è morto mons. Tommasi, il vescovo dei sinti

un uomo buono

un pastore che ‘odorava delle sue pecore’

un vescovo che ha voluto bene ai più ‘piccoli’ della sua pastorale, in modo particolare ai sinti del campo nomadi di Lucca

 

 

è morto l’arcivescovo emerito Bruno Tommasi

 l’arcivescovo emerito Bruno Tommasi è morto questo pomeriggio all’ospedale Versilia. Aveva 85 anni. Era stato arcivescovo di Lucca dal 1991 al 2005

se n’è andato il vescovo emerito Bruno Tommasi. E’ spirato all’ospedale Versilia, dove era ricoverato a causa delle sue condizioni di salute, peggiorate negli ultimi tempi.
Tommasi era nato a Montignoso nel 1930. Aveva compiuto gli studi nel seminario arcivescovile di Lucca e nel 1958 era stato ordinato presbitero dall’arcivescovo Antonio Torrini.
Ha ricoperto gli incarichi di direttore spirituale e poi rettore del seminario di Lucca, nonché priore della parrocchia di Sant’Anna fino al 1983, anno in cui Giovanni Paolo II lo nomina vescovo di Pontremoli
Il 20 marzo 1991 ancora papa Wojtila lo nomina arcivescovo di Lucca. Rimarrà alla guida della chiesa lucchese fino al 2005, gli ultimi due anni insieme all’attuale arcivescovo e suo successore, monsignor Italo Castellani.
Don Bruno è stato anche un grande amico della nostra emittente che ha ospitato per anni i suoi interventi nella rubrica ‘Parla il Vescovo’. Ed è stato soprattutto benvoluto da tutti i lucchesi.

 

 

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anche i frati cappuccini si muovono sui migranti

il Ministro generale dei frati cappuccini, fr. Mauro Jöhri, convoca un incontro di emergenza circa la crisi dei rifugiati in Europa per il 15-17 ottobre, a Frascati, Romaministro generale

 

 

lettera del ministro generale dei frati acappuccini sul problema dei migranti

 

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un corso universitario per il contrasto all’antiziganismo

l’Università degli Studi di Verona attiverà nell’AA 2015-2016 il Master universitario di I livello in “Studi rom per il contrasto all’antiziganismo”

Piasere

il Master, che avrà una durata annuale con frequenza biennale part-time (da gennaio 2016 a settembre 2017), per un totale di 60 cfu, è organizzato dal Centro di Ricerche Etnografiche e di Antropologia applicata “Francesca Cappelletto” (CREAa).

Il CREAa opera a livello locale, nazionale ed europeo; è un Centro di eccellenza in Italia per le ricerche sulle società e culture rom e per gli studi sull’antiziganismo. Da anni presso il CREAa è attivo il “Seminario avanzato di Studi culturali rom”, che riunisce ogni anno ricercatrici e ricercatori rom e non-rom a livello internazionale. Il Master offre una formazione specifica a personale che già opera, o opererà, in ambiti in cui è importante la presenza/partecipazione/rapporti di/con Rom e Sinti: scuola e altri servizi educativi, servizi sociali, servizi socio-sanitari, volontariato sociale, amministrazioni pubbliche, aziende pubbliche e private; parrocchie; associazioni culturali; giornalismo; istituzioni di sicurezza pubblica; servizi giudiziari, partiti politici, organizzazioni sindacali. Il Master propone anche una formazione specifica a giovani Rom e Sinti impegnati in associazioni di tutela dei diritti umani, sociali e culturali. Per questo, il Master prevede due binari formativi strettamente collegati: 1. sviluppa conoscenze antropologiche sulla storia, società, letteratura e lingua di Rom e Sinti in vista della valorizzazione del loro patrimonio culturale; 2. offre conoscenze sulla storia, la psicologia, la politica e la pratica dell’antiziganismo in vista di una sua decostruzione ragionata e critica e della costruzione di competenze antropologiche, psicologiche e giuridiche per contrastarlo. ll Master può essere speso come valore aggiunto per coprire varie cariche di responsabilità in enti pubblici e privati per interventi su/per/fra/con i Rom e i Sinti. L’antiziganismo è una delle forme più diffuse del razzismo europeo contemporaneo, anche se resta una delle meno consapevoli e delle meno studiate, e nel nostro Paese esso è particolarmente virulento. Riteniamo, pertanto, che l’istituzione di un Master in Studi rom per il contrasto all’antiziganismo, unico nel suo genere nel panorama universitario italiano ed europeo, possa essere di ampia utilità sociale e professionale.
Master Studi rom per il contrasto all’antiziganismo_locandina

Master Studi rom per il contrasto all’antiziganismo_pieghevole

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don Ciotti ricorda don Pino Puglisi

don Pino Puglisi

il ricordo di don Luigi Ciotti

«Era uno che non si era incanalato, che faceva di testa sua». «Predicava, predicava, prendeva ragazzini e li toglieva dalla strada… Martellava e rompeva le scatole».
Queste parole di Gaspare Spatuzza e di Giovanni Drago, mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, basterebbero a spiegare, nella loro rozza schiettezza, perché don Pino Puglisi è stato ucciso.
Ma sono molto lontane dal dire chi davvero fosse don Pino Puglisi, da cosa nasce quel “rompere le scatole” che lo avrebbe esposto alla vendetta del crimine mafioso.
È quello che cerca di fare questo libro di Francesco Deliziosi. Libro bello e importante perché, con mirabile sintesi, riesce a fondere il “soggettivo” e l'”oggettivo”. Deliziosi scrive infatti sia in base alla conoscenza diretta – è stato amico e allievo di Puglisi – sia in base a una profonda, rigorosa documentazione (ha fatto parte, tra l’altro, della commissione preposta a raccogliere il materiale per avviare il processo di beatificazione di Puglisi).
Chi era dunque don Puglisi?
Del ritratto di Deliziosi mi hanno colpito alcuni aspetti e di questi vorrei parlare. Con un’avvertenza, però. Isolare questi aspetti senza coglierne la profonda continuità sarebbe un grave errore di prospettiva. Come tutte le persone restie a fare della propria coscienza un luogo di eterna mediazione e contrattazione, Puglisi imprimeva a tutto ciò che faceva il senso della ricerca e del bisogno di verità. Se era un “rompiscatole”, era perché le scatole le rompeva innanzitutto a se stesso, perché non si accontentava di “fare”, ma voleva fare bene, con rigore, coerenza e serietà.
Il primo aspetto che salta agli occhi è quello dell’educatore. Don Puglisi aveva – lo dicono in tanti – un talento raro nell’educare. Il che significa che il suo insegnamento era fondato sull’ascolto e sul comportamento, più che sulle parole. Non gli interessava tanto trasmettere nozioni, quanto che le persone diventassero capaci di scegliere con coscienza e responsabilità. Ossia che fossero libere. In questo senso, educare per lui era davvero accompagnare ciascuno a scoprire la propria diversità, con pazienza e delicatezza, senza pressioni né condizionamenti, stimolando quel confronto con le grandi domande della vita senza il quale la nostra libertà è ridotta a capriccio, arbitrio, semplice sfogo di impulsi.
Che tutto ciò portasse a esiti diversi dall’abbracciare la fede, non era affatto per don Puglisi segno di sconfitta. Per lui contava che le persone imparassero lo stupore e la conoscenza, capissero che è l’io in funzione della vita e non la vita in funzione dell’io. In quella dimensione avrebbero trovato, anche da laici, il loro modo di credere e di vivere. «Nessun uomo è lontano dal Signore – scrisse un giorno meravigliosamente – Lui è vicino, senz’altro, ma il Signore ama la libertà. Non impone il Suo amore, non forza il cuore di nessuno di noi. Ogni cuore ha i suoi tempi, che neppure noi riusciamo a comprendere. Lui bussa e sta alla porta».
Questa ricchezza umana e apertura di vedute don Pino la portò anche dentro la Chiesa. Ancora giovane, negli anni Sessanta trovò nel Concilio la risposta ai sentimenti e alle intuizioni che turbavano il suo cuore. E se la Unitatis Redintegratio del 1964 sottolinea che «la Chiesa pellegrinante è chiamata da Cristo a questa continua riforma di cui essa stessa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno», la vita di don Puglisi sembra incarnare questo spirito inquieto, teso a una continua riforma di sé, disposto ad accettare con fiducia e coraggio le sfide anche ardue che gli si pongono innanzi.
Così quando questo vivere la fede ritenuto da alcuni troppo “moderno” costa al giovane prete il trasferimento a Godrano, paesino di mille abitanti a circa 40 chilometri da Palermo, don Pino non si scompone più di tanto. E agli amici che protestano contro un provvedimento sentito come una punizione, risponde col suo sorriso mite: «Non sono figli di Dio anche questi uomini di Godrano?».
Inevitabile il richiamo alle parole che don Milani scrisse alla madre da Barbiana: «Non c’è motivo di considerarmi tarpato se sono quassù. La grandezza di una vita non si misura dalla grandezza del luogo in cui si è svolta, e neanche le possibilità di fare del bene si misurano sul numero dei parrocchiani».
Le due situazioni presentano però una differenza di fondo. Se infatti a Barbiana don Lorenzo trova una comunità da condurre con totale dedizione sul cammino della conoscenza e del riscatto sociale, a Godrano don Pino s’imbatte in una realtà chiusa, diffidente, segnata da una lunga e sanguinosa faida fra famiglie. In quel paesino incastonato nelle Madonie sperimenta sulla propria pelle la forza di una mentalità – quella della vendetta e di un malinteso senso dell’onore – che, anche quando è strettamente legata alla mafia, le offre un terreno fertile per radicarsi. E che può trovare indiretta sponda in forme di religiosità confinate nel «chiuso della sacrestia e di pratiche devozionali e bigotte». Per don Pino, tuttavia, è una ragione di più per rimboccarsi le maniche, e anche a Godrano saprà stanare la speranza in cuori induriti dall’odio e dal pregiudizio, suscitando negli adulti il desiderio del perdono e della riconciliazione, nei giovani un’idea di convivenza non riducibile alle mura di casa o all’appartenenza al proprio clan.
Ecco allora che il rientro a Palermo e il successivo ritorno nella natia Brancaccio sono per Pino l’occasione per continuare con maggior forza il cammino intrapreso: da un lato i percorsi educativi – «perché con i bambini e gli adolescenti si è ancora in tempo» – dall’altro il concepire la parrocchia, prima che come un luogo di culto, come uno strumento di promozione umana e sociale, strumento di una Chiesa più aperta, più “periferica”, più vicina ai poveri, più attenta alle questioni sociali. I cui pastori non dimenticano certo la dottrina, ma sanno che essa non può sostituire la costruzione del bene e la ricerca impervia della verità. «Il sacerdote di domani – ha scritto Karl Rhaner, il grande teologo conciliare che fu uno dei riferimenti di Puglisi – sarà un uomo che sopporta la pesante oscurità dell’esistenza con i suoi fratelli e sorelle. Il sacerdote di domani non sarà colui che deriva la propria forza dal prestigio sociale della Chiesa, ma che avrà il coraggio di far sua la non-forza della Chiesa».
Il libro racconta nei dettagli le tante iniziative che questo piccolo grande prete ha saputo mettere in piedi negli anni del suo ritorno a Palermo, il suo affanno e la sua costante rincorsa al tempo, rubato al sonno e perfino al cibo (se non riusciva quasi mai a essere puntuale, don Puglisi, era perché prima lo era stato con tante, con troppe persone…). Racconta il suo caricarsi delle speranze e delle istanze di giustizia di tanta gente ma anche il suo promuovere l’impegno collettivo, la collaborazione con altre realtà ecclesiali e civili, perché «se ognuno di noi fa qualcosa, allora si può fare molto».
E ci si chiede, leggendo queste pagine, come un’attività così frenetica e incisiva (e tuttavia discreta: Puglisi era un uomo schivo, che rifuggiva ogni protagonismo) potesse non finire nelle mire dei boss e di quanti vogliono mantenere le comunità sotto una cappa d’ignoranza, di miseria, di fatalismo. Mire – duole dirlo – che si sono avvalse nel passato anche di sottovalutazioni e perfino compromissioni in ambito ecclesiastico, prima che le nette parole di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, i martirî di don Puglisi e di don Peppe Diana, evidenziassero l’incompatibilità della mafia con lo spirito del Vangelo, con l’amore di Gesù per i poveri, i miti, i perseguitati.
Molti hanno cercato di dare una definizione all’attività pastorale di don Pino. Nel mio piccolo voglio sottolineare come la definizione “prete antimafia” sia sbagliata non solo perché ogni definizione, sia pure attribuita con le migliori intenzioni, impoverisce la complessità di una vita. Ma perché Puglisi aveva capito che il problema non è tanto la mafia come organizzazione criminale (se così fosse basterebbero la magistratura e le forze di polizia) quanto la mafiosità, il mare dentro cui nuota il pesce mafioso. L’assassinio di don Pino Puglisi ci ricorda che sconfiggeremo le mafie solo quando saremo capaci di fare pulizia attorno e dentro di noi, quando supereremo gli egoismi, i favoritismi, i privilegi e l’inevitabile corruzione che questo modo d’intendere la vita porta con sé. Solo quando avremo il coraggio di riconoscere anche le nostre responsabilità, responsabilità non solo dirette ma indirette, riferibili a quel peccato di omissione che consiste nell’interpretare in modo restrittivo e puramente formale il nostro ruolo di cittadini.
In tal senso la beatificazione di don Pino Puglisi è, paradossalmente, una “spina nel fianco” per tutti noi. Non solo per una Chiesa chiamata più che mai, nell’attuale crisi mondiale, a saldare il Cielo e la Terra, la dimensione spirituale con l’impegno per la giustizia sociale. Ma per chiunque, cristiano o laico, si senta chiamato a contribuire alla costruzione della speranza già a partire da questo mondo.

don Luigi Ciotti

prefazione scritta da don Luigi Ciotti al libro“Pino Puglisi il prete che fece tremare la mafia”

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sulla teologia di Rahner

Rahner e l’esistenziale soprannaturale

 

il pensiero di Karl Rahner è un punto di passaggio obbligato per comprendere la rivoluzione metodologica avvenuta nella teologia del XX secolo. La sua riflessione ha permesso un notevole avanzamento della riflessione teologica, che rischiava di fossilizzarsi nelle categorie scolastiche medievali e moderne

Rahner

Karl Rahner e la svolta antropologica

Karl Rahner nasce a Friburgo nel 1904, gesuita tedesco, studia filosofia con Heidegger per poi laurearsi in teologia. Partecipa al Concilio Vaticano II come perito ed è annoverato tra i più grandi teologi del XX secolo. La sua attività di studio e ricerca è imponente: i suoi scritti principali sono raccolti in 16 volumi. Ha il merito di aver inaugurato un vero e proprio metodo teologico, definito come antropologico-trascendentale. Muore ad Innsbruck nel 1984.

Rahner ha una grande intuizione: comprende che le categorie della teologia scolastica medievale, che avevano dominato il sapere teologico per secoli, non riescono più a trasmettere adeguatamente i contenuti della fede. Esse infatti, essendo state elaborate prima della modernità, non tengono conto degli ineludibili sviluppi del pensiero avvenuti in questa epoca.

La modernità si caratterizza per una rinnovata riflessione sull’uomo: la soggettività e l’esperienza storica diventano centrali e vengono tematizzate in tutti i loro aspetti.

Rahner percepisce quindi il clamoroso ritardo che la teologia aveva accumulato sottraendosi al confronto con il pensiero moderno. Il metodo scolastico che nel medioevo riuscì ad armonizzare con successo fede e ragione, risultava ormai nel XX secolo profondamente insufficiente. Esso peccava di astrattezza seguendo un impianto deduttivo che non riusciva più ad essere eloquente e a fronteggiare la crisi moderna e contemporanea della fede. Un esempio di questa inadeguatezza sono le prove classiche dell’esistenza di Dio. Esse

… venivano proposte in un modo che non poteva non renderle, diciamo così, strane. Infatti si presentavano come se volessero convincere l’uomo di qualcosa che gli era assolutamente ignoto, quasi che Dio e la sua esistenza somigliassero ad un paese lontano, che l’ascoltatore non aveva mai visto, ma di cui doveva accettare l’esistenza. Venivano cioè portate all’uomo dall’esterno[1].

Rahner

Rahner coglie perciò la necessità di una proposta teologica che entrasse nel cuore della questione moderna, che muovesse dal soggetto e dalla sua esperienza storica concreta, senza limitarsi alla ripetizione sterile di un metodo anacronistico.

Se il programma moderno pone al centro la svolta antropologica e cioè una nuova riflessione sul soggetto, è Rahner in ambito cattolico il primo ad aver introdotto la svolta antropologica in teologia, elaborando un vero e proprio sistema.

Karl Rahner e il metodo antropologico-trascendentale

Il Teologo di Friburgo si ispira alla riflessione kantiana e a quella heideggeriana per superare l’oggettivismo scolastico e per sottolineare la rilevanza antropologica della Rivelazione.

Se i detrattori di Rahner sospettano che la sua impostazione scada in una deriva modernistica, in realtà mostrano di non aver affatto compreso la portata del suo contributo alla riflessione teologica. Karl Rahner riesce ad utilizzare lo spessore della riflessione filosofica moderna per esprimere le condizioni di possibilità teoretiche dell’inedito cristiano, ovvero la relazione tra Dio e l’uomo. Il Teologo, servendosi dell’apparato concettuale filosofico, evita però ogni tentazione hegeliana di ridurre il dato di fede ad un momento del pensiero.

Cercando di superare il neotomismo, in fondo Rahner segue l’intuizione tomista. Come Tommaso era riuscito ad imporre il rigore della riflessione aristotelica in un contesto culturale platonico-agostiniano, così allo stesso modo il Pensatore di Friburgo cercò di introdurre un nuovo metodo agli antipodi di quello vigente. Quindi l’originalità di Rahner non è nell’elaborare delle categorie nuove, ma nell’esprimere efficacemente il pensiero biblico-patristico attraverso un linguaggio rigoroso e comprensibile ai suoi interlocutori del XX secolo.

Le prove medievali dell’esistenza di Dio avevano assunto un presupposto fuorviante: Dio e l’uomo sembravano due grandezze estranee fra loro. Al contrario la Rivelazione biblica testimonia un’intimità strettissima fra Dio e l’uomo. L’intera creazione ha carattere cristico: l’uomo è pensato e creato in Cristo che si pone come origine e destinazione dell’umanità.

Rahner quindi si serve di Kant e di Heidegger per dire l’esperienza biblica di Agostino, Dio come “interior intimo meo[2]” più intimo all’uomo del suo stesso intimo.

Parafrasando Kant, Rahner conia il suo metodo come antropologico-trascendentale. L’esperienza umana, infatti,

…non è solo esperienza di questo e di quello, esperienza ben definita nei suoi contenuti, ma è, insieme, esperienza della finitezza, che rimanda ad un orizzonte infinito; esperienza dell’assolutezza della verità e della responsabilità, che rimanda all’assoluto; esperienza della radicalità dell’amore e della fedeltà, che rimanda all’incondizionato[3]. 

Il Teologo riprende cioè il trascendentale kantiano, la condizione di possibilità del conoscere, aprendolo all’esperienza verticale. L’uomo non è dotato solamente di strutture psichiche che gli rendono possibile la conoscenza, ma allo stesso modo è stato creato da Dio con un’apertura al mistero, ad una possibile Rivelazione di Dio nella storia. Rahner infatti, dal titolo di una sua opera del 1941, parla degli uomini come di “Uditori della Parola”: strutturalmente aperti, cioè, all’ascolto di una possibile comunicazione di Dio nella storia.

L’impostazione antropologico-trascendentale si coniuga nell’idea dell’esistenziale soprannaturale. Con questo terminologia, apparentemente complessa, in realtà Rahner cerca solamente di esprimere il dato biblico della Grazia che avvolge e pervade l’uomo in tutta la sua esistenza.

L’esistenziale soprannaturale significa questo: esistenziale è un concetto mediato dall’Esserci di Heidegger e indica l’esistenza umana, mentre soprannaturale qualifica la gratuità della Grazia: essa non appartiene al soggetto e non è in alcun modo deducibile da esso, è e rimane un dono di Dio.

Parlando della Grazia come di esistenziale soprannaturale, Rahner intende questo: la teologia moderna aveva rischiato di porre la relazione tra Dio e l’uomo in secondo piano, come qualcosa di accessorio. In questo orizzonte, la Grazia di Dio, la sua relazione con l’uomo, finiva per ridursi ad una realtà cosificata, imprigionata nei limiti delle categorie che la descrivevano. La precisione dei termini scolastici nel pensare la Grazia come presente o meno nell’uomo rischiava di far perdere di vista l’elemento più importante, la realtà cristica dell’umano, il suo essere indelebilmente immagine di Dio.

Il Teologo di Friburgo, attraverso il concetto dell’esistenziale soprannaturale, pensa la Grazia non solo come presente o meno, acquistabile o perdibile, ma come una realtà che si pone al centro dell’esistenza umana, che la irradia da sempre e senza interruzione.

Rahner

La Grazia, quindi l’azione di Dio sull’uomo, è concepita da Rahner come un apriori, un trascendentale. Essa, pur essendo un dono, avvolge l’uomo da sempre, nell’intimo della sua libertà e si pone come offerta sempre disponibile. In questo senso, nell’esperienza storica, l’uomo può certamente rifiutare la Grazia, la relazione con Dio, ma non può mai estirparla, perché essa continua ad essere sempre presente sotto la forma dell’appello che continuamente interpella la libertà.

Possiamo parafrasare questa intuizione biblica di Rahner con una suggestiva immagine di Werbick: non è solamente l’uomo a pregare Dio, ma è anche Dio a pregare l’uomo. Così ad esempio in 2 Corinzi 5,20 “Lasciatevi riconciliare con Dio[4]”. Inoltre, per i credenti, dietro alla preghiera di ogni sofferente che implora di non essere valutato in modo condizionato, come mezzo per un fine, si cela la preghiera stessa di Dio che chiama a non relativizzare la supplica dell’altro[5].

La preghiera è l’origine della libertà umana. Essa richiede la mia libera valutazione: il riconoscimento di un-essere-interpellato a cui potrei sottrarmi solo se non volessi valutare e volessi sottrarmi a ciò che mi riguarda incondizionatamente. La richiesta di valutazione non è irrecusabile. Irrecusabile è solo il ‘brutum factum’, che fa fallire immediatamente il mio proposito se non tengo conto di esso. L’irrecusabilità revoca la libertà, esige che si tenga conto dell’irrecusabilmente dato…[6]

Christian Sabbatini

Bibliografia:

R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 20147 (Biblioteca di Teologia Contemporanea, 69), 237-253.

Immagine in evidenza: www.muenchner-kirchennachrichten.de

Immagini media: www.muenchner-kirchennachrichten.de www.badische-zeitung.de,  likesuccess.com,

[1] K. Rahner, Riflessioni teologiche sulla secolarizzazione e sull’ateismo, in Nuovi Saggi IV, Paoline, Roma 1964-1985: opera citata in R. Gibellini, La teologia del XX secolo, 244.
[2] Agostino, Le confessioni, Mondadori, Milano 2008 (I classici del pensiero, 6), 542.[3] R. Gibellini, La teologia del XX secolo, 241.
[4] Cfr. J. Werbick, Un Dio coinvolgente. Dottrina teologica su Dio, Queriniana, Brescia 2010 (Biblioteca di Teologia Contemporanea, 150), 266s.
[5] Cfr. C. Sabbatini, La questione del senso in Hansjürgen Verweyen e Jürgen Werbick, Istituto Teologico Marchigiano, Tesi di Baccelierato 2014, 48.
[6] J. Werbick, Un Dio coinvolgente, 268.

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