la situazione e il coraggio per denunciare e affrontare i potenti; dovette imparare a dare speranza al popolo e a ricevere dal popolo la sua sofferenza, la sua fede e il suo impegno.

Questo è quanto si notava esteriormente. Interiormente dovette apprendere la fede nel Dio dei poveri e nel Dio maggiore di tutto, anche delle sue idee precedenti e della stessa Chiesa, che per lui iniziava a prendere l’aspetto della croce. Dovette apprendere che non c’è nulla di più importante del regno di Dio, della vita, della speranza, dell’amore e della fraternità. Dovette apprendere che il luogo della Chiesa è la sofferenza dei poveri, la realtà dei popoli crocifissi, vero servo di Yahweh, come lui stesso avrebbe detto in seguito. Dovette apprendere non soltanto a dare, ma anche a ricevere luce e salvezza da quel popolo crocifisso. E lo apprese. (…).

 

a proposito della beatificazione di Oscar Romero

Romero e quelli che non applaudono

intervista a Jon Sobrino

Sobrino

a cura di Alver Metalli
in “La Stampa-Vatican Insider” del 21 maggio 2015

Nel «Centro monsignor Romero» nel cuore dell’Università Cattolica Jon Sobrino si muove come se danzasse. L’ha fondato dopo il massacro dei suoi confratelli gesuiti – «non ho fatto la loro fine solo perché ero in Tailandia» ricorda – e vi ci si dedica come se fosse l’ultima missione della sua vita, giunta alle soglie dei 77 anni. Una ventina di anni in più, in media, di quanto abbiano vissuto Ignacio Ellacuria e compagni, caduti sotto i colpi dei killer il 16 novembre del 1989. Le resistenze, le accuse di sinistrismo e filo-guerriglierismo riversate su Romero come piombo fuso, partite dal Salvador e con orecchie condiscendenti anche a Roma, Jon Sobrino le conosce bene. Ergo la beatificazione non può che rallegrarlo. Ma non è così, o, perlomeno, ha molte cose da precisare in proposito. Gli chiediamo se avesse immaginato, anni fa, che si sarebbe arrivati al giorno di oggi, di dopodomani per l’esattezza, sabato 23 maggio. Caracolla la sua magrezza nella sala principale del mausoleo ai «martiri della Uca» e lascia uscire un provocatorio «non mi è mai interessato». Lo ripete nel timore che non avessimo capito bene. «Sul serio… lo dico sul serio: non mi è mai interessata la beatificazione di Romero». Aspettiamo chiarimenti. Ci devono essere, quelle appena pronunciate non possono essere le sue ultime parole. «Quando l’hanno ammazzato, la gente di qui – non gli italiani e nemmeno in Vaticano – ma i salvadoregni, i nostri poveri, hanno detto subito: “È santo!”. Pedro Casaldaliga quattro giorni dopo ha scritto un gran poema: “¡San Romero de América, pastor y mártir nuestro!”». Ricorda che anche Ignacio Ellacuria, abbattuto a pochi metri da qui, «tre giorni dopo l’assassinio di Romero ha detto Messa in un aula della Uca, e nell’omelia ha detto: “Con monsignor Romero Dio è passato per El Salvador”». Tira il fiato come se avesse bisogno di ossigeno. «Quello che non avrei immaginato questo sì, è che ci fosse qualcuno che potesse dire una cosa così. Che lo beatifichino va bene, hanno tardato 35 anni ma non è la cosa più importante». Si assicura che l’interlocutore abbia ricevuto il colpo. «Capisci quello che ti sto dicendo?» esclama allargando in un sorriso indulgente le sue labbra sottili. Per tutta risposta riceve una nuova richiesta di spiegazioni. «Si capisce che c’è qualcosa che non la convince in quello che sta avvenendo…». Attorno a noi stanno scaricando i pacchi freschi di stampa dell’ultimo numero di Carta a las Iglesias, la rivista che dirige. «Va bene che lo beatifichino, non dico di no, ma mi sarebbe piaciuto che fosse in un altro modo… e ancora non so cosa dirà il cardinale Angelo Amato dopodomani, non so, non so se quello che dirà mi convincerà o no». Ma Sobrino non la sentirà l’omelia del Prefetto venuto da Roma, o non lo vuole sentire. «Sappiamo che se ne andrà, che ha un viaggio programmato e che sabato non sarà in piazza con gli altri. L’ha fatto a proposito?». Tarda a rispondere, come se si stesse chiedendo come l’ho saputo. Poi la precisazione arriva: «Vado in Brasile, perché a Rio de Janeiro si celebrano i cinquant’anni della rivista Concilium. Ho lavorato in questa rivista gli ultimi 16 anni. Devo fare un discorso, e mi ritiro dalla Rivista. La beatificazione coincide con questo incontro. Non è che me ne vado, vedrò in televisione la Cerimonia di beatificazione e un po’ prima di mezzogiorno me ne andrò all’aeroporto». 16 anni a Concilium, e Sobrino che si ritira il giorno della beatificazione di Romero. È una notizia anche questa. Sulla parete davanti a noi i «Padri della Chiesa latinoamericana» ascoltano compunti. La carrellata inizia con monsignor Gerardi, assassinato in Guatemala nel 1998 e prosegue con il colombiano Gerardo Valente Cano, l’argentino Enrique Angelelli assassinato nel 1976, Hélder Pessoa Câmara, brasiliano in odore di beatificazione, il messicano Sergio Mendez Arceo con di fianco un altro messicano, don Samuel Ruíz e l’ecuadoriano Leonidas Proano, seguiti da monsignor Roberto Joaquín Ramos (Salvador 1938-1993) e don Manuel Larrain, il cileno fondatore del Celam, per finire con il successore di Romero, il salesiano Arturo Rivera y Damas, figura chiave nella storia di Romero e ingiustamente ignorato nelle celebrazioni di questo periodo.
Sabato a mezzogiorno, secondo il cronogramma diffuso dal comitato per la beatificazione, dovrebbe essere letto il decreto che porterà formalmente il servo di Dio Oscar Arnulfo Romero y Galdámez nel novero dei beati della Chiesa cattolica. Jon Sobrino, forse, non avrà tempo di ascoltarlo. Ma non se ne dispiace. Le ragioni le distende un po’ di più presentando il materiale di Carta a las Iglesias anno XXXIII, numero 661, con in copertina un frammento variopinto di un murales in cui Romero tiene per mano la figlia di un contadino che ha appena tagliato con il falcetto un casco di banane. «Due articoli sono critici. Padre Manuel Acosta critica l’attuazione della commissione ufficiale di preparazione della beatificazione. Luis Van de Velde è più critico con la gerarchia. Si chiede se monsignor Romero si riconoscerebbe nel giorno della sua beatificazione. Da tempo abbiamo messo in guardia che non beatifichino un monsignor Romero annacquato. Il pericolo c’è; speriamo che si beatifichi un monsignor Romero vivo, più tagliente di una spada a doppio filo, giusto e compassionevole». Le vesti che indossavano i sei Gesuiti suoi amici e colleghi l’ultimo giorno della loro vita sono appese nella teca della stanza di fianco, come fossero in un armadio. La vestaglia marrone di Ellacuria, un accappatoio, un paio di mutandoni un po’ ingialliti, tutti perforati dai proiettili che i militari che hanno fatto irruzione non si sono curati di risparmiare. Viene da pensare a loro, e al processo di beatificazione iniziato da poco. «Nemmeno questo mi preoccupa» esclama Sobrino. «Ero in Tailandia quel giorno e per questo non mi hanno ucciso, ho visto correre il sangue di molta gente nel Salvador, non mi interessano le beatificazioni, spero che le mie parole aiutino a conoscere di più e meglio Ellacuria, vediamo se seguiamo il suo cammino, questo è quello che mi interessa». Nemmeno un applauso per il Papa argentino che ha spinto la causa di Romero verso la conclusione? «No, non mi interessa applaudire, e se applaudo non è per il fatto che è Papa, che è argentino né che è gesuita ma per quello che dice, per come si è comportato a Lampedusa per esempio. Quello che mi interessa è che ci sia chi dica che i fondali del Mediterraneo sono pieni di cadaveri. Io non ho applaudito la Resurrezione di Gesù. Applaudire non fa per me». Il pensiero adesso va spedito a dopodomani. «Ho visto orrori che non sono stati denunciati, come li denunciava monsignor Romero. Vediamo se sabato risuoneranno le sue parole». Per essere sicuro di non venir frainteso Jon Sobrino le recita a memoria: «“In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, vi chiedo, vi prego, vi ordino in nome di Dio che finisca la repressione”. Questo l’ho sentito da lui e mi è rimasto scolpito in testa». Il resto del suo pensiero su Romero, un Romero «non edulcorato», il Romero «reale» è nell’articolo che ha scritto per la rivista latinoamericana di teologia dell’Università cattolica, nel cui comitato di direzione siedono tra gli altri Leonardo Boff, Enrique Dussel, e il cileno Comblin. «Mostro quel che monsignor Romero sentì e disse nell’ultimo ritiro spirituale che fece un mese prima di essere assassinato; poi offro tre spunti che ritengo importanti. Ricordo che un contadino disse: “Monsignor Romero ci ha difesi, noi poveri; non solo ci ha aiutati, non solo ha fatto la scelta dei poveri, questo oramai è qualcosa di sloganistico. È uscito a difenderci, noi poveri. E se qualcuno viene a difendere è perché c’è chi ha bisogno di essere difeso, e ha bisogno di difesa chi è attaccato. È per questo – ha detto con sicura certezza questo contadino – l’hanno ucciso”. Madre Teresa che era buona e non dava fastidio a nessuno ha ricevuto il premio Nobel, monsignor Romero che ha dato fastidio il premio Nobel non l’ha ricevuto».

un grande teologo racconta la conversione di mons. Romero

il mio ricordo di Romero

Romero

di Jon Sobrino

  in “Adista” – Documenti – n. 14 del 11 aprile 2015

 il grande teologo Jon Sobrino parla di vera conversione in riferimento al radicale cambiamento che Romero ha fatto dal momento della uccisione di p. Rutilio Grande
qui sotto ampi stralci dalla seconda parte del nuovo libro di Sobrino dedicato a questa conversione da uomo dell’istituzione a pastore che dà la vita per il suo popolo: viene smentita nella maniera più netta la tesi di quanti – a cominciare da mons. Vincenzo Paglia e dallo storico Roberto Morozzo della Rocca… – sostengono che non si possa parlare di una vera discontinuità tra il Romero nominato arcivescovo con il sostegno dell’oligarchia e l’arcivescovo che l’oligarchia ha deciso di assassinare

Romero libro su Sobrino

il 35° anniversario del martirio, oggi riconosciuto ufficialmente, di San Romero d’America è coinciso  con l’uscita in Italia del libro di Jon Sobrino :”Romero, martire di Cristo e degli oppressi”, – edito dalla Emi (pp. 281, 17 euro) – che lo ricorda davvero nel migliore dei modi, raccogliendo sette dei testi più belli:

 

 

 

 

Sobrino

   Il mio primo incontro personale con monsignor Romero avvenne il 12 marzo 1977. Quel pomeriggio padre Rutilio Grande e due contadini, un bambino e un anziano, erano stati assassinati vicino a El Paisnal. La sera ci riunimmo in molti nel convento di Aguilares, gesuiti, sacerdoti, religiose e centinaia di contadini, a piangere la morte di Rutilio, il prete che aveva annunciato la buona notizia del Vangelo. Stavamo aspettando monsignor Romero, che aveva preso possesso dell’arcidiocesi pochi giorni prima, il 22 febbraio, e il suo vescovo ausiliare monsignor Rivera, per celebrare la prima eucaristia davanti ai cadaveri dei tre assassinati. (…). Bussarono alla porta del convento, andai ad aprire e monsignor Romero entrò, insieme a monsignor Rivera. Il volto di monsignor Romero era serio e pieno di preoccupazione. Lo salutai e senza dire una parola lo accompagnai in chiesa. Fu il mio primo contatto personale con monsignor Romero. Fu breve, solo simbolico, però l’occasione lo fece diventare molto importante per me. Indubbiamente in quei momenti il nostro pensiero andava a Rutilio e ai contadini assassinati. Tutti ci chiedevamo che cosa ci avrebbe riservato il futuro: infatti, sebbene la repressione contro i contadini fosse già cominciata e alcuni preti fossero già stati arrestati ed espulsi dal Paese, per El Salvador l’assassinio di un prete era un fatto inaudito. Venivano meno non soltanto le regole del bene, ma anche quelle del male. Se i potenti si erano spinti ad assassinare un prete, nel Paese sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa. Di fatto il 1977, per i contadini, per i sacerdoti e anche per noi gesuiti, fu un anno davvero tribolato. Due mesi dopo vennero espulsi dal Paese i tre gesuiti che erano rimasti ad Aguilares e il 20 giugno tutti noi gesuiti fummo minacciati di morte. Senz’altro la cosa più importante di quella notte era il cadavere di Rutilio. Per me, tuttavia, fu importante anche guardare il volto serio e preoccupato di monsignor Romero. Quel vescovo, del quale io sapevo solo che era stato molto conservatore e fragile psicologicamente, cominciava il suo ministero arcivescovile non tra celebrazioni solenni ma tra sequestri, torture, espulsioni di sacerdoti e, ora, davanti al sangue di uno dei sacerdoti che aveva conosciuto meglio: Rutilio. E, ancor peggio, in mezzo a una crescente repressione di contadini e operai, che i vescovi, particolarmente motivati da monsignor Rivera, avevano denunciato coraggiosamente in un messaggio del 5 marzo. Il volto serio e preoccupato di monsignor Romero quando gli aprii la porta mi attrasse subito, e dentro di me, pensai che avrei dovuto aiutarlo. Di fatto l’idea che tutti noi ci eravamo fatti di lui era già cambiata nelle riunioni col clero che si erano tenute negli ultimi giorni di febbraio, dove si era presentato come nuovo arcivescovo e ci aveva chiesto di aiutarlo in quelle gravi difficoltà. La decisione di aiutarlo era stata spontanea e condivisa da molti. Per tutti noi era anche una necessità, dato che presagivamo che le cose si sarebbero fatte molto difficili: meglio affrontarle uniti come Chiesa, piuttosto che separati e divisi. (…). Ma quella notte del 12 marzo fu decisiva. E devo dire che quel cambiamento fu sorprendente, perché le mie scarse relazioni con lui erano state piuttosto tese dal mio rientro nel Salvador, nel 1974. A quell’epoca di monsignor Romero avevo saputo soltanto che era un vescovo molto influenzato dall’Opus Dei, contrario – a volte con aggressività intellettuale – ai sacerdoti e ai vescovi che avevano accettato la linea di Medellín. Considerava marxisti e politicizzati diversi gesuiti del Salvador, proprio quelli dai quali stavo imparando a muovere i miei primi passi di gesuita e di teologo, dopo sette anni di assenza. (…). Questo trovò conferma il 6 agosto 1976. Quel giorno si celebra la festa del Divino Salvatore, patrono del Paese, con un’immancabile messa solenne. In quegli anni si invitava un’importante personalità ecclesiale a tenere l’omelia in presenza di tutti i vescovi, del governo e del corpo
diplomatico. (…). Se mi si permette una parentesi, l’omelia del 1970 era stata pronunciata da padre Rutilio Grande, noto e apprezzato prete dell’arcidiocesi e candidato a diventare rettore del seminario. Rutilio aveva dedicato la sua omelia a commentare le tre parole che sono scritte sulla bandiera nazionale: Dio, unità, libertà. Quell’omelia fu una forte denuncia della situazione del Paese: senza unità e senza libertà, e, pertanto, senza Dio. L’omelia aveva causato grande sorpresa e un grande impatto; e Rutilio non divenne rettore del seminario. Tornando al 1976, questa volta l’oratore sacro scelto fu monsignor Romero, allora vescovo di Santiago de Maria. Non assistetti alla messa del 6 agosto, ma poche ore dopo la celebrazione un prete mi portò la registrazione dell’omelia. L’ascoltai e rimasi di sasso. Nel primo punto dell’omelia, monsignor Romero criticava le cristologie sviluppate nel Paese: cristologie razionaliste, cristologie inneggianti alla rivoluzione, cristologie che portavano odio… In altre parole, la sua omelia era stata un’accesa critica della mia cristologia. Quindi è comprensibile che non vedessimo di buon occhio la scelta di monsignor Romero come successore dell’arcivescovo Luis Chávez, che era stato un vescovo pastorale, molto vicino al popolo, col quale avevamo ottimi rapporti. (…). Mi domandai se monsignor Romero avrebbe avuto il coraggio di denunciare la repressione o se, al contrario, l’avrebbe agevolata; se avrebbe difeso i contadini e i sacerdoti minacciati. Pochi giorni dopo ricevetti una cartolina da un gesuita messicano, che quasi mi faceva le condoglianze. Tutti, in effetti, vedevamo un panorama triste. Fortunatamente ci sbagliavamo. Questi ricordi, ovviamente, in quella sera del 12 marzo non avevano alcuna importanza. (…). In quei momenti cominciò a venirmi in mente un altro pensiero, importante solo a livello personale. Sapevo che monsignor Romero aveva avuto l’umiltà e la delicatezza di chiedere scusa per le sue azioni precedenti. Era giunto, con parecchi anni di ritardo, a chiedere perdono a una comunità di base, per quanto aveva detto nel 1972: parole che in pratica giustificavano la militarizzazione dell’Università nazionale e la repressione che ne era scaturita. Chiese perdono anche a un compagno gesuita che era rettore del seminario quando i vescovi – e tra loro, con forza, monsignor Romero – avevano deciso che i gesuiti abbandonassero la direzione del seminario. E c’erano stati altri analoghi casi di umiltà e sensibilità. Non so perché, mi turbava l’idea che un giorno monsignor Romero potesse rievocare i suoi attacchi contro di me e chiedermi scusa. Fortunatamente non l’ha mai fatto, e ne sono stato sollevato. Però ricordo un giorno, credo fosse la fine di aprile del 1977, in cui monsignor Romero mi vide in un angolo della cattedrale e venne a parlarmi. «La ringrazio» mi disse, «per la riflessione che ha fatto sulla Chiesa. Credo abbia aiutato molto». Si riferiva al dossier che aveva spedito a Roma per spiegare la situazione del Paese e l’azione ecclesiale dopo la morte di Rutilio. Io avevo collaborato per la parte della riflessione teologica. In verità monsignor Romero non aveva bisogno di ringraziare né me né tanti altri per esserci posti al suo servizio. Ma il suo gesto mi fece piacere: era una specie di accettazione ecclesiale di quanto facevamo e, soprattutto, un gesto di fiducia. (…).

LA CONVERSIONE

Ritorniamo alla sera del 12 marzo. Dopo la messa, monsignor Romero chiese ai sacerdoti e ai religiosi di rimanere lì con lui; si fermarono anche alcuni contadini e laici, naturalmente senza alcuna discriminazione. (…). Ci pose una domanda elementare: che cosa dobbiamo e che cosa possiamo fare, come Chiesa, dopo la morte di Rutilio. Mi resi conto che, per quanto potesse essere nervoso e turbato, era disposto a compiere tutto il necessario, sebbene il solo pensiero probabilmente lo terrorizzasse: infatti era giunto il momento di affrontare i potenti, l’oligarchia e il governo. E senza dubbio ricordo che le parole con cui ci chiedeva aiuto erano totalmente sincere, gli venivano dal cuore. Un arcivescovo ci chiedeva
veramente aiuto. E lo chiedeva a coloro che qualche settimana prima aveva considerato sospetti, marxisti… Quel gesto di dialogo e di umiltà mi arrecò una grande gioia. E pensavo che benché apparentemente per monsignor Romero tutto iniziasse tanto male, in realtà iniziava bene. Germogliava il seme di una Chiesa unita, determinata e profetica, che in seguito sarebbe cresciuto tanto. (…). Sentii anche, o almeno intuii, che nel suo intimo stava accadendo qualcosa di profondo. Certamente era nervoso, però credo che in quel nervosismo e in quel non sapere che cosa fare di quei primi momenti, monsignor Romero abbia preso l’intima decisione di reagire come Dio gli domandava: fece una vera scelta per i poveri, rappresentati in quella notte da centinaia di contadini radunati intorno a tre cadaveri, indifesi davanti alla repressione che già subivano e che prevedevano. (…). Credo che quella notte iniziò a maturare definitivamente la conversione di monsignor Romero. In effetti monsignor Romero non gradiva che si parlasse di una sua «conversione», e non aveva tutti i torti. Era solito ricordare che proveniva da una famiglia umile, che non era mai vissuto nella ricchezza e abbondanza, ma nella povertà e nell’austerità. Inoltre tutti riconoscevano che la sua vita sacerdotale ed episcopale fin lì era stata notevolmente virtuosa. A suo modo era stato aperto verso i poveri e li aveva anche difesi a Santiago de Maria, nel momento della repressione. (…). Credo inoltre che monsignor Romero abbia sempre mantenuto un cuore puro e un discernimento morale che né la sua ideologia conservatrice né l’agire retrogrado di buona parte della gerarchia a cui apparteneva erano valsi a soffocare. Tuttavia la sua personalità interiore era come sdoppiata: nel cuore manteneva gli ideali religiosi, accettava le direttive del Vaticano II e di Medellín, ma la sua mente interpretava la novità del Concilio e di Medellín in una prospettiva assai conservatrice, impaurita di qualsiasi cosa potesse immischiare la Chiesa nella cruda realtà conflittuale e ambigua della storia. Fu questo sdoppiamento interiore, credo, a dissolversi quella notte, e direi che questo si possa chiamare conversione; non tanto come chi smetta di fare il male e abbracci il bene, ma come un radicale cambiamento nel cogliere e nel porre in opera la volontà di Dio. (…). Lo si chiami o non lo si chiami conversione, il radicale cambiamento di monsignor Romero è uno degli avvenimenti che più hanno colpito tutti, me compreso. In quel momento monsignor Romero aveva cinquantanove anni, età in cui le persone hanno già consolidato la propria struttura psicologica e mentale, la loro comprensiöne della fede, la spiritualità e l’impegno cristiano. Inoltre era arcivescovo di fresca nomina, vale a dire che era stato posto come massima autorità e responsabile dell’istituzione ecclesiale, che, come tutte le istituzioni, è più propensa alla continuità e alla prudenza, se non al passo del gambero. Infine, le circostanze storiche non erano affatto favorevoli. Monsignor Romero fu pienamente consapevole, fin dal principio, di essere stato il candidato della destra, e subito conobbe le adulazioni dei potenti che gli offrirono la costruzione di un palazzo episcopale sperando che cambiasse linea rispetto al suo predecessore, Luis Chávez y Gonzáles. Cambiare, e cambiare radicalmente, significava non solo deluderli (…), bensì anche affrontarli. Se avesse cambiato, si sarebbe attirato le ire dei potenti, dell’oligarchia, del governo, dei partiti politici, dell’esercito e dei corpi di sicurezza; e, poi, della maggioranza dei suoi fratelli vescovi, di vari dicasteri vaticani e perfino del governo degli Stati Uniti. Se per spiegarci la sua conversione soppesiamo le forze in campo, monsignor Romero aveva dalla sua un gruppo di sacerdoti e religiose e, certamente, il dolore e la speranza di tutto un popolo; ma dalla parte avversa erano schierati tutti i potenti. L’equilibrio evangelico delle forze andava a suo favore, ma non quello storico. Se monsignor Rornero si è lanciato per strade così nuove alla sua età, dal punto più alto dell’istituzione e con tanti sicuri avversari, vuol dire che la sua conversione è stata piena e reale, ha toccato il più profondo del suo essere, l’ha definito per sempre e l’ha portato fino al dono della vita. (…). Credo che l’assassinio di Rutilio Grande – che è stato anche luce e incoraggiamento per i suoi successivi percorsi – sia stato l’occasione della conversione di monsignor Romero. Monsignor Romero conosceva molto bene Rutilio, lo considerava un prete esemplare e un amico (…). Tuttavia monsignor Romero non aveva condiviso la pastorale di Rutilio negli anni in cui quest’ultimo era stato parroco ad Aguilares: la considerava troppo politicizzata, troppo orizzontale, lontana dalla   missione fondamentale della Chiesa e pericolosamente vicina alle idee rivoluzionarie. Rutilio fu quindi per monsignor Romero un «problema»; più ancora, un «enigma». Per un verso era un prete virtuoso, zelante, davvero credente; per l’altro verso la sua missione pastorale pareva, a Romero, scorretta e sbagliata. Quell’«enigma», credo, si chiarì con l’assassinio di Rutilio. Credo che davanti al cadavere di Rutilio a monsignor Romero siano cadute le bende dagli occhi: Rutilio aveva ragione. (…). Insomma, a sbagliare non era stato Rutilio Grande, ma Oscar Romero; non Rutilio doveva cambiare, ma lui stesso. E queste riflessioni, che in teoria sarebbero potute restare sul mero piano razionale, si tradussero in decisioni di cambiamento, di proseguire la linea di Rutilio e, soprattutto, la strada di Gesù. (…). Credo che la morte di Rutilio abbia scosso monsignor Rornero e gli abbia dato la forza per un nuovo modo di agire, e che la vita di Rutilio abbia impresso la direzione fondamentale anche alla sua vita, benché egli dovesse poi tradurla in atto nella sua situazione personale di arcivescovo e nelle circostanze storiche sempre più critiche. In quei giorni si parlava della conversione di monsignor Romero come del «miracolo di Rutilio». Una seconda cosa che dovette colpire a fondo monsignor Romero in quei primi giorni da vescovo fu la differente reazione dei diversi gruppi ecclesiali. Monsignor Rornero era al corrente del fatto che la sua nomina non era stata ben accolta, che i sacerdoti «progressisti», le comunità di base e tutti coloro che lavoravano nella linea della coscientizzazione e liberazione di Medellín, lo avevano accolto con timore. E conosceva anche le aspettative che la sua nomina aveva risvegliato nei cattolici accomodanti – quelli a volte conniventi con i gruppi di potere che avevano attaccato e calunniato monsignor Chávez – e nel gruppetto di sacerdoti collocabili in quell’orbita. Dovette rimanere davvero sorpreso nel constatare che, in quei giorni tanto duri per lui e densi di rischi concreti, i primi lo avevano accolto e i secondi lo avevano abbandonato. Nell’ora della verità, quelli che aveva guardato con sospetto, che aveva combattuto, e anche accusato e condannato, restavano con lui. Gli altri, coloro che giudicava pii e ortodossi, i prudenti e i non politicizzati, gli apparentemente fedeli a qualsiasi indicazione della Chiesa, lo lasciavano solo, come i discepoli con Gesù; e presto cominciarono a criticarlo, ad attaccarlo, a disobbedirgli (dimostrando così che la loro asserita fedeltà alla gerarchia ecclesiastica finiva quando l’arcivescovo non era di loro gradimento e le cose si mettevano male). (…). Non si poteva dedurne che tutto quanto facevano i sacerdoti progressisti era perfetto; però se ne ricavava, almeno, che avevano molta più verità e molto più amore cristiano rispetto agli altri. (…). E che erano disposti a correre rischi personali, a parlare e a denunciare pubblicamente, sebbene in quel momento ciò comportasse essere schedati, arrestati o assassinati. (…). Ricordo che una sera, pochi giorni dopo l’assassinio di Rutilio, lo incontrai alla Ysax – la radio dell’arcivescovado, molto nota perché ritrasmetteva le omelie di monsignor Romero e per i tanti attentati dinamitardi – e mi mostrò una lettera, su carta lussuosa e, se non ricordo male, adorna con disegni di fiori. La lettera era di una persona che era stata vicina a monsignor Romero. Questa si mostrava sorpresa del suo cambiamento e non condivideva il suo modo di agire. Monsignor Romero non si mostrò per nulla colpito. Ricordo che mi disse semplicemente: «È di una persona dell’Opus». Credo intendesse dirmi che «non capisce, come neanch’io prima capivo». (…). Coloro che abbandonarono il Paese alla sua tragedia, nascondendosi nel loro essere cristiani, per monsignor Romero smisero di essere luce. Quelli che scelsero in favore del Paese, dicendo la verità, denunciando le atrocità e impegnandosi nella giustizia – con tutti i loro limiti e le loro esagerazioni -, per monsignor Romero divennero luce. Un terzo elemento che spiega la conversione di Romero, quella definitiva e che lo mantenne fedele alla volontà di Dio fino alla fine, sono stati i poveri del suo popolo. Subito gli mostrarono accoglienza, appoggio, tenerezza e amore. (…). Appena monsignor Romero fece i suoi primi passi, appena fece le sue prime denunce e le prime visite alle comunità, i poveri si volsero a lui, entrarono nel suo cuore e vi rimasero. Monsignor Romero a sua volta entrò nel loro cuore, dov’è rimasto fino a oggi. (…). I poveri gli imposero di convertirsi; e tuttavia, offrendogli al tempo stesso luce e salvezza, gliela resero una via agevole. E monsignor Romero lo riconobbe. Per me non c’è dubbio   che qui risieda il definitivo segreto di monsignor Romero, come lui stesso ha affermato. Con parole straordinariamente appropriate, parole che non ci si può inventare se non scaturiscono dalla verità nel cuore, ha detto: «Con questo popolo non pesa essere un buon pastore».

LA VERA “GLORIA DI DIO”

Nei giorni successivi l’assassinio di Rutilio, la curia arcivescovile e tutta la diocesi vissero momenti di grande fermento, che a loro volta tracciarono per monsignor Romero una traiettoria che poi percorse sino alla fine senza deflettere. Capì ben presto che in quanto arcivescovo doveva spiegare al popolo che cos’è la Chiesa, la sua denuncia profetica e la difesa dei poveri. (…). Rompendo molti anni di tradizione, monsignor Romero fece il gesto davvero straordinario di promettere pubblicamente che non avrebbe partecipato ad alcuna cerimonia ufficiale del governo finché quei crimini non fossero stati chiariti e non si fosse interrotta la repressione. Mantenne la parola: in tre anni non partecipò ad alcun atto del governo, non l’approvò con la sua presenza. Queste prime azioni di monsignor Romero cominciavano a mostrare quale sarebbe stato il suo modo di agire. Prendeva decisioni sul da farsi dopo averne discusso e dialogato con il clero, le religiose e i laici. Ricordo che una delle riunioni di quei primi giorni durò dalle otto di mattina fino alle otto di sera. Fin dal principio il suo modo di fare fu profetico, denunciando con chiarezza le aberrazioni; fu evangelico, con semplicità, senza lasciarsi intimidire dalle conseguenze politiche delle sue azioni; fu pubblico, parlando al Paese, promettendo cose verificabili, che gli si sarebbero potute contestare se non le avesse realizzate. Fra ciò che ha promesso pubblicamente e ha mantenuto, in quei giorni, spiccarono due cose: la sospensione delle lezioni per tre giorni nelle scuole cattoliche e la messa unica del 20 marzo (in segno di protesta per l’assassinio di Rutilio Grande, fu stabilita la celebrazione di un’unica messa domenicale, di funerale, in tutta l’arcidiocesi, NdT). La sospensione delle lezioni non fu una vacanza, come dissero i suoi detrattori, ma tre giorni di studio, riflessione e preghiera sulla Bibbia, sul Concilio e su Medellín. (…). La messa unica causò maggior agitazione, e penso che quella decisione sia stata molto importante per monsignor Romero, perché lo portò a confrontarsi con la sua stessa fede e cominciò a metterlo a confronto con l’istituzione ecclesiastica. (…). Era convinto di dover fare qualcosa d’importante, che richiamasse l’attenzione del Paese e risvegliasse le coscienze; ma aveva uno scrupolo teologico che formulò nella riunione, con la sincerità che lo caratterizzava: «Se l’eucaristia è un atto nel quale si dà gloria a Dio, non gli darà maggior gloria la molteplicità abituale delle messe domenicali?» (…). Ci fu una lunga discussione, fin quando padre Jerez prese la parola e disse: «Io credo che monsignor Romero abbia ragione nel sostenere che dobbiamo preoccuparci della gloria di Dio, però, se non ricordo male, i padri della Chiesa dicevano gloria Dei vivens homo, la gloria di Dio è l’uomo vivente». Quest’intervento in pratica chiuse la discussione. Monsignor Romero parve convinto e sollevato dal suo scrupolo, e decise che si sarebbe celebrata la messa unica. (…). Non si trattava soltanto di accettare una nuova formulazione teologica, ma una nuova comprensione di Dio. E monsignor Romero l’accettò. Ha ripetuto fino alla sazietà che per Dio non c’è nulla di più importante della vita dei poveri. (…). Ha riformulato il detto di sant’Ireneo citato da padre Jerez come gloria Dei vivens pauper, «la gloria di Dio è il povero che vive». E all’opposto si è scagliato contro gli idoli, le divinità false ma molto reali, che producono morte e per sussistere esigono vittime. Credo che a cinquantanove anni monsignor Romero non soltanto abbia attraversato una conversione, ma abbia anche fatto una nuova esperienza di Dio. Da allora non poté più separare Dio dai poveri, la sua fede in Dio dalla difesa dei poveri. Credo che abbia visto in Dio il prototipo dell’opzione per i poveri, e che questo l’abbia indotto a metterla in pratica per primo, ma l’abbia anche illuminato su chi è Dio. Sicché non lo spaventavano più le nuove formulazioni su Dio: Dio di
vita, Dio del Regno, Dio dei poveri; le faceva proprie in tutta naturalezza. (…). Tutto questo però gli fece approfondire anche il mistero del Dio sempre maggiore, trascendente, ultima sede della verità, della bontà, dell’umanità su cui gli esseri umani possono contare. (…). Il 10 febbraio 1980, in una situazione ormai caotica, in pieno conflitto con il governo, l’esercito, l’oligarchia e gli Stati Uniti, monsignor Romero fu ancora una volta profeta valoroso e implacabile: parlò delle cose di questo mondo e si schierò in difesa del suo popolo oppresso. Ma in quella stessa omelia, con la medesima naturalezza con cui pronunciava le sue denunce storiche, disse le seguenti parole: «Come vorrei, cari fratelli, che il frutto di questa predicazione di oggi, per ciascuno di noi, fosse che giungessimo a incontrare Dio e a vivere la gloria della sua maestà e della nostra piccolezza! Nessun uomo si conosce finché non ha incontrato Dio». Chi pronuncia queste parole ha una profonda esperienza di Dio. In nome di Dio monsignor Romero ha difeso la vita dei poveri: e quando voleva offrire a tutti il meglio di se stesso, ci offriva semplicemente Dio. Il Dio dei poveri e il mistero di Dio: ecco che cosa monsignor Romero fece presente a tutti quelli che desideravano ascoltarlo. (…).

IL CONFLITTO CON I VESCOVI

Fu tale il tumulto suscitato dall’annuncio della messa unica, che monsignor Romero decise di comunicarlo personalmente al nunzio e mi chiese di accompagnarlo insieme ad altri sacerdoti. Il nunzio non c’era e ci ricevette il suo segretario. Notai che fin dall’inizio il segretario della nunziatura era visibilmente arrabbiato per la messa unica e non faceva alcuno sforzo per nasconderlo, benché fosse davanti a monsignor Romero: lui un semplice segretario, monsignor Romero l’arcivescovo di San Salvador. È stata un’esperienza di quel po’ di arroganza che con frequenza esiste nelle curie d’ogni tipo, insieme alla mancata comprensione della sofferenza di un popolo e della condizione di un arcivescovo tormentato da responsabilità tanto serie. Credo di essermi indignato poche volte come mi è accaduto quel giorno. Il segretario cominciò col dire che l’argomentazione pastorale e teologica a favore della messa unica era buona; credo abbia detto addirittura che era molto buona. (…). «Eppure», aggiunse, «voi avete dimenticato la cosa più importante». Non riuscivo a immaginare che cosa potesse essere più importante in quei momenti, ma il segretario sentenziò: «Avete dimenticato l’aspetto canonico». Non potevo credere a quel che sentivo, e come me nessuno dei presenti. Gli risposi che non c’è niente di più importante del corpo di Cristo che veniva represso e dissanguato nel Paese; che nulla era più importante per la Chiesa, in quei momenti, che denunciare la repressione e dare speranza al popolo; che in simili occasioni gli aspetti canonici erano secondari; gli ricordai quanto detto da Gesù sul fatto che il sabato è per l’uomo. (…). Fu un’ora lunga e molto sgradevole, ma quel che mi impressionò di più fu l’assoluto silenzio di monsignor Romero durante tutto il tempo. (…). Conclusa la riunione, senza alzare la voce, senza entrare in discussioni sugli argomenti, disse più o meno queste parole: «Il Paese sta attraversando una situazione eccezionale di denuncia ed evangelizzazione. Io sono il responsabile dell’arcidiocesi e celebreremo la messa unica». (…). «Non capiscono» mi disse laconicamente, riferendosi alla nunziatura. Il 20 marzo si tenne la messa unica, e fu un successo pastorale senza precedenti. (…). Con quella messa, per monsignor Romero iniziò anche un lungo calvario di incomprensione e rifiuto gerarchico. (…). Nel Salvador soltanto monsignor Rivera gli rimase fedele. (…). Dal Vaticano gli inviarono tre visitatori apostolici in un anno e mezzo, con grande stupore dei salvadoregni che si domandavano quando sarebbe stato mandato anche un solo visitatore alle diocesi che non avevano alcun piano pastorale e a volte avallavano le azioni di un esercito criminale. A Roma le sue relazioni col cardinal Baggio furono molto tese. Il cardinale giunse a   parlargli perfino della possibilità che fosse nominato un amministratore apostolico – con pieni poteri -, ipotesi di fronte alla quale monsignor Romero chiese soltanto che la cosa fosse fatta con dignità, affinché il suo popolo non ne soffrisse, benché non credesse che quella fosse una soluzione valida. (…). Monsignor Romero scoprì quindi, proprio quando meno se l’aspettava, i limiti, gli intrighi e le meschinità dell’istituzione ecclesiale. Gli era difficile capire come fosse possibile che mentre il Paese era in fiamme e persino i sacerdoti venivano assassinati, lui trovasse non appoggio ma opposizione; come fosse possibile che mentre era in gioco il regno di Dio, i vescovi salvadoregni si preoccupassero che non accadesse nulla all’istituzione. Questo lo fece soffrire molto e negli ultimi tempi provava una vera e propria nausea all’idea di partecipare alle riunioni della Conferenza episcopale, perché vi si parlava una lingua totalmente diversa dalla sua. (…). Ho partecipato alla Conferenza di Puebla insieme ad altri teologi e sociologi per seguire più da vicino un avvenimento tanto importante e per offrire aiuto ai vescovi che l’avessero richiesto, dato che non eravamo stati invitati a partecipare ufficialmente. Una sera si tenne una riunione congiunta tra il nostro gruppo e un buon numero di vescovi che erano venuti a trovarci. (…). C’era anche monsignor Romero. (…). Ricordo che monsignor Romero era emozionato da tutto. Dalla fraternità della riunione, dalla sincerità delle nostre discussioni, dall’ambiente di fede e di Chiesa, soprattutto dalla vicinanza e solidarietà che mostravano i vecovi. Quasi con le lacrime agli occhi, disse: «Mi sono trovato come un fratello tra altri fratelli vescovi». (…) In breve tempo monsignor Romero dovette imparare a prendere, in prima persona, decisioni importanti e a dialogare con i suoi sacerdoti; dovette imparare la serenità per non aggravare la situazione e il coraggio per denunciare e affrontare i potenti; dovette imparare a dare speranza al popolo e a ricevere dal popolo la sua sofferenza, la sua fede e il suo impegno. Questo è quanto si notava esteriormente. Interiormente dovette apprendere la fede nel Dio dei poveri e nel Dio maggiore di tutto, anche delle sue idee precedenti e della stessa Chiesa, che per lui iniziava a prendere l’aspetto della croce. Dovette apprendere che non c’è nulla di più importante del regno di Dio, della vita, della speranza, dell’amore e della fraternità. Dovette apprendere che il luogo della Chiesa è la sofferenza dei poveri, la realtà dei popoli crocifissi, vero servo di Yahweh, come lui stesso avrebbe detto in seguito. Dovette apprendere non soltanto a dare, ma anche a ricevere luce e salvezza da quel popolo crocifisso. E lo apprese. (…).

intervista ai ‘teologo del grido dei poveri’

Jon Sobrino

teologo del grido dei poveri

Sobrino

intervista a Jon Sobrino, a cura di Nicolas Senèze in “La Croix” del 21 marzo 2015 (traduzione: www.finesettimana.org)

trentacinque anni fa, il 24 marzo 1980, veniva assassinato mons. Oscar Romero. Collaboratore e amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, il gesuita spagnolo Jon Sobrino è anche l’autore di un’opera teologica nel filone della teologia della liberazione, di cui le edizioni du Cerf  hanno appena tradotto la parte cristologica più controversa.

Padre Jon Sobrino lo riconosce subito: “Io non sono povero. Per ragioni di salute, non mi hanno mai autorizzato ad abitare con i poveri: di fatto, ho conosciuto pochi poveri”. Un paradosso per uno dei capofila della teologia della liberazione, che vuole essere appunto una teologia di indignazione e di impegno dalla parte dei più poveri! “Ma cerco di esprimere la voce dei poveri: di coloro che sono perseguitati, o che hanno dovuto lasciare il proprio paese, che sono oppressi dalla fatica. Lascio che questa sofferenza mi coinvolga per fare il mio lavoro teologico”, riassume. La sua opera cristologica è appena stata tradotta in francese, circa venticinque anni dopo la sua prima pubblicazione in spagnolo (1).

Fu al ritorno in Salvador, dopo gli studi negli Stati Uniti e in Germania, che il giovane gesuita spagnolo scoprì i poveri. “Avevo studiato teologia in Europa senza accorgermi di quello che stava succedendo in America Latina con Gesù Cristo”, confida, di passaggio in Francia. Otto anni dopo l’assemblea del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam) di Medellin (Colombia, 1968), il continente è in piena ebollizione teologica. “Il documento di Medellin cominciava con queste parole: ‘La miseria come fatto collettivo è un’ingiustizia che grida al cielo’”, ricorda padre Sobrino. È stato sentito il clamore dei poveri. In quell’irruzione dei poveri, molti credenti hanno percepito l’irruzione di Dio. Un Gesù reale aveva fatto irruzione con contorni propri e con la capacità di plasmare non solo la teologia e la devozione, ma la realtà dei credenti, delle comunità”. Jon Sobrino si mette allora al seguito dei grandi nomi della teologia della liberazione, come Gustavo Gutierrez Merino, Leonardo Boff o il gesuita Ignacio Ellacuria, più anziano, basco come lui e anch’egli professore all’Università centro-americana di San Salvador (UCA).

“Molti vescovi, preti e fedeli si rendevano anche conto che, in questo mondo, essere umani, essere cristiani, essere membri della Chiesa, significava cercare la giustizia e vivere la povertà”, ricorda il gesuita per il quale gli anni 80-90 furono anche “un’epoca di martiri”: mons. Gerardi in Guatemala, mons. Angelelli in Argentina e, naturalmente, mons. Romero.

Nel 1977 padre Ellacuria lo mette in relazione con Oscar Romero che è appena stato nominato arcivescovo di San Salvador e che, inizialmente conservatore, evolve a poco a poco di fronte alla realtà della repressione. Divenuto il collaboratore e l’amico di colui che sarà beatificato il 23 maggio, Jon Sobrino lavorerà accanto a lui fino al suo assassinio, il 24 marzo 1980. Ma anche lui è un sopravvissuto. Il 16 novembre 1989, infatti, sei suoi confratelli gesuiti dell’UCA, con la loro domestica e la di lei figlia sedicenne, cadono sotto le pallottole dei militari. Jon Sobrino verrà a conoscenza del massacro in Tailandia dove faceva delle conferenze. “La mia famiglia, i miei amici”, riassume semplicemente, un quarto di secolo dopo, non potendo sentire i loro nomi senza togliersi gli occhiali per asciugarsi discretamente le lacrime. Un breve momento di commozione, prima di passare a elencare le altre vittime della repressione militare.

“Dal 1977 in Salvador, 17 preti e 5 religiose sono stati uccisi, come centinaia di cristiani e cristiane, ricorda. Hanno dato la loro vita per difendere i poveri e gli oppressi. Nelle loro vite e nelle loro morti, quei cristiani e quelle cristiane sono stati simili a Gesù. Noi li chiamiamo i “martiri ‘gesuizzati’. Molti altri, decine di migliaia, sono stati uccisi, vittime innocenti e indifese. Noi li chiamiamo ‘il popolo crocifisso’”. Di questo popolo crocifisso, Jon Sobrino ha fatto la base della sua teologia della liberazione divenuta una vera teologia del martirio.

“È stata condotta una guerra ostinata a questa teologia, riconosce Jon Sobrino. Fin dai miei primi

articoli su Gesù Cristo e sul Regno di Dio, ho avuto dei problemi con Roma: parlare di Gesù di Nazareth non era apprezzato dalla Congregazione per la dottrina della fede”. Nel 1983, quando il colombiano Alfonso Lopez Trujillo diventa cardinale (sarà il futuro presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia), annuncia chiaramente di voler “farla finita” con dei teologi come Gutierrez, Boff o Sobrino. “Quello che veniva attaccato non era né Boff, né Gutierrez, né Sobrino, ma Gesù di Nazareth, Dio che è uscito con i poveri e che ha ascoltato il loro grido”.

Nel 2006, la Congregazione per la dottrina della fede emetterà un avvertimento, sottolineando che “certe proposte” dei suoi due libri cristologici “non sono conformi con la dottrina della Chiesa”. “Ma non sono mai stato condannato. Niente nel documento romano dice che sono eretico o che non ho più diritto di insegnare”, insiste Jon Sobrino che non ha mai accettato di firmare il testo romano. Il coro di proteste del mondo teologico di fronte alla notifica romana sarà tale che l’autorità stessa della congregazione è oggi rimessa in discussione, il che permette del resto alle Éditions du Cerf di realizzarne oggi la traduzione francese senza reali problemi…

Ma, venticinque anni dopo la pubblicazione del primo volume, quei libri hanno ancora una pertinenza? “Credo che il messaggio di quei libri sia quello di coloro che gridano, che sperano e che non scrivono”, spiega Jon Sobrino. L’America Latina però è cambiata. “La guerra civile è terminata, ma ci sono sempre tanti morti e tanta violenza. Quattordici morti violente al giorno in Salvador, ricorda. La gente non ha lavoro, è sottoposta alla violenza delle bande, è costretta ad emigrare”. Dopo la scrittura dei suoi libri, pentecostali ed evangelicali sono entrati in forze nel paesaggio religioso.

“Un vero problema per me, riconosce. Abbiamo visto sorgere tra noi dei dirigenti di tutti i tipi: predicatori, pastori, cantanti, guaritori, ma, per dire le cose con rispetto, danno spesso l’impressione di avanzare come greggi senza pastore. Mancano dei Romero, dei Gerardi”. Deplora che la Chiesa cattolica, in questi ultimi anni, abbia spinto i fedeli “in una religiosità più di devozione che di impegno”. “Capitemi bene, spiega. Si avrà un bel conservare un Dio, un Cristo e uno Spirito, conservare la preghiera, la mistica e la gratuità – tutto questo rivalorizzato a giusto titolo, almeno teoricamente -, ma senza Gesù di Nazareth si vede scomparire ciò che c’è di centrale nel cristianesimo”.

Per  lui, se la Chiesa “va male”, è proprio perché ha diluito le intuizioni di Medellin. “Attorno a Medellin, credo di poter dire che la Chiesa, dalla gerarchia fino ai contadini ‘si è comportata bene’ con Gesù di Nazareth, o almeno ha cercato di farlo con serietà”, propone. Dopo “ha prodotto altre forme di Chiesa che davano meno fastidio”, riconosce. È questo che spiega, a suo avviso, il motivo del ritardo della beatificazione di Mons. Romero: “La si giudicava inopportuna perché era un modello di vescovo che dava fastidio ad altri vescovi”. Quindi la Chiesa deve tornare a questa centralità dei poveri avviata a Medellin. “’Andar male’ significa tirarsi indietro, e ‘andar bene’, significa, fondamentalmente, tornare a Medellin, riassume. Il  che significa sicuramente ‘tornare a Gesù di Nazareth’. ‘Non tornare’ a Gesù è impoverirsi, e non voler tornare a lui sarebbe peccare”. “La Chiesa non deve preoccuparsi di ciò che può fare, ma di ciò che deve fare: è un problema di morale, non di analisi”, afferma colui che ritorna continuamente alla figura di Romero. “Molto tempo fa, un contadino raccontava: ‘Mons. Romero diceva la verità, ci difendeva, noi poveri, e per questo lo hanno ucciso’. Ecco quello che deve fare la Chiesa. Dire la verità, dire che quello che succede oggi è un disastro. Difendere i poveri, cioè non solo aiutarli, ma essere al loro fianco contro gli oppressori, chiunque essi siano”. Quanto al martirio, è per lui l’orizzonte di chi si conforma a Gesù di Nazareth: “Gesù non è morto, è stato ucciso, ricorda. Senza la croce, la resurrezione non sarebbe che la riviviscenza di un cadavere. Gesù si è mostrato misericordioso. Non ha solo aiutato e dato sollievo, ma ha preso le difese delle vittime. La misericordia che arriva alla croce aggiunge due caratteristiche a quella del buon Samaritano: è conflittuale ed è coerente fino alla croce”. Trentacinque anni dopo l’assassinio, il teologo interpella ancora la Chiesa: “È pronta oggi a correre questo rischio di Gesù che è stato ucciso?”

(1) Jésus-Christ libérateur. Lecture historico-théologique de Jésus de Nazareth, e La foi en Jésus-Christ, Éditions du Cerf.

il principio ‘misericordia’ per una chiesa davvero evangelica

 

Sobrinouna bella riflessione del teologo latinoamericano J. Sobrino:

La Chiesa samaritana e il Principio- Misericordia

Jon SOBRINO

San Salvador

Il tema di “altre” caratteristiche della Chiesa, presenta qualcosa d’impattante e molto necessario. L’impatto consiste nel parlare di “altre” caratteristiche, come se quelle di “ una santa cattolica e apostolica” non bastassero per denotare la vera Chiesa di Gesù. Quello che è necessario è che queste “altre caratteristiche” ci introducono – in modo diverso – in quello che è fondamentale: una Chiesa vera è, innanzi tutto, una Chiesa che “somiglia a Gesù”, e tutti intuiamo che senza questa somiglianza con Lui non saremmo la sua Chiesa né questa si farà notare come Chiesa di Gesù. Com’è, allora, una Chiesa che assomiglia a Gesù? Assomigliare a Gesù è riprodurre la struttura della sua vita. Secondo i vangeli, questo significa incarnarsi cioé farsi carne reale nella storia reale. Significa portare a termine una missione, annunciare la buona notizia del Regno di Dio, iniziarlo con segni di ogni tipo e denunciare la spaventosa realtà dell’ anti-regno. Significa opporsi al peccato del mondo, senza rimanere a guardarlo solamente da fuori – peccato, che continua manifestando la sua forza maggiore nel fatto che produce morte a milioni di esseri umani. Significa, per ultimo, risorgere, avendo e trasmettendo agli altri vita, speranza e gioia. Ció che dà coerenza alla struttura della vita di Gesù è qualcosa che può essere pensato in diverse forme: la sua fedeltà, la sua speranza, il suo servizio… Ovviamente nessuna di queste realtà è escludente delle altre, ma tutte sono fra loro complementari, e ciascuna di esse potrebbe servire per unificare la vita di Gesù. Vogliamo proporre in questo articolo il principio che ci sembra più strutturante della vita di Gesù: la misericordia; principio che deve essere anche della Chiesa.

1. Il Principio-Misericordia

Il temine “misericordia” bisogna comprenderlo bene, perché può connotare cose vere e buone, però anche cose insufficienti e pericolose: sentimento di compassione (con il pericolo che non sia accompagnato da una prassi), “opere di misericordia” (con il pericolo di non analizzare le cause della sofferenza), sollievo delle necessità individuali (con il pericolo di trascurare la trasformazione delle strutture), atteggiamenti paternalisti ( con il pericolo del paternalismo)… Per evitare limitazioni al concetto “misericordia” e i malintesi a cui si presta, non parliamo semplicenente di “misericordia”, ma del “Principio- misericordia” allo stesso modo che Ernest Bloch non parla semplicemente di “speranza”, come una fra le molte realtà categoriali, ma del “Pricipio- Speranza”. Diciamo che per “Principio- Misericordia” intendiamo qui uno specifico amore che è all’origine di un processo, che peró rimane presente e attivo in tutto il processo, gli conferisce una determianta direzione e ne configura i diversi elementi. Questo “Principio- Misericordia” – crediamo – è il principio fondamentale dell’azione di Dio e di Gesù, e deve esserlo della Chiesa.

“In principio era la misericordia”

Si sa che all’origine del processo salvifico è presente un’azione amorosa di Dio:” Ho visto l’ oppressione del mio popolo in Egitto, ho ascoltato il suo grido contro gli oppressori, conosco le sue sofferenze e sono sceso per liberarlo” (Es3,7s). È fino a un certo punto secondario stabilire in che termine dovrei descrivere questa azione di Dio, quantunque sia più adeguato denominarla “liberazione”. Ció che in questo momento ci interessa sottolineare è la struttura del movimento liberatore: Dio ascolta i clamori di un popolo sofferente e, per tale ragione, si decide a intrapendere l’azione liberatrice. 

E’ questa azione di amore così strutturata che chiamiamo “misericordia”. Di essa c’è da dire :

a) che è una azione o, più esattamete, una re-azione davanti alla sofferenza di altri ed altre che facciamo nostra facendola arrivare fino alle nostre viscere e cuore (sofferenza, in questo caso, di tutto un popolo, oppresso ingiustamente e ai livelli minimi dell’ esistenza);

b) che questa azione è motivata solo da questa sofferenza. La sofferenza altrui interiorizzata è, allora, principio della reazione di misericordia, però questa, a sua volta, si trasforma in principio che configura tutta l’azione di Dio, perché

a) non solo è all’origine, ma rimane come costante fondamentale di tutto l’A.T (la parzialità di Dio verso le vittime per il solo fatto di essere tali, l’attiva difesa che fa di loro e il suo disegno liberatore a loro favore);

b) da essa procede la logica interna della storicizzazione dell’esigenza della giustizia come la denuncia di chi produce l’ingiusta sofferenza;

c) tramite questa azione – non solo in occasione di essa – e di successive azioni di misericordia si rivela Dio stesso;

e d) l’esigenza fondamentale per l’ essere umano e, specificamente, per il suo popolo è che abbia la stessa misericordia di Dio con gli altri e, in tal modo, si renda affine a Dio. Parafrasando la Scritura, possiamo dire che, se nel principio absoluto-divino «è la Parola» (Gv 1,1) e tramite essa sorse la Creazione (Gen 1,1), nel principio assoluto storico- salvifico sta la Misericordia, e che questa si mantiene costante nel processo salvifico di Dio.

La misericordia secondo Gesù

Questa azione fondante e di principio che é la misericordia di Dio è quella che appare storicizzata nella pratica e nel messaggio di Gesù. Il misereor super turbas non è solo un atteggiamento “locale” di Gesú, ma quello che configura la sua vita e la sua missione e segna il suo destino. E’ anche quello che configura la sua visione di Dio e dell’essere umano.

a ) Quando Gesù vuole mostrare chi è un vero e autentico essere umano, racconta la parabola del buon samaritano. È un momento solenne nei vangeli che va oltre la curiosità di sapere qual è il comandamento più grande. Si tratta, in tale parabola, di dirci in una parola ció che è l’essere umano: l’essere umano vero e autentico è quello che vede un ferito lungo il cammino, reagisce e lo aiuta facendo tutto quello che gli è possibile. Non ci dice la parabola ciò che disse il samaritano nè con che finalità ultima stava agendo. L’ unica cosa che ci dice è che fece ció “ mosso dalla misericordia”. L’essere umano vero e autentico è, allora, chi interiorizza nelle sue viscere la sofferenza altrui – nel caso della parabola, la sofferenza ingiustamnte inflitta – in modo tale che questa sofferenza interiorizzata diventa parte della stessa persona e si converte in principo interiore, primo e ultimo di azione. La misericordia – come re-azione – diventa azione fondamentale dell’umanitá vera e autentica. Questa misericordia non è, allora, una fra le molte altre realtà umane, ma quella che definisce direttamente l’essere umano. Anche se non basta per definirlo, giacché l’essere umano è anche un essere del sapere, dello sperare e del celebrare; però, è assolutamente necessaria. Essere umani è, per Gesù, reagire con misericordia; altrimenti, l’essenza dell’umanità, rimane viziata alla radice come accadde con il sacerdote e il levita, che “passarono di lato”. Questa misericordia è anche la realtà con la quale nei vangeli si definisce Gesù, il quale con frequenza cura dopo la supplica : “abbi misericordia”, e agisce perchè sente compassione della gente. Con questa misericordia si descrive anche Dio nella parabola del figlio prodigo, quando, lo vede – mosso dalla misericordia – reagisce, lo abbraccia e organizza la festa.

b) Se con la misericordia si descrive l’essere umano, Gesú Cristo e Dio, siamo, senza dubbio, davanti a qualcosa di realmente fondamentale. È l’amore, potremmo dire con tutta la tradizione cristiana; però c’è da aggiungere che è una specifica forma di amore: l’amore prassi che sorge davanti alla sofferenza di altri ingiustamente inflitta  per sradicarla, per nessuna altra ragione se non l’esistenza stessa della sofferenza e senza che esista nessuna scusa per non farlo. Elevare come principio fondante questa misericordia può sembrare poca cosa; però, secondo Gesù, senza questo Principio-Misericordia non puó esserci né umanità né divinità e, come tutti i minimi, è un vero massimo. L’importante è che questo minimomassimo è il primo e l’ultimo: non esiste niente precedente alla misericordia per motivarla, né esiste niente oltre per relativizzarla o allontanarla.

In modo semplice, si può valutare ciò nel fatto che il samaritano sia presentato da Gesù come esempio di chi compie il comandamento dell’amore al prossimo; però nel racconto della parabola non appare per niente che il samaritano soccorra il ferito per compiere un comandamento, per eccelso che sia, ma, semplicemente, “mosso dalla misericordia”.

Di Gesù si dice che cura, e a volte lo si presenta rattristato perché i guariti non lo ringraziano; però in nessun momento appare che Gesù realizzi le cure per ricevere ringraziamento (nè perché pensino alla sua peculiare realtà o al suo potere divino), ma “mosso dalla misericordia”.

Del Padre celeste si dice che accolse il figlio prodigo; però non si insinua che quella fosse una sottile tattica per ottenere quello che presumibilmente gli interessava ( che il figlio confessasse i suoi peccati e, in tal modo, ponesse ordine alla sua vita), ma che agisce semplicemete “mosso dalla misericordia”. Misericordia è allora, il primo e l’ultimo, non è semplicemente l’esercizio categoriale della chiamata “opera di misericordia”, quantunque possa e debba manifestarsi anche in questa. È qualcosa molto più radicale: è un atteggiamento fondamentale davanti alla sofferenza altrui, in virtù della quale si reagisce per estirparla, per la unica ragione che esiste tale sofferenza e nella convinzione che, in questa reazione davanti all’ essere della sofferenza altrui, si gioca, senza scappatoie possibili il proprio essere.

c) Nella parabola si esemplifica come la realtà storica sia attraversata dalla mancanza di misericordia – manifestata nel sacerdote e nel levita – il che è già spaventoso per Gesù; però, inoltre gli evangelisti ci mostrano che la realtà storica è configurata dall’’antimisericordia attiva, che ferisce e dà morte agli esseri umani, e minaccia e uccide anche chi si basa sul “Principio- Misericordia”. Per il fatto di essere misericordioso –e non per essere un “liberale” – Gesù antepone la cura dell’uomo dalla mano secca all’ osservanza del sabato. La sua argomentazione è ovvia e inattaccabile:” é lecito fare di sabato il bene al posto del male, salvare una vita al posto di perderla?” (Mc 3,4). Tuttavia i suoi avversari, descritti, certamente, con termini antitetici a Gesù “ la durezza del cuore”(v 5)”- non solo non si convincono, ma sono contro Gesù, e così il racconto conclude in modo tremendo:” e quando uscirono, i farisei confabulavano con gli erodiani contro di lui per vedere come ucciderlo” (v 6). Sia o no anacronistica la cronologia di questo passaggio, fondamentale è che mostra l’esistenza della misericordia e dell’anti-misericordia. Quando la prima si riduce a sentimenti o a opere di misericordia, l’anti-misericordia la tollera; però quando la misericordia è elevata a Principio e subordina il sabato allo sradicamento della sofferenza, allora l’anti-misericordia reagisce. Anche se queste parole ci possono sembrare tragiche, é sempre importante ricordarci che Gesú é morto ammazzato per aver esercitato la misericordia fino alla fine. La misericordia è, allora, misericordia che si realizza nonostante e contro l’anti-misericordia.

d) Nonostante l’ antimisericordia, Gesù proclama: ”Beati i misericordiosi”. La ragione per cui Gesù nel vangelo di Matteo usi la beatitudine della misericordia sembra andare nella linea della ricompensa “otterranno misericordia”. Però la ragione è più profonda e intrinseca. Chi vive secondo il “Principio-Misericordia” realizza il più profondo dell’essere umano, diventa affine a Gesù – “ l’ homo verus” del dogma – e al Padre celestiale.

In questo consiste, possiamo dire, la felicità che offre Gesù: “Fortunati, benedetti voi, quelli che esercitate la misericordia, quelli dagli occhi limpidi, quelli che lavorano per la pace, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i perseguitati per causa di essa, i poveri…”. Scandalose però illuminanti queste parole. Gesù vuole che gli esseri umani siano felici, e il simbolo di questa felicità consiste nello stare assieme gli uni con gli altri, nella tavola condivisa. Però fino a che non si realizza nella storia la grande tavola fraterna del Regno di Dio, bisogna praticare la misericordia, e questo – dice Gesù – produce allegria, gioia, felicità…

Il “Principio-Misericordia”

Queste brevi riflessioni sulla misericordia possono aiutare a comprendere quello che intendiamo per “Principio-Misericordia”. La misericordia non è l’unico principio che esercita Gesù, però è quello che sta nella sua origine e configura tutta la sua vita, la sua missione e il suo destino. A volte appare esplicitamente la parola “misericordia”, e a volte no. Però, indipendentente da ciò, sempre appare come base dell’agire di Gesù la sofferenza della maggioranza, dei poveri, dei deboli, dei privati della dignità, davanti ai quali si commuove piùprofond intimo del corpo di Gesú. E queste viscere commosse sono quelle che configurano tutto ció che lui è: il suo sapere, il suo sperare, il suo agire e il suo celebrare. Così, la sua speranza è quella dei poveri che non hanno speranza e ai quali annuncia il Regno di Dio. La sua prassi è in favore dei piccoli e degli oppressi ( miracoli di guarigione, espulsione dei demoni, accoglienza dei peccatori…). La sua “teoria sociale” è guidata dal principio che c’è da sradicare la sofferenza massiva e ingiusta. La sua allegria è giubilo quando i piccoli capiscono, e la sua celebrazione è sedersi alla tavola degli emarginati. La sua visione di Dio, infine, è quella di un Dio difensore dei piccoli e misericordioso con i poveri. Nell’orazione per antonomasia, il Padre Nostro, è loro che invita a chiamare Dio con il nome di Padre. Non c’è spazio adesso per dilungarsi in questo. Solo lo accenniamo per comprendere bene quello che vogliamo dire con il “Principio- Misericordia” che informa tutte le dimensioni dell’essere umano: quella della conoscenza, della speranza, della celebrazione e , ovviamente, della prassi. Ognuna di esse ha la sua autonomia, però tutte possono e devono essere configurate e guidate da un principio fondamentale. In Gesù – come nel suo Dio – pensiamo che questo principio sia quello della misericordia. Per Gesù, la misericordia è all’origine del divino e dell’umano. Secondo questo principio si regge Dio e deve reggersi l’ umanitá, e a questo principio si soggettano tutti gli altri principi. Mi sembra importante affermare che questo principio non é pura ricostruzione speculativa e si vede chiaramente nel decisivo passaggio di Mt 25: chi esercita la misericordia – sia qual fosse l’esercizio delle altre dimensioni della sua realtà umana – “ si è salvato”, ha raggiunto per sempre l’essere umano vero e autentico. Il giudice e i giudicati sono davanti alla Misericordia, e solo davanti ad essa. Bisogna aggiungere che il criterio con cui si impiega il giudizio non è arbitrario: lo stesso Dio si è manifestato come chi reagisce con misericordia al clamore degli oppressi, e per questo la vita degli esseri umani si decide in virtù della risposta a tale clamore.

2.La Chiesa della misericordia

Questo “Principio- Misericordia” deve attuarsi nella Chiesa di Gesù; e il pathos della misericordia è quello che deve informarla e configurarla. Questo vuol dire che anche la Chiesa, in quanto Chiesa, deve rileggere la parabola del buon samaritano con la stessa aspettativa, con lo stesso timore e tremore con la quale l’ascoltarono gli uditori di Gesù: questo è fondamentale su questo si giudica tutto. Molte altre cose deve essere la Chiesa; però se non si passa per la misericordia della parabola, se non è, prima di tutto, buona samaritana, tutte le altre cose saranno irrilevanti e potranno anche essere pericolose se si fanno passare per il suo principio fondamentale.

Vediamo ora in alcuni punti significativi come il “Principio-Misericordia” forma e configura la Chiesa.

Una Chiesa de-centrata dalla misericordia

E’ un problema fondamentale per la Chiesa determinare qual è il suo luogo. La risposta formale è conosciuta: il suo luogo è il mondo, una realtà logicamente esteriore ad essa. Bene, l’esercizio della misericordia pone la Chiesa fuori di se stessa e in un luogo preciso: lì dove accade la sofferenza umana, lì dove si ascoltano i clamori dell’umanità (“Were you there when they crucified my Lord?”, come dice il canto dei neri oppressi degli Stati Uniti che vale più di molte pagine di ecclesiología). Il luogo della Chiesa è il ferito nel cammino – coincida o no questo ferito, con il mondo interecclesiale – il luogo della Chiesa è “l’altro”, è nell’alterità della sofferenza altrui, particolarmente quella di massa, crudele ed ingiusta. Collocarsi in questo luogo non è per niente facile per la cosí detta “Chiesa istituzionale” però neanche per la chiamata “Chiesa progressista” nè per i puramente progressisti in essa. Per fare un esempio attuale: è urgente, giusto e necessario esigere il rispetto dei diritti umani e la libertà nella Chiesa, anzittutto per ragioni etiche, perché sono segni di fraternità – segni, pertanto, del Regno di Dio – e perché senza di loro la Chiesa non si rende credibile nel mondo di oggi. Però non bisogna dimenticare che con ciò restiamo, logicamente, all’interno della  Chiesa. Con priorità logica, c’è da chiedersi come vanno i diritti della vita e della libertà nel mondo. Questo secondo aspetto è retto dal “Principio-Misericordia” e cristianizza il primo, però non necessariamente è il contrario. Il cristianesimo “misericordioso” può essere progressista, però il chiamato “cristianesimo progressista”, delle volte, non è misericordioso. Spero che si sia compreso bene quello che vogliamo dire con questo esempio: è urgente l’umanizzazione della Chiesa nel suo interno, però è basilare che la Chiesa si pensi a partire dall’esterno, dal “cammino” nel quale si incontra il ferito. È urgente che il cristiano, il sacerdote e il teologo, per esempio, reclamino la loro legittima libertà nella Chiesa, oggi oppressa, però è più urgente reclamare la libertà di milioni di esseri umani che non hanno semplicemente la libertá di sopravvivere davanti alla povertà, di vivere resistendo alla repressione, e neanche di dichiedere giustizia o una semplice inchiesta per i crimini dei quali sono vittime. Quando la Chiesa esce da se stessa per entrare nel cammino nel quale si incontrano i feriti, allora si decentra realmente e, così, assomiglia realmente a Gesù, il quale non predicò se stesso, ma offrì ai poveri la speranza del Regno di Dio. Riassumendo: il ferito nel cammino è quello che de-centra la Chiesa, la Chiesa che si converte all’altro ( e al radicalmente altro) . La reazione della misericordia é ció che verifica se la Chiesa si é de-centrata e in che misura lo ha fatto.

La storicizzazione dei clamori e della misericordia

Sempre e in ogni ogni parte ci sono molti tipi di ferite, fisiche e spirituali. La loro grandezza e profondità varia per definizione, e la misericordia deve mettersi nel cammino spirituale della re-azione (come risposta profetica all’ azione dell’ antimisericordia) per sanarle tutte. Nonostante ció la Chiesa, non dovrebbe cadere nella universalizzazione delle ferite, come se tutte manifestassero gli stessi clamori, né dovrebbe invocare detta universalizzazione dicendo che la Chiesa stessa ha sempre propiziato le opere di misericoria, il che è certo. Ogni sofferenza umana merita assoluto rispetto ed esige risposta, però non significa che non si debba dare una priorità differente alle differenti forme delle ferite del mondo di oggi. Indubbiamente, in ogni Chiesa locale ci sono ferite specifiche tanto fisiche come spirituali, e tutte devono essere guarite e fasciate. Però, già che la Chiesa è una e cattolica – come si dice della vera Chiesa – c’è da vedere, prima di tutto, come va questo ferito che è il mondo nella sua totalità. Quantitavamente, la maggior sofferenza, è causata dall’ impoverimento, che porta alla morte e alla mancanza di dignitá che ne è la conseguenza; questa continua a essere la maggiore ferita. E questa grande ferita appare con più radicalità nel terzo mondo piú che nel primo. Quantunque sia teoricamente conosciuto, bisogna ripeterlo: per il semplice fatto di nascere in Salvador, o a Haiti, o in Bangladesh, o in Chad – come diceva Ellacuria – gli umani hanno moltissima meno dignità che quelli nati negli Stati Uniti, in Germania o in Spagna. Questa è oggi la ferita fondamentale; e questo significa – in linguaggio cristiano – che ció che è ferita è la stessa creazione di Dio. Questa grande ferita è la maggiore ferita per qualsiasi chiesa locale, non solo per la grandezza del fatto in se stesso, ma anche per la corresponsabilità in essa di qualsiasi istanza locale (governo, partiti, sindacati, esercito, università… e anche le chiese). Se una Chiesa locale non bada a questa ferita mondiale, non potrà dire che è retta dal “Principio – Misericordia”.

La Misericordia conseguente fino alla fine

Alla Chiesa, come ad ogni istituzione, costa reagire con misericordia, e le costa molto più rimanere in essa. In termini teorici, le costa mantenere la supremazia del Regno di Dio sopra se stessa, quantunque giustifichi questa non inversione di valori affermando che mantenere l’esistenza stessa della Chiesa è già un grande bene, perché – alla lunga – la Chiesa sempre renderá piú umano il mondo e propizierà il Regno di Dio. In termini semplici, diciamo che costa mantenere la supremazia della Misericordia sull’egocentrismo, che inevitabilmente finisce in egoismo. Ecco allora la tentazione di passare al largo del sacerdote e del levita. Però costa mantenere la Misericordia, soprattutto, quando, per difendere il ferito, ci si scontra con gli abitualmente dimenticati della parabola, gli “assalitori”, e quando questi reagiscono. In questo mondo si applaudono o si tollerano “opere di misericordia”, però non si tollera una Chiesa configurata dal “Principio – Misericordia” che la porti a denunciare gli assalitori che producono vittime, a smascherare la menzogna con la quale si coprono le oppressioni e ad incoraggiare le vittime a liberarsi di coloro che assalgono, ammazzano ed opprimono. In altre parole: gli assalitori del mondo anti- misericordioso tollerano che si curino le ferite, però non che si guarisca veramente il ferito né che si lotti perché questi non ritorni a cadere nelle loro mani. Quando questo succede, la Chiesa – come qualsiasi istituzione – è minacciata, attaccata e perseguitata, per cui, a sua volta, il martirio e la persecuzione verificano che la Chiesa sia retta dal “Principio – Misericordia” e non sia ridotta semplicemente alle “opere di misericordia”. E l’ assenza di tali minacce, attacchi e persecuzioni verifica, a sua volta, che la Chiesa avrà realizzato “opere di misericordia” però non è retta sul “Principio – Misericordia”. In America Latina, le due cose appaiono con tutta chiarezza. C’è una Chiesa che pratica le “opere di misericordia” però non accetta di agire con il “Principio – Misericordia”. E c’è un’altra Chiesa configurata da tale principio, la quale porta a propiziare quelle opere, ovviamente, però anche porta se stessa – in una profonda esperienza di amore che la rende assomigliante a Dio e a Gesù – oltre esse. Allora, praticare la misericordia è anche toccare gli idoli “gli dei dimenticati”- come adeguatamente li chiama J.L.Sucre – il che non significa che siano già superati, giacché continuano ben presenti, anche se nascosti. Sappiamo quando come Chiesa siamo retti dal Principio Misericordia, quando si fa esistenzialmente inevitabile la scelta di mantenere la misericordia come il primo e l’ultimo valore: se si corrono o no rischi, quali e quanti. Non serve essere ingenui, c’è da accettare con realismo il principio di sussistenza che configura la Chiesa, come qualsiasi istituzione. Però alcune volte c’è da manifestare la misericordia come condizione ultima e inderogabile, e ciò solo lo si fa contro tutto ció che agisce in anti-misericordia. Così lo ha fatto Mons. Romero. Non fu facile per lui cominciare con la misericordia, e meno facile fu rimanere in essa. Ciò gli valse dolorosi conflitti inter ecclesiali e rischiare il suo anteriore prestigio ecclesiale, la sua fama, l’incarico di arcivescovo e fino la propria vita. Dovette rischiare qualcosa di ancora più difficile e infrequente da rischiare: l’istituzione. Per mantenere la misericordia, vide distrutti gli strumenti istituzionali della Chiesa (la radio e la stampa dell’arcivescovado) e come veniva decimata la Chiesa istituzionale con catture, espulsioni e uccisioni dei suoi membri più importanti: sacerdoti, religiose, catechisti, delegati della parola… Nonostante ciò, Mons. Romero rimase fermo nel “Principio – Misericordia” e, in presenza degli attacchi all’istituzione, aggiunse queste parole, solo comprensibili nelle labbra di chi si regge sul “Principio – Misericordia” : “Se distruggono la radio e assassinano i sacerdoti, sappiano che niente di male ci hanno fatto”. Se si prende sul serio la misericordia come il primo e l’ultimo dell’ agire, allora la stessa Misericordia diviene conflittiva. In realtá nessuna persona é messa in prigione o è perseguitata semplicemente per fare “opere di misericordia”, e neanche lo avrebbero fatto con Gesù se la sua misericordia non fosse stata, il suo primo e l’ultimo. Quando lo è, infatti sovverte i valori ultimi della società e questa reagisce contro.

Diciamo, per ultimo, che porre come riferimento “ultimo” la misericordia suppone la disponibilità di essere chiamato “samaritano”. Oggi la parola suona bene, precisamente perché cosi Gesù chiamò l’uomo misericordioso; però ricordiamo che allora suonava molto male, e precisamente per quello la usò Gesù, per enfatizzare la supremazia della misericordia sulla concezione religiosa e per attaccare i religiosi senza misericordia. Tutto ciò continua ad accadere anche oggi. Coloro che esercitano misericordia non desiderarata dagli “assalitori”, vengono chiamati con tutti i titoli possibili e immaginabili. In America latina li chiamano – lo siano o no – “sovversivi”, “comunisti”, “liberazionisti”… e per questo continunano ad essere uccisi. La Chiesa della misericordia deve, allora, essere disponibile a perdere la fama nel mondo dell’antimisericordia; deve rendersi disponibile a essere “buona”, anche se la chiamano “samaritana”.

La Chiesa della misericordia si fa notare come la vera Chiesa di Gesù Molte altre cose possono e devono essere dette di una Chiesa retta dal “Principio – Misericordia”. La sua fede, anzittutto, sarà una fede nel Dio dei feriti nel cammino, Dio delle vittime. La sua liturgia celebrerà la vita dei senza-vita, la risurrezione di un crocifisso. La sua teologia sarà intellectus misericordiae (iustitiae, liberationis), e non altra cosa è la Teologia della Liberazione. La sua dottrina e la sua pratica saranno un denudarsi, teorico e pratico, per offrire e percorrere cammini efficaci di giustizia . Il suo ecumenismo sorgerà e prospererà – e la storia dimostra che così succede – attorno ai feriti nel cammino, dei popoli crocefissi, i quali, come il Crocefisso, li attrae tutti a sé. È necessario – crediamo – che la Chiesa si lasci reggere dal “Principio – Misericordia”; crediamo che ciò sia possibile, perché da questo Principio – e nella nostra opinione, di forma più cristiana –si può organizzare tutto l’ecclesiale. Diciamo brevemente, per terminare, tre cose. La prima è che ciò che ho detto finora non è altro che riaffermare, in altre parole, l’opzione per i poveri che deve fare la Chiesa, secondo le dichiarazioni della Chiesa istituzionale. Tutto ciò non è nuovo, anche se può aiutare a comprendere la radicalità, il primato e il riferimento ultimo di tale opzione. La Chiesa della misericordia è chiamata oggi in America Latina “La Chiesa dei poveri”. La seconda è che la misericordia è anche una beatitudine; e, per questo, una Chiesa della misericordia – se lo è veramente – è una Chiesa che sente gioia, e lo mostra. In questo modo, cosa molto dimenticata, la Chiesa può comunicare in actu che il suo annuncio, di parola e di opera, è eu-aggelion, buona notizia che non è solo verità, ma che produce gioia. Una Chiesa che non trasmette gioia non è la Chiesa del vangelo; adesso bene, non si deve trasmettere qualsiasi gioia, ma quella dichiarata nella “carta magna” delle beatitudini, la gioia della misericordia. La terza e ultima cosa è che una Chiesa della misericordia “si fa notare” nel mondo di oggi. E si fa notare, in modo specifico, con credibilità. La credibilità della Chiesa dipende da diversi fattori, e nel mondo democratico culturalmente sviluppato, per esempio, l’esercizio della libertà al suo interno e l’esposizione ragionevole del messaggio, le conferiscono rispettabilità. Però crediamo che nella totalità del mondo – che include i paesi del primo – la massima credibilità proviene dalla misericordia, precisamente perchè questa è la più assente nel mondo di oggi. Una Chiesa della misericordia coerente è credibile; e se non è misericordiosamente coerente, inutilmente cercherà credibilità attraverso altri mezzi. Fra gli annoiati della fede, gli agnostici e gli increduli, questa Chiesa renderá almeno rispettabile il nome di Dio, e questi non sarà bestemmiato per quello che fa la Chiesa. Fra i poveri di questo mondo, questa Chiesa susciterà accettazione e ringraziamento. Una Chiesa della misericordia coerente è quella che si fa notare nel mondo di oggi, e si fa notare “come Dio comanda”. Per questo la misericordia coerente è la “caratteristica” della vera Chiesa di Gesù.

***

Note:

[1] Nel libro della Teología della liberazione. Risposta al cardenale Ratzinger (Madrid, 1985, pp. 61ss.), J. L. SEGUNDO mostra in dettaglio che la finalità dell’ Esodo è simplicemente, la liberazione di un popolo sofferente, contrariamente alla prima Istruzione vaticana sulla teología della liberazione, secondo la quale la finalità dell’ ésodo sarebbe la fondazione del popolo di Dio e il culto dell’Alleanza del Sinaí.

[2] La misericordia deve rivolgersianche verso le sofferenze”naturali”, per la sua essenza última -crediamo- si manifesti nell’attenzione ai sofferenti perché “víttime”. Queste, a sua volta, possono essere generate da mali naturali o storici, però nella generalità della Scrittura si da molta più importanza alle víttime storiche che a quelle naturali.

[3] Detto senza acredine e con fraterna semplicità, sorprende che negli ultimi dieci anni di laboriosa e densa vita storica (e ecclesiale) nel Salvador, practicamente nessun vescovo spagnolo sia venuto a visitare il paese e la sua Chiesa, con l’eccezzione del vescovo incaricato delle missioni e di Alberto Iniesta, che venne al funerale di Mons. Romero animato e accompagnato dai suoi fedeli di Vallecas.

[4] Per me è molto chiaro che Ignacio Ellacuría si lasciò guidare dal “Principio- Misericordia” in tuttta la sua attività, e specíficamente nella sua attività intellettuale, teologica, filosofica e di analisi política. Questo lo ricordiamo per ricalcare che la misericordia è molto più che puro sentimento o puro attivismo misericordioso: è principio che configurare anche l’esercizio dell’intelligenza

 

il teologo J.Sobrino e il ‘ritorno a Gesù di Nazareth’

Sobrino

J. Sobrino, da par suo, ci richiama all’estrema opportunità di un movimento biblico-teologico volto a recuperare il più possibile la vera persona, pensiero e atteggiamenti di Gesù di Nazareth: quello di ignorare di fatto la figura reale di Gesù è un pericolo e una tentazione che produce solo ‘spiritualismo’ e ‘devozionismo’: “C’è molto spiritualismo senza Gesù e molta devozione a Cristo senza il Gesù reale”:

 

Il ritorno a Gesù di Nazareth

di Jon Sobrino

La tentazione di ignorare Gesù di Nazareth è stata e continua a essere grande. C’è molto spiritualismo senza Gesù e molta devozione a Cristo senza il Gesù reale, quello del Vangelo di Marco e quello della lettera agli Ebrei, il Gesù storico, quello dei poveri, quello che ha illuminato molte menti, che ha spinto a lottare per la giustizia, a volte fino al sacrificio della propria vita.

In El Salvador c’è stato un ritorno a Gesù che è coinciso con l’epoca di monsignor Romero e dei martiri. Non suona bene dire che bisogna “tornare indietro”, ma se non lo facciamo difficilmente ci sarà quella riforma della Chiesa a cui lavora Francesco. E per quanto non sia necessario dirlo, a questo Gesù bisogna tornare, senza trascurare tutto il buono che abbiamo appreso dopo Monsignore.  Solo “tornare indietro” sarebbe insensato. Ma “non tornare” significherebbe distanziarci ancora di più da Gesù di Nazareth. Vediamo due denunce classiche di questo allontanamento.

Nella “Leggenda del grande inquisitore” de I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, al Cristo che non dice una parola (il riferimento è a un Gesù reale con un messaggio reale) l’inquisitore rinfaccia l’errore di aver voluto portare la libertà, quando ciò che gli esseri umani realmente desiderano è la sicurezza. Quella che offre loro la Chiesa. In un primo momento gli annuncia che finirà sul rogo, ma alla fine lo lascia andar via: «Tante grazie per essere venuto 1.500 anni fa, ma ora di te non abbiamo più bisogno». E conclude con queste parole diventate celebri, che illustrano in maniera terribile il nostro tema. «In realtà ci sei di intralcio. Vattene e non tornare più». Gesù di Nazareth è espulso dalla Chiesa perché è di intralcio. Con lui non possiamo vivere in pace. Possiamo, sì, vivere in pace con un Cristo che si conforma ai nostri gusti e ai nostri interessi.

In parole non molto magniloquenti, ma non per questo meno serie, il Garaudy dell’epoca marxista chiedeva ai cristiani: «Uomini di Chiesa, restituiteci Gesù». La denuncia riguarda il fatto che i cristiani lo hanno trasformato in un proprio monopolio, per di più imprigionandolo. Senza Gesù potremo continuare a parlare di Cristo, ma senza introdurre nel mondo il potenziale umanizzatore di Gesù di Nazareth.

Senza Gesù di Nazareth non sappiamo chi è Cristo. Al Cristo non si può andare incontro senza camminare insieme a Gesù di Nazareth, riproducendo ciò che ha fatto lui: annunciare una buona notizia, denunciare l’oppressione, trasmettere l’esigenza di conversione, prendersi carico della croce. Tutto ciò riponendo la propria fiducia in un Dio che è Padre e offrendo la disponibilità a un Padre che è Dio.

Gesù di Nazareth è un eu-aggelion, una buona notizia. Quello che di Gesù doveva colpire la gente che si rivolgeva a lui da ogni dove erano le sue attività liberatrici, le guarigioni, le espulsioni di demoni; la sua accoglienza nei confronti dei peccatori e degli emarginati, delle donne e dei bambini; la sua prassi di denuncia e di smascheramento; le sue benedizioni ai poveri e le sue maledizioni ai potenti; la celebrazione della vita nella mensa condivisa con amici e gente di malaffare. In sintesi, quello che colpiva era il suo messaggio di speranza: «Il Regno di Dio si avvicina». Ma doveva colpire anche il suo specifico modo d’essere.

Gesù parlava con autorità, non come i politici che parlano a vuoto, né come i fanatici, né come funzionari al soldo. Attraeva i bisognosi con la sua compassione ed è per questo che essi, nelle loro tribolazioni, si rivolgevano a lui con un’argomentazione decisiva: «Signore, abbi compassione di me». I bambini non avevano paura di lui, e le donne trovavano in lui rispetto, comprensione, difesa, accoglienza, trattamento degno e affettuoso. In Gesù i poveri incontravano qualcuno che li amava e li difendeva, senza altra ragione che quella della loro necessità e delle loro sofferenze, dell’oppressione e del disprezzo che subivano. Alla fine della sua vita trovò in questa gente la sua migliore protezione, e per questo dovettero arrestarlo a tradimento, di notte e di nascosto.

E di Gesù colpivano l’integrità e la fedeltà. Insomma, la sua immensa coerenza. Compiva egli stesso, in maniera eccellente, quello che chiedeva agli altri: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso».

E ancor più doveva colpire e forse meravigliare il fatto di vedere unite in una persona realtà che difficilmente vanno insieme. Gesù fu un uomo di misericordia – «provo compassione per questa gente» – e di denuncia profetica dura: «Guai a voi, ricchi!». Uomo di grande forza – «chi mi vuole seguire prenda la sua croce» – e di delicatezza: «La tua fede ti ha salvato». Uomo che esige l’amore: «Non c’è comandamento più grande», e che si inginocchia per lavare i piedi agli altri. Uomo che ha fiducia, che riposa in un Dio che è Padre, “abba”, e che è solo dinanzi a un Padre che continua a essere Dio e che non lo lascia riposare: «Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

Gesù di Nazareth ha colpito Ignacio Ellacuría come una buona notizia. Alcuni teologi della Liberazione, e tra i più prestigiosi, che usino o meno il termine, hanno visto Gesù, e lo hanno confessato, come eu-aggelion. E lasciamo al lettore decidere se in questo Gesù di Nazareth hanno sperimentato una buona notizia e più Vangelo che in dogmi e documenti ecclesiastici.

Questo è ciò che ha scritto Leonardo Boff. «Nel contatto con Gesù, ognuno incontra se stesso e ciò che vi è di meglio dentro di sé: chiunque è condotto a ciò che vi è di più essenziale. Per me la cosa più importante che si è detta di Gesù nel Nuovo Testamento non è tanto che egli è Dio, Figlio di Dio, Messia, ma che è passato per il mondo facendo il bene, curando gli uni e consolando gli altri. Come mi piacerebbe che si dicesse questo di tutti e anche di me».

Su Ignacio Ellacuría ha scritto uno dei suoi studenti: «In un corso di teologia, p. Ellacuría stava analizzando la vita di Gesù quando all’improvviso la razionalità se ne andò e straripò il cuore. E disse: “Il fatto è che Gesù ha dato prova di giustizia per andare fino in fondo e allo stesso tempo ha avuto occhi e viscere di misericordia per comprendere gli esseri umani”. Ellacu rimase zitto e concluse con queste parole: “È stato un grande uomo”».

Quanti vogliano riformare la Chiesa dovranno fare molte cose. Ma la più importante, a mio giudizio, è “tornare a Gesù di Nazareth”.

 

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