il vecchio H. Kung e la sua ‘battaglia della libertà’ anche per il momento terminale

la libertà di morire

l’ultima battaglia di Hans Küng

KUNG

LA LIBERTA’ DI MORIRE

articolo pubblicato sul Qn (il Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino), edizione del 6 settembre 2015

Un’altra provocazione. La più scandalosa, tragica, intima. L’ultima. Passato alle cronache per la contestazione del dogma dell’infallibilità pontificia e la ferma contrarietà alla santificazione di Karol Wojtyla, Hans Küng, fra i principali teologi cattolici contemporanei, in ‘‘Morire felici?’’ (Rizzoli) ingaggia con i vertici della Chiesa una strenue battaglia a favore dell’eutanasia su base volontaria. Sullo sfondo l’aggravarsi del morbo di Parkinson, che di recente l’ha costretto al ricovero in una struttura protetta, e tre esperienze – il decesso del fratello, la lettura degli scritti della psichiatra Elisabeth Kubler Ross su pazienti clinicamente morti e poi usciti dal coma, la lunga agonia dell’amico filologo Walter Jens – che hanno convinto Küng «a decidere da solo quando e come morire».

CONSAPEVOLE  di affrontare un tema tabù nella nostra società, così restia a parlare di morte figurarsi di suicidio assistito, il sacerdote svizzero àncora la sua tesi alla dottrina cattolica. In linea con il magistero, Küng si dice fermamente convinto che la vita sia una dono di Dio. È un regalo che, come asserisce anche il Catechismo, comporta la responsabilità di ciascuno sulla propria vita. E allora, ecco l’interrogativo bruciante, perché derogare a questo impegno proprio nell’ultima fase del transito terrestre? A detta di Küng è da irresponsabili il suicidio per una delusione amorosa o per la perdita del posto di lavoro. Altro è il discorso di chi deve fare i conti con una patologia incurabile, all’orizzonte non ha che un progressivo scivolamento lungo il pendio della demenza e per questo consapevolmente sceglie di ‘riconsegnare’ al Padre la sua esistenza.

«NESSUNO mi convincerà che rassegnarmi a una vita in stato vegetativo sia la volontà di Dio», incalza il teologo ribelle che professa «una fede ragionevole» nell’Aldilà. Il Padre è il Signore della misericordia e della carità, non un tiranno assetato di sangue. La croce di Gesù resta incomparabile. Il senso della sua sequela -– sostiene Küng – non può essere il patire le stesse sofferenze del Cristo, accettandole stoicamente o cercandole con intenti masochistici. Non è una mera imitazione, ma una vita in correlazione col Nazareno. Da condurre con responsabilità. Sino in fondo.

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nonostante tutto sono davvero esseri umani … !

 

Sono esseri umani. Un semplice fatto che abbiamo dimenticato

sono esseri umani.

un semplice fatto che abbiamo dimenticato

 il commento di Owen Jones apparso sul Guardian il 28 agosto scorso


Non sono esseri umani: nessuno sopporterebbe di sentir parlare di persone che affogano in continuazione. Nella migliore delle ipotesi sono statistiche terribili ma intangibili, oggetto di un po’ di sdegno prima che la banale vita quotidiana riprenda il suo corso. Per altri sono uno sciame indesiderato che la Fortezza Europa deve tenere lontano: brulicante di aspiranti sanguisughe che non meritano niente e per cui non c’è posto in Occidente. Nella gerarchia della morte, chiunque sia etichettato come “migrante” deve prendere il suo posto in qualche punto vicino al fondo. È una parola disumanizzata: per fin troppe persone è sullo stesso piano di “piccolo criminale” e chi piange i piccoli criminali?

Quando la notizia di oltre 200 profughi morti annegati al largo della Libia filtra frettolosamente tra le informazioni dei media, l’unica garanzia è che ne annegheranno altri. E quando arriva la notizia di oltre 70 profughi trovati morti su un camion in Austria – cercare di immaginare i loro ultimi istanti di vita provoca una sensazione orribile alla bocca dello stomaco – sappiamo che altri cadaveri saranno trovati in altri camion. Chi di noi vuole un trattamento più compassionevole nei confronti delle persone che fuggono da situazioni disperate non è riuscito a convincere l’opinione pubblica e il costo di questo fallimento è la morte.

Per quanti pensano che l’ostilità verso gli esseri umani provenienti da altri Paesi che hanno perduto alla lotteria della vita sia in qualche modo innata, c’è la prova del contrario. La Germania accoglie circa quattro volte più profughi della Gran Bretagna; e per ogni siriano che cerca asilo ricevuto dalla Gran Bretagna, la Germania ne prende 27. E nonostante la generosità tedesca venga paragonata con la nostra, metà dei tedeschi secondo un sondaggio si è detta favorevole a far entrare un numero maggiore di profughi.

Questa è una discussione che non può essere vinta con i numeri. Possiamo dire alla gente che chi raggiunge l’Europa non rappresenta che una minuscola parte della popolazione di profughi del mondo; che mentre dieci anni fa i Paesi in via di sviluppo ospitavano circa il 70% dei profughi oggi quella cifra è pari all’86%. Paesi di gran lunga più piccoli e più poveri di noi accolgono molti più profughi, come il Libano che ha all’interno dei suoi confini 1 milione e 300mila profughi siriani. Ma tutto questo non cambierà gli atteggiamenti della gente. Dobbiamo cambiarli con le storie, umanizzando profughi altrimenti senza volto.

A parte una minuscola porzione di sociopatici, la nostra specie è per sua natura empatica. È solo quando strappiamo l’umanità alle persone – quando smettiamo di pensarle umane quanto noi – che quella nostra natura empatica viene indebolita. Questo ci permette di accettare la miseria altrui o addirittura di infliggerla. I giornali di destra danno la caccia a notizie estreme e sgradevoli riguardanti i profughi e noi rispondiamo con le statistiche. Invece dobbiamo mostrare la realtà dei profughi: i loro nomi, i loro volti, le loro ambizioni e paure, i loro amori, e ciò da cui sono scappati.

Sì, la soluzione alla miseria globale non è liberare un piccolo numero di persone fortunate e paracadutarle in Paesi più ricchi. È necessario che l’Occidente si assuma la responsabilità dei disastri che ha contribuito a creare, come in Libia e in Iraq. Dovremmo fare pressione sui nostri governi affinché facciano di più per risolvere quelle situazioni che costringono gli esseri umani a fuggire. Alle comunità con più alto numero di migranti e di profughi dovrebbero essere destinate più risorse e sostegno. Ma fino a quando ci sarà miseria, le persone fuggiranno e una minuscola porzione arriverà fino a qui. Se vogliamo aiutarli, dobbiamo cambiare l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei profughi, umanizzandoli. Se non ci riusciremo, sempre più donne, uomini e bambini passeranno le loro ultime ore annegando in mare o soffocando nei camion. È proprio così. Ed è terribile.

 

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si fa presto a dire Dio …

IL DIO IN CUI NON CREDO 

di Carlo Molari


“CHE DIO MI LIBERI DA DIO”

otto immagini di Dio “in cui non credere”

di Carlo Molari

prego Dio che mi liberi da Dio: sembra una contraddizione perché se preghi Dio credi in Lui e non puoi chiedere di fare senza di Lui. La formula viene da un mistico, un teologo domenicano vissuto a cavallo tra il secolo XIII e XIV, nato nel 1260 e morto nel 1327, Meister Eckhart. Eckhart come credente ha detto: Prego Dio che mi liberi da Dio per superare tutte le immagini di Dio, per giungere a quella esperienza profonda dove Dio si fa presente nel fondo dell’anima, come lui dice

 

È un discorso difficile, lui stesso ne era consapevole e infatti afferma: “vi prego per amor di Dio di comprendere se potete questa verità. Se poi non la comprendete non vi affliggete per questo, perché io parlo di una verità tale che solo poche persone buone la comprenderanno” (ib. p. 131). Dice ancora: “Chi non comprende questo discorso non affligga il suo cuore, perché l’uomo non può comprendere questo discorso finché non diventa uguale a questa verità”, cioè finché non la vive al punto da essere questa verità. “Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge immediatamente al cuore di Dio. Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno. Amen” (ib. p. 139). Il luogo interiore dove Dio si incontra, per Eckhart, è il fondo dell’anima: là non c’è nessuna immagine perché è il luogo dove prendi contatto con la forza creatrice, con l’azione di Dio che ti rende figlio. Eckhart utilizza questa espressione: “Dio genera in te il figlio”. Vuol dire “la parola che un giorno in Gesù si è espressa, in te ora viene generata”, tu cresci come figlio. E in quel luogo non c’è nessuna immagine. Tudiventa l’immagine e non avrai bisogno di nessun’altra immagine, sarai luogo dove Dio si rivela. Non dove Dio fa qualcosa per te, dove Dio fa teimmagine sua.
Vorrei aggiungere un’altra breve riflessione preliminare sul significato del confronto con gli atei. Oggi molti cominciano a parlare di Dio, se si va nelle librerie laiche si trovano moltissimi libri che parlano di Dio scritti da atei o agnostici, che però sentono il dovere, la necessità di parlare di Dio. Si potrebbe dire che oggi i teologi si stanno avviando al silenzio, nel senso che scoprono che è meglio non parlare troppo di Dio, perché tutto quello che diciamo o è senza senso o, se ha un senso, conduce al silenzio, cioè all’adorazione, a liberarci da tutte le parole e da tutte le immagini; mentre gli atei si stanno avviando nella direzione di parlare di Dio. Per dire che non c’è. E siccome quel Dio che negano è spesso il Dio che anche noi neghiamo, succede che ci troviamo a camminare insieme. Il cammino che noi stiamo facendo anche nel confronto con gli atei è un cammino comune di credenti e non credenti, per un nuovo umanesimo, perché l’umanità risponda alle esigenze attuali. Infatti la situazione in cui oggi ci troviamo è quella di una svolta epocale, nel senso che la forza creatrice, la forza della vita, i processi evolutivi richiedono un salto qualitativo. Mentre nei passaggi precedenti – fisici, chimici e biologici – c’erano leggi ben determinate ora il salto sta avvenendo nell’ambito culturale e spirituale, dove qualcosa di nuovo sta sorgendo, ma non sappiamo che cos’è, non sappiamo che forma assumerà. Dobbiamo essere consapevoli che insieme lo possiamo far nascere, desiderandolo, attendendolo e accogliendolo, cioè diventando noi luogo di questa emergenza.
Il tema Dio è un ambito attraverso il quale la riflessione e l’attesa del nuovo acquista una efficacia straordinaria. Non semplicemente per l’apporto dei credenti, bensì anche dei non credenti, di coloro che soffrono, che lavorano per la giustizia, che giungono ad amare in modalità corrispondenti alle esigenze della nostra stagione storica. Dopo queste premesse esamino gli dei in cui non credo: otto immagini di Dio che non sono efficaci.
1. Il Dio della pura ragione: in questo Dio non credo, non merita fede, non merita fiducia, non è sufficiente. C’è un ateo convertito, morto nell’aprile scorso, un filosofo molto noto, Anthony Flew, che a quindici anni aveva fatto la scelta dell’ateismo. Quando nel 2004 fu chiamato negli Stati Uniti in un grande teatro per confrontarsi come ateo con tre teologi, prima di cominciare il dialogo dichiarò di aver cambiato idea. Successivamente ha giustificato il suo cammino razionale. In realtà Flew è giunto alla credenza in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non è giunto alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere ad una forma nuova di vita, un Dio che salva a che ti serve? Anche il Cardinale Ruini, nel dicembre 2009 dopo aver proposto diversi argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, ha detto: “La difficoltà dell’approccio metafisico nel contesto culturale contemporaneo, aggiungendosi all’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo, sono le ragioni di fondo di quella «strana penombra (sono parole di Ratzinger che egli cita) che grava sulla questione delle realtà eterne». Perciò l’esistenza di un Dio personale, pur solidamente argomentabile, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane (e qui cita ancora Ratzinger) «l’ipotesi migliore, che esige da parte nostra di rinunciare ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile»”. L’atteggiamento dell’umile ascolto serve appunto per creare il silenzio interiore, per pervenire al ‘fondo dell’anima’ dove la forza creatrice sta alimentando il nostro cammino. Questa è l’esperienza da compiere in ordine alla fede. Per questo il Dio della ragione non è sufficiente.
2. Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia inter-venendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. La storia umana è fatta solo di azioni umane, come il processo cosmico è costituito solo da meccanismi di creature fisiche, biologiche, alimentate e sostenute dalla potenza divina. Siccome Dio molti praticanti pensano ancora che Dio intervenga all’interno dei processi, credo sia urgente chiarire l’inconsistenza di un tale modo di immaginare Dio. È un passaggio difficile ma necessario. Dobbiamo diffondere una immagine libera da queste ipoteche della ‘provvidenza’. Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio perché non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che aprendosi alla sua azione indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.
3. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così. San Carlo Borromeo, in occasione di una pestilenza a Milano, organizzò una grande processione. Il santo portava la pesante croce di legno col sacro chiodo davanti a tutti invocando la misericordia di Dio. Scrisse poi al cardinale di Bologna esprimendo la sua gioia perché le chiese non erano mai state piene come in quei giorni. La peste, a suo giudizio, era stata lo strumento di Dio per il ravvedimento del popolo. Il segno chiaro che questa interpretazione era giusta stava nel fatto che “nonostante l’assembramento numeroso della gente che si era raccolta a pregare, non si era verificato nessun altro caso di peste”.
4. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio. Noi pregando acquistiamo la capacità di vedere in modo più profondo il reale, e di amare in modo inedito. Quando giungiamo a sperimentare attraverso la preghiera le qualità nuove che fioriscono in noi, comprendiamo che la forza della vita contiene ricchezze ancora non espresse, qualità umane che possono fiorire e che domani avranno forme per noi ora non immaginabili. Il silenzio interiore, l’atteggiamento di ascolto e di accoglienza sono essenziali per l’efficacia della preghiera. Ma non perché diciamo a Dio di fare qualcosa di nuovo, ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.
5. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio, perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.
6. Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.
7. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Certo, l’esperienza può essere narrata, ma quando viene tradotta in parole umane viene anche in parte tradita, modificata, confusa, per cui la Parola divina è sempre da cercare oltre le parole umane. Quando diciamo che la Scrittura è ‘parola di Dio’ dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.
8. Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design), come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.

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augurissimi, don Ciotti!

don Ciotti

settant’anni tra solidarietà e ribellione

“oltre alla deriva xenofoba, mi preoccupano il dilagare delle mafie e della corruzione. E soprattutto la mancanza di risposte concrete da parte dello Stato e della politica”

ritratto di un religioso sempre in prima linea

di Mario Lancisi

Don Ciotti, settant'anni tra solidarietà e ribellione

quella foto del piccolo Aylan Kurdi, trascinato morto dal mare sulle rive turche, don Luigi Ciotti ce l’ha sempre davanti agli occhi. Commozione, dolore, ma anche una grande rabbia, un’indignazione senza fine i sentimenti che lo agitano. “Basta, va posto fine al massacro degli innocenti. Sull’immigrazione tante parole, ma fatti zero. Quello dei profughi era un fenomeno prevedibile, ma l’Europa se ne è lavata le mani. La politica anche in Italia ha pensato ai voti, al consenso, non a risolvere il problema dell’immigrazione”.

Don Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera, l’associazione contro le mafie, compirà settanta anni il prossimo 10 settembre. Momento di bilanci, di sguardi sul futuro. Sguardi preoccupati: “Oltre alla deriva xenofoba, mi preoccupano il dilagare delle mafie e della corruzione. E soprattutto la mancanza di risposte concrete da parte dello Stato e della politica. Ripeto, parole tante, ma fatti pochi, davvero pochi”. Non fa nomi, non attacca Renzi o Salvini: è tutta la politica a deluderlo.

Ma don Ciotti ha anche sguardi aperti alla speranza: “La vedo annidarsi nel cuore dei giovani. Ribelli ma creativi. Confido in loro, nella loro ribellione non violenta ma capace di aprire nuove strade”. Ecco, strada, strade. La password che aiuta a capire la vita di questo prete di settant’anni sempre in prima fila tra impegno religioso e civile.

Quando nel 1972 fu ordinato sacerdote, l’allora vescovo di Torino, il cardinale Michele Pellegrino gli disse: “Luigi, la parrocchia che ti affido è la strada”. E di strada don Ciotti ne ha percorsa molta, prima e dopo la tonaca.

Nato a Pieve di Cadore nel 1945, il 10 settembre, appunto, la famiglia di Luigi si trasferisce a Torino in cerca di fortuna quando ha appena cinque anni. Lì, nella città sabauda, il babbo fa il muratore nei cantieri per la costruzione del Politecnico e la famiglia vive in una baracca. Poverissimi. A tal punto che il piccolo Luigi va a scuola senza grembiule. Un giorno la maestra lo riprende in malo modo: “Ma cosa vuoi tu, montanaro?”. Luigi, allora in prima elementare, non ci vede dalla rabbia: tira fuori un calamaio dal banco e lo scaraventa contro la maestra. Ha solo sei anni, ma già quel carattere ribelle contro le ingiustizie che si porterà dietro per tutta la vita. Non a caso, a metà mese, uscirà anche in Italia, edito da Piemme, il suo nuovo libro “Non tacerò”, curato da Nello Scavo e Daniele Zappalà.

La svolta della vita don Luigi ce l’ha a 17 anni, quando andando a scuola, per conseguire il diploma in telefonia, rimane un giorno colpito da un barbone. Scoprirà poi che era un medico caduto in depressione e povertà. Il giovane Luigi si ferma, una mattina. «Posso offrirle un caffè?». Il barbone non risponde. Un thè? Silenzio. Per 12 giorni va avanti un dialogo ad una sola voce. Il barbone-medico tace e guarda fisso un bar davanti alla scuola. Lì andavano i ragazzi a farsi una “bomba”: alcool e pasticche. Anche Luigi decide di andare in quel bar. E capisce la vocazione della sua vita: farsi prete e dedicarsi ai drogati.

Nel 1955 nasce il gruppo Abele e quarant’anni dopo, Libera. Dalla droga all’impegno contro la mafia: “L’idea di libera è nata nell’estate del 1992, l’estate in cui furono uccisi Paolo Falcone e Paolo Borsellino. La molla è stato il desiderio di fare qualcosa di più, di non cedere allo sgomento, alla rabbia e alla rassegnazione”, racconta don Ciotti nel libro di Libera, uscito per il ventennale (“Cento passi verso un’altra Italia”, edito da Piemme).

Un’altra Italia, ma anche un’altra Chiesa. Prete di strada ma amico anche di personaggi dell’alta società, a cominciare da Giovanni Agnelli (al quale dava del tu) e del figlio Edoardo, di cui ha celebrato i funerali, nel 2000, don Ciotti è stato spesso criticato dalle gerarchie ecclesiastiche per le sue posizioni sociali e politiche non linea con l’ortodossia vaticana. Un rapporto quasi da separato in casa, nella sua Chiesa. Che solo papa Francesco ha ricucito quando nel marzo del 2014, appena eletto al soglio di Pietro, partecipa alla giornata della memoria di Libera e abbraccia don Ciotti. Che commenta : “Ora ci sentiamo meno soli”.

Qualche mese dopo, la condanna a morte di Totò Riina che dal carcere lancia la minaccia: “Uccidiamo don Ciotti, come già don Puglisi”. Da allora la scorta del prete è stata rafforzata: “Paura? Non parlerei di paura, e non perché sia incosciente o temerario, ma perché non do peso alla mia vicenda personale. L’io è soltanto un mezzo, non un fine. Il fine è la giustizia sociale. Le minacce più grandi non solo quelle dei boss, ma i ritardi, le inerzie, i compromessi nel realizzarla”, conclude don Ciotti nell’introduzione al libro di Libera.

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