l’immagine della nostra indifferenza

il bambino di Kobane, rimasto senza assistenza

 

Il “Manifesto” di giovedì 3 settembre 2015 ha dedicato la prima pagina alla drammatica foto del bambino curdo siriano, ritrovato annegato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Su Facebook il quotidiano ha così spiegato la decisione di mettere una immagine così scioccante, e orribile, in prima pagina. ” Ne abbiamo discusso molto a lungo ma alla fine #laprima è questa. Non ha nome, non avrà terra: è l’immagine choc del piccolo profugo siriano trovato cadavere sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, dopo l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo. E mentre l’Unione europea si dissolve sulla chiusura delle frontiere, il governo della Repubblica Ceca identifica i migranti «marchiandoli» con dei numeri”.

Nelle ore successive è emersa la storia del bambino annegato, la cui immagine è stata ripresa da moltissimi media. Un’agenzia turca ha scritto come il corpo sia stato identificato da un parente. Si tratta di Aylan Kurdi, un bambino di 3 anni che proveniva da Kobane, in Siria. Aylan era scappato insieme alla madre Rihan e al suo fratello Gallip di 5 anni dall’orrore dell’ISIS. Kobane è l’enclave curda assediata per molte settimane dalle milizie del califfato islamico nell’autunno del 2014. La città, a causa della guerra siriana, dell’arrivo dell’ISIS nelle zone vicine e per il successivo assedio, ha perso la gran parte dei suoi residenti. Fuggiti da una persecuzione religiosa, da una guerra, per un concreto pericolo di vita. Condizioni che, in ogni Paese firmatario della Convenzione di Ginevra, come tutti quelli che aderiscono all’Unione Europea, garantiscono il diritto d’asilo. Aylan è morto per il capovolgimento dell’imbarcazione su cui viaggiava, partita da Bodrum in direzione di Kos, isola greca e nota meta turistica. Il bambino di Kobane è deceduto insieme ai suoi familiari.

image_pdfimage_print

l’immagine dell’indifferenza che è il nostro cancro

 

il piccolo ospite mai arrivato… 

 

piccolo

 

la foto che oggi mi ritrae annegato sui quotidiani di tutto il mondo e sul web, adagiato sulla riva di Budrum in Turchia, dove le uniche carezze mi giungono dal mare, sia monito, serva a scacciare da ognuno di voi l’indifferenza, ormai diventata il vero “cancro dell’umanità”.

Così piccolo, due-tre anni, ero nato dentro una guerra, stavo bene nella pancia-acqua di mia madre. Uscito, ho visto intorno a me solo macerie, ascoltato grida, pianti, disperazione.  Perchè questa guerra? Decisa da chi? Per cosa? Per perpetuare divisioni, odio, rivalità religiose?

Ero in fuga con i miei genitori insieme a migliaia di bambini, donne, uomini, da condizioni estreme, incredibili di povertà, miseria, guerra, violazione dei diritti umani; i viaggi della speranza, disperati per le condizioni disumane imposte dagli iniqui trafficanti  di essere umani.

Questa mia foto serva a te Europa come testimonianza, come prova della “vergogna” dell’umanità che non accoglie, che si ritrae, che si nasconde, che mette la testa sotto la sabbia, che sta realizzando la globalizzazione dell’indifferenza.

Per favore, un’altro corpo inerme alla deriva, non lasciate che si ripeta. Questo mio corpo senza volto, deve servirvi per non dimenticare.

Fatevi responsabili dei vostri fratelli e delle vostre sorelle, non abituatevi a restare inermi di fronte alla sofferenza dell’altro. Sono qui a parlarvi per scuotere le vostre coscienze, tornate ad essere capaci di piangere, ad avere pietà!

Come non pensare a Caino quando il Signore gli domanda, dov’è tuo fratello Abele?

Quando sarete pronti per iniziare un nuovo ciclo, un nuovo progetto.

Quando sarete pronti per affrontare nuove sfide per dare al mondo uno stare diverso, e sentire gli altri sorelle e fratelli?

Ricordiamo sempre che il cambiamento, qualsiasi cambiamento ha bisogno di te!

Arrivato in questa mia nuova casa, sulla porta ho trovato questa poesia ad accogliermi:

Nei canali di Otranto e Sicilia

migratori senz’ali, contadini di Africa e di Oriente

affogano nel cavo delle onde.

Un viaggio su dieci s’impiglia sul fondo.

Il pacco dei semi si sparge sul solco

scavato dall’ancora e non dall’aratro.

La terraferma Italia è terrachiusa.

Li lasciamo annegare per negare.

Ho chiesto chi l’avesse scritta. Mi hanno risposto: Erri De Luca.

Non ti conosco ma so che pensi a noi, ti stiamo a cuore, mi sono sentito sollevato, perchè ho compreso che in mezzo a questo Mediterraneo d’indifferenza, ci sono tanti uomini e donne che pensano a noi con affetto, responsabilità, amore: accoglienti, questo mi dà speranza.

Spero che questa foto-scatto di pietà possa servirvi a inquietarvi e a creare nuove relazioni.

Tuo fratellino, figlio, nipote siriano…

antonio vermigli

image_pdfimage_print

una giornata contro la disumanità


Giornata dei Migranti 2016: contro falsità e chiusure antievangeliche

giornata dei Migranti 2016

contro falsità e chiusure antievangeliche

Tratto da: Adista Notizie n° 29 del 05/09/2015

“Migranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia”

sarà il tema della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato 2016, che si celebrerà il prossimo 17 gennaio e che è stata creata nel 1915, quando da noi la situazione – pur sempre drammatica – era capovolta e ad emigrare erano gli italiani.

La notizia del titolo scelto da papa Francesco, pubblicata lo scorso 20 agosto sul sito del Vaticano, è stata poi accompagnata da un comunicato del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, che inquadra l’evento nell’ambito del Giubileo straordinario – Anno della Misericordia (dall’8 dicembre 2015 al 20 novembre 2016) – indetto dallo stesso Francesco con la Bolla Misericordiae Vultus dell’11 aprile scorso.

Alto è il rischio che, nell’attuale convulso dibattito, si dimentichi «la drammatica situazione di tanti uomini e donne, costretti ad abbandonare le proprie terre», per questo il comunicato sottolinea con forza che quella dei profughi è «una realtà che ci deve interpellare» e rilancia le parole del papa contenute nella Bolla: «Non cadiamo nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge. Apriamo i nostri occhi per guardare le miserie del mondo, le ferite di tanti fratelli e sorelle privati della dignità, e sentiamoci provocati ad ascoltare il loro grido di aiuto». L’invito pressante del papa è dunque a «spezzare la barriera di indifferenza che spesso regna sovrana per nascondere l’ipocrisia e l’egoismo».

Ma c’è dell’altro. Il Dicastero riflette sulle risposte messe in campo di fronte ad un fenomeno tanto drammatico e richiama il popolo di Dio al dovere evangelico di annunciare la liberazione agli oppressi: tra le opere di misericordia c’è anche «quella di accogliere i forestieri. E questo senza dimenticare che Cristo stesso è presente tra i “più piccoli”, e che alla fine della vita saremmo giudicati dalla nostra risposta d’amore».

Tra le altre cose, in coda al comunicato, il Pontificio Consiglio invita tutte le comunità cristiane a sensibilizzarsi sul tema e a celebrare la Giornata mondiale vicino ai nuovi venuti; propone che l’evento principale del Giubileo coincida con il 17 gennaio, così da rafforzare il messaggio sull’accoglienza; invoca infine un’attenzione verso i migranti quotidiana e concreta.

Chiamati a liberare

Ma in questo travagliato agosto di evangelico c’è stato ben poco. E anzi, con i muri di Ungheria e Macedonia, le “guerre” di confine tra Italia e Francia o tra Francia e Inghilterra, le ferme dichiarazioni di chiusura di molti premier europei, fino ad arrivare alle sempre colorite esternazioni leghiste di casa nostra, le risposte del mondo politico e dei cittadini europei sono parse ben poco ispirate ai valori cui sovente hanno richiamato Francesco e la Chiesa europea.

«Io credo che sia normale avere paura», è il commento, a margine della pubblicazione del tema della Giornata 2016, rilasciato a Radio Vaticana dal presidente del Dicastero per i Migranti, card. Antonio Maria Vegliò. Consapevole che la paura è «nella natura umana», il cardinale ribadisce però che i muri non hanno senso e che le misure estreme non vanno mai bene: «Bloccare tutti, mandare via tutti, rompere trattati internazionali, per difendere la propria identità nazionale, non è ragionevole». E qui entra in gioco il ruolo della Chiesa, aggiunge Vegliò: «La Chiesa in fondo ci aiuta a non dimenticare che Gesù è presente tra i più piccoli, tra i più sofferenti, tra quelli che hanno più bisogno degli altri. La Chiesa, essendo discepola di Gesù, è chiamata a liberare, ad annunziare la liberazione di quanti sono prigionieri delle schiavitù della società moderna». Ma la Chiesa ha anche il compito di sollecitare il mondo politico e le istituzioni internazionali a mettere in campo politiche coraggiose e lungimiranti. Un esempio su tutti: queste persone arrivano in Europa perché scappano da povertà e soprattutto da guerre. Ma «le guerre si fanno con le armi». E, conclude Vegliò, «chi sono quelli che vendono le armi? Sono in genere i Paesi ricchi», che oggi fanno di tutto per chiudere le porte alle vittime delle loro economie.

Onestà intellettuale

Il 24 agosto, in un approfondimento per l’agenzia Sir, anche p. Giulio Albanese – missionario comboniano, giornalista, fondatore dell’agenzia missionaria Misna, collaboratore di Avvenire – è tornato sul tema proposto dal papa. Molti cittadini europei «manifestano grande insofferenza di fronte all’acuirsi del fenomeno migratorio». Si tratta di una sfida, sottolinea il missionario, «rispetto alla quale vi è un forte condizionamento da parte di chi specula, manipolando le coscienze e seminando zizzania», diffondendo falsità e pregiudizi, al fine di vedere accresciuto il proprio consenso mediatico o elettorale. «È un problema di onestà intellettuale», accusa Albanese, ricordando che «sono decenni, soprattutto nel nostro Paese, che passiamo da un’emergenza all’altra, tutte segnate da fibrillazioni ansiogene»: prima i marocchini, poi gli albanesi, poi i rumeni, e così via. Per questo motivo, commenta ancora Albanese, il papa «invita le nostre comunità ad operare un sano discernimento, interpretando uno dei più significativi “segni dei tempi” della nostra storia, quello della mobilità umana, alla luce del Vangelo».

In calce al commento, il comboniano aggiunge un preciso richiamo: «Quanto pesa nel nostro discettare, spesso a vanvera, la miseria di quei popoli, quasi mai mediatizzati, ai quali abbiamo imposto oneri a non finire affinché l’azione predatoria nei confronti delle loro risorse passasse indisturbata? Poco importa che l’oggetto del contenzioso siano minerali pregiati o fonti energetiche, la verità scomoda, che molti vorrebbero davvero non trapelasse, è che il nostro mondo civilizzato (o presunto tale) continua ad imporre il primato del business sul sacrosanto valore della persona umana creata ad immagine e somiglianza di Dio». E questo – conclude Albanese puntando il dito contro i “Salvini” di turno che amano accusare il papa e gli ecclesiastici di scarso senso della realtà – «non è chiacchiericcio intriso di “buonismo”, ma Vangelo».

* Recinzione in “difesa” del confine tra Spagna e Marocco a Melilla. Fotografia di Ongayo, tratta dal sito Wikimedia Commons. Licenza e immagine originale

image_pdfimage_print

l’ambiguità negativa di molti termini che usiamo come neutri

Fiumi di parole

di Sergio Bontempelli e Stefano Galieni

PAROLE-300x300

Ma immigrato è un termine svalutativo? E zingaro? L’etnia è una cosa che tutti hanno o solo qualcuno? E come è cambiata la connotazione di clandestino dalla canzone di Manu Chao? Attorno al fenomeno migratorio si è costruito un lessico che molto spesso carica di ambiguità negativa termini teoricamente neutri. Come immigrato, per esempio, che in certi contesti è assurto a sinonimo di soggetto potenzialmente pericoloso.

migranti

Scegliere di non utilizzare certi termini, e di sostituirli con altri sfidando talvolta la semantica, però non è sempre la strada migliore: le parole sono il veicolo dei nostri pensieri e “truccarle”, anche se con le migliori intenzioni, rischia di portare fuori strada. A seguire, un estratto parziale di questo lessico.

Africano/a. Perduta la componente esotica del termine, si va riaffermando il suo uso coloniale, non solo in Italia. La parola diviene così sinonimo di “primitivo”, di “selvaggio”, di “nero” e, se accompagnata da un prefisso (ad esempio nord-africano) viene associata a piccola criminalità e delinquenza di strada. Dall’Africa, immenso continente di quasi un miliardo di persone e di più di cinquanta Paesi, mai considerato come pluralità di culture e di storia, si astrae un’idea di pericolosità sociale mista ad ignoto. Si immagina un mondo in cui si vive ancora nelle capanne e si balla al ritmo di tamburi.

Clandestini. Negli anni Cinquanta i giornali parlavano di “invasione di clandestini” a Roma. Non erano africani, non venivano coi barconi, e non erano nemmeno albanesi o romeni: lavoratori italianissimi, provenienti dal Meridione, non potevano prendere la residenza nella Capitale perché, secondo una legge approvata in epoca fascista, per avere la residenza serviva un contratto di lavoro regolare. Così, molti restavano a Roma, lavorando magari in nero, senza essere registrati: erano “clandestini”, una definizione che già allora evocava disprezzo. Più tardi, negli Anni Settanta, il termine è stato associato al terrorismo: il militante delle BR viveva “in clandestinità”, ed era per questo pericoloso e sfuggente. Alla fine degli anni Ottanta il vocabolo è entrato nel lessico comune per indicare i migranti irregolari, ma ha ereditato le connotazioni minacciose del passato.

Cultura, multiculturalismo, Intercultura. I migranti che sbarcavano a Ellis Island, negli Stati Uniti, erano classificati a seconda della “razza” di appartenenza. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la parola “razza” è stata screditata perché erede del lessico nazista e antisemita: così, si è cominciato a dire che gli immigrati sarebbero portatori di “culture” diverse, descritte a volte come primitive e animalesche, altre volte come esotiche, affascinanti, misteriose, tribali. Spesso ci si dimentica che ogni persona fa le sue scelte, non è un prodotto meccanico della propria “tradizione”: eppure, quando si parla di migranti, sembra che i gesti, i comportamenti, le mentalità siano dettate esclusivamente dalle “loro culture”, concepite quasi sempre come immodificabili. Da questo punto di vista, la “cultura” è usata spesso come sinonimo eufemistico di “razza”.

Etnia, etnico. Il concetto di “etnia” è un parto degli scienziati razzisti dell’Ottocento, ed poi divenuto un termine comune nel lessico coloniale: gli europei hanno classificato in rigidi compartimenti “etnici” gruppi la cui identità era assai più fluida e meno definita. Emblematico il caso del Ruanda, dove due classi sociali – gli agricoltori “hutu” e gli aristocratici “tutsi” – sono state trasformate in “etnie”, a loro volta concepite secondo una gerarchia razziale: i tutsi “quasi-bianchi”, gli hutu “più neri”, dunque inferiori. Ancor oggi, il lessico comune tende a etnicizzare i fenomeni sociali, cioè a leggerli in termini di etnie diverse, irriducibili, non comunicanti tra loro. Spesso, quelle che definiamo “etnie” sono identità mobili, fluidi, in perenne mutazione, largamente “meticciate”  e mescolate con le culture maggioritarie.

Immigrato, migrante. La mobilità umana è sempre esistita: già la Bibbia, nel libro dell’Esodo, ci parla di una grande migrazione dall’Egitto. Eppure, parole come “immigrato” e “migrante” sono relativamente recenti: secondo storici come Gerard Noiriel e Donna Gabaccia, è solo alla fine dell’Ottocento che entrano prima nel lessico giuridico, poi in quello comune. Perché? La risposta, forse, va cercata nei testi normativi dell’epoca: per esempio, l’Aliens Act inglese del 1905 (la legge che introduce per la prima volta i controlli di frontiera) definisce immigrato come “colui che viaggia in terza classe”, cioè come lo straniero povero, che si sposta in cerca di lavoro. Ancora oggi, quando si parla di “immigrati”, si allude alla povertà: quando un non-povero lascia il proprio paese, si preferisce definirlo “expat” (espatriato), o magari “cervello in fuga”.

Invasione. Lasciato in soffitta il suo utilizzo nel linguaggio militaresco, oggi sembra riguardare più quello domestico (invasi dalle formiche o dai parassiti) ma lo si adatta alle persone. Poco conta che nella realtà in un Paese di 60 milioni di abitanti siano giunte nello scorso anno 170 mila persone, in gran parte già fuggite verso altri lidi. Poco importa che il fenomeno incida per meno dello 0,2% rispetto alla popolazione: questo 0,2% è potenzialmente riconosciuto come in grado di tramutare l’Italia in un emirato, diffondere epidemie, o deformare totalmente una preesistente identità comune. La stessa fobia che si ha appunto con le formiche: chi invoca i cannoni verso i barconi spesso ha come retropensiero l’insetticida.

Rifugiato. Così come le migrazioni, anche l’esilio e la fuga esuli esistono dalla notte dei tempi. Eppure, parole come “rifugiato” o “richiedente asilo” sono invenzioni recenti: nascono con la chiusura delle frontiere, agli inizi del XX secolo. Gli Stati europei cominciano allora a sorvegliare i confini, a chiedere visti di ingresso, a respingere i migranti “indesiderabili”: ma si accorgono che tra le persone respinte vi sono anche i perseguitati politici e coloro che fuggono da guerre e violenze. Nasce così l’esigenza di distinguere gli immigrati “economici” (da allontanare, o comunque da controllare) e i “rifugiati” (da accogliere). È una distinzione, però, che serve agli Stati per tenere ben chiuse le frontiere: gli uomini e le donne abbandonano i propri paesi per motivi complessi, che possono includere sia ragioni economiche sia necessità di protezione.

Sicurezza/degrado Bei tempi quelli in cui col primo termine si indicava la necessità di aver garantite condizioni decenti di lavoro, di welfare, una prospettiva di vita futura. E bei tempi quelli in cui ad essere in degrado era un edificio malmesso e ad essere degradati erano ufficiali felloni. Da quasi 20 anni questi termini sono utilizzati, anche se non soprattutto, in ambienti progressisti per indicare realtà di marginalizzazione, vera o presunta, da cui difendersi: e, manco a dirlo, la “marginalità” è regolarmente associata alle migrazioni. Degrado e sicurezza diventano sinonimi di “allarme”, e si contribuisce a creare una percezione fondata sulla paura. Nel corso degli anni sono nati assessorati alla sicurezza, e hanno svolto un ruolo maggiore, anche politico, i Comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza (esautorando in parte le istituzioni elette). “Garantire la sicurezza combattendo il degrado” è divenuto slogan imprescindibile per qualsiasi amministratore.

Tratta/trafficanti. Un tempo la tratta era quella delle persone che venivano prese, comprate nei paesi di provenienza, per farne braccia da lavoro forzato: si pensi al mercato atlantico degli schiavi gestito dalle potenze europee. I “trafficanti” di allora venivano chiamati mercanti. Oggi centinaia di migliaia di persone arrivano nei paesi UE per propria volontà, per migliorare le proprie condizioni di vita: i “trafficanti” non sono più mercanti ma diventano “scafisti”, “criminali”, “sfruttatori di merce umana”. La loro esistenza viene spacciata come causa delle migrazioni, quando è invece un effetto della chiusura delle frontiere (non potendo entrare legalmente in Europa, ci si rivolge a chi organizza ingressi irregolari). Nel frattempo, nessuno si preoccupa delle condizioni di sfruttamento dei lavoratori migranti nelle campagne: nella retorica comune, è “schiavista” chi organizza il viaggio, non chi usa il lavoro forzato altrui…

Zingaro/i Non sono mai piaciuti a nessuno, inutile dirlo, per molteplici ragioni e pregiudizi. Ma per tanto tempo, il termine era associato ad una idea romantica di libertà, di rapporto con l’arcano, di rottura voluta dei legami e delle convenzioni sociali. L’immagine dello zingaro libero “figlio del vento” era anch’essa uno stereotipo, ma uno stereotipo “positivo”: oggi la parola “zingaro” è invece un insulto, un sinonimo di ladro, profittatore, violento e marginale. Da europarlamentari che li definiscono impunemente “feccia della società” a ordinanze comunali che, ignorando qualsiasi divieto di discriminazione, si riferiscono direttamente ad un indistinto mondo “zingaro” da controllare e perseguire.

Stefano Galieni e Sergio Bontempelli

image_pdfimage_print

ritorna ‘fratello’ il vescovo esiliato perché benediceva i gay


Papa Francesco abbraccia il «fratello» Gaillot, vescovo che sfidò il magistero

papa Francesco abbraccia il «fratello» Gaillot

il vescovo che sfidò il magistero

«Noi siamo fratelli»

 è con queste parole che papa Francesco ha accolto a Santa Marta, il 1° settembre, mons. Jacques Gaillot, il vescovo rimosso nel 1995 dalla guida della diocesi di Évreux, in Francia, e “spostato” a Partenia, una diocesi algerina che esiste solo sulla carta, a causa delle sue opinioni divergenti dal magistero in materia di preti sposati, uso del preservativo per combattere l’aids, relazioni omosessuali.

Durante l’incontro, durato 45 minuti, il papa e mons. Gaillot hanno parlato, secondo quanto raccontato alla stampa francese dallo stesso vescovo, di divorziati risposati, migranti e coppie omosessuali. «Gli ho detto che non ero lì per chiedergli qualcosa, ma che un intero popolo di emarginati è contento che lui mi abbia ricevuto, perché si è sentito riconosciuto», ha raccontato Gaillot all’Afp (1/9). «Gli ho detto che mi è capitato di benedire coppie di divorziati risposati e coppie omosessuali. E ho aggiunto: benediciamo perfino le case, possiamo dunque benedire le persone! Questa frase lo ha fatto sorridere e mi ha risposto che la benedizione di Dio è per tutti» (Le point, 1/9).

All’incontro Gaillot era accompagnato da p. Daniel Duigou, parroco presso la chiesa di Saint-Merri a Parigi: il papa ha colto l’occasione per felicitarsi del fatto che il card. André Vingt-Trois, alla guida della diocesi parigina, abbia chiesto a questa parrocchia di consacrarsi ai migranti i quali, ha detto il papa, sono «la carne della Chiesa».

L’incontro fa seguito alla lettera che Gaillot, nel novembre dello scorso anno, aveva scritto al papa ringraziandolo per gli sforzi compiuti affinché la Chiesa stia al passo coi tempi (v. Adista Segni Nuovi n. 1/15). Anche in quella occasione il vescovo non aveva mancato di spendere una parola per i divorziati risposati e per gli omosessuali, sottolineando la delusione suscitata dal testo adottato alla fine dell’Assemblea sinodale dell’ottobre 2014 in merito alle proposte avanzate nei loro confronti.
Una vita spesa per gli ultimi

Ordinato prete nel 1961, dopo aver svolto il servizio militare in Algeria, Gaillot si vede sin da subito affidare diverse responsabilità pastorali: dal 1965 al 1972 è professore al Seminario Regionale di Reims, nel 1973 viene nominato parroco a Saint-Dizier, la sua città natale, e nel 1977 è nominato vicario generale della diocesi di Langres. Finché nel 1982 viene scelto per guidare la diocesi di Évreux.

Il giovane vescovo diventa subito famoso per una serie di prese di posizione piuttosto scomode. Nel 1983 vota contro il testo dell’episcopato sull’utilizzo del nucleare come forza di dissuasione; due anni dopo prende posizione a favore della sollevazione palestinese dei Territori occupati ed incontra Yasser Arafat a Tunisi; nel luglio 1987 parte per il Sudafrica per incontrare un giovane militante anti-apartheid di Évreux, condannato a quattro anni di carcere dal regime di Pretoria, e per compiere questo viaggio rinuncia ad accompagnare il pellegrinaggio diocesano a Lourdes, attirandosi diverse critiche. Nel novembre 1988 interviene nell’ambito del dibattito a porte chiuse dell’assemblea plenaria a Lourdes per proporre l’ordinazione di uomini sposati. Nel 1991 proclama la sua opposizione alla guerra del Golfo pubblicando il libro Lettera aperta a coloro che predicano la guerra e la fanno fare agli altri.

La sua rimozione, nel 1995, dalla guida della diocesi di Évreux scatena moltissime reazioni a livello internazionale ma non costituisce per il vescovo una battuta d’arresto.

Gaillot, 80 anni il prossimo 11 settembre, non è infatti mai venuto meno alla sua missione a fianco degli ultimi, viaggiando in lungo e in largo per mostrare un altro volto della Chiesa e rendendo Partenia uno spazio virtuale e insieme reale di libertà (www.partenia.org) per dare voce a quanti nella società e nella Chiesa sentono di non esistere

image_pdfimage_print
image_pdfimage_print