politica delinquenziale e razzista a sostegno di Salvini

svaligiavano ville travestiti da Rom per sostenere la campagna elettorale di Salvini

arrestati

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Rozzo Lombardo – E’ stata ribattezzata ‘Gipsy King’ la clamorosa operazione con la quale i Carabinieri hanno sgominato un’organizzazione criminale che si era resa protagonista di una serie di rapine avvenute in alcune ville (anche in quelle abusive!) della Brianza, seminando panico e rinfocolando l’odio razziale.
I sospetti erano subito caduti sugli zingari del vicino campo di Fregazzate, specie dopo un’esaustiva foto doppia Boldrini/Rom felici con una sobria didascalia “I Rom ringraziano la bOldracca di Roma”, diffusa in paese, ma dopo circa 2 mesi di indagini i militi dell’Arma hanno potuto constatare che in realtà gli autori erano sostenitori della Lega Nord della vicina sezione di Chienge.
Il travestimento adottato dai criminali era quasi da manuale, salvo per un errore che si rivelerà fatale: Audi A5 nera con vetri oscurati e assetto ribassato, barba alla Joaquín Cortés, capelli impomatati, camicia di raso ed un italiano alquanto incerto, particolare che li camuffava perfettamente tra i locali.
A mettere sulla buona strada gli investigatori è stata la deposizione dello stalliere siculo di un noto imprenditore della zona, trovatosi nel bel mezzo della rapina, e ora unico e imprescindibile testimone oculare, che in genere non vede, non sente e non dice niente, tranne quando gli fanno girare lu cugghiuni. L’uomo ha infatti dichiarato: “Quando me li trovai davanti esclamai un sonoro và rumpiti i cuorna zingheru ‘mmierda e per tutta risposta il più giovane, (poi identificato come Benzo Rossi, detto ‘il Torta’) rispose “zingara è tua sorella, terùn, allora lo guardai in bocca e notai che dall’incisivo non proveniva alcun riflesso da brillantino. Così capii che quelli non erano veri rom”.
 
I quattro quasi scaltri padani travestiti da gitani contavano con questo diabolico sotterfugio di prendere due fave con un piccione: rifornire di ‘benzina’ il motore dell’intolleranza avviato nella campagna elettorale di Matteo Salvini per mantenerlo al massimo dei giri ed allo stesso tempo trovare i soldi necessari per finanziare le batterie destinate ad alimentare la nuovissima felpa leghista hi-tech a cristalli liquidi, su cui compare automaticamente il nome della città in cui ci si trova, già collaudata dal segretario del Carroccio e che gli ha regalato una grande ed inaspettata soddisfazione in seguito alla calorosa accoglienza con tanto di standing ovation conquistata durante il comizio nella cittadina umbra di Bastardo.
 
 
 
 Marco Paolini e Vittorio Lattanzi
 

 
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a proposito della beatificazione di Oscar Romero

Romero e quelli che non applaudono

intervista a Jon Sobrino

Sobrino

a cura di Alver Metalli
in “La Stampa-Vatican Insider” del 21 maggio 2015

Nel «Centro monsignor Romero» nel cuore dell’Università Cattolica Jon Sobrino si muove come se danzasse. L’ha fondato dopo il massacro dei suoi confratelli gesuiti – «non ho fatto la loro fine solo perché ero in Tailandia» ricorda – e vi ci si dedica come se fosse l’ultima missione della sua vita, giunta alle soglie dei 77 anni. Una ventina di anni in più, in media, di quanto abbiano vissuto Ignacio Ellacuria e compagni, caduti sotto i colpi dei killer il 16 novembre del 1989. Le resistenze, le accuse di sinistrismo e filo-guerriglierismo riversate su Romero come piombo fuso, partite dal Salvador e con orecchie condiscendenti anche a Roma, Jon Sobrino le conosce bene. Ergo la beatificazione non può che rallegrarlo. Ma non è così, o, perlomeno, ha molte cose da precisare in proposito. Gli chiediamo se avesse immaginato, anni fa, che si sarebbe arrivati al giorno di oggi, di dopodomani per l’esattezza, sabato 23 maggio. Caracolla la sua magrezza nella sala principale del mausoleo ai «martiri della Uca» e lascia uscire un provocatorio «non mi è mai interessato». Lo ripete nel timore che non avessimo capito bene. «Sul serio… lo dico sul serio: non mi è mai interessata la beatificazione di Romero». Aspettiamo chiarimenti. Ci devono essere, quelle appena pronunciate non possono essere le sue ultime parole. «Quando l’hanno ammazzato, la gente di qui – non gli italiani e nemmeno in Vaticano – ma i salvadoregni, i nostri poveri, hanno detto subito: “È santo!”. Pedro Casaldaliga quattro giorni dopo ha scritto un gran poema: “¡San Romero de América, pastor y mártir nuestro!”». Ricorda che anche Ignacio Ellacuria, abbattuto a pochi metri da qui, «tre giorni dopo l’assassinio di Romero ha detto Messa in un aula della Uca, e nell’omelia ha detto: “Con monsignor Romero Dio è passato per El Salvador”». Tira il fiato come se avesse bisogno di ossigeno. «Quello che non avrei immaginato questo sì, è che ci fosse qualcuno che potesse dire una cosa così. Che lo beatifichino va bene, hanno tardato 35 anni ma non è la cosa più importante». Si assicura che l’interlocutore abbia ricevuto il colpo. «Capisci quello che ti sto dicendo?» esclama allargando in un sorriso indulgente le sue labbra sottili. Per tutta risposta riceve una nuova richiesta di spiegazioni. «Si capisce che c’è qualcosa che non la convince in quello che sta avvenendo…». Attorno a noi stanno scaricando i pacchi freschi di stampa dell’ultimo numero di Carta a las Iglesias, la rivista che dirige. «Va bene che lo beatifichino, non dico di no, ma mi sarebbe piaciuto che fosse in un altro modo… e ancora non so cosa dirà il cardinale Angelo Amato dopodomani, non so, non so se quello che dirà mi convincerà o no». Ma Sobrino non la sentirà l’omelia del Prefetto venuto da Roma, o non lo vuole sentire. «Sappiamo che se ne andrà, che ha un viaggio programmato e che sabato non sarà in piazza con gli altri. L’ha fatto a proposito?». Tarda a rispondere, come se si stesse chiedendo come l’ho saputo. Poi la precisazione arriva: «Vado in Brasile, perché a Rio de Janeiro si celebrano i cinquant’anni della rivista Concilium. Ho lavorato in questa rivista gli ultimi 16 anni. Devo fare un discorso, e mi ritiro dalla Rivista. La beatificazione coincide con questo incontro. Non è che me ne vado, vedrò in televisione la Cerimonia di beatificazione e un po’ prima di mezzogiorno me ne andrò all’aeroporto». 16 anni a Concilium, e Sobrino che si ritira il giorno della beatificazione di Romero. È una notizia anche questa. Sulla parete davanti a noi i «Padri della Chiesa latinoamericana» ascoltano compunti. La carrellata inizia con monsignor Gerardi, assassinato in Guatemala nel 1998 e prosegue con il colombiano Gerardo Valente Cano, l’argentino Enrique Angelelli assassinato nel 1976, Hélder Pessoa Câmara, brasiliano in odore di beatificazione, il messicano Sergio Mendez Arceo con di fianco un altro messicano, don Samuel Ruíz e l’ecuadoriano Leonidas Proano, seguiti da monsignor Roberto Joaquín Ramos (Salvador 1938-1993) e don Manuel Larrain, il cileno fondatore del Celam, per finire con il successore di Romero, il salesiano Arturo Rivera y Damas, figura chiave nella storia di Romero e ingiustamente ignorato nelle celebrazioni di questo periodo.
Sabato a mezzogiorno, secondo il cronogramma diffuso dal comitato per la beatificazione, dovrebbe essere letto il decreto che porterà formalmente il servo di Dio Oscar Arnulfo Romero y Galdámez nel novero dei beati della Chiesa cattolica. Jon Sobrino, forse, non avrà tempo di ascoltarlo. Ma non se ne dispiace. Le ragioni le distende un po’ di più presentando il materiale di Carta a las Iglesias anno XXXIII, numero 661, con in copertina un frammento variopinto di un murales in cui Romero tiene per mano la figlia di un contadino che ha appena tagliato con il falcetto un casco di banane. «Due articoli sono critici. Padre Manuel Acosta critica l’attuazione della commissione ufficiale di preparazione della beatificazione. Luis Van de Velde è più critico con la gerarchia. Si chiede se monsignor Romero si riconoscerebbe nel giorno della sua beatificazione. Da tempo abbiamo messo in guardia che non beatifichino un monsignor Romero annacquato. Il pericolo c’è; speriamo che si beatifichi un monsignor Romero vivo, più tagliente di una spada a doppio filo, giusto e compassionevole». Le vesti che indossavano i sei Gesuiti suoi amici e colleghi l’ultimo giorno della loro vita sono appese nella teca della stanza di fianco, come fossero in un armadio. La vestaglia marrone di Ellacuria, un accappatoio, un paio di mutandoni un po’ ingialliti, tutti perforati dai proiettili che i militari che hanno fatto irruzione non si sono curati di risparmiare. Viene da pensare a loro, e al processo di beatificazione iniziato da poco. «Nemmeno questo mi preoccupa» esclama Sobrino. «Ero in Tailandia quel giorno e per questo non mi hanno ucciso, ho visto correre il sangue di molta gente nel Salvador, non mi interessano le beatificazioni, spero che le mie parole aiutino a conoscere di più e meglio Ellacuria, vediamo se seguiamo il suo cammino, questo è quello che mi interessa». Nemmeno un applauso per il Papa argentino che ha spinto la causa di Romero verso la conclusione? «No, non mi interessa applaudire, e se applaudo non è per il fatto che è Papa, che è argentino né che è gesuita ma per quello che dice, per come si è comportato a Lampedusa per esempio. Quello che mi interessa è che ci sia chi dica che i fondali del Mediterraneo sono pieni di cadaveri. Io non ho applaudito la Resurrezione di Gesù. Applaudire non fa per me». Il pensiero adesso va spedito a dopodomani. «Ho visto orrori che non sono stati denunciati, come li denunciava monsignor Romero. Vediamo se sabato risuoneranno le sue parole». Per essere sicuro di non venir frainteso Jon Sobrino le recita a memoria: «“In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, vi chiedo, vi prego, vi ordino in nome di Dio che finisca la repressione”. Questo l’ho sentito da lui e mi è rimasto scolpito in testa». Il resto del suo pensiero su Romero, un Romero «non edulcorato», il Romero «reale» è nell’articolo che ha scritto per la rivista latinoamericana di teologia dell’Università cattolica, nel cui comitato di direzione siedono tra gli altri Leonardo Boff, Enrique Dussel, e il cileno Comblin. «Mostro quel che monsignor Romero sentì e disse nell’ultimo ritiro spirituale che fece un mese prima di essere assassinato; poi offro tre spunti che ritengo importanti. Ricordo che un contadino disse: “Monsignor Romero ci ha difesi, noi poveri; non solo ci ha aiutati, non solo ha fatto la scelta dei poveri, questo oramai è qualcosa di sloganistico. È uscito a difenderci, noi poveri. E se qualcuno viene a difendere è perché c’è chi ha bisogno di essere difeso, e ha bisogno di difesa chi è attaccato. È per questo – ha detto con sicura certezza questo contadino – l’hanno ucciso”. Madre Teresa che era buona e non dava fastidio a nessuno ha ricevuto il premio Nobel, monsignor Romero che ha dato fastidio il premio Nobel non l’ha ricevuto».

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il commento di p. Maggi e p. Agostino al vangelo della domenica

LO SPIRITO DI VERITA’ VI GUIDERA’ A TUTTA LA VERITA’ 

commento al vangelo della domenica di Pentecoste (24 maggio 2015)  di P. Alberto Maggi  p. Maggi

Gv 15, 26-27; 16, 12-15

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio. Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».

Per la festa della pentecoste la liturgia ci propone questo brano di Giovanni dove Gesù parla dell’attività e della realtà dello Spirito. Scrive l’evangelista “Quando verrà” – e dispiace vedere qui nella nuova traduzione della CEI il termine “Il Paraclito”. E’ un termine colto, è un termine tecnico, che non è comprensibile dalla gran parte della gente. Nella vecchia traduzione questo termine si era reso meglio con “consolatore”. Qual è il significato di questo termine greco “paraclito” che qui viene translitterato appunto senza darne poi la comprensione? Il “consolatore”, a differenza di colui che conforta  – il conforto è un conforto morale – ma “consolare” nella lingua greca significa “l’eliminazione alla radice della causa della sofferenza”. In altre parti questo termine sarà applicato a Gesù come “avvocato difensore”, “colui che ci difende”. Allora, l’azione dello Spirito è quella di consolare, di difendere la comunità da ogni tipo di attacco e l’eliminazione alla radice di quella che è la causa della sofferenza. Quindi Gesù rassicura la sua comunità Quando verrà quindi il consolatore, questa forza, questa energia di Dio, “che vi manderò dal Padre”, quello che lui chiama “lo Spirito della Verità”, questa forza d’amore che proviene dal Padre, conduce l’uomo nella verità, e gli fa comprendere due realtà importanti: 1) chi è Dio, la verità su Dio, Dio è amore; 2) la verità sull’uomo, chi è l’uomo. L’uomo ha una dignità incredibile, è chiamato ad essere il figlio di questo Dio. “Egli darà testimonianza di me”.

Quindi questa forza, quest’energia d’amore che Gesù comunicherà sulla croce nel Vangelo di Giovanni ai suoi discepoli, l’accoglienza di questa potenza d’amore,  dilaterà l’esistenza dell’individuo e lo inserirà nella sfera dell’amore di Dio, gli farà comprendere molte cose. E, scrive l’evangelista che Gesù dice “e anche voi date testimonianza perché siete con me fin dal principio”. Dove si è fin dal principio? Fin dal principio Gesù nella sua attività si è messo sempre a fianco degli oppressi e mai degli oppressori, sempre dalla parte delle vittime, mai dalla parte dei carnefici, allora è un invito molto chiaro di Gesù alla sua comunità di stare sempre dalla parte degli ultimi. In questo stare sempre dalla parte degli ultimi emergerà la forza dello Spirito. Gesù avverte “ho molte cose ancora da dirvi, ma per il momento non  siete capaci di portarne il peso”, perché soltanto chi è pronto a orientare completamente la propria vita verso il bene degli altri, può entrare in sintonia con questa onda crescente d’amore che il Signore comunica. Però, assicura Gesù, “quando verrà lui, lo Spirito della verità”, ecco che torna questa definizione che lo Spirito  è quello che conduce l’uomo, “Vi guiderà a tutta la verità perché non parlerà da se stesso, ma dirà ciò che avrà udito e vi annuncerà” – e questo è importantissimo – “le cose future”. L’azione dello Spirito è una continua proposta del messaggio di Gesù, non è un nuovo messaggio, una nuova rivelazione, che fa comprendere le cose che vengono, le cose future. Lo Spirito spinge al futuro. Lo Spirito non ripete le cose del passato, c’è sempre la tentazione da parte degli uomini di rimpiangerei bei tempi di una volta, che erano belli soltanto perché sono passati e sono dimenticati, e quindi di rimpiangere un tempo passato e non dei proiettarsi verso il tempo che arriva. Ebbene, quando si rimpiange il tempo passato lì lo Spirito non può far nulla, perché lo Spirito di Dio è quello che – dice la scrittura – “fa nuove tutte le cose”. Allora, l’apertura al nuovo fa emergere lo Spirito. Cosa significa questo? Che la tensione della comunità cristiana ai sempre nuovo bisogni dell’umanità, farà scoprire nuove capacità di risposta. In  queste nuove risposte ai bisogni dell’umanità emerge lo Spirito della verità. Questa è la dinamica della vita del cristiano, quindi, sempre teso verso il nuovo, sempre pronto a dare nuove risposte, non le risposte antiche. Non si possono dare ai bisogni di oggi risposte antiche, ma formulare, inventare, creare, nuove risposte per i bisogni dell’umanità.

 

 di seguito il commento di p. Agostino Rota Martir che legge da tempo il vangelo da dentro un ‘campo nomadi’ e coll’aiuto di rom musulmani riesce a cogliere del vangelo il cuore più innovativo e ‘ribelle’:

p. agostino

      Per una Pentecoste ribelle e un po’ zingara

 

Sabato scorso ho partecipato a Bologna con diversi amici, alla manifestazione dei Sinti e Rom.                   È stata una bella iniziativa: vivace, colorata e pacifica..anche troppo! Ma alla luce della festa della Pentecoste, non posso nascondere alcune note che mi lasciano un pò perplesso, anzi la dico così: la Pentecoste forse ci spinge ad osare di più, a sapere andar oltre. Pentecoste ed inni nazionali. All’inizio del corteo i Sinti hanno suonato  e cantato (magistralmente) l’inno di Mameli. Senz’altro è stata una nota ad effetto immediato, anche perché cantato meglio di tanti giocatori della nostra Nazionale di calcio. Comprendo bene le ragioni: “siamo italiani, non extra-comunitari”. Sottinteso: noi Sinti, non siamo Rom! ” Siamo in Italia da molte generazioni, non siamo arrivati sui barconi..” Ammetto la mia amarezza, anche se non mi sorprende, è come chi  dice: “prima gli italiani, poi..quel che resta delle briciole agli ultimi arrivati.”  I discriminati (e i Sinti lo sono) che creano a loro volta, altri discriminati e la catena non si ferma mai. Mentre camminavo per le vie di Bologna, Sinti, Rom, migranti, centri sociali, preti, laici, italiani..insieme, mi sono ritrovato proprio a pensare alla festa di Pentecoste. Lo Spirito Santo che scende su tutti e non guarda la scadenza del Permesso di Soggiorno o la validità del  passaporto, o l’appartenenza sociale tanto meno, appone il suo timbro al suo passaggio. Ogni cittadinanza, compresa quella dell’ultimo arrivato su un barcone, profugo o clandestino che sia, partecipa alla sua orchestra di colori e suoni, la Pentecoste è proprio la frantumazione degli inni nazionali, delle bandiere e dei confini nazionali. E’ l’implosione dei muri che dividono, sa più di sentieri, strade aperte verso l’infinito, di ponti.. “Com’è che  ciascuno di noi  sente parlare nella propria lingua nativa?”  Lo Spirito della Pentecoste valorizza le diversità di ciascuno per il bene di tutti. Siamo uguali ma diversi. Non c’è forse il rischio che in nome di una uguaglianza astratta, di una integrazione (spesso usata come arma di ricatto verso i Rom) e quant’altro appiattiamo le nostre diversità, fin’ anche  camuffarle? Nella Pentecoste  invece, ci si comprende anche nelle diversità..l’armonia si ottiene non certo con “le ruspe” o l’indifferenza o moltiplicando i controlli..è frutto di cammini, di pazienza e di ascolto e convivenze reciproche.

Non è forse una tentazione quella di voler sembrare tutti uguali, anche per ottenere ciò che spetta ad ogni essere umano, di diritto?

Pentecoste e sconfinamento della Chiesa.

E’ lo Spirito che sollecita lo sconfinamento della Chiesa, dei cuori stessi..in forme variegate di nomadismo che arricchirà sostanzialmente la storia e le stesse comunità cristiane, differenti tra di loro, sparpagliate e sempre in cammino. Più nomadi che stanziali, affinché lo Spirito del Vangelo manifesti il suo vigore, spesso ben lontano dai poteri! E’ una Chiesa di periferia,  più ribelle che integrata..spesso messa da parte, a volte vista come accessorio inutile, da scartare quando non serve più o diventa un fastidio.

Non sono poche le “sirene” che oggi rinnegano e cercano di nascondere, anche in nome di una presunta integrazione, la storia dei Sinti e Rom che è fatta anche di esodi, di cammini, di nomadismi di vario genere, spesso si sente dire e ripetere:  “Noi Rom, non siamo nomadi, è storia passata.”

Ma la Pentecoste, come il vento  non si “normalizza”..

Se un Sinto o un Rom si uniforma viene premiato, riceve riconoscimenti e attestati, se invece rimane Rom-Sinto, magari mantenendo il suo stile  di vita un po’ “zingaro” (compreso quello di nomadizzare quando lo ritiene necessario), è visto con disprezzo e sospetto.

Sta di fatto che la Pentecoste fa della Chiesa nomade, in uscita..non solo fisicamente, anche spiritualmente e mentalmente, condizione per vivere e capire il Vangelo.  E’  come il sigillo della Pentecoste impresso nell’anima dei cristiani: continuamente in uscita, ribelli ad ogni conformismo, con lo spirito nomade, attenti a non fossilizzarci in una cultura, capaci di andare sempre oltre, seminatori  e raccoglitori delle tracce dello Spirito sparpagliate in ogni storia, in ogni esistenza.

ghetti

“Lava ciò che è sordido, bagna ciò che è arido, sana ciò che sanguina.

Piega ciò che è rigido, scalda ciò che è gelido, drizza ciò che è sviato..”

Buona Pentecoste!
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ritratto di un vescovo fatto ‘buona notizia’

“una buona notizia di Dio per i poveri”

un ritratto di mons. Romero, pastore, profeta e martire

Romero

Se, di anno in anno, la memoria di mons. Oscar Romero, anziché sbiadire, è diventata sempre più viva, superando non solo i confini di El Salvador ma anche quelli della Chiesa cattolica, la sua attesissima e imminente beatificazione, il prossimo 23 maggio, ha acceso ancor di più i riflettori sul XXXV anniversario del suo martirio, celebrato in El Salvador con eventi culturali, incontri di riflessione, veglie e pellegrinaggi. E, in Italia, con le più diverse iniziative, a cominciare dalla tradizionale veglia ecumenica a Roma, il 24 marzo, nella basilica dei Santi Apostoli.

 

Ma il XXXV anniversario del martirio, oggi riconosciuto ufficialmente, di San Romero d’America è coinciso anche con l’uscita in Italia di un libro di Jon Sobrino – Romero, martire di Cristo e degli oppressi, edito dalla Emi (pp. 281, 17 euro) – che lo ricorda davvero nel migliore dei modi, raccogliendo sette dei testi più belli, vibranti e significativi scritti nel corso degli anni dal teologo gesuita, suddivisi in tre parti: “Il mio ricordo di monsignor Romero”; “Analisi teologica della persona e della vita di monsignor Romero” e “Monsignor Romero: testimone di Dio”. Un testo che, ricostruendo magnificamente la vita, il pensiero e la teologia di Romero pastore, profeta, martire e testimone della verità – quel Romero che è diventato, semplicemente, “Monsignore”, senza aggiunte, esattamente come, nel Nuovo Testamento, il “Signore” è solo Gesù, senza «bisogno di ulteriore specificazione» – , ne restituisce un ritratto purissimo nella sua straordinaria e unica capacità di «illuminare questo mistero di Dio, reso opaco dalla crocifissione dei poveri e tanto luminoso nella loro speranza e nel loro impegno per risorgere». Senza mancare di evidenziare, naturalmente, la sua dirompente radicalità evangelica, quella che lo portava, per esempio, a proclamare che «l’interlocutore naturale della Chiesa è il popolo, non il governo» o che «la Chiesa giudicherà l’uno o l’altro progetto politico a seconda del fatto che sia gradito al popolo», polverizzando, «con queste parole, e la prassi conseguente, secoli di cristianità e tentativi, sempre ricorrenti, di neo-cristianità».

 

Ma, nel definire Romero come «una buona notizia di Dio per i poveri di questo mondo» («e, a partire dai poveri, per tutti»), il libro di Sobrino fa anche giustizia di tutte quelle letture interessate portate avanti nel corso della sua vita e continuate poi dopo la sua morte (fino ai tentativi, ancora attuali, di diluirne la portata profetica). Di tutti quei giudizi tendenti a «diminuirne la figura», secondo cui, scriveva Sobrino, Romero sarebbe stato un uomo buono, «ma senza grande personalità, debole e facilmente impressionabile», di cui si sarebbero approfittati gruppi radicali, tra cui i gesuiti, manipolandolo e forzandolo «a seguire la strada che più conveniva loro». Insomma, il suo prestigio «sarebbe stato una frode» e ora «un mito alimentato artificialmente». O di quei tentativi di metterlo a tacere trasformandolo in una figura del passato, «come se oggi non avesse più nulla da dire e da offrire al Paese e alla Chiesa», e imponendo il silenzio – «la più triste delle manipolazioni» – in risposta alla presunta tendenza di gruppi di sinistra, sempre loro, di «manipolarlo da morto per i propri interessi». O, ancora, della tendenza dell’istituzione, accentuatasi nel corso del tempo, di appropriarsene al grido «monsignor Romero è nostro» (secondo le parole pronunciate da Giovanni Paolo II, in base a quanto ha recentemente assicurato mons. Vincenzo Paglia, il postulatore della causa di beatificazione): Romero, secondo Sobrino, «è stato un arcivescovo e appartiene alla Chiesa gerarchica; è stato un cristiano e appartiene a tutti i salvadoregni. Ma richiamarsi a monsignor Romero non significa considerarlo una proprietà privata», bensì «lasciarsene possedere e metterlo a frutto». Esattamente come Sobrino aveva ben sperimentato viaggiando in Asia: «A Tokyo, New Delhi e altrove ho visto che monsignor Romero ha qualcosa di importante da dire a cristiani, a marxisti, a buddhisti e a induisti». E come un europeo gli aveva ricordato un giorno: «Le comunico una brutta notizia. Monsignor Romero non è più vostro. È di tutti».

 

Al link di seguito, dalla seconda sezione del libro, riportiamo ampi stralci della parte relativa all’inizio del suo ministero alla guida dell’arcidiocesi, immediatamente dopo l’assassinio del gesuita Rutilio Grande – di cui ha preso recentemente il via a San Salvador la causa di beatificazione – e di due contadini. Un racconto profondamente coinvolgente che, tra l’altro, smentisce nella maniera più netta la tesi di quanti – a cominciare da mons. Vincenzo Paglia e dallo storico Roberto Morozzo della Rocca (v. Adista Notizie n. 6/2015) – sostengono che non si possa parlare di una vera discontinuità tra il Romero nominato arcivescovo con il sostegno dell’oligarchia e l’arcivescovo che l’oligarchia ha deciso di assassinare ((il libro può essere richiesto ad Adista, tel. 06/6868692, e-mail: abbonamenti@adista.it; oppure acquistato online sul sito www.adista.it). (claudia fanti)

 

Fonte: Adista n. 14/2015

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italiani brava gente ma: “io meno male che affondano tutti nel mare … io ci passerei sopra con la ruspa”

 

il ‘cattivismo’ ci sta prendendo tutti fino a trasformarsi in vera emergenza nazionale

 “io quelli lì li ammazzerei tutti” in fondo siamo brava gente

una bella riflessione di Alessandro Robecchi

arobecchiC’è un’emergenza nazionale (un’altra!) di cui nessuno sentiva il bisogno, ma soprattutto che pochissimi paiono notare, il che la rende ancora più emergenza e anche molto nazionale (non vedere i muri prima di andarci a sbattere è una specialità di queste parti). Si chiama cattivismo. Si esprime con un rumore di fondo, un rombo sottotraccia, e contiene parole, frasi, espressioni, minacce che solo fino a qualche tempo fa parevano inimmaginabili. Eppure.

Eppure come accendi la tivù, o apri una finestra del browser, ti imbatti in qualcosa di impietoso e trucido fino alla caricatura. Una lingua approssimativa e splatter fatta di “Io ci taglierei la testa con la roncola… io meno male che affondano nel mare… io ci passerei sopra con la ruspa”. Niente che non abbiano già detto certi sceriffi del Nordest negli anni Novanta, certi leader convinti della supremazia della razza padana (ahahah! questa fa sempre ridere). Certo trasformare Matteo Salvini in una specie di inquadratura fissa a reti unificate ha aiutato.

Ma attenzione, non si tratta solo di politica chiacchiere e distintivo. Il problema è che ora quelle parole tracimano nella vita di tutti, chi più chi meno. Tra la buona e brava gente della Nazione il refrain “Io li ammazzerei tutti”, con le sue mille varianti, alcune vergognosamente travestite da intento umanitario, è diventato un mormorio accettato, diffuso, come i gattini su Facebook, come le notizie sceme nelle colonnine a destra dei giornali. Il cattivismo è in un certo senso diventato pre-politico: c’è il cane che sa contare fino a otto, la bellona con le tette a mongolfiera e il “Signora mia io a quelli lì ci spezzerei le braccia col martello”. Tutto uguale, tutto indistinto, tutto sfuggente all’indignazione e allo scandalo. Alla fine, tutto spaventosamente normale.

Chi siano poi “quelli lì” a cui fare del male e per cui si sprecano parole di odio assoluto, vai a sapere, una volta i poveracci che attraversano il mare, la volta dopo il rom, o “quelli dei centri sociali”, o i barboni, i richiedenti asilo, in realtà il destinatario non conta.

Che poi si sa che la lingua precede, non solo il pensiero (spesso) ma anche l’azione. E finisce che le ruspe arrivano davvero, come a Roma alla favela di Ponte Mammolo, dove le cronache riferiscono di un preavviso di un quarto d’ora agli abitanti prima di abbattere le baracche. Brutto spettacolo ai confini del pogrom.

E’ come se trovandosi stretti in una situazione di crisi e – peggio – di paura del futuro, molti italiani si scelgano un nemico facile, molto visibile, chiaramente minoritario e indifeso. Insomma, se c’è la crisi e hai una fifa blu per il tuo domani, sei angosciato, adotti come terapia quella di menare (in metafora, ma purtroppo non sempre) gli unici che stanno peggio di te. Meccanismo elementare con sfondo cattivista che chiede sacrifici umani. Perché prendersela con chi conta niente e soffre di più è facile, comodo, rilassa, e soprattutto è fortemente incoraggiato: finche chiedi la testa dei deboli, i forti brindano.

Politiche economiche, scelte sbagliate, riduzione dei diritti, tagli di qui e di là, strategie industriali miopi, che palle, tutta roba complicata, uno deve studiare, pensarci. Vuoi mettere la comodità di un punching ball nero, o rom, o rumeno? E’ l’odio-à-porter, è il cattivismo, è la vecchia storia dell’”italiano brava gente” che però “io a quelli lì ci sparerei a tutti”. Un imbarbarimento politico, sociale, culturale che non diventerà emergenza per un solo motivo: lo è già.

Alessandro Robecchi

 

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ì cardinali non lo sopportano

i cardinali odiano Francesco

ecco quanti nemici ha in Vaticano

I cardinali odiano Francesco: ecco quanti nemici ha in Vaticano

 

il papa della misericordia, il papa amato dalle folle, soprattutto dai più poveri, il papa che ha dato fin da subito l’impressione di una svolta radicale della chiesa, il papa del sorriso e dell’ilarità a volte sembra seriamente pensoso perché troppo chiara è la percezione che ha dei ‘nemici’, e  che non sono affatto lontani, ma tra coloro che dovrebbero essere i principali collaboratori e sostenitori convinti della sua persona e delle sue scelte evangeliche: i cardinali stessi!

Francesco, il papa della svolta, il papa misercordioso, il papa dei trionfi popolari non perde occasione per bacchettare la nomenklatura vaticana. L’ultimo affondo ieri. “I laici che hanno una formazione cristiana autentica, non dovrebbero aver bisogno del vescovo-pilota, o del monsignore-pilota o di un input clericale per assumersi le proprie responsabilità a tutti
i livelli, da quello politico a quello sociale, da quello economico a quello legislativo! Hanno invece tutti la necessità del vescovo pastore”, ha detto all’Assemblea Generale della Cei che aveva all’ordine del giorno una verifica dell’attuazione dell’Evangelii gaudium, documento programmatico del Pontificato.
Ma non solo. Per preparare la prossima enciclica sull’ecologia, papa Bergoglio non si è servito delle strutture curiali. Ha consultato invece circa duecento studiosi, per evitare quella che chiama l’ autoreferenzialità vaticana. E per una settimana ha fatto venire da Buenos Aires monsignor Victor Manuel Fernandez, teologo e rettore della Universitad Catolica Argentina, per aiutarlo nella stesura.
Ovviamente tutto questo viene mal digerito dai gradi medio alti della Chiesa che si sentono oscurati e messi all’indice. Massimo Franco, sul Corriere, rivela in un lungo editoriale che si sono tre numeri che riassumono quello che si sta consumando in Vaticano: 20, 70, 10. Il 20 per cento, secondo le loro analisi, è quello di chi si è convinto di doverlo appoggiare; il 70 comprende una sorta di maggioranza silenziosa e indifferente, che lo asseconda in attesa di un altro Pontefice; e il 10 per cento fotografa il drappello dei nemici del papato argentino, sebbene magari non dichiarati. Sono cifre che, numero più numero meno, rimbalzano a Casa Santa Marta, dove abita Francesco; nella comunità latinoamericana di Roma; e in Argentina. Ma nel mare di anonimato nel quale affiorano critiche a Jorge Mario Bergoglio si intuisce una potenziale frattura geografica e strategica. Vero o no, il Papa sembra esprimere un modello di Chiesa “ostile all’ Italia, all’Europa e in generale all’ Occidente inteso come Nord del mondo”, sostiene un cardinale italiano. Col risultato di vedere crescere una fronda annidata nella terna ambigua del 10-70-20.
Simili contrasti, avverte Franco, finiscono per accreditare un conflitto sordo tra due visioni di Chiesa; e perfino per evocare l’idea di “due Chiese”, incapaci di dialogare, perché, invece di ridursi, le distanze tra di loro minacciano di ampliarsi. Ormai è chiaro che dopo due anni, il Papa ha deciso di affidarsi ad una sorta di Curia in formato ridotto, perché non si fida di quella esistente; e di modificare alla radice il cursus honorum vescovile e cardinalizio, in Italia e altrove: come se le posizioni di rendita fossero state azzerate, dopo le dimissioni di Benedetto XVI.

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le eccellenze e le eminenze lo guardano storto!

un papa troppo «severo»

solo
il 20 per cento dei vescovi è con lui

il rapporto tormentato tra Francesco e la Curia tra fedelissimi, ostili e dissenso nascosto. Sotto accusa il legame con la gente e la durezza con la gerarchia ecclesiastica

di Massimo Franco

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Per questo, dietro le frasi sincere sulla devozione e l’obbedienza al «Santo Padre», si avverte un disagio che tocca direttamente l’episcopato italiano, in affanno nel capire le coordinate culturali di Jorge Mario Bergoglio; e convinto che gli ultimi anni tormentati di Benedetto XVI, con gli scandali e le lotte intestine nella Roma papale, abbiano sedimentato un pregiudizio anti-italiano difficile da scalfire. Ma il malessere non riguarda solo la Cei e il Vaticano. Va oltre i confini dell’Italia, e attraversa altre nomenklature ecclesiastiche: come se Francesco, il pontefice della svolta epocale, faticasse a far breccia nei gradi medio-alti della Chiesa, a dispetto dei trionfi popolari  


Ci sono tre numeri che racchiudono le incognite del suo papato: 20, 70, 10. Sono le percentuali con le quali viene fotografato il suo consenso nella Roma vaticana da parte degli uomini a lui più vicini. Il 20 per cento, secondo le loro analisi, è quello di chi si è convinto di doverlo appoggiare; il 70 comprende una sorta di maggioranza silenziosa e indifferente, che lo asseconda in attesa di un altro Pontefice; e il 10 per cento fotografa il drappello dei nemici del papato argentino, sebbene magari non dichiarati. Sono cifre che, numero più numero meno, rimbalzano a Casa Santa Marta, dove abita Francesco; nella comunità latinoamericana di Roma; e in Argentina. Ma nel mare di anonimato nel quale affiorano critiche a Jorge Mario Bergoglio si intuisce una potenziale frattura geografica e strategica. 


 

Papa e Giubileo, la lettura della Bolla papale «Misericordia Vultus»

 Vero o no, il Papa sembra esprimere un modello di Chiesa «ostile all’Italia, all’Europa e in generale all’Occidente inteso come Nord del mondo», sostiene un cardinale italiano. Col risultato di vedere crescere una fronda annidata nella terna ambigua del 10-70-20. Si scopre perfino un inizio di rigetto dei capisaldi del pensiero di Bergoglio, come la famosa conferenza di Aparecida del 2007 nella quale si affermò la sua leadership in America latina, e che il Papa cita spesso. Ci sono cardinali e vescovi che non nominano mai Aparecida. Sostengono di non capire le riforme di Francesco. E avvertono che il modello Buenos Aires non può essere applicato a tutta la Chiesa. È un’esperienza, obiettano, non l’esperienza della Chiesa.  Nella resistenza di alcuni episcopati europei si avverte «l’abitudine a percepirsi quasi come dei principi», ribatte un alto prelato latinoamericano. Ma simili contrasti finiscono per accreditare un conflitto sordo tra due visioni di Chiesa; e perfino per evocare l’idea di «due Chiese», incapaci di dialogare, perché, invece di ridursi, le distanze tra di loro minacciano di ampliarsi. Ormai è chiaro che dopo due anni, il Papa ha deciso di affidarsi ad una sorta di Curia in formato ridotto, perché non si fida di quella esistente; e di modificare alla radice il cursus honorum vescovile e cardinalizio, in Italia e altrove: come se le posizioni di rendita fossero state azzerate, dopo le dimissioni di Benedetto XVI.

Per preparare la prossima enciclica sull’ecologia, Francesco non si è servito delle strutture curiali. Ha consultato invece circa duecento studiosi, per evitare quella che chiama l’autoreferenzialità vaticana. E per una settimana ha fatto venire da Buenos Aires monsignor Victor Manuel Fernandez, teologo e rettore della Universitad Catolica Argentina, per aiutarlo nella stesura. In risposta riceve un’ubbidienza leale ma intimidita, guardinga. Dietro le voci su un Francesco «isolato» si staglia una struttura ecclesiastica insofferente all’idea di un rapporto diretto tra il suo leader e le folle del mondo, saltando di fatto le gerarchie tradizionali. «Non so quanto il Papa riuscirà a guidare e governare i processi che ha messo in moto», spiegava di recente un cardinale europeo, preoccupato. «Si è visto col Sinodo, che ha rischiato di sfuggirgli di mano».
Il timore è che additando in modo impietoso i limiti della Chiesa, Francesco si rafforzi personalmente ma finisca per indebolirla. Anche se tutti gli danno atto che in due anni di papato, l’immagine dei vertici del cattolicesimo è cambiata in meglio. Gli scandali come Vatileaks, le beghe dello Ior, la stessa pedofilia oggi hanno assunto contorni meno traumatici. A livello internazionale l’attivismo sta producendo risultati vistosi, sebbene a volte controversi: la Santa Sede è protagonista come non le accadeva da molto tempo, dall’Ucraina, al Medio Oriente, a Cuba. E quanti frequentano Francesco aggiungono che dire di non capire tutto questo è la risposta tipica di chi non vuole cambiare nulla: semplificazioni che rivelano probabilmente più una frustrazione che la realtà.
Non vanno sottovalutate, però, perché si alimentano di incomprensioni che il Papa, nonostante il suo carisma, non riesce a superare. Quando il presidente, cardinale Angelo Bagnasco, critica il modo in cui vengono riportate dai mass media le parole di Francesco alla Cei, quasi fossero solo di rimprovero, coglie un problema vero. E fa capire la difficoltà di presentare in modo obiettivo un rapporto segnato dalla difficoltà a parlare lo stesso linguaggio; e complicato dal dualismo con il segretario generale, monsignor Nunzio Galantino, percepito da alcuni settori della Cei come una sorta di commissario papale. «La Chiesa italiana rimane un problema aperto, per Francesco», ammette un suo amico latinoamericano.
Ma questo non è privo di conseguenze. Il fossato tra il pontefice del popolo e la Chiesa-istituzione rimane. I vescovi sentono di essere oscurati e surclassati da Francesco. E additano come un rischio la sua tendenza a guidare la Chiesa con una specie di «governo-ombra». Ma forse, dovrebbero domandarsi se l’«oscuramento» non sia una conseguenza di responsabilità e mancanze almeno di alcuni di loro. E quando chiamano in causa il «governo ombra», alludendo a Casa Santa Marta, mostrano di non vederlo più come luogo-simbolo della rottura virtuosa di Francesco con i palazzi degli intrighi vaticani. Oggi, quell’albergo dentro le Sacre mura comincia a essere guardato come un imbuto dove notizie e pettegolezzi si intrecciano in maniera quasi inestricabile. «Chi sta nel vortice», si dice in Vaticano, «poi ne diventa vittima». Ma nel vortice, Francesco mostra di sentirsi a proprio agio, quasi fosse uno strumento di governo. A disagio, per ora,
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le religioni di fronte all’omosessualità

cosa manca alle religioni per accettare l’omosessualità

gay

 

 

 

di Vito Mancuso
in “la Repubblica” del 19 maggio 2015

 

 questo è l’intervento che Vito Mancuso terrà oggi alle 10.30, nella Sala Zuccari del Senato della Repubblica, in occasione del convegno: « Diritti omosessuali, diversità come valore » . Inaugureranno i lavori il presidente del Senato, Pietro Grasso, e la Presidente della Camera, Laura Boldrini

Anche se oggi il giudizio delle religioni sull’omosessualità è per lo più di condanna, qualcosa sta cambiando. È ormai citatissima la frase di papa Francesco del 28 luglio 2013: «Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla? ». Affermazione scioccante perché i Papi, compresi gli immediati predecessori di Francesco, hanno sempre formulato esplicite valutazioni sull’omosessualità, e sempre di condanna. Nel 2006 il Dalai Lama riaffermava la disapprovazione buddhista: «Una coppia gay è venuta a trovarmi cercando il mio appoggio e la mia benedizione: ho dovuto spiegare loro i nostri insegnamenti. Una donna mi ha presentato un’altra donna come sua moglie: sconcertante». Nel 2014 l’approccio è stato diverso: «Se due persone, una coppia, sentono veramente che quel modo è più pratico, più fonte di soddisfazione, e se entrambi sono pienamente d’accordo, allora va bene». Oggi tutte le religioni presentano tale oscillazione, in esse si nota l’evoluzione prodotta dallo “spirito del mondo”, per riprendere l’espressione con cui Hegel qualificava l’azione divina. È in atto nel mondo una complessiva riscrittura dei rapporti tra singolo e società: all’insegna del primato non più della società e delle sue tradizioni, ma del singolo e della sua realizzazione, un movimento che sta portando a valorizzare i soggetti tradizionalmente più emarginati, tra cui appunto gli omosessuali. Ne viene che oggi l’atteggiamento delle religioni sull’omosessualità presenta orientamenti molto diversi, dalla tradizionale e intransigente condanna alla più totale accoglienza. È vero tuttavia che le religioni abramitiche sono tradizionalmente più chiuse e che tra esse la posizione più rigida è quella dell’islam: ancora oggi nella gran parte del mondo musulmano l’omosessualità non è socialmente accettata e in alcuni paesi (Afghanistan, Arabia Saudita, Brunei, Iran, Mauritania, Nigeria, Sudan, Yemen) è persino punita con la pena di morte. Ciononostante in altri paesi a maggioranza musulmana non è più illegale, e in Albania, Libano e Turchia vi sono addirittura discussioni sulla legalizzazione dei matrimoni gay. All’interno dell’ebraismo gli ebrei ortodossi considerano l’omosessualità un peccato e tendono a escludere le persone con tale orientamento, gli ebrei conservatori accettano le persone ma rifiutano la pratica omosessuale, gli ebrei riformisti ritengono l’omosessualità accettabile in tutti i suoi aspetti tanto quanto l’eterosessualità. All’interno del cristianesimo si riproduce la medesima situazione, non solo a seconda delle diverse chiese, ma anche all’interno di una stessa chiesa. I luterani per esempio in Missouri dicono no all’ordinazione, alla benedizione delle coppie, ai matrimoni e persino all’accoglienza tra i fedeli dei gay, mentre in altri stati Usa e in Canada dicono sì su tutte e quattro le questioni. Si può comunque dire che il mondo protestante pentecostale (tra cui avventisti, assemblee di Dio, mormoni, testimoni di Geova) è generalmente contrario ai diritti gay, mentre il protestantesimo storico (tra cui luterani, riformati, anglicani, battisti, valdesi) è più favorevole. La Chiesa cattolica riproduce la medesima dialettica, anche se sbilanciata a favore del no. La dottrina è giunta a dire sì all’accoglienza delle persone gay (cf. Catechismo, art. 2358) ma è ferma nel dire no alla benedizione della coppia e al matrimonio. Tale no si basa sul ritenere peccaminosa ogni forma di espressione omosessuale della sessualità: «Gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati» (art. 2357). Da qui una conseguenza implacabile: «Le persone
omosessuali sono chiamate alla castità» (art. 2359). Più controversa è la posizione sull’ordinazione sacerdotale. In un documento del 2005 della Congregazione per l’Educazione cattolica sull’ammissione in seminario di omosessuali si legge: «La Chiesa, pur rispettando profondamente le persone in questione, non può ammettere al Seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay. Le suddette persone si trovano, infatti, in una situazione che ostacola gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne». Ciò non impedisce tuttavia la presenza di omosessuali tra il clero cattolico e le comunità religiose maschili e femminili, con una percentuale difficilmente quantificabile ma certo non inferiore rispetto alla società, e da molti ritenuta doppia o ancora maggiore. La maggioranza dei fedeli cattolici, soprattutto tra africani e asiatici, condivide l’intransigenza dottrinale, mentre a favore dei diritti gay vi sono specifici movimenti di fedeli omosessuali, non pochi teologi e religiosi, persino singoli vescovi, e qualche giorno fa la Conferenza episcopale tedesca e la Conferenza episcopale svizzera. Ha scritto quest’ultima: «La pretesa che le persone omosessuali vivano castamente viene respinta perché considerata ingiusta e inumana. La maggior parte dei fedeli considera legittimo il desiderio delle persone omosessuali di avere dei rapporti e delle relazioni di coppia e una grande maggioranza auspica che la Chiesa le riconosca, apprezzi e benedica”. In ambito cristiano gli argomenti contro l’amore omosessuale sono due: la Bibbia e la natura. Il primo si basa su alcuni testi biblici che condannano esplicitamente l’omosessualità, in particolare Levitico 18,22-23 e 1Corinzi 6,9-10. Il secondo dice che c’è un imprescindibile dato naturale che si impone alla coscienza al punto da diventare legge, legge naturale, il quale mostra che il maschio cerca la femmina e la femmina cerca il maschio, sicché ogni altra ricerca di affettività è da considerarsi innaturale, espressione o di una patologia o di una vera e propria perversione, cioè o malattia o peccato. Qual è la forza degli argomenti? L’argomento scritturistico è molto debole, non solo perché Gesù non ha detto una sola parola al riguardo, ma soprattutto perché nella Bibbia si trovano testi di ogni tipo, tra cui alcuni oggi avvertiti come eticamente insostenibili. I testi biblici che condannano le persone omosessuali io ritengo siano da collocare tra questi, accanto a quelli che incitano alla violenza o che sostengono la subordinazione della donna. E in quanto tali sono da superare. Per quanto attiene all’argomento basato sulla natura, personalmente non ho dubbi sul fatto che la relazione fisiologicamente corretta sia la complementarità dei sessi maschile e femminile, vi è l’attestazione della natura al riguardo, tutti noi siamo venuti al mondo così. Neppure vi sono dubbi però che anche il fenomeno omosessualità in natura si dà e si è sempre dato. Occorre quindi tenere insieme i due dati: una fisiologia di fondo e una variante rispetto a essa. Come definire tale variante? Le interpretazioni tradizionali di malattia o peccato non sono più convincenti: l’omosessualità non è una malattia da cui si possa guarire, né è un peccato a cui si accondiscende deliberatamente. Come interpretare allora tale variante: è un handicap, una ricchezza, o semplicemente un’altra versione della normalità? Questo lo deve stabilire per se stesso ogni omosessuale. Quanto io posso affermare è che questo stato si impone al soggetto, non è oggetto di scelta, e quindi si tratta di un fenomeno naturale. E con ciò anche l’argomento contro l’amore omosessuale basato sulla natura viene a cadere. Gli argomenti a favore si concentrano in uno solo: il diritto alla piena integrazione sociale di ogni essere umano a prescindere dagli orientamenti sessuali, così come si prescinde da età, ricchezza, istruzione, religione, colore della pelle. Accettare una persona significa accettarla anche nel suo orientamento omosessuale. Non si può dire, come fa la dottrina cattolica attuale, di voler accettare le persone ma non il loro orientamento affettivo e sessuale, perché una persona è anche la sua affettività e la sua sessualità. La maturità di una società si misura sulla possibilità data a ciascuno di realizzarsi integralmente in tutte le dimensioni della sua personalità. Io credo che anche la maturità di una comunità cristiana si misura sulla capacità di accoglienza di tutti i figli di Dio, così come sono venuti al mondo, nessuna dimensione esclusa.

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il cibo è vita quando è condiviso, altrimenti è veleno e morte

perché il pane quotidiano deve essere un diritto di tutti

di Enzo Bianchi
in “la Repubblica” del 19 maggio 2015

Bianchi

Omnia sunt communia: questa affermazione, risalente ai padri della chiesa, è stata la bandiera della rivoluzione di Thomas Müntzer (1489-1525), la “rivoluzione dei contadini”. Dal 1968 riappare periodicamente – così anche poche settimane fa a Milano, in occasione dell’inaugurazione di Expo 2015 – come scritta di protesta. Si può essere sorpresi dalla predicazione ecclesiastica degli ultimi decenni, muta sui temi della giustizia e dell’equità, ma questa affermazione era stata ripresa dal concilio Vaticano II: «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità… L’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni» ( Gaudium et spes 69). Il cibo, che ci dà la vita e senza il quale moriamo, è la prima realtà che va necessariamente condivisa. Oggi siamo consapevoli dell’ingiustizia regnante, dell’assoluta mancanza di equità nella distribuzione delle risorse del pianeta. Si pensi solo che meno del 20% della popolazione possiede l’86% della ricchezza mondiale. La diseguaglianza planetaria, a partire dall’ingiusta ripartizione del cibo, dovrebbe farci provare vergogna. L’abisso sempre più profondo che separa i poveri dai ricchi dovrebbe inquietarci, perché una tale situazione può solo preparare una rivolta dei poveri, una guerra – dai nuovi connotati, ma sempre guerra – tra i privilegiati da un lato e, dall’altro, i bisognosi che non solo ricevono sempre meno aiuti e sono sempre più abbandonati a se stessi, alla miseria, all’ignoranza, alle regressioni tribali che generano violenza tra gli stessi poveri, ma che vengono anche defraudati delle loro terre e delle ricchezze che vi si trovano. I ricchi oggi diventano più ricchi e i poveri più poveri, cresce il numero delle persone obese nel ricco occidente, mentre gli abitanti dell’emisfero sud, dell’Africa, continuano a morire di fame o di malnutrizione. Purtroppo negli ultimi venticinque anni si sono imposti e regnano “dogmi economici” che favoriscono i ricchi e aumentano l’ingiustizia nella società. L’idolo della crescita economica che si pretende inarrestabile; il consumo, anch’esso pensato sempre in aumento per soddisfare una ricerca di felicità falsata; la concezione della naturalità della diseguaglianza, che sarebbe vantaggiosa per tutti: questi sono diventati dogmi poco contraddetti e invece sempre capaci di rendere idolatre e alienate le masse. Per la fede ebraica e cristiana, in ogni caso, Dio è la presenza che non solo chiede equità, ma la impone, «ricolmando di beni gli affamati e rimandando i ricchi a mani vuote» (cf. Lc 1,53), mentre attualmente si crede alla mano invisibile del mercato, pensata come l’artefice assoluto del benessere del pianeta: idolatria, avrebbero gridato i profeti e i padri della chiesa! Abbiamo perduto il senso della grande e decisiva nozione cristiana del bene comune e, con esso, ogni urgenza di giustizia e di equità. La terra è di Dio e su di essa noi siamo solo ospiti e pellegrini ( cf. Lv 25,23); la terra è stata affidata a tutta l’umanità perché fosse lavorata, custodita e potesse dare le risorse necessarie per la vita di tutti gli abitanti del pianeta, umani e animali. Il cibo, il pane, secondo la metafora che lo rappresenta, è di tutti e per tutti. Diceva il pensiero cristiano: «Il “mio” e il “tuo”, queste fredde parole, introdussero nel mondo infinite guerre… Un tempo i poveri non invidiavano i ricchi perché non c’erano poveri, essendo tutte le cose comuni» (Giovanni Crisostomo, Omelia su 1-Cor 1-1,19 2). Ecco da dove sorgono il contrasto, l’inimicizia, la violenza… Oggi è urgente che gli umani riscoprano la communitas la quale, sola, può aiutare i tentativi di equa redistribuzione delle ricchezze del pianeta; è urgente che ritrovino l’idea di bene comune, per la felicità della convivenza; è urgente che si esercitino alla “con-vivialità”, alla condivisione del cibo per ritrovare i legami sociali, la possibilità di instaurare una fiducia reciproca che si traduce in responsabilità l’uno verso l’altro. Non mi dilungo a declinare l’istanza della condivisione del cibo, ma è facile comprendere che non significa solo l’atto finale dello spezzare il pane insieme, seduti alla stessa tavola, bensì  anche il rispetto del lavoro del produttore di alimenti, il riconoscimento del lavoro dei contadini, la sostenibilità sociale ed ecologica, l’instaurazione di un mercato equo e solidale e, all’inizio dei processi, l’affermazione della proprietà comune delle risorse naturali come l’acqua e la destinazione della terra a quanti la lavorano. Il cibo, dunque, è tale quando è condiviso, altrimenti è veleno per chi se lo accaparra e morte per chi non ce l’ha. Il mondo, purtroppo, sembra diviso tra chi non ha fame perché ha troppo cibo e chi ha fame perché non ne ha. In virtù di questa perversa situazione, molti sono esclusi dalla società in cui vivono e diventano ben più che sfruttati: diventano avanzi, scarti, rifiuti… Il paradosso dell’abbondanza in cui credevamo di vivere, con la crisi economica di questi ultimi anni ha mostrato che la miseria può essere tra di noi e colpire qui, nelle nostre terre, uomini e donne che vivono tra la penuria e la fame, faticando ad avere ciò che è necessario per vivere e dovendo così ricorrere all’aiuto di istituzioni caritative. Ripeto, qui in mezzo a noi! Condividere il cibo dovrebbe essere condizione essenziale per poterlo assumere con sapienza e per renderlo causa di festa, trasformandolo da cibo quotidiano in banchetto. Mai senza l’altro, neppure a tavola! Nel Padre nostro non sta scritto: «Dammi oggi il mio pane quotidiano » – suonerebbe come una bestemmia! – ma «Dacci, da’ a tutti noi il pane di ogni giorno (cf. Mt 6,11; Lc 11,3), e così ti potremo chiamare “Padre nostro” e non “Padre mio”»! Permettetemi di ricordarlo: se il pane, bisogno comune, pane per tutti, non è condiviso, allora «le pain se lève», «il pane insorge, si alza in rivolta». Questo è il grido delle rivoluzioni per la mancanza di pane e la fame dei poveri: lo era nel medioevo ma lo è ancora ai giorni nostri (come dimenticare la scintilla che ha scatenato la rivolta tunisina un paio d’anni fa?). Vigiliamo dunque e, soprattutto, decidiamoci a una conversione, a un mutamento dei nostri comportamenti verso il cibo: dobbiamo combattere gli sprechi, sentire come un furto il buttare via il cibo, assumere uno stile di sobrietà, fare le battaglie politiche ed economiche necessarie affinché il cibo sia sempre condiviso. E subito, nel quotidiano, dove ci troviamo, dobbiamo dare da mangiare a chi ha fame, aiutandolo con denaro o invitandolo alla nostra tavola. Sulla condivisione del cibo – dice Gesù – saremo giudicati degni di vivere oppure maledetti, consegnati alla morte: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare … ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare» (Mt 25,35.42). Il rapporto tra sapienza umana e cibo non può eludere il problema della fame e dunque chiede, anzi reclama con forza la condivisione.

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un bel corteo per dire no all’intolleranza e al razzismo

un grande corteo, soprattutto bello, pieno di vita sinta ma anche di volontà di dialogo e di confronto sia con una politica e con una cultura che li accoglie, ma anche con una politica che li tollera o li respinge (sono totalmente falsi  i titoli de ‘il Giornale’ che presentano il corteo come uno snodarsi di odio e volontà di guerra)

il grande corteo

 

guarda il video

 

alla manifestazione, guidata dal presidente dell’associazione nazionale dei Sinti Davide Casadio, circa 400 persone, tra cui anche i senatori Pd Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice, la deputata Dem Sandra Zampa, i centri sociali, tra cui Hobo, e gli attori Ivano Marescotti e Alessandro Bergonzoni

 L’Inno di Mameli eseguito con violini e chitarre,

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svariati cartelloni con su riportati gli articoli della Costituzione, bandiere della pace e subito la deposizione di una corona nell’area dell’ex campo nomadi di via Gobetti il 23 dicembre 1990 la banda della Uno Bianca sparò contro le roulotte uccidendo due persone e ferendone altre. E’ iniziato così il corteo nazionale dei Rom e Sinti che stamattina ha sfilato a Bologna, fino a piazza XX Settembre.

http://nr.news-republic.com/Web/ArticleWeb.aspx?regionid=6&articleid=41846496#.VVjD3E6HbS0.mailto

Alla manifestazione, guidata dal presidente dell’associazione nazionale dei Sinti Davide Casadio, circa 400 persone, tra cui anche i senatori Pd Luigi Manconi e Sergio Lo Giudice, la deputata Dem Sandra Zampa,

Manconi

il capogruppo Pd del Comune di Bologna Claudio Mazzanti, l’assessore comunale al Welfare Amelia Frascaroli, alcuni esponenti di Sel, dell’Altra Emilia Romagna, i centri sociali tra cui Hobo e gli attori Ivano Marescotti e Alessandro Bergonzoni. Sul palco per gli interventi in piazza XX Settembre anche l’ex direttore della Caritas di Bologna Don Giovanni Nicolini.

Ad aprire il corteo uno striscione con la scritta ‘contro il razzismo dello stato, basta ruspe e sgomberi. Casa, lavoro, scuole per tutti’.

contro il razzismo

‘Se mi riconosci mi rispetti’ è lo slogan che ricorre su altri cartelli. “Sono qui a nome del presidente del Sanato Grasso – ha detto Manconi – per portare la nostra solidarietà affinché si affermi che nessuna minoranza può essere perseguitata o discriminata come rischia di essere la minoranza Rom e Sinti”. “Quale oblio e cattiva memoria ha chi parla di spianare i campi” ha aggiunto Manconi, prendendo la parola del palco in piazza e rimarcando che “i diritti o sono di tutti o non sono di nessuno”. Manconi ha poi citato una frase di una canzone di Claudio Lolli “‘oggi ho visto gli amici zingari felici in piazza Maggiore’ – ha detto – questo è quello che posso dire di aver visto oggi”.

A distanza, su via Marconi sotto l’occhio vigile delle forze dell’ordine, la contro-manifestazione di Forza Nuova che, cartelli e tricolore alla mano, ha stazionato lungo il ciglio della strada mostrando cartelli sui cui si leggevano frasi come ‘ti ammali…e io pago’, o ‘accendi la luce e io pago’, per chiedere, in sostanza, che si smetta di spendere soldi pubblici per contribuire ai consumi e alle utenze dei campi nomadi.

Per ribadire la necessità di chiudere i campi è arrivata in città anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni che ha puntato il dito contro “il buonismo” delle politiche a sostegno di Rom e Sinti (http://www.ansa.it/emiliaromagna/notizie/2015/05/16/bologna-partito-corteo-di-rom-e-sinti_c898a9bd-326e-4ed2-9c15-7f79ed972293.html). In opposizione al corteo di Bologna anche la Lega Nord che ha ribadito le sue posizioni in una conferenza stampa nel cortile di Palazzo D’Accursio e Forza Italia che farà un banchetto nel pomeriggio in piazza Galvani. Sulla manifestazione battuta a distanza del leader del Carroccio Matteo Salvini: “Oggi Bologna, tra le altre eccellenze che può offrire la città, ospiterà la manifestazione nazionale dei Rom e dei Sinti, che ovviamente protestano contro l’emarginazione, contro la gente brutta e cattiva che non gli vuole bene, contro la Lega. Questa ostilità è inspiegabile. Perché la gente non vuole avere il campo rom davanti casa che è un luogo di festa, di gioia, di integrazione, di scambio culturale?”.

bandiera

così Silvia De Santis su l’Huffington Post:

  manifestazione dei Sinti italiani contro le discriminazioni degli italiani “Sono più di 100 anni che veniamo discriminati”   

“Sono più di cento anni che subiamo discriminazioni. I messaggi diffusi dalla Lega Nord e dai politici di estrema destra non sono molto diversi da quelli di Hitler e i nazisti. Se andassero al potere, non esiterebbero a ripetere le persecuzioni che già ci sono state nella storia”. Davide Casadio, presidente dell’Associazione Nazionale Sinti italiani, e le comunità che rappresenta hanno deciso di scendere in piazza a Bologna per manifestare contro le discriminazioni subite dal popolo di cui sono anch’essi parte, quello italiano.

ghetti

Inno di Mameli accompagnato da chitarre e violini e articoli della Costituzione stampati su cartelli. Qualche centinaio di persone, tra sinti, rom e studenti, hanno marciato in difesa delle minoranze e contro la xenofobia. Data e luogo per questo appuntamento nazionale – il primo dopo 25 anni – non sono casuali: il 16 maggio 1944, infatti, i prigionieri sinti si ribellarono nel campo di concentramento di Birkenau; nel 1990, invece, la banda della Uno Bianca uccise a Bologna una coppia sinti che dimorava nel campo nomade di via Gobetti (punto di partenza del corteo di oggi). Persero la vita Rodolfo Bellinati e Patrizia della Santina. Al funerale ci andarono in pochi. La città non riservò alle vittime il caloroso abbraccio di altre occasioni. Fecero la loro parte l’indifferenza sociale e il pregiudizio, quello contro cui combattono ancora i sinti italiani.

“La cosa che fa più male è quando i nostri bambini non vengono invitati alle feste di compleanno dei loro compagni e capisci che, in realtà, l’ostilità viene dai genitori” racconta Manuel, 40 anni, padre sinti e mamma rom, oggi commerciante d’auto a Vicenza. “Preferisco non apparire in video, perché potrei perdere alcuni clienti” spiega. “In famiglia è già successo. Mio cugino ha lavorato vent’anni come orafo. Poi un giorno, all’improvviso, il titolare del negozio l’ha mandato via perché aveva letto sul giornale che un uomo con il suo stesso cognome aveva commesso un furto”

 
Tre cartelli avanzano in corteo e recitano gli articoli 2, 6 e 34 della Costituzione, mentre la musica tzigana fa da sottofondo alla marcia per i diritti. “Noi vogliamo solo scuola, lavoro e sanità. Non è vero che occupiamo le case come vogliono far credere Salvini e company. Chiediamo solo delle microaree da acquistare a spese nostre, dove poter posizionare le nostre giostre” dice Vladimiro Torre, presidente dell’Associazione Them Romanò di Reggio Emilia.

“Sono i rom che fin dai tempi del Medioevo hanno portato in giro per il mondo lo spettacolo viaggiante. Siamo stati noi a inventare le giostre e ne siamo orgogliosi. Lavoriamo come tutti gli altri cittadini e per questo vogliamo essere trattati come tali. Non siamo ospiti” rincara Casadio.

Maria è forse l’unica donna sinti presente al corteo. Ha 76 anni e non ha più figli da crescere. Le altre donne sono rimaste a casa ad accudire i bambini mentre i mariti prendevano il bus da Padova, Vicenza, dall’Alto Adige per far sentire la propria presenza a Bologna.
Da Mirandola, Maria è arrivata con uno stuolo di fratelli e suo figlio, che è diventato un pastore evangelico. Dall’alto della sua età “non ho mai capito perché ci discriminano”. dice “È cosi da quando sono nata. Ma il Signore mi è sempre stato vicino. Avevo il vizio del fumo e me l’ha tolto. Quello del bere, e mi ha portato via anche quello. Sono felice di essere arrivata fin qui”.

Il corteo si è concluso in piazza XX settembre, nei pressi della stazione ferroviaria. Sul palco, per le istituzioni, c’era la deputata Pd Sandra Zampa e il senatore Luigi Manconi, presidente della Commissione parlamentare straordinaria per i diritti umani:
“Oggi nell’aria del Paese c’è un certo odio – ha detto – Non qui, ma fuori. Credo di sapere da dove nasce quest’aria di odio: dall’oblio, dalla smemoratezza, dalla cattiva memoria di tanti su ciò che siamo stati. Solo chi dimentica ciò che siamo stati può odiare i sinti e i rom. Ma qualcosa sta cambiando. La violazione di un diritto di uno di voi è una violazione del popolo italiano”.

hanno voluto esprimere la loro solidarietà alla manifestazione dei sinti e dei rom anche gli amici di questo popolo che secondo un’ottica di fede cristiana e dopo una lunga frequentazione e rapporto amicale con esso ritengono di apprezzare e individuare anche in esso qualità  e valori altamente positivi e doni e tracce della presenza di Dio, come in popolo e cultura (U.N.P.R.eS.)amici unpres

 

 

 

 

 

 

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