la ‘valanga’ Aylan …

“Aylan e il paradosso dell’autorità impotente”

piccolo

 

intervista a Christian Salmon a cura di Wanda Marra
in “il Fatto Quotidiano” del 12 settembre 2015

“L’emozione suscitata dalla foto di Aylan non si è tradotta solo in un picco di audience, ma in azione concreta: folle di persone hanno affiancato i rifugiati, reti di accoglienza sono nate spontaneamente per offrire alloggio, città si sono fatte  avanti per accoglierei rifugiati prima che i politici, Merkel in testa, iniziassero a cavalcare l’onda”

Christian Salmon, teorico dello storytelling, la vede così.

Anche se sottolinea i limiti di quest’emozione collettiva. La foto di Aylan ha fatto cambiare la politica europea? L’emozione suscitata non deve impedirci di pensare, ma l’impatto di quelle immagini non va nemmeno sottovalutato. Contrariamente ad altri avvenimenti choc come i terremoti che si traducono in alti indici di ascolto tv e in donazioni di denaro alle organizzazioni umanitarie, i governi lo hanno capito benissimo e hanno tentato di collegarsi al movimento spontaneo di solidarietà per non esserne travolti. Stiamo assistendo alla nascita d’una opinione pubblica europea favorita da due eventi: la crisi greca e la crisi dei rifugiati. Si è fatta strada la sensazione che le istituzioni europee assommano in sé i difetti dell’autoritarismo e dell’impotenza. In Italia c’è stata polemica sulla decisione di Renzi di far vedere quella foto a un comizio del Pd: quale è il limite tra strumentalità e uso legittimo della forza comunicativa di quell’immagine? Non so se è possibile distinguere tra “strumentalizzazione” e uso strategico di un ’immagine. In entrambi i casi ci muoviamo all’interno di una logica emozionale che ha l’effetto di mascherare e occultare le cause e le sfide della crisi dei rifugiati. L’azione politica si fonda sulla passione collettiva, la scelta democratica cede il passo alle emozioni attraverso l’interposizione dei media. Fin quando un’altra immagine non venga a cancellare quella del piccolo Aylan. Matteo Renzi agisce da uomo dell’era post-politica: appartiene alla generazione di coloro che privi di sovranità debbono, come Sisifo, spingere il masso con la sola forza della comunicazione. Ma questa impotenza è impossibile da cambiare? Il potere sovrano poggia su due pilastri: la moneta e il territorio. Si esercita attraverso la politica monetaria e il controllo delle frontiere. La Costruzione europea è di fatto un processo di decostruzione: i governi eletti sono stati privati delle leve dell’azione politica (Maastricht e Schengen) mentre le nuove istituzioni europee sono prive di rappresentatività. La crisi greca ha reso evidente questo paradosso. La spoliticizzazione della questione monetaria e dalla gestione delle frontiere, entrambe affidate a organismi burocratici, ha prodotto questa strana situazione di autoritarismo impotente. Autoritarismo con la Grecia, impotenza con i rifugiati. Inoltre questa realtà non solo ha contribuito a decostruire la sovranità degli Stati-nazione che la componevano, ma ha fatto emergere un nuovo “decisionismo”non democratico. Si tratta di un doppio fallimento. Come si può governare l’uso di quelle immagini? La differenza è tra il pensiero magico che crede di cambiare le cose agitando feticci e a colpi di bacchetta magica e una parola politica autenticamente efficace, quella dei grandi capi di Stato come De Gaulle o Mandela che hanno cambiato il paradigma politico del loro Paese grazie alla potenza del loro esempio e delle loro parole Quale è la funzione delle immagini nel cambio di “paradigma” politico? Le immagini da sole non cambiano nulla. Conta ciò che le porta e le attraversa. È il fuori campo, è l’immaginario collettivo che è all’opera nel modo in cui le guardiamo. Tanto la crisi greca quanto la crisi dei rifugiati sono crisi di grande portata che ci fanno avvertire confusamente che condizioneranno il nostro futuro comune. Le crisi portano con  sé immagini traumatizzanti,immagini di violenza insopportabile, ma anche di resistenza. Questi avvenimenti, il no al referendum greco del 5 luglio o la crisi dei rifugiati, sono quelli che Baudrillard definiva
“avvenimenti canaglia” (rogue events) che ostacolano la folle corsa di una “tecnostruttura” che ha perduto il controllo degli avvenimenti… Perciò tali avvenimenti sono anche un’occasione per cambiare il volto dell’Europa.

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il moltiplicarsi dei muri per tener lontano chi soffre

l’idolatria dei muri

Si continua a costruire muri. In Europa e nel mondo. Muri di cemento e di reti metalliche, di filo spinato e di leggi di carta. Ma muri anche dentro le nostre coscienze e nelle nostre intelligenze. Muri nelle relazioni umane e interpersonali, muri tra le generazioni e tra le fedi. C’è un’idolatria del muro che è l’esatto opposto del Dio biblico che vede la miseria del suo popolo schiavo in Egitto e ascolta il suo grido (cfr. Esodo 3, 7). Gli idoli invece “sono argento e oro, opera delle mani dell’uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Hanno mani e non palpano, hanno piedi e non camminano; dalla gola non emettono suoni. Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida” (Salmo 115). 
Ed è questa purtroppo la convinzione idolatrica che si va affermando in alcune coscienze che preferiscono adorare l’idolo-muro piuttosto che il Dio che soccorre i poveri. 
Ed è una credenza che non troviamo concentrata esclusivamente in Ungheria e in Danimarca, a Ceuta e Melilla, al confine statunitense col Messico e in Israele. Attraversa trasversalmente tutti i Paesi come una sorta di idolatria tanto diffusa quanto vana. Che fare se non soverchiarla con un più diffuso culto (e cultura) dell’accoglienza? Oltre che per fede o convinzione, appare anche storicamente come l’unica risposta possibile.
di Tonio Dell’Olio
mosaicodipace.it
 
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espulsioni dei rom: la condanna dell’Onu

Onu

Francia e Bulgaria cessino espulsioni forzate Rom

sgomberi anche in altri Paesi Ue tra cui Italia, Ungheria

 

(ANSA) – GINEVRA 

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein ha espresso grave preoccupazione per le espulsioni forzate di Rom e nomadi in diversi Stati europei e in particolare i recenti episodi di sgombero in Francia e Bulgaria. In Francia “sta diventando sempre più evidente che esiste una politica nazionale sistematica di espulsioni con la forza dei Rom”, ha detto Zeid in un comunicato reso noto oggi a Ginevra.

Gli sgomberi forzati di rom e nomadi sono continuati negli ultimi anni in diversi Paesi europei, tra cui l’Italia, ma anche in Albania, Repubblica Ceca, Francia, Grecia,Ungheria, Romania, Russia, Serbia, Turchia e Regno Unito, afferma l’Onu.

In Francia, lo sgombero forzato di oltre 150 abitanti del bidonville del Samaritain a La Courneuve il 28 agosto si è svolta senza un preavviso di almeno 24 ore al giorno e un riparo è stato offerto solo a una manciata di famiglie. L’Alto Commissario ha osservato che gli eventi a La Courneuve sono solo l’ultimo di una serie di espulsioni forzate di migranti rom in Francia dal 2012 ed altre sarebbero previste.

In Bulgaria, lo scorso 7 settembre, le autorità hanno proceduto all’espulsione dei Rom del campo di Kremikovtzi (Gurmen) e secondo fonti della società civile, nessuna sistemazione alternativa è stata offerta. Un totale di 41 persone, tra cui 21 bambini risulterebbero senza casa, riferisce l’Onu.

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il commento al vangelo della domenica

TU SEI IL CRISTO

IL FIGLIO DELL’UOMO DEVE MOLTO SOFFRIRE

commento al vangelo della domenica ventiquattresima del tempo ordinario (13 settembre 2015) di p. Alberto Maggi

p. Maggi
Mc  8, 27-35

[In quel tempo], Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

Gesù intraprende un lunghissimo viaggio e conduce i suoi discepoli all’estremo nord del paese in terra pagana, a Cesarèa di Filippo, lontano dalla mentalità giudaica, nazionalista, per vedere se i discepoli hanno capito qualcosa.
Ma già l’evangelista ci dà un’indicazione che ci fa comprendere che il brano sarà all’insegna dell’incomprensione. Infatti, scrive l’evangelista, “per la strada interrogava i suoi discepoli”. Questa espressione “per la strada” è la stessa che è apparsa nel capitolo 4 nella parabola dei quattro terreni, per indicare la semina infruttuosa.
Il seme gettato per la strada viene subito preso dagli uccelli e Gesù, spiegando la parabola, dice che questi uccelli sono “il Satana”. Quindi è una parola infruttuosa che viene resa inutilizzata dal Satana. Il Satana in questo Vangelo è l’immagine del potere, l’immagine del successo, ma vediamo l’evangelista.
Ebbene, Gesù chiede ai suoi discepoli: “la gente chi dice che io sia?”. Frutto della predicazione dei discepoli doveva essere questa immagine di Gesù. E la risposta è desolante; la confusione totale. “Ed essi gli risposero «Giovanni il Battista »”, perché si credeva che i martiri sarebbero prontamente risuscitati. “Altri dicono Elìa”, Elìa il violento profeta che doveva venire a preparare la strada del Messia, “oppure uno dei profeti”. Comunque tutti personaggi che appartengono all’antichità, al passato. Non comprendono la novità di Gesù.
Allora Gesù insiste e domanda loro “Ma voi” – quindi la domanda di  Gesù è rivolta a tutto il gruppo “chi dite che io sia?”
E gli risponde un discepolo, presentato con il soprannome negativo, che fa comprendere che la sua risposta è inesatta e il suo atteggiamento sarà in contraddizione con Gesù. “Gli rispose Pietro”. Il soprannome negativo verrà ripetuto per ben 3 volte – il numero 3 significa “ciò che è completo” – in questo brano.
Quindi questo discepolo si chiama Simone e, quando viene presentato soltanto con questo soprannome, significa che sta all’opposizione, o contraddice Gesù. “Gli rispose: «Tu sei il Cristo!»”
Ha risposto bene? Non pare, perché Gesù dice “e sgridò” – il verbo ‘sgridare’ è quello che si usava per liberare le persone dai demòni – “severamente loro di non parlare di lui ad alcuno”.
Pietro non ha risposto bene. Gesù in questo Vangelo è stato presentato come ‘Messia’, non ‘il Messia’. L’articolo determinativo ‘il’  indica che è il Messia atteso dalla tradizione, quello che verrà a restaurare la monarchia, quello che imporrà la legge. Gesù è Messia, ma non il Messia della tradizione. Quindi Pietro non ha risposto bene.
Allora, visto che non hanno capito, Gesù “cominciò a insegnare loro”, e non parla del Messia, ma parla del “Figlio dell’uomo”, cioè l’uomo nella sua pienezza, è questo l’ideale di uomo creato da Dio, “che doveva soffrire molto ed essere rifiutato da tutto il sinedrio, dagli anziani, i presbiteri, i sommi sacerdoti e dagli scribi e venire ucciso”.
Quindi il progetto di Dio sull’umanità, l’uomo che raggiunge la pienezza della condizione divina, questo è il Figlio dell’uomo, Figlio dell’uomo è l’uomo che ha la condizione divina, questo è rifiutato dall’istituzione religiosa che lo vede come un pericolo per la propria esistenza.
“E dopo tre giorni risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo afferrò e cominciò….”  E’ interessante che, come Gesù ha cominciato a parlare, subito Pietro comincia. E’ l’immagine del seme che viene gettato per terra e subito, immediatamente, vengono gli uccelli e lo prendono.
L’ideologia del Satana, del potere, impedisce a Pietro di accogliere il messaggio di Gesù. “E cominciò a sgridarlo”. Come Gesù aveva sgridato Pietro, così Pietro sgrida Gesù, come se quella detta da Gesù fosse un’idea demoniaca.
“Ma egli, voltandosi, guardando i suoi discepoli” – quindi Gesù guarda i discepoli, ma si rivolge a Pietro, facendo capire che tutto il gruppo mantiene la stessa mentalità di Pietro – “sgridò Pietro”. Ecco il verbo  ‘sgridare’ viene ripetuto per la terza volta. “E gli disse: «Và dietro di me, Satana!»  Gesù si rivolge a Pietro chiamandolo ‘Satana’. E’ il Satana perché tenta Gesù, tenta Gesù definendolo ‘il Messia del potere’, ed è il Satana perché vanifica la parola. Viene gettata la parola, ma immediatamente viene il Satana. Quindi Gesù si rivolge a Satana, ma non rompe con lui. Gli dice “torna a metterti dietro di me”.
E’ Pietro che deve seguire Gesù, non il contrario.
E poi Gesù “convocata la folla”, dà un annuncio drammatico “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso” – cioè rinneghi questi suoi ideali di successo e di potere, “e sollevi la croce”. La croce non viene data dal Signore, la croce non viene presa, la croce viene sollevata. E’ l’individuo che volontariamente, per seguire Gesù, accetta il marchio dell’infamia da parte della società.
Ai discepoli che seguono il Messia coltivando sogni di gloria, Gesù dice che, se lo vogliono seguire, devono accettare di essere considerati “rifiuti della società”.

 

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onore e auguri a don Ciotti

don Luigi Ciotti compie 70 anni

ritratto in chiaroscuro di un sacerdote pop (critiche comprese)

 

CIOTTI

A un certo punto pensarono che volessero farlo ministro

 

Era marzo 2013 e gli italiani stavano scoprendo le consultazioni in streaming con Pier Luigi Bersani e la delegazione dei 5 stelle. Altra vita, altri tempi. Ma Don Luigi Ciotti, che oggi compie 70 anni, ha camminato lungo tutti i corridoi e tutti i marciapiedi, attraversando tutte le campagne liberate dalla mafia e poi abbracciando prima papa Woitjla, poi papa Ratzinger e infine papa Francesco, un giorno ricevendo la medaglia dell’Accademia dei Lincei o l’onorificenza di Cavaliere e il giorno dopo stringendo la mano ai tossicodipendenti di Torino oppure mescolandosi come una persona qualsiasi al corteo funebre per i ragazzi bruciati vivi della Thyssenkrupp, le lacrime agli occhi.

Ecco perché, vedendolo uscire da palazzo Chigi quel giorno di marzo, il cronista dell’Ansa volle chiedere se davvero avrebbe fatto parte – lui, un prete – del nuovo governo Bersani. Non era una ipotesi peregrina: Don Ciotti è uno dei volti pop dell’impegno italiano. Pop nel senso letterale, popolare e conosciuto, per niente frivolo ma flessibile, come un tempo Margherita Hack e ancora oggi Andrea Camilleri, venerati e carismatici e indispensabili per lanciare gli appelli della società civile, tanto più che questo sacerdote di origini calabresi ma naturalizzato torinese ha fondato due pilastri del terzo settore italiano, il Gruppo Abele e Libera.

Insomma quel giorno, vestito come è sempre solito abbigliarsi e cioè in abiti che sembrano riciclati, il maglione sdrucito e i pantaloni da operaio, Don Ciotti rispose che no, non avrebbe fatto il ministro: “‘E’ da 42 anni che sono ministro della Chiesa, poi faccio altro e volentieri collaboro a percorsi comuni nella lotta alle mafie”.

“Faccio altro”. Don Ciotti fa tantissimo. Nell’immaginario collettivo è un prete di sinistra, ma non estremo come lo era don Andrea Gallo – non ne possiede l’ironia e non è un gaudente. Non sposa gli omosessuali, non si fa fotografare con le transessuali. Quando non partecipa alle marce antimafia in Sicilia e in Calabria a fianco dei Borsellino e dei famigliari di vittime della criminalità organizzata, quando non è invitato a parlare nelle scuole dove ai ragazzi augura di ricevere “la dolce pedata di Dio” – una delle ultime volte, nella Locride, in classe ha rivelato inaspettatamente un dettaglio mai divulgato prima, il fatto che la madre gli morì tra le braccia dopo aver scoperto che qualcuno voleva ucciderlo sul pianerottolo di casa – ecco, quando non è assorbito dagli impegni più vicini abbraccia volentieri le iniziative a favore della Costituzione con Gustavo Zagrebelski, Antonio Ingroia, Stefano Rodotà e Maurizio Landini, poiché la sua stella polare è la difesa della legalità, del lavoro dei giudici, e certamente è stato uno degli esponenti meno visibili dell’antiberlusconismo.

Con Libera, l’associazione antimafia fondata nel 1995 sull’onda dell’indignazione per l’uccisione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Don Ciotti è uscito dal perimetro torinese per allargare l’impegno sociale al resto d’Italia, specialmente il Sud. Geniale l’intuizione, poi diventata legge proprio per impulso di Libera, di destinare i beni confiscati alla mafia ai giovani e alle associazioni pronte a utilizzare quelle terre e quegli edifici in coltivazioni e luoghi buoni, onesti.

Ma è il Gruppo Abele, nato nel 1965, il fulcro dell’impegno di don Luigi: Abele che aiuta Caino, il tossico, la prostituta, “no ai cristiani da salotto”, una piccola associazione che per prima aprì in Italia uno sportello per aiutare le vittime della droga e poco a poco si è ramificata, è diventata casa editrice di libri e riviste, ha partorito le cooperative di Consorzio Abele Lavoro, si è annidata nel cuore della Torino che conta, il nome che Cesare Previti scelse per scontare la pena ai servizi sociali.

Pluripremiato, plurilaureato ad honorem, diviso tra terra e cielo come recita il titolo di uno dei suoi libri, a don Ciotti non poteva capitare niente di peggio che un libro-denuncia scritto da un giornalista rispettato come Luca Rastello, morto recentemente, torinese come il Gruppo Abele, ex collaboratore di don Ciotti che al Gruppo Abele sembra essersi ispirato per “I buoni” (Chiarelettere, 2014).

Ne “I buoni”, che poi sono i cattivi, un personaggio molto simile a Don Ciotti governa attraverso un cerchio magico intoccabile una associazione che si occupa di emarginati ma con estremo pressapochismo e senza preoccuparsi dei diritti degli operatori che ci lavorano, con finanziamenti non proprio chiari. Nella Torino che un giorno vorrebbe immaginarsi senza Fiat e senza don Ciotti come tratto caratteristico, si racconta che nel Gruppo Abele il libro di Rastello non sia stato gradito ma che, allo stesso tempo, molti abbiano riconosciuto le voragini e ai cronisti basta alzare il telefono per trovare numerosi ex operatori ed ex collaboratori pronti a giurare che Rastello ha scritto soltanto la verità.

Non è un caso che a dieci giorni dal temutissimo arrivo nelle librerie il fondatore di Libera abbia detto pubblicamente che sì, in effetti nell’associazione qualche criticità c’era. Ma in quella occasione a difendere l’onorabilità del sacerdote ormai torinese scesero in campo due pesi massimi – e ugualmente intoccabili – del Pantheon dei buoni italiani e cioè Gian Carlo Caselli e Nando Dalla Chiesa, amici da sempre di don Luigi, che dalle colonne del Fatto quotidiano scrissero che il libro di Rastello è volgare e pieno di risentimento privato.

Dopo quella querelle il povero Rastello è morto lanciando una sorta di maledizione ai finti buoni, che poi è una categoria universale e quasi intrinseca delle divinità italiane: di qua i guru della sinistra che attirano schiere di ammiratori e gente di grande fede destinata alla delusione perpetua o alla illusione psicotica (papa Francesco sembra fare eccezione, tra gli altri), di là i malvagi delle multinazionali e del pensiero differente. In fondo il libro di Luca Rastello ha dimostrato che don Ciotti resiste alla santificazione che invece è propria di quasi tutti i rappresentanti della moralità e della bontà in Italia – molti dei nomi dei santificati sono stati disseminati in questo articolo – e di questo il fondatore del Gruppo Abele dovrebbe essere alla fine molto grato.

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l’entusiasmo e le difficoltà dell’accoglienza dei profughi

facile dire accoglienza

bambino siriano

di Ferruccio Sansa
in “il Fatto Quotidiano” del 10 settembre 2015

 

“Sono entusiasta, come quando sono diventato sacerdote. Non sarà tanto la Chiesa che salverà i rifugiati, ma loro che le ridaranno vita”.

Da una parte c’è padre Roberto, 56 anni e trenta di sacerdozio, che vive in una chiesa sperduta dell ’Appennino dove Abruzzo, Molise e Lazio si incontrano. Nella sua voce ritrovi uno slancio che non sentivi da anni. Dall’altra c’è un anziano parroco del palermitano che con diplomazia manifesta molti dubbi: “Scrive il mio nome? ”, esordisce. No, non lo scriviamo. “Allora vi dico: io accoglierei tutti i rifugiati del mondo. Ma sono a malapena autosufficiente, come può aiutarli un prete che non sta in piedi da solo? Tantissimi sacerdoti ormai più che assistere hanno bisogno di una badante. Scompariremo”. Dopo l’appello di papa Francesco le diocesi in tutta Italia cominciano a mobilitarsi. Molte, a dire la verità, erano già attive da prima che la politica si accorgesse dell’emergenza rifugiati. Ma adesso c’è l’invito del Papa e nella Chiesa –tra curie, parrocchie e Caritas – l’attività si è fatta quasi febbrile. Basta visitare gli uffici della Caritas sparsi per l’Italia per rendersene conto: un viavai continuo, il telefono che squilla, scatoloni che entrano ed escono. Ma a colpire è l’atmosfera di confusione. E spesso di entusiasmo. COME A MILANO, dove i profughi già accolti dalla Caritas sono oltre 781, cui presto se ne aggiungeranno altri 130. Siamo quasi a mille per 1.100 parrocchie. “Nulla deve essere lasciato all’improvvisazione, non è che un parroco vede due profughi e se li porta in canonica”, sorridono in Curia. E spiegano: “Il coordinamento è affidato alla Caritas che ha stipulato un accordo con la prefettura. Il cardinale Angelo Scola ha incontrato i sacerdoti della diocesi, ha chiesto a tutti di individuare immobili che possano ospitare persone”. È solo il primo passo: “Poi i rifugiati saranno accolti, ma non saranno soltanto i parroci a doversene prendere cura. La Caritas si occuperà dell’assistenza, del coordinamento”. Non bastano le buone intenzioni, bisogna prendersi cura di persone, spesso di bambini. Come racconta don Ettore Dubini di Erba, nei locali della sua parrocchia vive con una famiglia di nigeriani (i genitori e due bambini di sei mesi e tre anni): “L’arrivo è stato drammatico. Questa povera gente aveva fatto il viaggio con il barcone, poi è stata sballottata per tutta Italia. Quando sono arrivati la bambina di 6 mesi era senza nemmeno più i vestiti. Nuda”. Un cambiamento mica da poco nella vita di un parroco: “Non basta dare un tetto e un piatto caldo. Bisogna fornire assistenza sanitaria, bisogna imparare a comunicare e a vivere insieme”. MA GIÀ STA NASCENDO una rete in parrocchia: c’è un corso di italiano, ci sono gli incontri e quei due piccoli che fanno di tutto per entrare in contatto con i bambini della loro età. “E già diverse famiglie di parrocchiani si sono offerte per ospitare dei rifugiati”, racconta don Ettore. Non è il solo. A Genova, Nicolò Anselmi, uno dei pochissimi vescovi-parroci italiani, ha aperto la chiesa delle Vigne, in pieno centro storico. E poi c’è il seminario genovese, dove fino a pochi decenni fa studiavano decine di aspiranti sacerdoti. Oggi le nuove vocazioni si contano sulle dita di una mano, ma nelle stanze, nei corridoi degli antichi palazzi sono arrivati 50 rifugiati. Altrove è più difficile, la disperazione si aggiunge alla disperazione. Come a Potenza: “La nostra sede è in una baracca”, raccontano dalla Caritas, “Il vescovo si sta organizzando per accogliere l’invito del Papa. Ma è difficile: bisogna aiutare senza urtare i poveri che vivono qui. C’è gente che vive in case di lamiera dal terremoto del 1980”. Sarà dura, ma, come ripete padre Roberto, “la Chiesa si muove, come non succedeva da anni”. Conclude: “Io vivo da solo, ci sono sere che darei chissà cosa per poter parlare, per sentire un rumore nella mia casa. Ora finalmente potrò avere compagnia”. E ieri il Papa aveva ribadito che

“le chiese, le parrocchie, le istituzioni con le porte chiuse non si devono chiamare chiese, si devono chiamare musei”

 

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‘scimmia’, ‘schiavo’, ‘tornatene in Africa’ … gli epiteti razzisti sui nostri social

razzismo e social network

l’esperimento contro i pregiudizi

vedi, qui sotto, il video:

Marisa Labanca Marisa Labanca

In quella che sembra essere una sala di attesa, un extracomunitario chiede alle persone, che di volta in volta gli siedono accanto, di tradurgli dei post che qualcuno ha pubblicato scrivendo in lituano sulla sua pagina Facebook. E’ arrivato da poco in Lituania, non sa ancora parlare bene la lingua e ha bisogno di un aiuto per capire il senso di quelle parole. Donne, uomini e perfino un bambino si dimostrano subito molto disponibili, ma non appena gli occhi si posano sul tablet la loro espressione cambia.

Scuotono la testa, stringono le labbra perché quelli che stanno leggendo non sono semplici commenti ma pesanti insulti razziali. Talmente umilianti che nessuno di loro ha il coraggio di ripeterli. “Scimmia”, “schiavo”, “tornatene in Africa”. E alla fine, ognuna di quelle persone sente il dovere di chiedere scusa. Nonostante non siano loro gli autori dei commenti, il solo fatto di averli letti genera vergogna e dispiacere.

L’esperimento è stato realizzato da un’agenzia lituana per contrastare gli insulti razziali diffusi sul web. Il 21 marzo è la Giornata mondiale per l’eliminazione delle discriminazioni razziali e anche l’Italia ha preso posizione con l’XI settimana di azione contro il razzismo organizzata dall’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razzial Lo slogan di quest’anno è “Accendi la mente, spegni i pregiudizi”, invitando tutti ad utilizzare la propria intelligenza per aprirsi all’altro, imparare a conoscerlo superando le barriere di razza, cultura o religione.

 

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la morte del piccolo Aylan continua a turbare le coscienze

Marocco

flashmob in ricordo del piccolo Aylan

con la maglietta rossa e sdraiati sulla spiaggia per ricordare il bambino siriano

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I più grandi paesi della Terra si fermano in segno di lutto. Il problema irrisolto, l’emergenza immigrazione si fa più che mai globale. Le foto delle morti, dei profughi, a bordo di gommoni, stremati dal viaggio, fanno il giro del mondo e si moltiplicano le dimostrazioni di cordoglio per il dramma più nero degli ultimi anni.

Il flash mob sulle spiagge di Rabat Si parte dall’Europa, destinazione di un mare di profughi provenienti soprattutto dal medio oriente e dall’Africa. Si cercano bandiere, figure di riferimento. C’è voglia di dimostrare umanità per le tragedie umanitarie di cui il Vecchio continente è teatro. Si scelgono due simboli: uno della disperazione e uno della speranza. Aylan, il bambino morto sulla spiaggia dell’Europa e Shems, Speranza, la bambina nata nella stazione di Budapest da una vedova siriana sono stati ricordati oggi a Strasburgo dal gruppo S&D con un minuto di silenzio e una fiaccolata alla luce del sole. Quest’anno durante il viaggio della speranza sono mort

aylan

e quasi 3mila persone. Ed è così che si vuole ricordare la sua vittima più piccola e innocente, il giovane Aylan Kurdi di appena 3 anni. Indossano una t-shirt rossa, molti sono in bermuda blu, draiati sulla pancia, occhi chiusi. Vicino, a un passo, il mare. Sono fotografati proprio come Aylan nel suo tragico viaggio. I partecipanti all’azione, un flash mob organizzato da alcuni artisti e giornalisti marocchini hanno imitato la posizione in cui è stato ritrovato il corpo del bimbo senza vita. L’idea, ha spiegato uno dei promotori, Rashid el-Belghiti, è di venire qui a dire che “il Mediterraneo deve restare uno spazio di condivisione e di scambi, non una barriera per le vittime delle dittature”. La notizia è di poche ore fa e ricorda il bimbo curdo morto la settimana scorsa al largo di Bodrum, Turchia. Le immagini sono state diffuse dai social network. La Bild, intanto, ha scelto di uscire senza foto per dimostrare l’importanza delle immagini dopo il dibattito scattato a proposito dell’opportunità di pubblicare lo scatto che ha raccontato al mondo intero la morte del piccolo. Le foto “svegliano delle emozioni dentro di noi”, scrive il tabloid di Axel Springer. “Ci mostrano momenti belli ma anche crudeli. Ci fanno partecipare ai sentimenti degli altri. Oggi, per dimostrare tutto questo, rinunciamo alle foto”.

Il cordoglio in Australia Decine di migliaia di australiani hanno partecipato ieri sera a veglie a lume di candela nelle maggiori città del Paese in sostegno dei profughi, aggiungendo le loro voci alle crescenti pressioni sul governo conservatore di Canberra perché accolga un maggior numero di persone che fuggono dalla guerra in Siria. Negli eventi #lightthedark (illumina il buio) organizzati in poche ore dai social media e sostenuti da oltre 50 Ong e gruppi comunitari fra cui Amnesty Internationalaustralia e Refugee Council of Australia, 10 mila persone si sono date appuntamento nell’Hyde Park di Sydney e migliaia di altre a Melbourne, Adelaide, Perth, Hobart e Darwin in memoria di Aylan. Altre veglie sono in programma questa settimana a Canberra e a Brisbane, mentre si attende dal governo l’annuncio dell’estensione dei raid aerei australiani in sostegno alla coalizione guidata dagli Usa, dal territorio iracheno a quello siriano. Ieri il primo ministro Tony Abbott ha promesso che il Paese accoglierà “un numero significativo” di profughi siriani, anche se non si prevede aumenterà il numero totale di richiedenti asilo, oltre la quota stabilita per quest’anno di 13.750.

 

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a proposito del funerale del Casamonica: una riflessione più compiuta

un funerale rom  e il teatrino razzista della politica

Marcello Palagi

Marcello

Sono della razza degli accusati

Jean Cocteau

 

M. Palagi ha riletto la sua riflessione provvisoria sul funerale del rom Casamonica (pubblicata in questo sito col titolo: ‘a proposito di un funerale: i fatti e la loro contestualizzazione’) e ne presenta qui la sua versione compiuta e definitiva:

carozza

I fatti sono fatti

Non c’è nessuna dichiarazione meno utile di questa, per cercare di capire la vicenda del funerale di Vittorio Casamonica. I fatti, da sè, non parlano;  vanno contestualizzati, analizzati e interpretati. Anche perchè poi, di fatti, in questa storia, ne sono stati appurati meno di quanto si creda. Ad esempio, si è detto che a partecipare a questi funerali “oceanici” c’era tutta la Roma “mafiosa” e invece, c’erano quasi solo dei rom abruzzesi (non sinti, come si trova scritto – e tutti hanno ripetuto pedissequamente, senza andare a cercare riscontri -, in Wikipedia). E non mi  sembra, almeno stando alle immagini trasmesse dai mass media, che la partecipazione al funerale sia stata così di massa come si vuol far credere: alcune centinaia di persone. Anche una persona di una certa notorietà, da noi, vedrebbe la sua bara seguita da un numero di parenti, amici e conoscenti, egualmente se non più numerosi. Ma l’affermazione iniziale, di un funerale a cui avrebbero assistito tantissimi e tutti mafiosi, è servita e serve ancora per dire che il funerale è stato una prova di forza  “che le associazioni mafiose” hanno esibito, “per affermare il mito della loro impunità,  per affermare la supremazia  della mafia sullo Stato”. Se queste sono le prove di forza… ! Anche se sono stati Caselli e il prefetto di Roma che l’hanno detto e sostenuto, al seguito, però, di molti altri,  si tratta di affermazioni sbagliate e frutto di pregiudizi. I Casamonica non appartengono  alla mafia ed è sbagliato estendere il concetto di mafia a realtà, magari altrettanto malavitose, ma che hanno strutture e organizzazioni, modi di funzionare, assolutamente diversi e che si muovono secondo mentalità e culture di altro genere. Dirò poi quali fraintendimenti ha determinato, nella lettura dei fatti, l’uso della parola mafia. I pochi fatti, se si esclude, pare, il volo dell’elicottero, non sembrano  contro legge. Il feretro di un personaggio noto come appartenente a una famiglia considerata malavitosa e ricca, di rom abruzzesi, arriva in chiesa, per le cerimonie funebri, su una lugubre e nera carrozza trainata da sei cavalli (si dice sia la stessa servita per i funerali di Totò) ed è seguita da un lungo corteo di automobili lussuose che, sembra abbia determinato un rallentamento nel traffico e l’intervento dei vigili urbani. Mentre in chiesa si svolgono la messa e i riti dei defunti, fuori, nella piazza, un buon numero di rom attende più o meno “compostamente” l’uscita della cassa. Improvvisamente appare nel cielo un velivolo che sgancia sulla piazza petali di rosa. Che cosa ci sia in questi “fatti” di illegale, salvo, forse, quanto riguarda l’elicottero, non è dato sapere. Se i fatti sono questi e se, dal punto di vista del diritto e della legge italiana, Vittorio Casamonica non era mai stato condannato, anche se più volte denunciato e inquisito, ci si deve domandare non solo perchè non avrebbe dovuto avere questo funerale, ma come, le autorità competenti civili e religiose avrebbero potuto vietarlo.

E’ un mafioso, lo dicono tutti, anche se non ha subito condanne

Perchè, si risponde, tutti sanno e dicono che era un mafioso e apparteneva a una famiglia mafiosa. E, per dimostrarlo, si riportano rapporti di polizia sulla famiglia che indubbiamente danno da pensare, ma che non sono sentenze e, soprattutto, non hanno comportato incriminazioni per Vittorio Casamonica. L’argomentazione è perciò preoccupante, perchè eleva il “sentire comune”, come diceva a suo tempo il vecchio Bossi, cioè la medietà-mediocrità e il pregiudizio, a verità indiscutibili e giudiziarie: siccome appartiene a una famiglia “mafiosa”, è “mafioso” e quindi si deve proibire che abbia funerali sfarzosi e appariscenti. E chi l’ha detto?

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Perchè in Calabria, a Napoli ecc. si è stabilito che i funerali dei mafiosi e camorristi si devono svolgere in forma privata e alle sei di mattina. C’è da chiedersi se sia legittimo limitare, per legge,  il lusso, lo spreco, l’ostentazione e la partecipazione alle esequie anche di un criminale e i desideri e  libertà di decisione della famiglia, ma anche se fosse, il fatto è che tale regola, fino ad oggi, per Roma non c’è. C’è invece un’altra domanda, da porre:  una norma limitativa di questo genere, là dove fosse approvata, dovrebbe valere per tutti i membri di una famiglia considerata malavitosa, anche per quanti non lo fossero o non avessero subito condanne? Non è ipotizzabile, ad esempio, che tra i Casamonica ci siano anche persone oneste e non malavitose?  Se si pensa che non lo sia, il razzismo non è lontano.

Lo sanno tutti

Molte sono le cose che erano e sono note a tutti, ma non hanno impedito, per esempio, che per un ventennio Berlusconi abbia dominato la scena politica italiana o che sia stato assolto Scajola per essersi trovato a sua insaputa, proprietario di una casa miliardaria, o Andreotti che con i mafiosi si baciava pure. E il ministro Poletti, che con qualche Casamonica si  è trovato cena, come è noto, non dovrebbe suscitare maggiore sdegno e inquietudine di un funerale sopra le nostre righe? Tanti di quelli che ora si scandalizzano per la notorietà “mafiosa” di Vittorio Casamonica, sapevano bene che i loro partiti riscuotevano laute tangenti, che permettevano, se non altro, di tenere aperte sedi, pagare funzionari, rimborsare spese esorbitanti, fare del clientelismo  e finanziare le campagne elettorali. Eppure non hanno rinunciato a sostenerli e, se candidati, a farsi pagare le campagne elettorali con quei soldi di provenienza malavitosa e indebita (non era ricettazione anche questa?), e a partecipare a governi e amministrazioni locali corrotti dai denari della mafia vera. Tutti sapevano e non era possibile che non fossero informati.  Ma se la prendono con i marginalissimi rom di cui non sanno niente.

Mafia-capitale solo a Roma?

Anche il sacco delle risorse pubbliche europee, nazionali e locali per i progetti sui rom, la “Ziganopoli” come venne definito a suo tempo e giustamente da un rom abruzzese, Spinelli, onesto, e imparentato con i Casamonica,  era noto a tutti e non avveniva solo a Roma, ma dovunque, anche in questo territorio. Possibile che chi ha usufruito di quei facili e discutibili finanziamenti locali, grazie a superficiali e incolti progetti,  non abbia almeno il pudore di starsene in silenzio sul questo funerale? Lo dico perché la “ziganopoli” locale  non ha fagocitato pochi spiccioli, ma decine e decine di milioni di vecchie lire. Ci sono le delibere ufficiali a provarlo e storie di volontariato “a pagamento” niente affatto edificanti, anche se, come per i Casamonica e i rom, non è legittimo fare di ogni erba un fascio: il volontariato, normalmente, anche da noi, ha operato  in modo disinteressato e gratuito  – ma non per i rom – e non sarebbe giusto discreditarlo per le incapacità e le velleità di alcuni o per le mele marce che ci sono state.

Il funerale

bara Casamonica

Credo che non si possa comprendere il senso di questo funerale se non si conosce il ruolo della morte e del culto dei morti, per l’identità-sopravvivenza culturale dei rom. Se si capisce questo, si comprende anche perchè il funerale di Casamonica non abbia niente a che vedere con messaggi mafiosi, avvertimenti crimi
nali e sfide allo stato. Preciso che le considerazioni che seguono, sinteticissime e non esaurienti, sul rapporto che i rom in generale, e con modalità anche differenti da gruppo a gruppo e da famiglia a famiglia, hanno con la morte e il ricordo dei morti, riguardano (se li riguardano)  solo i gruppi rom che ho conosciuto, tra cui gli abruzzesi, ma non pretendo che valgano anche per altri che non ho mai avuto la ventura di incontrare e conoscere. Tanto più che, oggi, i rom sono in fase di grossi cambiamenti e specie le nuove generazioni non sempre seguono le tradizioni, anche se  le mentalità dominanti, che sono quelle che assicurano la  loro continuità e identità, sopravvivono forti, anche tra i giovani. Il momento della morte e del funerale di qualsiasi rom, ricco o povero,  autorevole o no, è cruciale, per il doveroso mantenimento e la fissazione della memoria del defunto, perchè dopo non si potrà più parlare liberamente di lui; anche se oggi le attenuazioni  e le trasgressioni di questo tabù sono sempre più diffuse, perchè la società rom non ne ha probabilmente più bisogno.  Ma nei “riti”, mi sembra, conservi tutta la sua forza. La morte e il funerale definiscono la memoria del defunto per l’ultima volta.  Ma al morto vanno resi obbligatoriamente grandi onori, più o meno lussuosi a seconda delle possibilità della famiglia, anche perché si vuole evitare che ne derivino pericoli per chi resta, per aver  mancato di rispetto nei suoi confronti. Lo sfarzo  e l’ostentazione hanno,  questa funzione. Tutti i rom che hanno avuto rapporti col defunto, di parentela, di amicizia, di affari, devono necessariamente partecipare al funerale. Non bastano, come tra noi, una telefonata o un telegramma di condoglianze. Occorre essere presenti di persona. E’ la conseguenza di quella concezione del rapporto vivi-morti a cui ho accennato prima. Anche chi è all’estero o vive lontano, se non ha impedimenti gravissimi, deve partecipare, nei modi più consoni alla circostanza e alle proprie possibilità. E se il defunto è un uomo ricco o autorevole, si cerca di partecipare ai funerali, in modo da non sfigurare.  Il corteo di macchine di lusso, va letto in questi termini, anche se è probabile che molte di queste siano state prese a noleggio.

Funerale per i rom, non per i gagé

Il funerale riguarda solo il defunto e i rom, non è per i gagé. Che invece vi hanno letto, pregiudizialmente, intenzioni e finalità che non c’erano  e si sono, per questo, scandalizzati e non vogliono credere che si possano avere rapporti diversi con la morte e il lutto, lontani da quelli nostri correnti,  piagnoni e lugubri. Tutto quel lusso e quell’ostentazione che definiamo, con supponenza da civilizzatori, kitsch,  non dovevano trasmettere un bel niente ai gagé, ma parlavano solo ai rom, dicevano la permanenza pericolosa e da tacitare del morto presso chi gli era legato affettivamente.

Il ruolo dei gagé

I gagé presenti, se ce ne sono stati, devono essere stati pochi, perché in queste cerimonie non sono né ricercati né significativi, se si eccettuano i sacerdoti. Si deve capire che, con il funerale, si entra in un territorio pericoloso, quello dei morti rom, un territorio da cui i gagé sono esclusi totalmente. I morti gagé non fanno paura, quelli rom  sono potenti e vanno trattati con cautela, e sono i rom vivi che devono farci i conti e regolare i rapporti con loro.

Il lutto rom

Il lutto rom  è bere, fumare, mangiare per il morto, ascoltare la musica che amava, ma anche, al contrario, non radersi per un certo periodo di tempo, digiunare, non mangiare più determinati cibi, magari per tutta la vita, non ascoltare più quella determinata canzone, ecc. per continuare a ricordarselo, onorarlo e tenerlo lontano. Nelle “pomane”, a capotavola, c’è il posto vuoto riservato per il defunto, e gli si servono piatti di cibo, bevande, liquori, sigarette e caffè, come agli altri commensali. Il momento della morte e del funerale di un parente sono troppo importanti per i rom, troppo intrecciati alla vita familiare, troppo pericolosi per poterli utilizzare come segnale di potenza  e di sfida  contro lo Stato. Il fatto che Vittorio Casamonica appartenesse o meno a un clan malavitoso non ha a che fare con queste esequie; sarebbero state egualmente “hollywoodiane”, anche se lui fosse stato uno specchiato padre di famiglia con una ricchezza e un prestigio acquisiti in modi considerati legittimi.

Solo i rom hanno accompagnato il feretro

Chi, rom, ha partecipato alle esequie di Vittorio Casamonica, ci è andato in quanto rom e non perché appartenesse o meno a un gruppo malavitoso o, tanto meno, mafioso e si è mosso, ha agito, si è comportato in funzione del defunto, e non per dimostrare che la mafia domina sullo Stato ed è impunita. E’ anche ridicolo pensare  che si volessero  lanciare, attraverso il funerale sfarzoso, messaggi e minacce. Ci sono altri mezzi per farlo e altri tempi. Un clan malavitoso, di norma, non si esibisce mai così scopertamente e esageratamente, mettendoci in diretta le facce degli aderenti. E non si tirino fuori le processioni di Napoli e gli inchini davanti alle case dei capi agli arresti domiciliari, perchè sono altra cosa di cui si potrà discutere, eventualmente, in altra sede. La confusione e l’incapacità di fare distinzioni non giova a capire.

Razzismo e ipocrisia politica

Il fatto che al cognome Casamonica si associ in assoluto la qualifica di mafiosi è indebito e razzista. Ripeto la domanda già fatta sopra: tutti i partecipanti al funerale erano malavitosi? Ci saranno i Casamonica disonesti, ma tra le centinaia di rom dello stesso cognome o imparentati con loro, che hanno partecipato al funerale, non si deve presumere che ce ne siano stati anche tanti onesti?

La puzza al naso

E’doveroso perciò, parlare di razzismo, perché, in questo caso, la pregiudiziale razzista l’ha fatta da padrone: dalla “tesi” di fondo  che trattandosi di rom, il funerale serviva ad altri scopi, ovviamente criminali, che non di onorare il morto, al “sono tutti mafiosi”, al disprezzo supponente per la loro cultura e i loro modi di celebrare con “lusso kitsch” le esequie,  ai sarcasmi sulla musica del Padrino, come se i rom dovessero ascoltare solo musica folkloristica e dai manouches non fosse uscito Django Reinardt e dai kalé  il flamenco e molto altro ancora … I rom ascoltano musica di ogni genere, come noi, a seconda dei loro gusti personali. E il fatto che al funerale di Casamonica sia stato suonata la musica del Padrino, autorizza solo a pensare che gli piacesse questa colonna sonora. Tra Salvini che criminalizza tutti i rom e gli aulici e sarcastici commentatori benpensanti, assolutamente certi dei presunti messaggi mafiosi di un funerale rom, non c’è molta differenza, ma solo molta più ipocrisia, nei secondi, perchè le loro preoccupazioni non sono tanto le infiltrazioni mafiose, ma la contingenza politica dell’amministrazione di Roma e degli equilibri di governo.

Scandalismo sospetto

La veemenza e l’insofferenza intollerante di questa campagna mediatica e l’unanimità dei giudizi dovrebbero suscitare qualche inquietudine, anche in quanti si sentono con la coscienza a posto, perchè esprimono, con facilità, la loro indignazione per i barconi che affondano col loro carico umano nel Canale di Sicilia o contro l’Ungheria che costruisce 200 chilometri di muro anti immigrati;  tanto sono storie lontane dal loro immediato cortile di casa, a differenza dei rom che ce li troviamo sempre tra i piedi. Nessuno, né a destra né a sinistra, né tra i credenti né tra gli atei, né tra i progressisti né tra i conservatori, né tra i razzisti né tra gli antirazzisti sembra aver avuto dubbi nell’indicare  in questa vicenda di un funerale vistoso di un rom, a dir poco, marginale, la controprova del dominio mafioso a Roma e  della corruzione italiana. 

Esequie di potenti

Non si è mai visto, eppure sarebbe più legittimo,  un eguale, unanime duraturo e diffuso sdegno  per la partecipazione di massa di politici, amministratori, uomini di cultura, imprenditori, finanzieri, ammiragli, generali e popolo, ai funerali di uomini di potere che, “come sapevano tutti, erano delinquenti, percettori di tangenti, corruttori, clientelari, mafiosi veri, ecc.” e che, stando ai criteri vietatori proposti e richiesti, a seguito di questa vicenda di rom, dai benpensanti,  avrebbero dovuto essere sepolti senza nessun seguito, neanche dei parenti di primo grado, a notte fonda e lungo il ciglio di qualche strada fuori mano, come gli scomunicati e gli attori di un tempo.

Onori a Mussolini

E non hanno incontrato nessuna reazione di massa neanche le manifestazioni avvenute, in questi giorni (ma abituali da decenni) e con ben altro concorso di pubblico, a Predappio, in onore del defunto Mussolini. Non hanno nulla da invidiare al funerale di Casamonica quanto a esibizionismi e cattivo gusto, ma costituiscono apologia di fascismo, violano apertamente le leggi esistenti e sono una sfida effettiva contro lo Stato, anche se nessuna delle anime così sensibili contro gli eccessi e il kitsch dei rom, nessun prefetto, nessun giudice e nessuna forza politica hanno mosso paglia o chiesto le dimissioni del sindaco di Predappio o del ministro degli interni. E non è di pessimo gusto anche il faraonico mausoleo che Berlusconi ha costruito a se stesso, anche se  opera di Cascella? 

Unanimità e banalità perbeniste

Chi cerca di comprendere un avvenimento come questo, fuori dai luoghi comuni e non accetta supinamente quello che  gli ammanniscono i mass media, diventa uno che ha il contro in testa e viene isolato. Ci si può anche ridere sopra, ma tanto unanime accanimento nelle banalità e nel chiacchiericcio, è  sintomo  preoccupante della diffusione e del dominio, nell’opinione pubblica, del conformismo, della mancanza di senso critico e del disinteresse per quanto non rientri nel proprio particulare  e nei propri schemi mentali. Si è chiesto il parere di tutti, cani e porci, ma a nessuno è venuto in mente di  interpellare, prima di tutti, qualche rom abruzzese, esperto di cultura rom e capace di spiegare come potessero essere interpretati questi fatti.  Eppure gli abruzzesi sono il gruppo di rom italiani che ha il maggior numero di intellettuali. Solo alle due di notte e dopo qualche giorno, si è sentito, in  tv, un passaggio di un’intervista a Santino Spinelli, intellettuale rom abruzzese di Lanciano (ma nato a Pietrasanta), che chiariva che si era trattato di un funerale rom.

Rom, un pretesto per altri conti politici

E’che di mezzo ci sono dei rom e, quando si parla di rom, prima scattano i pregiudizi e poi arrivano le giustificazioni dell’avversione per quello che sono e fanno o non sono e non fanno (Lo sanno tutti che gli “zingari” sono, per natura, fin dalla nascita delinquenti, brutti, sporchi e cattivi, ladri, rapinatori di bambini e altro ancora. Oltre che “non integrabili” …). Il clamore e la risonanza, anche internazionale che ha avuto questo avvenimento, la sua esorbitante e lunga e ritornante presenza sui giornali, nelle cronache, in internet, nei telegiornali, nei dibattiti televisivi e nelle chiacchiere da bar per giorni e giorni, non ci sarebbero stati se di mezzo non ci fossero stati, come protagonisti, dei rom da sempre discriminati razzisticamente. I rom sono, da sempre, ottimi capri espiatori che riescono, loro malgrado, a far deviare, quando occorra, l’attenzione dai veri problemi di un paese o di una città. Sono tanti, anche in questa provincia, quelli che, sull’avversione contro i rom e i loro “campi sosta”, poca roba, si sono costruirti un proprio esteso elettorato. E la Lega, con i rom, ha cominciato, molti anni fa la propria storia di fortunata imprenditrice politica del razzismo. Insomma, non raccontiamoci balle, questo funerale è un pretesto con finalità che non riguardano né i rom, né la malavita organizzata, ma il controllo della giunta di Roma, la tenuta del governo, la gestione degli appalti delle opere per il giubileo. Se si vuole fare qualcosa contro il malcostume, la corruzione e le organizzazioni criminali che affliggono il nostro paese, mi sembra un grande spreco di energie, molta leghista per di più, questa indignazione così facile per un funerale dei sempre marginali rom. Un modo vile e ipocrita di deviare l’attenzione dai veri imprenditori politici della malavita e da quelle istituzioni governative e amministrative e da quei partiti, che utilizzano questa vicenda, fidando nel fatto che nessuno ne sa niente dei rom, per regolare i conti tra di loro.

Mafiosi

La definizione di “mafiosi” attribuita ai Casamonica, in blocco, ha, di fatto,  generato molti equivoci e ha permesso di assimilare  Vittorio Casamonica a personaggi come i capi clan siciliani o camorristi, che inviano pizzini e vivono ricercati in catacombe sperdute e nascoste, in mezzo a immagini sacre e bibbie e rapporti equivoci con qualche prete.  Di qui l’idea che Vittorio Casamonica, prima di morire si sia confessato e abbia ricevuto l’estrema unzione dal parroco della chiesa di don Bosco. E quindi la conclusione, che il parroco non potesse non sapere. Ma Casamonica non è Provenzano, i rom non appartengono alla mafia anche quando siano gravemente malavitosi, e i loro rapporti con la religione e la chiesa non sono quelli che si attribuiscono alla mafia. Non ne ho le prove  –  solo qualche riscontro, dato che, in questo campo, sono sempre possibili ampi margini di scelte individuali e familiari -,  ma credo che Casamonica non sia mai stato un gran frequentatore di chiese e preti, di messe e liturgie, di confessioni e comunioni, o abbia mai avuto a che fare con libri e bibbie, anche se avrà subito, la famiglia, l’influenza della religiosità popolare meridionale. I rom, in genere, non frequentano molto chiese e cerimonie religiose, salvo per due momenti fondamentali della vita, la nascita, perché viene richiesto il battesimo, per far uscire il neonato da uno stato di animalità, e la morte perché il funerale, per vari motivi, deve avere  un momento di presenza di gagé, amministratori del sacro dominante. Altri aspetti e momenti della vita religiosa non li riguardano che marginalmente o per niente, anche se tra gruppo e gruppo ci sono differenze notevoli. Con le dovute distinzioni, neanche i rom musulmani, frequentano moschee, pregano, digiunano e seguono le prescrizioni dell’Islam. Il sacro, che per i rom è uno solo, cristiano e musulmano non fa differenza, appartiene ai gagé e si fa ricorso a preti, chiese, santuari e  imam, soprattutto in questi due momenti essenziali. Anche se ci sono  altri motivi e altre occasioni, meno cruciali per farvi ricorso; la malatia, la carcerazione, le liti, la richiesta di grazie e miracoli, i giuramenti e i voti, ecc., implicano altre frequentazioni del sacro dei gagé, ma non necessariamente  di preti e imam; non è però il caso di parlarne qui.

Confessione ed estrema unzione

Sul sacerdote che avrebbe confessato in punto di morte Vittorio Casamonica e impartita l’estrema unzione non si sa niente. Può essere che non ci sia neanche stato o che si sia fatto ricorso al primo che è stato trovato. Perchè questi riti non hanno molto spazio e senso, salvo eccezioni, nella cultura e religiosità dei rom. Deprecare quindi che il presunto confessore non si sia opposto a funerali così vistosi è ridicolo, ma anche se ci fosse stato contattato in modo estemporaneo, un sacerdote, cosa avrebbe potuto fare, non conoscendo niente del penitente e della sua famiglia ed essendo tenuto a mantenere il segreto su quanto appreso eventualmente – ed è improbabile – in confessione? Anche il parroco della parrocchia dove abitava Vittorio Casamonica, doveva conoscerlo ben poco se  ha permesso che i suoi funerali si svolgessero in un’altra parrocchia, senza prendere parte alla messa funebre.

Il parroco del funerale

Non sono molte le notizie date dai mass media del parroco della Chiesa di Don Bosco, dove si è svolto il funerale, ma è da escludere che abbia assistito religiosamente Vittorio Casamonica, nel suo trapasso o nel suo lungo periodo di malatia. I Casamonica gli hanno chiesto la messa funebre e i riti finali per un loro congiunto, perchè avevano bisogno – è stato detto –  di una chiesa più grande di quella della “loro” parrocchia  e lui ha accettato, come è suo dovere pastorale. Quando morì un giovane sinto, di cui si svolse il funerale ad Avenza (Ms), fui io col padre del giovane ad andare dal parroco a chiedergli il rito funebre in chiesa. Lui si dichiarò disponibile pur non conoscendo né il morto né la sua famiglia, anche se appartenevano nominalmente alla sua parrocchia  e non ci chiese informazioni sui trascorsi del defunto e neanche se fosse “zingaro”, anche se probabilmente lo capì. Gli venivano chieste  preghiere e liturgie, che per la chiesa, sono valide sempre e per chiunque, santo o peccatore  che sia e non poteva certo sapere che quel funerale sarebbe stato molto diverso e che sarebbe finito sulla stampa e rimasto, positivamente, nella memoria di tanti. Eppure, fatte le debite differenze quantitative, fu un funerale esorbitante anche quello, tutto di sinti, anticipato da un lunghissimo corteo di automobili che avevano accompagnato la bara da Genova dove era il giovane era morto fino alla chiesa, con musiche non rom e non sacre, banda e spargimento di fiori, un vero tappeto di fiori, lungo tutto il percorso a piedi dalla chiesa al cimitero. Penso che il parroco che ha celebrato i funerali di Casamonica si sia egualmente messo a disposizione senza fare domande che non gli competevano. Gli si chiedeva un funerale cattolico e, visto che nulla risultava ostare, lo ha celebrato.

Cosa c’entra il parroco della Chiesa di don Bosco?

Per tutti i funerali di sinti e rom cattolici, ma anche di musulmani a cui ho assistito, ho sempre riscontrato che alla chiesa o all’imam è stato chiesto solo questo: le preghiere  e i riti specifici dei defunti, messa e benedizione o recitazione del Corano, in presenza della bara. Non ho mai visto il parroco o l’imam chiedere informazioni sul defunto anche se  non conoscevano  affatto i richiedenti o il defunto. E’ la situazione abituale, perché i rom non frequentano i luoghi sacri e gli uomini del sacro. Può anche essere che il parroco  della chiesa di don Bosco, sentendo il nome di Casamonica, abbia pensato alla famiglia, ma non era certo suo compito indagare se questo funerale potesse  rappresentare un pericolo per l’ordine pubblico e non credo neanche che ci abbia pensato, tanto più che non  lo era, visto che se non fosse finito in internet, a cose fatte, non se ne sarebbe accorto nessuno, a cominciare dal prefetto. Probabilmente il parroco della chiesa di don Bosco, non aveva mai avuto a che fare con i rom e con i loro funerali, come la maggior parte dei preti, degli imam e della gente. Avrà pensato alla solita messa dei morti e alla benedizione della bara. E credo che in chiesa sia avvenuto solo questo, perchè ai rom non interessa quello che vi avviene, se non perchè lo giudicano un rito essenziale per i loro rapporti col morto, ma è un rito che non richiede la loro partecipazione attiva e, al limite, neanche la loro presenza all’interno. Il sacro, la cerimonia religiosa deve esserci, perchè così si è sempre fatto, è qualcosa di utile, ma che deve fare il prete. Per questo,  a questa parte del funerale, quella che si svolge in chiesa, partecipa una minoranza dei rom, per lo più donne con bambini. La maggioranza degli uomini resta fuori, in attesa che esca la bara e cominci il vero funerale, quello gestito dai rom. Va anche detto  che a qualsiasi  cerimonia religiosa in chiesa, i rom, non partecipano, non ne conoscono il senso e il significato e la vivono, anche quando siano in pochissimi, a modo loro: la “zingarizzano”. Sanno di non essere in un territorio proprio; la chiesa, lo spazio del sacro, si è detto,  appartiene ai “gagé” , ma vi si accampano, per il tempo dei riti e delle preghiere, prendono possesso dei suoi spazi, e ci portano dentro la loro cultura altra, per noi dissacratoria o maleducata e i loro modi e tempi di vita quotidiana: in chiesa ai bambini si lascia fare tutto quello che vogliono, vengono alimentati, sgridati ad alta voce, rincorsi se si allontanano, allattati se necessario, ma anche gli adulti si dissetano durante il rito, masticano chewingum, parlano tra di loro, scherzano e, per fumare, si alzano dal banco ed escono dalla chiesa, facendo avanti e indietro tra dentro e fuori e con qualche corsa fino al bar più vicino. E’ segno che è ancora attivo il loro rapporto col morto, si fa quello che si faceva con lui e lui non è ancora realmente trapassato. Questo tempo si chiuderà, in modo però sempre incompleto, dopo le cerimonie religiose “ufficiali”, con il lungo periodo delle  pomane o di altri “riti”. Con questo non si esclude che ci siano gruppi più integrati religiosamente, dove avviene l’esatto contrario e si tengono comportamenti più simili a quelli nostri.  

Rom musulmani

Ho assistito a cerimonie funebri di rom musulmani dove un imam marocchino, recitava il Corano in arabo, senza nessuna spiegazione e senza che nessuno dei pochissimi parenti presenti capisse una sola parola o un solo gesto, dopo aver cercato di giustificare la bottiglia di cognac che avevano portato per la tomba, nel tentativo, represso dalla disapprovazione severa dell’officiante,  di “zingarizzare” l’intervento gagiò. Il vero funerale rom, molto più affollato, si sarebbe svolto al campo, in più tempi successivi, con la  “pomana” e il rogo dei beni del defunto (cosa che certo non è avvenuta per quelli di Casamonica).

Le esequie rom

Quello che è avvenuto fuori della chiesa di don Bosco è stato totalmente rom. E’ lì  sul sagrato e nel corteo  che è avvenuta la loro vera cerimonia funebre, dove il parroco, i gagé non hanno avuto nessuna voce in capitolo. Non penso proprio che abbiano chiesto il permesso per appendere i loro striscioni di esaltazione di Vittorio Casamonica alla facciata della chiesa né che il parroco avesse idea che il vero funerale si sarebbe svolto fuori,  prima e dopo la messa, con i cavalli, la musica, l’elicottero che spargeva petali di rose, gli striscioni che proclamavano il defunto re e papa, le acclamazioni dei presenti, le roll royce e tutte le altre forme di esibizionismo e ostentazione che ci saranno state fino all’inumazione. Non è in discussione se siano stati o no di cattivo gusto o anche blasfemi , ma gli striscioni con il defunto proclamato re e papa, hanno un riscontro nei funerali degli infiniti “re e regine degli zingari” di cui leggiamo  continuamente sui giornali, al momento delle loro esequie.  Di fatto “re e regine degli zingari” non esistono. In passato, quando i rom erano ancora in gran parte nomadi, se si ammalava gravemente o moriva uno o una  di loro, autorevole, con una grande famiglia e parentela,  si radunavano intorno alla sua tenda, roulotte o  baracca, per assisterlo/a o per i suoi funerali, a volte, in centinaia. Per avere il permesso di accamparsi e soggiornare per un po’ in quel luogo,  senza venir disturbati dalle forze dell’ordine, veniva diffusa la notizia che  si trattava del periodo di assistenza o di lutto per il re o la regina degli zingari. E anche ora che la mobilità è facile, e molti rom sono diventati sedentari e non hanno più roulotte e furgoni, e c’è meno bisogno di accamparsi per un funerale, finisce che il titolo di re o regina venga egualmente tirato fuori per dare lustro al defunto, per dire quanto era autorevole; da pretesto per sostare, a metafora per onorare. 

Parroco, prese di distanza e Welby

Si è anche scritto che il parroco, se non lo sapeva prima, di Casamonica, avrebbe dovuto prendere le distanze dagli avvenimenti almeno dopo il funerale. A che titolo? Se fosse stata una manifestazione mafiosa, forse sì, ma non lo era e ha fatto bene  a dire che l’avrebbe rifatto. Dopo tutto il “non giudicare”, vale anche per queste circostanze. In questo è stato più libero lui di tutti i benpensanti di destra e di sinistra che si sono scandalizzati del funerale rom, magari contrapponendolo moralisticamente alla vicenda di Welby. Ma qui Welby non c’entra niente: l’errore è stato, a suo tempo, quello di negargli i funerali in quella chiesa,  non di averla concessa per il rom Casamonica. Ed è  anche grave che si utilizzi il ricordo di Welby, un ricordo che appartiene ai democratici e alle sinistre, per sputtanare, anche da sinistra, i rom, perché se si dice “E’ una vergogna: avete negato la chiesa per il funerale di Welby e l’avete concessa ai Casamonica”, ancora una volta si avalla la discriminazione abituale nei confronti dei rom, tutti delinquenti da lasciare fuori anche dalla Chiesa.

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dedicato ad Aylan

Aylan negli infiniti mondi

 

Boy-Blowing-Earth-Bubbles-70680

di Alessandro Ghebreigziabiher*

Io so una cosa.
So solo quella.
E mi basta.

So che esiste un mondo in cui un bambino di tre anni di nome Aylan viene trovato morto su una spiaggia.
Viene fotografato.
E l’orribile disegno fa il giro di quello stesso mondo.

So che ne esiste un altro dove il bambino non è affatto morto, semplicemente si riposa dopo spensierati tuffi e capriole tra le onde.
Fa il bagno vestito, ma perché aveva fretta di entrare in acqua e perché è un bambino anarchico ed eccentrico.
Come tutti i bambini dovrebbero essere.
In un altro mondo Aylan è svenuto perché ha mangiato poco, ultimamente.
Ma oggi ha mangiato ed è questo ciò che conta.
In un altro ancora il bimbo è ancora morto, ma poi risuscita subito, perché su quel pianeta la fine della vita è uno scherzo della natura.
E’ la vita stessa che non lo è, fortunati loro.

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In un altro mondo Aylan non è affatto un bambino ma un robot testato dagli scienziati per vedere cosa un giorno potrebbe accadere se i governi privilegeranno gli interessi economici a discapito dei diritti umani.
Test illuminante, in effetti.
In un mondo siamo tutti pazzi e in preda a continue allucinazioni.
Così ci capita di vedere cose assurde, da una giovane vita deceduta a soli tre anni su una spiaggia a milioni di bambini che rischiano di fare la stessa fine.
In un altro mondo Aylan è solo il personaggio di un film.
Drammatico, ciò è indubbio, pure troppo, e per alleggerire la pellicola al termine di quest’ultima vi è una sequenza dei vari errori compiuti durante le riprese, con il giovanissimo attore in seria difficoltà a smettere di ridere, piagnucolare o fare quel che cappero gli aggradi.
Di fare il bambino, insomma.
In un mondo il bambino sta sognando – questa non poteva mancare – sta sognando noi che guardiamo la sua foto, ma che in realtà siamo addormentati e stiamo facendo un incubo e poi ci svegliamo e ci troviamo tutti fradici su una spiaggia qualsiasi, con gli abiti impregnati di sale e sabbia, confusi, infreddoliti.
E felici.
Perché è stato solo un bellissimo incubo.

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In un altro mondo esiste la macchina del tempo e allora si torna tutti indietro fino all’esatto momento in cui è stata fatta la scelta che avrebbe portato alla morte di un bimbo di tre anni su una spiaggia e… e già, nessuno si senta escluso.
In un mondo esiste la magia degli occhi e se una foto la guardiamo in tanti e insieme pensiamo la stessa cosa e soprattutto crediamo alla magia possiamo riscrivere la storia.
Poi però non possiamo fotografarla di nuovo, ma possiamo raccontare come abbiamo rimesso le cose a posto.
Anzi, dobbiamo.
In un altro mondo Aylan sono io.
Solo che nessuno lo sa.
Se sono vivo o morto.
In un altro ancora sei tu che leggi queste parole.
Solo che nessuno lo sa.
Se tra poco morirai.
O meno.
In un mondo che preferisco tra tutti Aylan è vivo e sono morti tutti gli altri.
Ma siccome non gli va di stare da solo inventa noi.
E sono certo che ci dipingerà molto meglio di quel che siamo.
In tutti gli altri mondi.

Io so una cosa.
So solo quella.
Ma mi basta.
So che ci sono infiniti mondi, là fuori.
E sta a noi, tutti noi, decidere in quale vorremo vivere.
In futuro.

Fonte: Storie e Notizie n.1256

 

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