aver cura della terra e dei poveri

accanto a Lazzaro

 custodire la terra con profezia ma senza demonizzazioni

da Il Re g n o – Attualità

povertà

un commento all’Enciclica Laudato si’

questo inizio di XXI secolo sarà ricordato anche per la fine della critica al capitalismo, che invece aveva caratterizzato buona parte del XX. Il capitalismo è diventato l’ambiente dentro il quale viviamo e ci muoviamo, e vi siamo talmente immersi da non avere più la capacità culturale di guardarlo per analizzarlo, criticarlo, rivolgergli le domande fondamentali dell’equità, della giustizia, della verità

Anche le varie forme d’impresa responsabile, o la stessa economia del settore non profit, si concepiscono all’interno dello stesso sistema capitalistico e sono a questo funzionali e sempre più essenziali – in Italia, ad esempio, circa la metà delle grandi organizzazioni non profit riceve direttamente o indirettamente finanziamenti dalle multinazionali dell’azzardo, inclusi importanti movimenti cattolici –. In questa povertà di pensiero critico, si comprende il valore e la portata storica della Laudato si’, che è anche una lucida e profetica critica del capitalismo finanziario e tecnologico. E lo fa a vari livelli, tutti essenziali. Innanzitutto, la Laudato si’ di Francesco è un grande discorso concreto di bene comune. Non è un discorso «sul» bene comune come categoria (di questi, tra i cattolici, ce ne sono fin troppi), ma è un esercizio di bene comune – nel linguaggio antico dovremmo dire che in questa enciclica il bene comune non è l’oggetto materiale bensì l’oggetto formale: si guarda il mondo dalla prospettiva del bene comune, che diventa criterio etico di giudizio globale. Oggi, soprattutto in Occidente, non riusciamo a vedere la questione etica del mondo proprio perché ci manca la categoria di bene comune – e quindi anche quella strettamente collegata di beni comuni –, la grande assente della nostra civiltà dei consumi e della finanza.

povertà

Eppure la nostra epoca ha conosciuto nella propria carne che cosa siano i mali comuni: guerre mondiali, pericolo atomico, epidemie e, oggi, il terrorismo globalizzato. Abbiamo imparato che cosa significhi essere anche un corpo quando cadevano le bombe sulle case dei ricchi e su quelle dei poveri, quando la follia suicidaomicida uccideva manager e operai; ma dall’esperienza del male comune non abbiamo imparato la sapienza del bene comune. Non abbiamo appreso collettivamente che il bene primo di una società (nel senso che se manca sono minacciati anche i beni secondi) è il bene comune, quello di tutti e di ciascuno. E così, giorno dopo giorno, legge dopo legge, non-legge dopo non-legge, stiamo dando vita alla «civiltà dell’interesse privato», che con ideologie sempre più sofisticate sta convincendo tutti che gli «scarti» siano un prezzo da pagare al benessere dell’élite, e che è normale e inevitabile che il 10% degli abitanti del pianeta utilizzi energia per l’aria condizionata negli appartamenti e per i SUV, e che il 90% che non ha né aria condizionata né SUV sia condannato a subire le conseguenze di un pianeta sempre più inquinato da chi è sopra di lui. Ancora una volta la storia umana conferma e amplifica la verità del Vangelo: non solo Lazzaro continua a stare sotto la tavola del ricco epulone a raccogliere le briciole della sua opulenza, ma da quella tavola sempre più imbandita con prodotti che nascono dalle terre sfruttate dei tanti poveri del pianeta ormai gocciolano sul capo di Lazzaro anche i rifiuti, le scorie, la sporcizia, che rendono immangiabili quelle poche briciole di pane.

povertà

Un umanesimo integrale Papa Francesco è capace di vedere tutto ciò e di dirlo a tutti, per renderci almeno un po’ meno tranquilli nei nostri banchetti opulenti. E lo fa con la libertà che nasce da chi ha il solo interesse di servire la verità, che non dipende dai finanziamenti delle multinazionali e della grande finanza, e quindi di dar voce a chi non ce l’ha, denunciando con una forza e un coraggio inediti l’economia dei nuovi epuloni generatori di briciole inquinate e inique. Lo sguardo migliore sul bene comune, forse il solo giusto, è quello di chi si mette sotto il tavolo accanto a Lazzaro, e da lì guarda verso l’alto. Un altro tema che ispira tutto l’impianto dell’enciclica è il rapporto uomoterra letto come relazione di reciprocità con pari dignità, perché uomo e terra sono «creazione» (c. II; Regno-doc. 23,2015,14), reciprocità tra esseri umani e reciprocità tra noi e la terra. Una sola è la custodia: custodia dell’altro uomo («Sono forse io il custode di mio fratello?»: Gen 4,9), e custodia della terra (l’Adam deve coltivare e custodire il giardino: cf. Gen 2,15). La parola ebraica che l’autore della Genesi usa in entrambe le custodie – che poi saranno negate – è la stessa (shamar), a ricordarci che se non custodisco l’altro uomo, ogni altro uomo e donna, non sarò capace di custodire né la terra né me stesso (se non custodisco l’altro divento presto incapace anche della cura di me stesso: resta solo l’edonismo nichilista). Dove non c’è la custodia il fratricidio prende il posto della fraternità e la terra viene macchiata dal sangue – ma Dio e i suoi amici veri e non ruffiani riescono ancora a sentire l’odore del sangue delle vittime («La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo»: Gen 4,10). Ed è per questa ragione che «l’ecologia integrale» (c. IV; Regno-doc. 23,2015,30) di cui parla la Laudato si’ può nascere solo da un «umanesimo integrale» (c. III; Regno-doc. 23,2015,22). L’antropocentrismo «deviato» – come il papa definisce quella visione, alimentata anche da alcune teologie cristiane parziali, che vede tutto l’universo in funzione del benessere degli esseri umani – è il primo errore da rettificare per costruire una relazione corretta con la terra e con natura, una relazione che Francesco, francescanamente, chiama di fraternità: «quando il cuore è veramente aperto a una comunione universale, niente e nessuno è escluso da tale fraternità» (n. 92; Regno-doc. 23,2015,20). Al tempo stesso, l’uomo è realmente il centro del processo di deterioramento che sta subendo la vita del pianeta, un deterioramento che non mette in discussione la sopravvivenza della terra (che nella sua storia ha superato «crisi» molto più devastanti di quella da noi prodotta) ma la sopravvivenza dell’homo sapiens. Inoltre – e questo il papa lo sottolinea in molti passaggi della sua lettera – il comportamento irresponsabile dell’uomo, invece di «accudire» depreda la terra e sta producendo una forte perdita di biodiversità nel pianeta e la morte di molte altre specie viventi. Alcuni commentatori, sedicenti amanti del libero mercato – senza spiegare che cosa intendano per «mercato» e per «libero» –, hanno scritto, in Italia e altrove, che papa Francesco è contro il mercato e contro la libertà economica, e vedono in questo un’espressione del suo anti-modernismo e magari marxismo. In realtà, se leggiamo il testo senza occhiali ideologici, troviamo cose molto importanti sul mercato e sull’economia. Francesco ci ricorda che il mercato e l’impresa sono preziosi alleati del bene comune se non diventano un tutto. Il mercato è una dimensione della buona vita sociale, essenziale oggi a ogni bene comune. Ma le parole delle economie non sono né le uniche né le prime.

La regola del mutuo vantaggio Innanzitutto, il papa denuncia lo snaturamento del mercato. Se è vero, infatti, che la legge aurea del mercato è quella del «mutuo vantaggio» – come ci ricordano Adam Smith, Antonio Genovesi e la migliore tradizione del pensiero economico – e non il vantaggio di una parte a spese dell’altra, allor quando le imprese depredano persone e terra (e lo fanno spesso), stanno negando la natura stessa del mercato. Il papa non fa altro che richiamare l’economia e il mercato alla loro vocazione più vera: il mutuo vantaggio o, nelle parole di Genovesi, «la mutua assistenza» (in Lezioni di economia civile, scritte tra il 1765 e il 1767). Infine anche riconoscendo il mutuo vantaggio come una legge fondamentale del mercato civile, e magari estendendolo anche al rapporto con altre specie viventi e con la terra (molte esperienze nel rapporto uomo-terra si possono leggere anche in questo senso), esso non deve essere l’unica legge della vita. In questo il papa è in sintonia con grandi economisti contemporanei, tra i quali il premio Nobel A.K. Sen. Sen nei suoi lavori sulla giustizia parla degli obblighi di potere, e lo fa ispirandosi anche alla tradizione religiosa indiana. Gli obblighi di potere ci spingono ad andare oltre il mutuo vantaggio e il contratto – il suo principale strumento. Il mutuo vantaggio e il contratto non sono sufficienti per la costruzione di una società giusta. Esistono altri obblighi morali e civili che non possono essere ricondotti al principio del mutuo vantaggio. In particolare, gli obblighi di potere sono fondamentali quando abbiamo a che fare con i bambini e con altre specie viventi non umane. Quando ci troviamo nella condizione d’esercitare un potere nei confronti di altri viventi più deboli e che dipendono decisamente dalla nostra potenza, dobbiamo agire sulla base del riconoscimento dell’asimmetrica possibilità di fare cose cariche di conseguenze per la vita degli altri (cf. A. Sen, The Idea of Justice, Harvard University Press, Harvard 2009; trad. it. L’idea di giustizia, Mondadori, Milano 2010). Dobbiamo agire responsabilmente nei confronti del creato perché oggi la tecnica ci ha messo nelle condizioni oggettive di poter produrre unilateralmente conseguenze molto gravi verso altri esseri viventi con i quali siamo legati. Tutto nell’universo è vivo, e tutto ci chiama a responsabilità. Molto importante, infine, è la questione del «debito ecologico» (n. 52; Regnodoc. 23,2015,12), che rappresenta uno dei passaggi più alti e profetici dell’enciclica. La logica spietata dei debiti degli stati domina la terra, mette in ginocchio interi popoli (come la Grecia ma non solo), e ne tiene sotto ricatto molti altri. Molto potere nel mondo è esercitato in nome del debito e del credito finanziari. Esiste però anche un grande «debito ecologico» del Sud del mondo nei confronti del Nord, un 10% dell’umanità che ha costruito il proprio benessere scaricando i costi sull’atmosfera di tutti, e che continua a produrre «cambiamenti climatici» che hanno effetti devastanti proprio in molti tra i paesi più poveri. L’espressione «cambiamenti» è fuorviante perché è eticamente neutrale. Il papa parla d’«inquinamento» e di deterioramento di quel «bene comune» chiamato «clima» (n. 23; Regno-doc. 23,2015,6). Il deterioramento del clima contribuisce alla desertificazione di intere regioni che influiscono decisamente sulle miserie, le morti delle bambine, dei bambini, delle donne, degli uomini, e le migrazioni (cf. n. 25). Di questo immenso «debito ecologico» e di giustizia globale non si tiene conto nei tavoli dei potenti, e si pretende magari di dare anche una vernice etica alle chiusure delle nostre frontiere verso chi arriva da noi perché prima gli abbiamo bruciato la casa. Questo debito ecologico non pesa per nulla nell’ordine politico mondiale. Nessuna troika condanna un paese perché ha inquinato e desertificato un altro. E così il debito ecologico continua a crescere sotto l’indifferenza dei grandi e dei potenti. La nostra civiltà globale ha un bisogno estremo e vitale di profezia. La profezia è sempre stata il primo alimento del bene comune, dentro e fuori le religioni. Ma dove sono, oggi, i profeti? E quei pochi, chi li ascolta? Papa Francesco è uno dei pochissimi profeti del nostro tempo, e, grazie a Dio, è anche ascoltato. Certamente è ascoltato e amato dai Lazzari. Auguriamoci che sia ascoltato anche da qualche ricco epulone: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti» (Lc 16,31).

Luigino Bruni

image_pdfimage_print

giovani rom chiedono il superamento dei ghetti

‘Primavera Romani’

il manifesto dei ragazzi rom

(Associazione 21Luglio)

 

un momento dell’evento

giovani rom1

 i giovani Rom e Sinti scrivono alle istituzioni: “Vogliamo un’Italia unita, basta con i ghetti”

 venticinque ragazzi rom, sinti e non rom, hanno consegnato alle Istituzioni un documento, un Manifesto per “un’Italia unita e libera da ghetti”. E’ accaduto stamattina nelle aule del Senato.
giovani rom

 

 

 

 

 

I giovani vorrebbero rappresentare gli “attori di un cambiamento” e sognano “un risveglio di umanità” per il nostro Paese. La ricetta per garantire “i diritti per tutti – a loro avviso – è il superamento dei campi rom e nuove proposte per la scuola, il lavoro e i giovani.

Il manifesto è stato elaborato da ragazzi di diverse città durante la Convention ‘Primavera Romani’, promossa a Roma dall’Associazione 21 luglio, che si è conclusa oggi a palazzo Madama con la consegna del documento finale a Manuela Serra (M5s) della Commissione Diritti umani.

In un periodo di crisi come questo – ha osservato il presidente dell’associazione, Carlo Stasolla – «alla lamentela sterile o alla battaglia violenta, noi scegliamo la terza via: vogliamo pensare a un’Italia diversa. Dobbiamo fare in modo che il manifesto venga condiviso da più persone possibili».

“Se vogliamo cambiare la realtà, dobbiamo farlo noi”, ha osservato la senatrice spagnola di origine rom, Silvia Heredia Martin, raccontando che dal “1978 a oggi i gitani che vivono in situazione di disagio in Spagna sono passati dall’80% al 5%”.

Le proposte dei giovani per un’Italia più ‘serena’, prevedono tra le altre cose, di inserire tra le attività extrascolastiche, che danno crediti formativi agli studenti, anche il ‘contributo alla collettività’; istituire consulte giovanili nei Comuni; introdurre lo ius soli; garantire affitti agevolati e l’accesso alle case popolari su basi eque; promuovere soluzioni abitative nuove come il cohousing; obbligare gli enti locali a mettere a disposizione dei senza dimora gli edifici pubblici inutilizzati.

Per quanto riguarda invece lavoro e scuola, i ragazzi rom e non rom suggeriscono di alzare la soglia di reddito per l’accesso alle borse di studio e assicurare la copertura dei costi scolastici contro l’abbandono; formare i docenti all’intercultura e al plurilinguismo; inserire a scuola figure di pedagogisti per facilitare il contatto tra scuola e genitori; prevedere programmi di inserimento lavorativo ad hoc per chi vive nei campi; favorire la creazione di cooperative per valorizzare i lavori tradizionali dei rom e prevedere incentivi per aziende che assumono categorie in svantaggio.

image_pdfimage_print

le bufale smascherate dalla verifica

abbiamo preso le peggiori bufale sull’immigrazione e le abbiamo verificate

di Claudia Torrisi
migranti-bufale-polemiche-234-body-image-1438073766

Negli ultimi mesi diverse testate avevano provato a sfatare alcune credenze e falsi miti sull’immigrazione. Ad esempio, facendo chiarezza sui numeri, era stato distrutto lo spauracchio ” invasione,” era stata smontata la bufala dei 30 euro al giorno ricevuti da ogni migrante—che, tanto per ricordarlo, è la cifra che va alle strutture di accoglienza, mentre ogni ospite riceve il lusso di 2,5 euro—o la storia delle case popolari e i vantaggi per gli stranieri a scapito degli italiani.

Dal momento che non c’è nulla di più eterno di una bufala, specialmente se razzista, queste convinzioni continuano a circolare indisturbate nonostante i sempre più numerosi articoli e precisazioni. Abbiamo quindi deciso di raccoglierne qualcuna tra quelle più diffuse in questo momento.

I MIGRANTI STANNO NEGLI HOTEL DI LUSSO (E SI LAMENTANO PURE)

Al di là dei casi di chi scambia un gruppo di turisti per profughi e lancia l’allarme, una parte della popolazione è fermamente convinta che a chi sbarca sulle nostre coste venga offerta una vacanza all-inclusive nelle strutture più esclusive del paese.

Effettivamente in Italia ci sono alberghi che ospitano migranti, la maggior parte delle volte in attesa che la richiesta d’asilo sia valutata. Diversa stampa ed esponenti politici non si sono fatti sfuggire l’occasione di costruire sopra questa circostanza storie secondo cui chi arriva non solo viene messo in hotel di lusso, ma se ne lamenta pure.

A maggio sono usciti vari articoli che raccontavano di una protesta di migranti assegnati a un hotel di Campiglia, in provincia di Livorno. Secondo quanto scritto inizialmente su alcuni siti e quotidiani, la struttura non sarebbe stata di loro gradimento perché sprovvista di wi-fi e tv, e non abbastanza vicina al mare. I migranti sarebbero dunque stati spostati in una nuova destinazione “un hotel dotato di più comfort,” “con piscina, wifi nelle camere e televisione.”

La notizia ha fatto il consueto giro del web fino alla precisazione della Questura, che ha chiarito che le lamentele non c’entravano nulla con le comodità, ma erano legate solo a motivi religiosi: “Per evitare di creare anche conflitti etnici sono stati trasferiti in quattro miniappartamenti di una struttura ricettiva a 100 metri di distanza.”

Un giornalista de Il Tirreno è andato dopo qualche giorno a trovare i migranti nella nuova struttura. L’articolo lascia intendere che facciano la bella vita e che si lamentino ancora, nonostante uno dei ragazzi intervistati racconti che si annoiano perché vivono lo stesso giorno da un anno e mezzo: “Chiediamo solo che ci diano i documenti che abbiamo chiesto per poter essere liberi di realizzare i nostri sogni in Italia. Qui, lontani dal centro del paese, siamo in trappola.” L’articolo prosegue obiettando che “i 13 africani potrebbero spostarsi dall’hotel; nessuno li trattiene o li osserva a vista,” salvo poi precisare che possono allontanarsi per tre giorni, dopo i quali il loro status di richiedenti asilo decade.  

A parte questo, ci sono stati altri episodi di proteste in strutture recettive. Le notizie sono poco verificabili, ma girando su internet si trovano presunte lamentele più varie e fantasiose, come le troppe auto in sosta nei pressi dell’albergo.

L’ospitalità negli alberghi fa parte del sistema dei cosiddetti Cas, cioè centri per l’accoglienza straordinaria: in situazioni di carenza di posti, infatti, i prefetti possono rivolgersi a strutture non propriamente dedicate a questo scopo per chiedere disponibilità a ospitare migranti. Gli hotel accettano specialmente in bassa stagione, dietro il pagamento dei famosi 30 euro a persona.

Diverse associazioni lamentano che l’unico requisito essenziale richiesto alle strutture in convenzione sia quello della disponibilità dei posti, con il rischio di improntare il servizio di ricezione solo al profitto. Lo scorso agosto a Tabiano Terme, i migranti sono stati tenuti letteralmente “imprigionati” dentro un hotel, con scarse cure mediche e senza soldi. Considerando anche che, ad esempio, un profugo non è un turista, e ha bisogno di avvocati, mediatori, assistenza. Pochi giorni fa, invece, all’ex Hotel Alpi di Bolzano le forze dell’ordine hanno sedato una sollevazione di migranti ospitati. La richiesta non era di una vasca idromassaggio, ma di “latte, beni di prima necessità e documenti.”

La maggior parte delle volte comunque, l’accoglienza negli alberghi è assolutamente ordinaria: un letto, un pasto e un posto dove lavarsi. Salvo poi far passare per lusso il fatto che vengano pulite le stanze e cambiata la biancheria, come in servizi televisivi di questo tipo.

A parte gli hotel, comunque, nei Cas rientrano anche altri tipi di strutture, come vecchi centri o casolari, dove le condizioni—senza alcun controllo—sono ben lontane dall’essere quelle di una vacanza.

I MIGRANTI VOGLIONO INTERNET
Collegata alla storia degli hotel c’è una delle pretese attribuite ai migranti: una connessione internet. Anche il caso di Livorno era stato fatto passare, inizialmente, esclusivamente per un problema di assenza di internet nell’hotel assegnato.

Qui non si tratta di bufale; è probabile che queste proteste si siano effettivamente verificate e che siano proprio quello che sembrano: richieste di collegamento a Internet. D’altra parte, se sbarchi in un paese straniero e lontano dopo un lungo viaggio in mare in cui rischi la vita, che necessità dovresti avere una volta arrivato di comunicare con il mondo?

A Taranto un gruppo di volontari ha fatto un’assemblea con i migranti ospiti del centro d’accoglienza della città da cui è emerso che una delle maggiori esigenze era un collegamento internet per tenersi in contatto con la famiglia lontana, che molti non sentivano da prima della partenza. Hanno fatto una colletta e comprato un modem, spendendo in tutto 100 euro.

FALSI PROFUGHI IN FUGA DA GUERRE CON LO SMARTPHONE

Sempre sul fronte comunicazioni, un cavallo di battaglia degli argomenti anti migranti è il fatto che questi avrebbero con sé uno smartphone, il che li renderebbe meno meritevoli di aiuto. Anzi, possedere un cellulare assume quasi una connotazione negativa.

Il sito SalernoNotizie (e anche altri), raccontando l’arrivo di 800 persone lo scorso settembre, parla di ” sbarco d’élite“: gli scafisti sono stati identificati grazie a foto sui cellulari dei migranti e “tutti avevano scarpe ed erano in ottime condizioni, tanto da scattarsi selfie non appena attraccati al molo.” Questo sbigottimento verso il possesso di un oggetto che era considerato da ricchi negli anni Novanta si ritrova un po’ ovunque come argomentazione che ” i poveri profughi” in realtà tanto poveri (e tanto profughi) non sarebbero.

Durante le proteste a Casale San Nicola a Roma, il vicepresidente di CasaPound Andrea Antonini denunciava che a bordo del pullman che portava i migranti al centro di accoglienza”non sembravano esserci siriani o eritrei in fuga dalla guerra ma immigrati nordafricani sulle cui facce più che devastazione abbiamo visto sberleffo: dito medio alzato e smartphone alla mano per riprendere i residenti a piedi mentre loro percorrevano la strada che li portava al centro di accoglienza nell’autobus con l’aria condizionata.” Di queste immagini, tuttavia, non c’è traccia.

Alessandro Gilioli, nel suo blog su L’Espresso, fa notare che un cellulare di un certo tipo è necessario, per esempio perché “attraversare il deserto del Sudan e della Libia senza telefonino equivale a votarsi al suicidio sicuro.” Inutile dire che chi scappa da una guerra non è detto sia nulla tenente, ma tralasciando questo, mi sembra che nel 2015 l’equazione ho uno smartphone – non mi manca niente non funzioni proprio benissimo.

Il sito Articolo21 ha ripreso recentemente una riflessione pubblicata sul sito di un’organizzazione no profit impegnata in Africa su come gli occidentali vedono i migranti, in particolare quelli che riconoscono come rifugiati: trovano “difficile conciliare le immagini di giovani eritrei o siriani in fuga dalla violenza, dall’oppressione o dalle brutali guerre civili con un concetto apparentemente opposto di quegli stessi individui che utilizzano Facebook, Twitter o smartphone.” Secondo l’analisi, dunque, un vero rifugiato è chi “soffre in modo permanente,” perdendo compassione ed empatia quando si comporta “non da vittima.”

Nei giorni scorsi la questione smartphone è stata sollevata anche da un consigliere comunale di Pordenone che ha denunciato il bivacco dei migranti tra i giochi dei bambini nei parchi della città, “passando le giornate a usare cellulari e tablet,” come cittadini qualunque.

LE PROTESTE PER IL CIBO “NON GRADITO”

Una delle bufale più longeve riguarda i migranti che buttano via i pasti serviti nei centri accoglienza. Era una storia creata ad hoc dai soliti siti con una foto a caso di cibo ancora imballato posizionato accanto ai cassonetti, corredata da didascalie sul luogo—la prima riguardante il centro di accoglienza di Trapani.

La notizia è girata parecchio su internet—tanto che l’articolo originale vanta 10 mila like su Facebook—anche dopo che diversi siti avevano verificato che in tutti i casi si trattava di una bufala (ad esempio sottolineando il fatto che i pasti ritratti erano già scaduti).

In questi giorni, invece, si sente spesso parlare di migranti che si lamentano per il cibo servito. Lo scorso giungo a Valledoria, vicino Sassari, 88 ospiti di un’ex casa di riposo hanno manifestato rifiutando i pasti e dormendo all’esterno dell’edificio. Molti giornali hanno subito parlato di protesta dei migranti per il cibo ” non di loro gradimento“: “una situazione che ha del paradossale e che, nell’assurdità dei suoi contorni, delinea l’altra faccia dell’immigrazione: quella che certamente non rimanda a immagini di disperazione.”

Anche l’Ansa inizialmente ha dato la stessa motivazione alla sollevazione, salvo poi correggere il tiro: i migranti protestavano per il cibo scarso in quantità e per la mancata corresponsione del pocket money—come era possibile evincere già dai cartelli ritratti in foto. Sempre a giugno al centro di Bresso, vicino Milano, c’è stata un’altra sollevazione “per il cibo.” In fondo ai numerosi articoli dedicati alla vicenda, però, si legge: “Proteste anche per le precarie condizioni degli alloggi e il sovraffollamento, disagi acuiti dal caldo torrido di questi giorni soprattutto all’interno delle tende che sono quasi invivibili.”  

Un’altra situazione simile si è verificata pochi giorni fa al centro di accoglienza di Cairo Montenotte, in provincia di Savona. Il Giornale parla di lamentele per “cibo da vecchi” perché cucinato nella vicina casa di riposo che è stata “assaltata dai migranti.” Il sito da cui parte la notizia, però, SavonaNews, non parla né di assalto, né di “cibo da vecchi,” ma solo di pasti restituiti perché “non graditi.” Che significa tutto e niente.

L’ultimo episodio del genere in ordine di tempo si è verificato a Padova, dove anche il sindaco Massimo Bitonci ha denunciato le proteste dei migranti “per vitto e alloggio a carico nostro”—dove per alloggio si intende una tendopoli che un ragazzo ghanese si è azzardato a definire “troppo calda.”

POTREBBERO VENIRE IN AEREO, MICA SONO TUTTI PROFUGHI

 

Un argomento diffuso sul tema immigrazione è che se queste persone possono permettersi un viaggio di diverse migliaia di euro in mare invece di spenderne poche centinaia per prendere un aereo, o sono poco furbe o così tanto povere non sono.

Considerato che una grande quantità di chi arriva in Italia lo fa via terra e non via mare—nel 2008, secondo il Ministero dell’Interno erano solo il 12% degli ingressi, mentre il 73 percento arrivava con visto turistico dagli aeroporti—si imbarca solo chi non ha altra scelta. Per fare domanda di asilo politico o umanitario bisogna essere presenti fisicamente nello stato; non si può agire tramite ambasciate, né ottenere un permesso temporaneo per andare a chiedere protezione. Alla maggior parte dei cittadini extra Ue per salire su un aereo per l’Europa è richiesto di possedere un visto, il cui ottenimento è costoso, a volte complicato se non impossibile.

Circa un mese fa il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha affermato che “i rifugiati hanno uno status che è riconosciuto a livello internazionale, gli altri sono migranti che potrebbero farsi le carte, prendersi un aereo e venire qua con l’aereo. Siccome magari non hanno i soldi o per loro è normale imbarcarsi sul barcone dalla Libia fanno questa procedura.” E questa distinzione tra rifugiati degni di pietà e semplici migranti indegni, tra l’altro, è emersa più volte negli ultimi tempi.

Come ha ricostruito il Redattore Sociale, non esiste un solo di tipo di protezione. Oltre al richiedente asilo e al rifugiato—status riconosciuto a chi ha “giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche”—c’è chi ottiene la protezione sussidiaria perché in caso di rimpatrio sarebbe in serio pericolo a causa di conflitti armati, violenza o per situazioni di violazioni massicce dei diritti umani.

Infine c’è la protezione umanitaria, concessa a chi non rientra nelle altre categorie ma viene comunque reputato come soggetto a rischio per gravi motivi di carattere umanitario.

EBOLA, SCABBIA E ALTRE MALATTIE MEDIEVALI

Superata la psicosi Ebola—nonostante l’epidemia, invece, non sia per niente conclusa—è arrivato l’allarme scabbia (e malaria e altre malattie), specialmente con la situazione verificatasi lo scorso giugno nelle stazioni di Roma e Milano con la chiusura delle frontiere.

Nonostante da mesi si ripeta che non esiste nessuna emergenza— nel 2015 i casi di scabbia rilevati dai medici di confine negli sbarchi degli immigrati sono circa il 10 percento— la psicosi si è propagata. Tanto che il sindaco di Alassio ha emanato un’ordinanza che vieta l’ingresso agli stranieri senza certificato medico. Accusato di razzismo, il primo cittadino si è giustificato dicendo che “avendo avuto casi di scabbia a 50 chilometri da qui, ci siamo spaventati” e che il provvedimento sta facendo effetto: “Il numero è calato in modo esponenziale. Come ci vedono scappano, per paura che qualcuno gli chieda il certificato medico.”

Il punto, probabilmente, era allontanare, utilizzando lo spauracchio delle malattie, i migranti dalla località balneare. Non si sa mai, come ha spiegato il sindaco di Jesolo, che possano creare problemi perché non sono abituati a “vedere donne in bikini.”  

Esattamente come nel caso del falso allarme tubercolosi dell’anno scorso, anche la scabbia non viene portata dai migranti, i cui problemi di salute principali all’arrivo in Italia sono ben diversi: ferite, disidratazione, segni di torture che hanno subito durante il viaggio, come bruciature da mozziconi di sigarette.

A ogni modo, nei paesi moderni la scabbia non è stata debellata e, a dir la verità, non è neanche una vera malattia: è un’infezione della pelle causata da un parassita presente in tutto il mondo, specialmente quando ci sono condizioni igieniche precarie. Insomma, non si tratta—come ha detto qualcuno—di “malattie oramai sconfitte in Italia contro cui non abbiamo più difese.”

 

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print