Italia specchio del mondo – pochi straricchi molti strapoveri

ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri: l’Italia delle diseguaglianze sociali avanza a dispetto della fine della crisi economica e dell’aumento della produttività

la fotografia di un ‘gap’ sempre più accentuato è fornita dal nuovo rapporto della ong Oxfam “Un’Economia per il 99%” sulla distribuzione della ricchezza netta in Italia nel 2016, in occasione del World Economic Forum di Davos.

Squilibri distributivi

Una rielaborazione basata su dati, modello econometrico e metodologia di stima utilizzati da Credit Suisse che riporta drammatici squilibri distributivi ed eccessi nella concentrazione della ricchezza. Nel 2016 la distribuzione della ricchezza nazionale netta (il cui ammontare complessivo si è attestato, in valori nominali, a 9.973 miliardi di dollari) vedeva il 20% più ricco degli italiani detenere poco più del 69% della ricchezza nazionale, un altro 20% controllare il 17,6% della ricchezza, lasciando al 60% più povero dei appena il 13,3% di ricchezza nazionale.

Quasi tutto in mano a pochi

Risultato il 10% top di tutti i ricchi italiani oltre 7 volte la ricchezza della metà più povera della popolazione. Non solo: la ricchezza dell’1% dei Paperoni italiani (in possesso oggi del 25% di ricchezza nazionale netta) è oltre 30 volte la ricchezza del 30% più povero dei nostri connazionali e 415 volte quella detenuta dal 20% più povero della popolazione italiana. La classifica di Forbes dei primi sette miliardari nazionali (in tutto 151 nella famosa lista) equivaleva alla ricchezza netta detenuta dal 30% più povero della popolazione.

Il surplus in mano ai soliti

Oxfam ha anche ricostruito e analizzato la distribuzione del surplus di reddito pro capite registrato nel periodo 1988-2011 su scala globale. Quasi il 46% dell’incremento del reddito disponibile pro-capite globale è stato appannaggio del 10% più ricco della popolazione mondiale a fronte di appena il 10% ricevuto dalla metà più povera della popolazione del pianeta. I dati italiani rivelano per il periodo in esame un incremento complessivo del reddito nazionale pari a 220 miliardi di dollari (a parità del valore di acquisto nell’anno di riferimento 2005).

Come per la ricchezza, anche per il reddito disponibile pro-capite nazionale quasi la metà dell’incremento (45%) è fluito verso il top-20% della popolazione, di cui il 29% al top-10%. In particolare, il 10% più ricco della popolazione ha accumulato un incremento di reddito superiore a quello della metà più povera degli italiani. La sperequazione desta ancor più allarme se ci si sofferma sulla quota di incremento del reddito ricevuta nell’arco degli oltre vent’anni in esame dal 10% più povero dei nostri connazionali: un risicato 1% corrispondente ad appena 4 dollari pro-capite all’anno. Lo studio Oxfam sottolinea anche che l’aumento della produttività del lavoro non ha affatto determinato un miglioramento per la fascia più povera della popolazione. Dal 1999 al 2013 (ultimo anno in cui il dato è disponibile) la crescita dei redditi da lavoro salariato (su scala globale e in termini reali) è risultato infatti in netto ritardo sull’aumento della produttività del lavoro.

Più produttività non dà più salario

Un dato che evidenzia come la crescita della produttività e un aumento di output globale non si traducono necessariamente in un incremento proporzionale delle retribuzioni dei lavoratori. Una conferma arriva anche dai dati Eurostat secondo cui i livelli retributivi non solo non ricompensano adeguatamente gli sforzi dei lavoratori, ma risultano sempre più spesso insufficienti a supplire alle necessità dei singoli e delle famiglie. Non ne è esente il continente europeo, pur essendo tra le regioni con i redditi più alti al mondo.

L’Italia, in particolare, con un tasso di occupati a rischio di povertà pari nel 2015 a 11,5% dell’intera forza lavoro nazionale in età compresa fra i 15 e i 64 anni, è sotto di ben due punti percentuali alla media europea (9,5%) stimata nel 2015.

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rischiamo il carcere ma vogliamo ugualmente aiutare i profughi

migranti

nella valle degli angeli che accolgono i profughi

“noi qui li aiutiamo e rischiamo il carcere”

di Massimo Calandri
in “la Repubblica” del 13 gennaio 2017


Teresa è una giovane maestra di origine italiana. La sua prima volta è stata la primavera scorsa. «Ero in auto coi miei bambini. Ho incrociato la gendarmerie, poco dopo ho intravisto tre ragazzini nascosti dietro un albero. Terrorizzati». Ha accostato, aperto la portiera. «Presto, salite. Vi porto a casa». Li ha ospitati una settimana. «Mi chiamavano mamma, avevano 16 anni». Un mese più tardi i tre erano mille chilometri più lontano. Calais. «Un giorno mi hanno scritto su Facebook. Da Liverpool. Avevano raggiunto i parenti, ce l’avevano fatta». Da allora, Teresa ha accolto non meno di venti migranti. In questi giorni a casa ne nasconde due, fratello e sorella, eritrei, anche loro minorenni, entrati in Francia dopo essere sbarcati in Italia da qualche settimana. Poi c’è Thibaut, contadino. Lui ha cominciato un anno fa: «Anche io li ho trovati sulla strada, subito dopo il confine. Pioveva fitto. Avevano freddo, morivano di fame. Lo sapevo che era un reato, che avrei dovuto segnalarli alla polizia: ma voi non avreste fatto lo stesso?». Gibì, pensionato, è stato arrestato venerdì scorso con altri 3 compaesani: rischiano 5 anni di galera e 35.000 euro di multa secondo la “legge Sarkozy”, che punisce chi agevola l’ingresso o la circolazione di immigrati irregolari. «Ne stavamo accompagnando un gruppo verso una stazione ferroviaria più sicura, ormai non potevano più restare lì dove li avevamo messi». Josianne, allevatrice, racconta che è normale: «Qui nella valle è sempre successo: un secolo fa ospitavamo i migranti italiani che andavano a lavorare a Nizza, a Marsiglia. Una mia bisnonna ne sposò uno. Nel dopoguerra siamo stati noi, da sfollati, ad essere accolti a Torino. Partigiani dell’umanità. E la storia continua». La storia della Val Roia, risalendo il fiume che sfocia a Ventimiglia nei pressi della frontiera. Sei piccoli Comuni francesi abbarbicati sulle montagne (Tenda, Briga, Saorge, Fontan, Sospel, Breilsur-Roya) per meno di seimila abitanti in tutto, un’enclave aspra e solidale come questa terra. Che dal 2015, da quando sono ripresi i controlli alle frontiere, infischiandosene della legge e della possibile galera ospita nelle proprie case migliaia di persone. Migranti. Uomini, donne, soprattutto minori che in attesa di chiarire la loro posizione non dovrebbero lasciare il Paese europeo dove sono stati identificati – l’Italia -, invece varcano comunque il confine in cerca di un’altra vita. Per evitare gli stretti controlli lungo i varchi a ridosso del mare, percorrono a piedi la Statale 20 parallela al fiume o se ne vanno per i binari del treno che viaggia verso Cuneo. E dopo cinque ore di cammino ecco la Francia, i boschi rocciosi delle Alpi Marittime, però non lontano dal Colle di Tenda e nuovamente dal territorio italiano, dove a volte nel loro disperato peregrinare finiscono per errore, sfortuna, destino. «Vado a Parigi ». «Londra». «Stoccolma».

I ragazzi li incontri a tutte le ore percorrendo la statale: si confessano con una ingenuità disarmante, un’insopprimibile luce di ottimismo nello sguardo. Per i gendarmi è un gioco prenderli, riportarli in Liguria. Ma il giorno dopo ecco che tornano a camminare verso nord, cocciuti. Fino a quando non passa qualcuno come Teresa, Thibaut, Gibé, Josianne. Qualcuno che li nasconde, li cura, li sfama, dà loro vestiti e nuova speranza. Per un paio di settimane al massimo. In qualche modo, quelli della valle riescono poi a farli salire su di un treno diretto verso la capitale. «E dopo, si vedrà». Cedric Herrou, che vive a Breil, è diventato il simbolo della valle. L’altra settimana il tribunale di Nizza lo ha condannato a 8 mesi con i benefici di legge. Per “trasporto di migranti” che aveva anche ospitato nella sua cascina. «Continuerò a farlo. Cioè, a fare il mio mestiere: l’agricoltore, quello che dà da mangiare alla gente. Senza preoccuparsi del colore della pelle o dei documenti». Nello stesso giorno è stato assolto un professore universitario di Nizza, Pierre-Alain Mannoni, che a sua volta aveva dato un passaggio dal Roia oltre la frontiera a tre giovani eritree: «Il giudice ha citato la convenzione dei Diritti dell’Uomo, sostenendo che era un mio dovere aiutare delle persone in pericolo». Però la Procura ha presentato appello. Qualche ora più tardi, a Sospel, la polizia ha  fermato 3 auto con a bordo 9 migranti (ma una è riuscita a passare): Gibì e Dan, più due amici, sono stati fermati. Gli stranieri che erano con loro, rispediti in Italia. «Siamo stati rilasciati dopo 24 ore. E nel frattempo alcuni dei ragazzi erano già di nuovo dalle nostre parti».

In questa regione, Provenza-Costa Azzurra – si vota l’ultradestra. Ma non nella Val Roia e meno che mai a Saorge, la “rossa”. Le notizie degli arresti – e qualche delazione, dicono, perché c’è sempre una pecora “nera” – non hanno spaventato nessuno, anzi. “Roya Citoyen”, associazione che distribuisce alimenti e vestiti ai rifugiati – assicurando ogni giorno 200 pasti a chi è rimasto a Ventimiglia – ha cominciato a ricevere aiuti da tutta la Francia. E altri ancora aprono la porta di casa. «A volte accade che in famiglia non si sia tutti d’accordo. Allora, quando il marito in quel momento non c’è, ecco che la moglie ospita qualcuno, o viceversa. Tanto, il coniuge che torna non ha mai il coraggio di mandarli via», spiega Elisabetta. Che non ha paura a parlare, o a farsi fotografare. «Non mi interessa la politica, non faccio parte di movimenti. Come gli altri, non ho una soluzione per quello che accadrà domani. Ma so che devo fare qualcosa per questi ragazzi. Ora. E non credo proprio di violare la legge, anzi. L’umanità non è un delitto».

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il vangelo della domenica commentatato da p. Maggi

ECCO L’AGNELLO DI DIO, COLUI CHE TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO

commento al vangelo della seconda domenica del tempo ordinario (15 gennaio 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 1,29-34

In quel tempo, Giovanni, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo”. E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

Nel libro dell’Esodo, la notte della liberazione dalla schiavitù egiziana per iniziare il lungo percorso, il cammino verso la terra della libertà, Mosè chiede, ad ogni famiglia, di mangiare un agnello. La carme dell’agnello avrebbe dato la forza per iniziare questo percorso di libertà, e il sangue, asperso sugli stipiti delle tende, delle porte, li avrebbe salvati dall’ angelo della morte. L’evangelista Giovanni presenta Gesù come questo agnello, l’agnello pasquale, la cui carne darà la capacità all’uomo di liberarsi dalle tenebre, per elevarsi verso la libertà, e il cui sangue assimilato lo libererà non tanto dalla morte fisica, ma dalla morte per sempre. Leggiamo come l’evangelista Giovanni ci presenta tutto questo, al capitolo primo, versetti 29-34. “Il giorno dopo”, l’ evangelista continua la sua datazione, questo il secondo giorno, perché vuole arrivare, nell’episodio delle nozze di Cana, al settimo giorno, la pienezza della creazione, con il cambio dell’alleanza, “il giorno dopo, vedendo Gesù”, è la prima volta che Gesù appare soltanto con il nome, prima nel prologo era Gesù messia, “venire verso di lui, disse: «ecco”, letteralmente guardate, quindi richiama l’attenzione dei presenti, “ecco l’agnello di Dio”, ecco l’evangelista presenta Gesù come l’agnello di Dio, colui che deve portare a compimento questa liberazione. L’agnello di Dio per Giovanni Battista è “colui che toglie il peccato del mondo”. Anzitutto l’evangelista non dice che quest’ agnello espia il peccato del mondo, e non si tratta dei peccati del mondo al plurale, che potrebbe dare la sensazione dei peccati degli uomini, ma è un peccato del mondo, un peccato che precede la venuta di Gesù. Cos’è questo peccato ? Questo peccato è il rifiuto della vita che Dio comunica, un rifiuto dovuto, a causa di false ideologie, anche religiose, che impediscono alla luce dell’amore di Dio, di arrivare verso l’uomo. Ecco il compito di quest’ agnello, e poi l’evangelista ci dirà anche come lo farà, è quello di estirpare, eliminare questo peccato, che, come una cappa di tenebre, opprime il mondo. “Egli è colui del quale ho detto: “dopo di me viene un uomo”, questo agnello, che deve liberare il mondo da questo peccato, ora viene presentato come un uomo. L’evangelista non presenta un’immagine di potenza, avrebbe potuto presentare il messia come il leone di Giuda, no come l’agnello, l’immagine della mitezza, e ora non lo presenta come una persona rivestita di cariche  religiose o altro, ma un uomo. Nell’umanità di Gesù si manifesta la pienezza della divinità. “Che è davanti a me, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele»”.  A quale Israele ? Tra i profeti ce n’era uno, Sofonia, che aveva riportato questa parola del Signore, questa promessa: “Farò restare in mezzo a te un popolo umile e povero, un resto di Israele che confiderà nel nome del Signore”.
C’è stata una parte di Israele che è sempre stata fedele all’ alleanza, ed è a questa che il Signore si rivolge. “Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere”, l’articolo determinativo richiama alla totalità, alla pienezza. Lo Spirito cos’è ? Lo Spirito è energia vitale. Nel momento del battesimo, come risposta all’impegno di Gesù di manifestare visibilmente l’amore del Padre per l’umanità, il Padre gli comunica tutto quello che Lui è, tutta la sua pienezza d’amore, lo Spirito. Questo “Spirito discendere come una colomba dal cielo”, l’immagine della colomba ha un duplice significato: il richiamo al libro del Genesi, dove al momento della creazione lo Spirito aleggiava sulle acque, sul caos, quindi Gesù viene presentato come il compimento di questa creazione, ma soprattutto al proverbiale amore della colomba per il suo nido. Gesù viene presentato come il nido dello Spirito, la dimora permanente dello Spirito. Infatti dice: “come una colomba dal cielo e rimanere su di lui”. È importante questo aspetto e l’evangelista poi ci ritornerà: non basta che lo Spirito discenda su una persona. Per poter essere poi comunicato, trasmesso agli altri, bisogna che questo Spirito rimanga su questa persona, e su Gesù ci rimane. Quindi Gesù è la dimora permanente dello Spirito, cioè la manifestazione visibile di Dio, la presenza di Dio sulla terra. “Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: “Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito”, l’evangelista ci ripete quindi questa discesa, soprattutto questo rimanere dello Spirito, di nuovo con l’articolo determinativo, la totalità, la pienezza di Dio, “è lui che battezza nello Spirito Santo”. L’evangelista mette un parallelismo tra colui che toglie il peccato del mondo, come toglie questo peccato del mondo, lo dice: è colui che battezza nello Spirito Santo. Già nel prologo, l’evangelista aveva detto che la luce non combatte contro le tenebre, la luce splende nelle tenebre, e le tenebre si dileguano. E così questo peccato, che grava sull’umanità, non va combattuto, ma va eliminato, va estirpato. Come? Dice l’ evangelista “è lui che battezza nello Spirito Santo”. L’attività di Gesù sarà immergere, battezzare, impregnare, e battezzare nell’acqua significa essere immersi in un liquido esterno. Battezzare nello Spirito Santo significa una penetrazione nell’intimo dello Spirito, la forza d’amore di Dio. Qui questa volta questo Spirito viene definito Santo, non soltanto per la sua qualità eccelsa, divina, ma per la sua attività di santificare, di separare. Chi accoglie Gesù e il suo messaggio, riceve da Gesù il suo Spirito, la sua stessa capacità d’amare, che progressivamente lo allontana dalla sfera del male, quindi questa penetrazione dello Spirito di Dio nell’uomo. “E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Quello che prima era stato presentato come l’agnello di Dio, e poi come uomo, ora viene presentato come il figlio di Dio. Dal momento che in Gesù discende lo Spirito di Dio, in Gesù c’è la pienezza della condizione divina, che non sarà un privilegio che lui riterrà esclusivo, ma sarà una possibilità che comunicherà a tutti quanti lo vogliono seguire.

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il senso del natale per il gruppo dei ‘preti del nord est’

restare umani… oltre le paure

di Gruppo di preti del nord est*
in “www.centrobalducci.org”

la lettera di Natale 2016 per condividere esperienze, riflessioni, interrogativi, stanchezze, delusioni, speranze; per ridire la possibilità della fede in Gesù di Nazareth come orientamento di fondo della vita vissuta nelle comunità e oltre ad esse.

LE RELAZIONI UMANE

La dimensione e l’esperienza che continuiamo a vivere e a sentire come fondamentali sono le relazioni con le persone: l’attenzione, l’ascolto, la condivisione, la reciprocità. Complessità, disponibilità, dolori, speranze di tante storie ci coinvolgono, ci addolorano, ci comunicano profondità e ricchezze; ci danno la forza interiore di riprenderci e di continuare perché in questo intreccio di relazioni percepiamo la presenza di Colui che ci ha proposto di riconoscerlo nelle persone, soprattutto in quelle che esprimono fragilità, debolezze, ferite, senso di esclusione e di abbandono. Solo riconoscendo le nostre fragilità, debolezze, stanchezze possiamo incontrare in modo veritiero quelle altrui che favoriscono in noi la verità profonda su noi stessi. Questa costante esperienza quotidiana è collocata nella storia delle nostre comunità locali dalle quali, a cerchi concentrici che si dilatano, si apre la dimensione planetaria di un’umanità e di un ecosistema sempre più interdipendenti.

 
ALCUNE GRANDI QUESTIONI CHE CI PROVOCANO E CI INTERPELLANO

 
I migranti

Gli incontri, i dati, le nostre esperienze dirette, le riflessioni ci portano a considerare il fenomeno dei migranti non rilevante fra gli altri, bensì quello dirimente; la chiave di lettura interpretativa dell’attuale storia dell’umanità.
• Il fenomeno migratorio che ha sempre caratterizzato la storia, oggi ha assunto una caratteristica planetaria a partire dalla constatazione dei 65 milioni di persone, tanti i minori, che sono in cammino forzato sul Pianeta.

• I migranti ci rivelano le situazioni del mondo: la povertà, le violenze e la violazione dei diritti umani, le guerre, i disastri ambientali, il più delle volte provocati dal potere dei molti soldi nelle mani di pochi. Arrivando fra noi, i migranti ci rivelano chi sono: diversi per cultura e fede religiosa. Questa loropresenza ci provoca a liberarci dalla convinzione secolare che ha identificato il mondo con il “nostro” mondo e che ha indotto a considerare gli altri mondi comunque inferiori e quindi da poter dominare, opprimere e sfruttare.

• I migranti, allo stesso tempo, ci ricordano chi siamo stati. Il nostro mondo si chiama fuori dalle gravi responsabilità nella storia passata e recente nei loro confronti, come se loro stessi fossero causa dei loro esodi costretti. Volutamente, con ignoranza consapevole e colpevole, dichiariamo la nostra innocenza e con ipocrisia proponiamo, ora che arrivano da noi, di intervenire nei loro paesi per fermarne i flussi. Riflettendo sulle esperienze quotidiane di accoglienza, cercando di leggere la realtà, avvertendo la complessità di questa grande, dirimente questione ci sentiamo di dire che manca un progetto mondiale, europeo, italiano e regionale che assuma contemporaneamente due finalità: intervenire sulle cause strutturali delle forzate partenze e predisporre un piano di accoglienza e di inserimento nelle nostre società. L’Italia e la regione FVG rispondono in modo parziale alla prima accoglienza eppure, anche se arduo, sarebbe un compito indispensabile per non favorire indifferenza, paura, antagonismi e rifiuti.

• Interrogativi, perplessità e paure sono comprensibili, espressione di un contesto sociale, culturale, umano e religioso segnato da difficoltà personali e relazionali, economiche, etiche e politiche. Le paure, soprattutto, sono un vissuto da riconoscere e su cui riflettere; non sono da sminuire ed esorcizzare. Esigono risposte credibili. Molte situazioni di rifiuto che fanno capo a ideologie di stampo razzista non suscitano purtroppo indignazione perfino nel nostro mondo cattolico: si tratta di una situazione che ci interroga sul mutamento profondo del modo di pensare e di comportarsi.

• Non abbiamo la capacità di indicare progetti concreti di grande scala. Operiamo entro contesti ristretti, ma nel piccolo, per come ci è possibile, cerchiamo di vivere l’accoglienza delle persone che fanno fatica, senza distinzioni fra residenti e immigrati. Per quanto riguarda gli immigrati, riteniamo che lo Stato e la Regione dovrebbero orientarsi a progetti d’inserimento lavorativo in zone spopolate e abbandonate dove è necessaria la presenza di persone e un impegno lavorativo che riguardi l’ambiente, l’agricoltura, l’allevamento, la lavorazione dei prodotti; e questo coinvolgendo insieme italiani e stranieri. Si pensi, ad esempio, alle zone di montagna del pordenonese, della Carnia, delle Valli del Natisone. Ci permettiamo ancora di indicare la necessità dell’indispensabile e continua formazione culturale, etica, spirituale all’incontro e alla relazione con l’altro, con ogni altro: e questo nei vari ambiti e situazioni fra cui la scuola assume un’importanza particolare.

• Il fenomeno migratorio esige una considerazione globale sugli oltre 5 milioni di migranti che si sono inseriti, spesso con grandi sacrifici, nei decenni scorsi nel nostro Paese, arricchendoci culturalmente, demograficamente ed economicamente.


I poveri

I problemi reali nelle nostre città sono tanti e di varia natura. È paradossale che quello delle strade da “ripulire” dalla povera gente appaia il principale impegno da affrontare per un’amministrazione pubblica. Si sente parlare, per di più in maniera abbastanza clamorosa, di amministrazioni comunali che decidono (novelli Rudy Giuliani) di “fare pulizia” nella propria città. Ciò che più preoccupa, è che il termine venga riferito alla presenza ingombrante di gente ai margini, povera, indicata come mendicante, immigrata, che “importuna” con la questua, presenze scomode che “deturpano” (sic) i siti urbani più adatti a una presentazione della città in modo adeguato che a ospitare visioni… puzzolenti di gente che trascina la propria disgrazia, non raramente ostentata attraverso vere o false menomazioni.
Si amplificano le tinte, si esaspera la rappresentazione degli scenari: le amministrazioni reagiscono minacciando sanzioni, multe, repressione e non raramente forme di “deportazione urbana”. Le minacce si estendono dalla povera gente questuante agli occasionali donatori di elemosine che per vari motivi decidono di aiutare la persona in difficoltà. Senza negare che qualche provvedimento vada preso, crediamo sia giusto non minacciare in maniera plateale e spesso a scopi elettoralpropagandistici, ma farsi carico, in quanto amministrazione pubblica, del problema della povertà diffusa allo scopo di risolverlo. Far rispettare la legge e contemporaneamente rispettare la dignità delle persone: sono due doveri che non possono venire scissi. Leggiamo sempre più spesso che gli amministratori locali, per giustificare l’intervento repressivo, accampano la presenza di un vero e proprio racket alle spalle dei questuanti. Si tratta di fatti concreti o di voci che ad arte vengono amplificate per motivi anche elettoralmente non proprio nobili? Se la presenza criminale è accertata, l’Amministrazione Comunale, custode e garante della legalità, si rivolga alle forze dell’ordine, alla Procura della Repubblica, presenti formale e documentata denuncia dei fatti; non si accanisca contro l’ultimo anello della catena. La persona rimane tale e la sua dignità richiede di essere rispettata in tutte le circostanze soprattutto in quelle di maggior fragilità. I cristiani che in qualche modo aderiscono al messaggio evangelico, non possono dimenticare che Francesco, il vescovo di Roma, ha definito, in linea con il Maestro di Nazareth, che i poveri «sono la carne di Cristo». Una città che vuol spazzar via i poveri si troverà a breve impoverita dei valori che l’hanno, negli anni, caratterizzata. Certamente le povertà sono tante e diffuse: materiali, relazionali, culturali, economiche, etiche. Drammatiche sono le perdite del lavoro e la ricerca che non trova riscontri positivi. E questo ha ricadute preoccupanti sull’identità stessa e sul senso della vita delle persone.
La violenza

La violenza ci attraversa e può insinuarsi in noi e negli altri. Si esprime in modo implicito ed esplicito, brutale in parole, atteggiamenti, azioni anche nei confronti di chi si dichiara di amare. Avvertiamo l’importanza di studiare costantemente la dinamica della distruttività disumana che oggi trova eco ampia e incontrollata sui social media come facebook e di sollecitare e partecipare a processi educativi volti alla liberazione dalla aggressività con scelte di non violenza attiva, con parole, gesti e azioni di pace. La guerra è la massima manifestazione della violenza, la sua brutale e distruttiva organizzazione. Ricordiamo l’insegnamento chiaro ed esplicito di papa Francesco che finalmente ha liberato Dio da qualsiasi possibile utilizzo per legittimare la guerra e ogni forma di terrorismo.
Il rapporto con la Terra e con i viventi

L’Enciclica Laudato sii di Papa Francesco è un documento straordinario per denuncia, coinvolgimento, prospettiva, richiesta d’impegno: il mondo com’è organizzato ora è destinato alla morte! Il superamento dell’antropocentrismo, dell’assoluto della scienza e della tecnica, dell’onnipotenza della finanza diventa possibile con l’assunzione di un nuovo paradigma: quello della prossimità, del sentirci, cioè, parti vive di un unico sistema vivente in cui tutto e tutti sono in relazione. Esprimiamo il nostro dispiacere constatando che un testo così significativo – anche perché frutto del concorso e della collaborazione di tante persone competenti sia pressoché sparito dai progetti delle diocesi e delle parrocchie: speriamo non dai corsi di teologia. A nostro avviso questa Enciclica dovrebbe essere oggetto di studio e riflessione nelle scuole, con la mediazione soprattutto degli insegnanti di religione.
LA CHIESA NEL MONDO

La diminuzione drastica e inarrestabile dei preti dovrebbe sollecitare a percorrere altre strade, ad aprirsi ad altre possibilità con una decisione prioritaria, irrinunciabile che, ad enunciarla, potrebbe sembrare scontata, ma tale non è: quella del ritorno sine glossa, senza parentesi, adeguamenti, facilitazioni e scorciatoie al Vangelo di Gesù di Nazareth, alla rivoluzione del Vangelo, perché tale è, e a scelte di vita conseguenti come persone, come comunità, come Chiesa. Quale Chiesa, allora, nel momento dell’accorpamento delle parrocchie, delle decisioni sulle zone e sulle cosiddette collaborazioni pastorali? Ci pare che si sia perso tempo, con la chiusura nelle tradizionali ma presunte sicurezze clericali di essere sicuri, bravi ed efficienti. Si sono persi decenni senza promuovere e riconoscere il protagonismo attivo di donne e di uomini di fede disponibili e responsabili, di diaconi – donne e uomini – che oggi potrebbero assumere, senza essere pallide e conformiste controfigure del clero, compiti significativi di guida, animazione, coordinamento delle esperienze comunitarie. Avvertiamo ancora titubanze e freni anche rispetto alle celebrazioni delle comunità senza la presenza del prete; eppure si tratta di esperienze che sono vissute da decenni in migliaia di comunità in Africa, America Latina e altrove nel mondo. Pensiamo poi che le urgenze storiche sollecitino le convinzioni e le richieste che da decenni emergono dalla base delle comunità cristiane, uscendo da una visione clericale e separata del presbiterato: che i diversi ministeri nelle comunità siano diversificati in modo aperto e pluralista e che il ministero del presbiterato possa essere esercitato da uomini celibi, da uomini sposati nelle  condizioni di poter essere ordinati, da preti che si sono sposati e a motivo della legge del celibato obbligatorio hanno dovuto lasciare il loro ministero ma sentono giusto e importante poterlo esercitare nuovamente; da donne ordinate prete. Soprattutto queste ultime potrebbero portare alla comunità, come tante di loro già fanno senza riconoscimento ufficiale, la ricchezza della loro diversità di genere. Questa Chiesa sarebbe più umana, più coinvolta nella vita delle persone, più credibile, certo sempre in stretto, continuo e vivo rapporto con Gesù e il suo Vangelo e con la fedele e coerente testimonianza.
CHI E CHE COSA PUÒ SALVARCI?

Coinvolti in questa situazione complessa e tribolata, in cui non mancano certo i segni di speranza che incontriamo nelle esperienze di sensibilità e di pratica del bene, ci chiediamo coinvolgendo anche voi nella domanda e nella ricerca di risposta: «Chi e che cosa potrà salvarci? Come, lentamente ma progressivamente, ne usciremo?». Il pensiero, la scienza, la tecnica sono stati straordinari, sono indispensabili e hanno contribuito e contribuiscono a tante situazioni umane positive. Guardando le situazioni drammatiche del mondo attuale dobbiamo però constatare che non ci salvano: non ci salvano dalla fame, dalle guerre, dalle migliaia di morti in mare, dalla distruzione dell’ambiente vitale. E questo, soprattutto, perché si sono configurate come concentrazione di potere, perseguendo un’illusione di onnipotenza e perché non hanno saputo convertire la ricchezza delle loro scoperte e realizzazioni al servizio umile e disinteressato del bene comune. Da questa indispensabile verifica etica escono giudicate molto severamente.

Potrà salvarci la fede?

La fede è fiducia e affidamento nel Dio di Gesù che ci salva: in una reciprocità gratuita di amore da Lui donato, da noi vissuto e comunicato agli altri. La fede può salvarci se noi, sentendoci salvati, portiamo segni di salvezza nella storia: «Il Regno di Dio è in mezzo a voi, è dentro di voi», non in un aldilà di proiezioni consolatorie. L’apostolo Paolo nella lettera ai Corinzi, nella pagina definita “l’inno all’amore” conclude con un’espressione profonda, provocatoria e coinvolgente: «Ci sono quindi tre cose che contano: la fede, la speranza e l’amore, ma più grande di tutte è l’amore». La fede senza amore può diventare facilmente spiritualismo astratto, istituzione di potere, ritualismo vuoto. Solo l’amore sollecita la fede a farsi concreta prossimità, a incarnarsi nella storia per contribuire a renderla più umana. La speranza senza amore può essere illusione temporanea, volontarismo affannoso; l’amore rende consistente la speranza che, così, può esprimere parole e gesti di bene, riprendendo energia e forza interiore dopo sconferme, stanchezze e avvilimenti. L’esperienza ci insegna che la speranza rifiorisce quando incontriamo donne e uomini che, animati dall’amore, ci comunicano il bene che, entrando in noi, riavvia energie e dinamiche positive di vita. Accogliamo l’amore di Dio con gratitudine e con la disponibilità a condividerlo con gli altri; a ricevere la loro ricchezza umana e a comunicare la nostra. Con umiltà, amore, resistenza, pazienza attiva e perseveranza, continuiamo il nostro cammino con tutta l’umanità, attenti ai segni che incoraggiano speranza e apertura. Ne ricordiamo uno che può diventare esemplare. Una bambina di sette anni in un incontro pubblico a scuola racconta la sua esperienza; la mamma è cristiana e il papà musulmano; la invitano con serenità e delicatezza a cominciare a considerare la scelta fra le due religioni. Lei risponde che vorrebbe sceglierle tutte e due. Mamma e papà le dicono che non è possibile, mentre lei sente che può esserlo. Un’intuizione straordinaria, certo legata alla relazione affettiva con i genitori, ma che prospetta l’accoglienza della bontà dei principi ispiratori di religioni diverse e soprattutto la loro attuazione nella storia con la fedeltà e coerenza di vita.
* I preti firmatari: Pierluigi Di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Pierino Ruffato, Paolo Iannaccone, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Renzo De Ros, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Albino Bizzotto, Antonio Santini.

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solo i migranti risolveranno la crisi europea

perché i migranti sono la soluzione (non il problema) della crisi europea

di Guido Viale
in “il manifesto”

Fermare il flusso dei profughi dall’Africa e dal Medioriente è impossibile. E’ un fenomeno che durerà decenni. Forse è possibile contenerlo e renderlo in parte reversibile. Ma bisogna aggredirne le cause: guerre, cambiamenti climatici, rapina delle risorse, sfruttamento. Ci vogliono risorse ma i soldi sono il meno. Ci vogliono programmi di pacificazione e riqualificazione di quei territori: porre fine alla vendita di armi e bloccare interventi e progetti che devastano territori e comunità. L’opposto di quanto proposto da Renzi con il migration compact: un documento che le armi non le nomina nemmeno, mentre ne prosegue a pieno ritmo la vendita, e vorrebbe affidare la rinascita di quei paesi alle multinazionali. Le due che nomina sono Eni ed Edf, la società petrolifera italiana responsabile dello scempio nel delta del Niger e la società elettrica francese che alimenta le sue 56 centrali nucleari con l’uranio estratto schiavizzando il Niger.

C’è un problema ancora più a monte: chi può promuovere la pacificazione del proprio paese e la riqualificazione del suo territorio? Le popolazioni se ne avessero la capacità e la forza lo avrebbero già fatto. Meno che mai le potenze che guerre e devastazioni le stanno alimentando. Possono farlo le comunità migranti già insediate da noi e i tanti profughi che sono riusciti a varcare i confini della “fortezza Europa”. Molti di loro, soprattutto chi è fuggito da una guerra, vorrebbero fare ritorno nei loro paesi di origine se solo ce ne fossero le condizioni. Molti altri sono pronti a farlo in un contesto di collaborazione tra paesi di origine e paesi di arrivo. Tutti comunque conoscono territori e comunità di origine meglio di qualsiasi cooperante europeo. La rinascita dell’Africa e del Medioriente avrà un riferimento irrinunciabile nelle comunità già presenti in Europa, una volta messe in grado di organizzarsi e di far sentire la loro voce, o non sarà. Per questo il modo in cui profughi e migranti vengono accolti, inseriti e valorizzati è l’unico modo serio per gestire un processo che l’Europa non sa affrontare; ma che la frantuma e la contrappone al mondo in fiamme da cui è circondata. L’Europa dovrà confrontarsi con un terrorismo che viene dall’esterno, ma che recluta i suoi adepti soprattutto tra le comunità migranti già insediate al suo interno. Respingere i profughi nei paesi di origine o di transito significa rispedirli tra le braccia delle forze da cui hanno cercato di fuggire, rafforzarne le file, offrire carne da macello al loro reclutamento. Trattarli come un corpo estraneo o un nemico significa promuovere il reclutamento di nuovi terroristi. Anche in questo caso la strada da seguire passa per le comunità già presenti o in arrivo in Europa. Parlano le stesse lingue, ne conoscono abitudini e atteggiamenti, frequentano o incrociano facilmente i connazionali che stanno imboccando la strada dello stragismo. Possono individuarli o bloccarli meglio di qualsiasi apparato di “intelligence”, che certo non ha da restare con le mani in mano. O, viceversa, possono essere, con una tacita connivenza, il loro brodo di coltura. La lotta contro il terrorismo passa inevitabilmente attraverso l’instaurazione di rapporti solidali con le comunità migranti.

Altre strade non ci sono. Chi prospetta i respingimenti come soluzione di entrambi i “problemi”, profughi e terrorismo – presentandoli per di più come legati, mentre non c’è maggior nemico del terrore di chi è fuggito da una guerra o da una banda di predoni – inganna sé e il prossimo. Un blocco navale per riportarli in Libia? Bisognerebbe conquistare anche tutta la costa libica, come ai tempi di quell’Impero che chi prospetta questa soluzione forse rimpiange. E poi gestire in loco i campi di concentramento; o di sterminio. O affidarsi a un accordo con le autorità locali, che per ora non hanno alcun potere né alcun interesse ad assumere un ruolo del genere se non lautamente retribuiti (come la Turchia). Per poi minacciare in ogni momento di aprire le dighe (come aveva  fatto a suo tempo Gheddafi e come minaccia di fare Erdogan). Nel migliore dei casi le persone trattenute o “rimpatriate” riprenderanno la strada del deserto e del mare appena possibile. Nel peggiore… Riportare i profughi nei paesi di origine o di transito, posto che sia possibile costa carissimo: tra viaggio, Cie resuscitati col plauso dell’Europa, costo degli accordi, apparati polizieschi e giudiziari, più di quanto basterebbe per dare casa, istruzione e lavoro a ognuno dei profughi da rimpatriare. Infatti lo si fa con pochissimi. Agli altri a cui non si riconosce il diritto di restare, si consegna un foglio di via intimandogli di abbandonare il paese entro sette giorni: senza soldi, senza documenti, senza conoscere la lingua, senza alcuna relazione con la popolazione. Vuol dire metterli per strada, consegnarli al lavoro nero; o alla criminalità, allo spaccio e alla prostituzione; o, cosa da non trascurare, al reclutamento jihadista. L’appello a impossibili respingimenti crea solo illegalità, criminalità, terrorismo. I morti nell’attraversamento del deserto sono più di quelli (5.000 solo nel 2016) naufragati nel Mediterraneo. Ma gli uomini, le donne e i bambini che sopravvivono a quella traversata sono fatti oggetto di stupri, rapine, schiavitù e sfruttamento di ogni genere; o vengono imprigionati in locali al cui confronto Cona e Mineo sono Grand Hotel: affamati, maltrattati e umiliati in ogni modo. E’ questa la soluzione? Quella finale? Condannarli a una fine del genere è cosa di cui domani i nostri figli e nipoti ci chiederanno conto. E i popoli respinti anche: e in modo tutt’altro che delicato.

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twitter e papa Francesco

papa Francesco darà voce ai migranti su Twitter

la sezione Migranti e Rifugiati del nuovo dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale lancia una campagna mediatica si concentrerà sulla situazione di bambini e adolescenti migranti, rifugiati, sfollati e vittime della tratta

Come si ricorderà, Papa Francesco ha stabilito che si occuperà direttamente lui del dipartimento dedicato ai migranti e rifugiati: una scelta legata all’emergenza di questi tempi, ma anche un modo per sottolineare l’importanza di questo tema e l’impegno personale del Pontefice.

E quindi, secondo informa il blog “Il Sismografo”, in linea con il tema scelto da Francesco per l’edizione 2017 della Giornata (Migranti minorenni, vulnerabili e senza voce), la campagna mediatica si concentrerà sulla situazione di bambini e adolescenti migranti, rifugiati, sfollati e vittime della tratta.

Dal 12 al 15 gennaio 2017 i tweet del Pontefice saranno dedicati a tali situazioni e rimanderanno direttamente alla pagina Facebook della Sezione, nella quale verranno presentate brevi storie e riflessioni attinenti alla tematica generale.

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i vescovi italiani dicono no ai CIE

 

immigrati

mons. Galantino

“no ai CIE se rimangono così”

domenica la Chiesa celebra la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato. Domani protocollo per i corridoi umanitari. Nel 2016 raddoppiato il numero dei minori non accompagnati

iacopo scaramuzzi

La Conferenza episcopale italiana dice «no» alla riapertura dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) «se questi dovessero continuare ad essere di fatto luoghi di trattenimento e di reclusione» per immigrati. In una conferenza stampa in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato che la Chiesa cattolica celebra domenica prossima, 15 gennaio, mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, ha elencato una serie di proposte in materia di immigrazione. Domani, ha annunciato l’arcivescovo, la Cei sigla un preannunciato protocollo per finanziare un corridoio umanitario con l’Etiopia. Il direttore generale di Migrantes, mons. Gian Carlo Perego, ha fornito un’aggiornamento dei dati sull’immigrazione in particolare dei minori in Italia: nel 2016 il numero dei minori non accompagnati sbarcati è più che raddoppiato rispetto al 2015, passando da 12.360 a 25.772.

«Mi permetto di elencare in maniera schematica i “sì” e i “no” sui quali mi piacerebbe vedere impegnati tutti gli uomini e le donne di buona volontà, a cominciare da chi ha responsabilità di governo», ha detto Galantino nella conferenza ospitata dalla sede romana della Radio vaticana, «senza la superficialità di chi parla tanto dei migranti e poco con i migranti». Cinque i «sì» elencati dal segretario della Cei. Sì, innanzitutto, «a sbloccare e approvare una legge ferma che allarga la cittadinanza ai minori che hanno concluso il primo ciclo scolastico, così da allargare  la partecipazione, cuore  della democrazia, e favorire processi di inclusione e integrazione». In secondo luogo, «sì a sbloccare e approvare una legge ferma che tutela i minori non accompagnati, non destinandoli a nuovi orfanatrofi, ma a case famiglia, a famiglie affidatarie, accompagnate da una formazione attenta a minori preadolescenti e adolescenti», ha detto il presule citando ad esempio le oltre 500 storie di accoglienza famigliare nate nelle parrocchie italiane. Sì, in terzo luogo, «all’identificazione dei migranti che arrivano  tra noi, anzitutto per un’accoglienza attenta alla diversità delle persone e delle storie, pronta a mettere in campo  forme e strumenti rinnovati di tutela e di accompagnamento che risultano una sicurezza per le persone migranti e per la comunità che accoglie». Sì, quarto punto, «a un’accoglienza diffusa, in tutti i comuni italiani, dei migranti forzati, in fuga da situazioni drammatiche», ha detto Galantino, domandandosi, tra l’altro, «a chi giova demonizzare con lo stigma della delinquenza e del puro interesse tutte le realtà impegnate nel campo dell’accoglienza?», e citando, en passant, il caso di «mafia capitale». Quinto, «sì a un titolo di soggiorno come protezione umanitaria o come protezione sociale a giovani uomini e donne che da oltre un anno sono nei CAS e nei centri di prima accoglienza e hanno iniziato un percorso di scolarizzazione o si sono resi disponibili a lavori socialmente utili o addirittura già hanno un contratto di lavoro, nonché a coloro che hanno potuto, speriamo presto, fare un’esperienza di servizio civile, ma anche a chi ha una disabilità o un trauma grave, è in fuga da un disastro ambientale o dal terrorismo». Il segretario della Cei ha poi elencato tre «no», il terzo dei quali «condizionato». No, innanzitutto, «a forme di chiusura di ogni via legale di ingresso nel nostro Paese che sta generando un popolo di irregolari, che  alimenta lo sfruttamento, il lavoro nero, la violenza. E’ contradditorio chiudere forme e strade per l’ingresso legale e poi approvare leggi per combattere lo sfruttamento lavorativo e il caporalato». No, in secondo luogo, «a investire più nella vendita delle armi che in cooperazione allo sviluppo, in accordi internazionali per percorsi di rientro, in corridoi umanitari», ha proseguito il segretario della Cei, annunciando che domani firmerà «un protocollo di intesa col Ministero competente per aprire un “corridoio umanitario” con l’Etiopia per i profughi provenienti da Eritrea e Somalia, utilizzando anche per questo fondi provenienti dall’8×1000». Nei mesi scorsi i primi corridoi umanitari in Italia erano stati aperti grazie ad una collaborazione tra Chiesa valdese, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia (Fcei) e comunità di Sant’Egidio. Quanto alla riapertura dei Cie, «non possiamo non condividere il “no” affermato dalle realtà del mondo ecclesiale (Migrantes, Caritas, Centro Astalli…) e della solidarietà sociale (Cnca), oltre che di giuristi (Asgi) impegnati da anni nella tutela  e la promozione dei migranti, se questi dovessero continuare ad essere di fatto luoghi di trattenimento e di reclusione», «parcheggi abusivi e mal gestiti», «che, anche se con pochi numeri di persone, senza tutele fondamentali, rischiano di alimentare fenomeni di radicalizzazione, e dove finiscono oggi, nella maggior parte dei casi,  irregolari dopo retate, come le donne prostituite, i migranti più indifesi e meno tutelati. L’assicurazione successiva del Presidente del Consiglio e del Ministro dell’Interno sulla diversa natura, anche se non ancora precisata, dei CIE – ha aggiunto il presule – l’articolata posizione espressa dai sindaci italiani, la decisa richiesta del Capo della Polizia, uniti, però, al dubbio che tali Centri risultino necessari realisticamente nel caso di chi irregolare ha commesso un reato, per il quale dal carcere stesso o attraverso misure cautelari, seppur eccezionali, previste dalla legge, potrebbe venire poi direttamente espulso, mi fanno dire in questo momento un “no condizionato”».

Mons. Galantino ha letto il suo discorso spiegando di non voler parlare a braccio per «non correre il rischio – l’ho già fatto troppo volte – di essere frainteso e strumentalizzato» su una questione «complessa e delicata» come quella dell’immigrazione e lamentandosi, in particolare, per alcuni «titoli canaglia» comparsi in articoli tratti da sue dichiarazioni. Il segretario della Cei ha poi rilevato una crescente correttezza informativa di mass media che, a suo avviso, evitano sempre più spesso «equazioni tra migrazione e criminalità, migrazione e terrorismo, terrorismo e islamismo».

Alla conferenza stampa, moderata dal portavoce della Cei, mons. Ivan Maffeis, il presidente della fondazione Migrantes, mons. Guerino Di Tora, ha ricordato che per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato di quest’anno il Papa ha dedicato il suo tradizionale messaggio al tema «Migranti minorenni, vulnerabili e senza voce». Il direttore generale della Migrantes, mons. Perego, ha fornito un quadro statistico dei giovani immigrati traendolo dall’ultimo rapporto Caritas-Migrantes. Sono 1.085.274 i minori immigrati presenti in Italia al 1 gennaio 2016 (pari al 21,6% del totale degli stranieri). 104.056 sono nati in Italia nel 2014 da almeno un genitore straniero e 75.067 (38.664 maschi e 36.403 femmine) da entrambi i genitori stranieri, con un calo a 72.000 nel 2015. I minori ricongiunti con una famiglia che gode di permesso di soggiorno di lungo periodo sono il 28,8% a fronte del 17,7% del gruppo di soggiornanti con un permesso a scadenza. Nel 2016 , anno del maggior arrivo di migranti sulle nostre coste italiane (181.436 al 31 dicembre), il numero dei minori non accompagnati sbarcati è più che raddoppiato rispetto al 2015: siamo passati da 12.360 a 25772, di 80 nazionalità diverse. I minori stranieri non accompagnati richiedenti asilo nel 2015 sono stati 3.959 (il 4,7%) su un totale di 83.970 richiedenti protezione internazionale. Dal 2006 al 2016, ha poi notato Perego, i minori iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero sono passati da 478.363 unità a 724.897 (+51,5% dal 2006 al 2016). La Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017 quest’anno sarà celebrata in Lombardia, nel centenario della morte della santa Francesca Saverio Cabrini (1917-2017), proclamata da Pio XII nel 1950 «patrona degli emigranti».

Quanto agli accordi che il Governo italiano sta siglando con alcuni paesi maghrebini, mons. Galantino, in risposta ad una domanda dei giornalisti, ha detto che si tratta di un «fatto positivo» e spiegando che, più in generale, è «positivo che le nazioni a quo e le nazioni ad quem», ossia quelle di origine e quelle di destinazione dei flussi migratori, «parlino e si confrontino». Da parte sua la Cei, ha detto ancora il presule, intende promuovere incontri tra vescovi italiani e vescovi dei paesi di origine degli immigrati.

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il severo monito di Bauman

 

“neppure i paesi più ricchi e sviluppati possono davvero credere di sopravvivere a un conflitto globale che li veda opposti alla maggioranza povera e disperata degli abitanti del pianeta”

una essenziale ‘rassegna stampa’ in memoria di Bauman dal prezioso sito ‘finesettimana’:

 

La civiltà nasce dalle paure che oggi il potere trasforma in merce politica di Zygmunt Bauman in Corriere della Sera del 10 gennaio 2017

La quantità e l’intensità della paura nelle società umane non rispecchiano più la gravità oggettiva o l’imminenza del pericolo, ma l’abbondanza di offerte sul mercato e l’intensità della promozione (o propaganda) commerciale.
Sono assai rare le star della cultura. Ma Zygmunt Bauman, scomparso ieri all’età di 91 anni, ha goduto di un’immensa popolarità grazie alla sua capacità di parlare alla gente con un linguaggio semplice e comprensibile, mai riduttivo. Lascia un vuoto incolmabile: aumenterà la «solitudine del cittadino globale», privo della sua voce indignata e rassicurante.
La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile. La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a continuare a camminare.
il populismo, di destra e di pseudo-sinistra: «Alcuni acchiappavoti, che si presentano come outsider non toccati dalla corruzione fino al momento, riescono a lucrare sulla frustrazione dell’elettorato facendo promesse che sanno benissimo non potranno mantenere una volta eletti»
Era la voce narrante di una modernità privata delle sue “solide” basi economiche, l’analista di un mondo orfano della grande industria di massa, ma ancora combattivo e desideroso di riscossa dalle iniquità estreme e da un consumismo cieco
«Ma io, a dispetto di tutto, sono ottimista. Per un motivo molto semplice: neppure i paesi più ricchi e sviluppati possono davvero credere di sopravvivere a un conflitto globale che li veda opposti alla maggioranza povera e disperata degli abitanti del pianeta».
La crisi economica ha scompaginato in maniera irrimediabile il quadro, generando diseguaglianze e distruggendo larghe fasce di classi medie.., mentre i flussi migratori li spaventavano facendoli diventare sensibili ai messaggi politici dei populisti in Europa e negli Usa, con la crescita dell’instabilità istituzionale e della radicalizzazione dello scontro con chiunque viene percepito come diverso o non assimilabile. In politica si proclamava con orgoglio socialista.
E’ stato capace di trasmettere a molti di noi, anche per merito di un linguaggio immaginifico ma semplice, il senso delle sue riflessioni critiche. Che non è un merito da poco
un serio sforzo di definizione filosofica della morale e di proposta di un’etica che contrasti la barbarie. Centrale è la categoria l’Amore che è «accettazione incondizionata della diversità dell’altro e del suo diritto alla propria diversità (…). L’amore consiste nell’abbracciare l’Altro come valore in sé».
Francesco è oggi la guida una chiesa dove – almeno nelle intenzioni del suo pontefice – la verità non è più dogmatica, ma è la partecipazione caritatevole di molti. La caritas prima di tutto. Non per nulla quella di Francesco è la sola voce radicalmente a favore dell’accoglienza in tema di migrazioni. Un tema che a Bauman stava molto a cuore.
“Un dialogo necessario tra laici e credenti per la costruzione della pace e di una società più inclusiva, perché il dio dell’altro non è più dall’altra parte del confine, ma è qui”. Anche perché Zygmunt Bauman non ammetteva alternative: “Il dialogo è una questione di vita o di morte: o ci capiamo, o toccheremo il fondo insieme”. Dialogo messo in pratica da lui stesso, incontrando Papa Francesco.
… fra le cose che mi ha insegnato c’è anche la consapevolezza che la vita che abitiamo è qualcosa che ci trascende, che è più grande delle nostre piccole o grandi individualità, e che quando ci pensiamo nel mondo dobbiamo andare al di là di noi stessi e dei nostri affetti, e finanche delle altre persone, che dobbiamo riuscire a scioglierci dai laccioli umanistici che ci fanno sentire i padroni del mondo visto che dovremmo piuttosto sentirci al servizio di questo mondo, e onorarlo, e accettare l’inesorabilità che altri prendano il nostro posto. Senza tristezza. Serename
Negli anni Novanta, il filosofo e sociologo orientò i suoi testi verso una comunicazione veloce. E pur parlando di globalizzazione, lavoro, incertezza e amore, diventò un autore di successo, amato dal grande pubblico
È molto amato dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito
«Tutte le culture umane possono essere decodificate come ingegnosi congegni che rendono la vita vivibile, nonostante la consapevolezza della morte».
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‘nostalgioso’ un neologismo carino tanto quanto ‘webete’ e ‘petaloso’


                                                                        

il primo posto

è stato

raggiunto però da ‘webete’

Dopo “petaloso” arriva “nostalgioso”. Il neologismo è di papa Francesco

dopo “petaloso” arriva “nostalgioso”. Il neologismo è di papa Francesco

di Elsa Corsini

Dopo “petaloso“, termine coniato dalla fantasia del piccolo Matteo, neologismo poi riconosciuto dall‘Accademia della Crusca, arriva “nostalgioso“. Questa volta il neologismo è di papa Francesco, che non è nuovo a “miracoli” comunicativi di questo tipo. Nostalgioso è l’aggettivo utilizzato dal pontefice nel corso dell’omelia per la solennità della festa dell’Epifania celebrata come ogni anno a San Pietro.

papa Francesco conia “nostalgioso”

Parlando a lungo  della “nostalgia” di Dio che devono provare i cristiani, papa Francesco ha detto testualmente: “Il credente nostalgioso, spinto dalla sua fede, va in cerca di Dio, come i magi, nei luoghi più reconditi della storia, perché sa in cuor suo che là lo aspetta il suo Signore”.  E ancora: “Va in periferia, in frontiera, nei luoghi non evangelizzati, per potersi incontrare col suo Signore; e non lo fa affatto con un atteggiamento di superiorità, lo fa – prosegue il Papa nell’omelia –  come un mendicante che non può ignorare gli occhi di colui per il quale la Buona Notizia è ancora un terreno da esplorare”. Nostalgioso, insomma, così deve essere il buon cristiano. Chissà de anche in questo caso il neologismo (forse incidentale) verrà introdotto ufficialmente nel dizionario della lingua italiana.
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le destre europee populiste d’accordo contro papa Francesco

Francesco

il papa dei migranti nel mirino delle destre populiste

Francesco Peloso

Orbán, Salvini e Le Pen contro Bergoglio, il pontefice extra-europeo e figlio di espatriati che pone i profughi al centro del mondo contemporaneo

analisi dello scontro di civiltà dentro il cattolicesimo

papa Francesco «l’amico dei migranti» sta diventando il principale avversario politico e culturale delle destre populiste europee. Si tratta di volta in volta di esponenti del Front national francese o della Lega Nord, dei partiti nazionalisti e xenofobi ungheresi o tedeschi. Poi c’è chi, come il premier dell’Ungheria Viktor Orbán, pur evitando di scontrarsi apertamente con il pontefice – anzi, l’ha brevemente incontrato nell’agosto 2016 in Vaticano -, ha messo però in atto quella politica di fili spinati e muri al centro delle critiche mosse dalla Chiesa.

ATTACCHI CRESCIUTI DI INTENSITÀ

Così gli attacchi contro la  Santa sede, i vescovi e le associazioni cattoliche sono cresciuti di intensità. Diverse le ragioni: l’allarme per gli attentati terroristici spesso messi in relazione al fenomeno migratorio nel dibattito pubblico, l’avvicinarsi di importanti scadenze elettorali in Europa (e probabilmente pure in Italia) in cui il tema migratorio ha il suo peso reale, il perdurare di una crisi economica e sociale in Europa che facilmente viene scaricata sullo ‘straniero’, la cronicità dei flussi di migranti e profughi, non ancora drammatica numericamente in senso assoluto, ma di certo resa più visibile e sconvolgente dal dilagare dei conflitti e delle crisi umanitarie in Medio Oriente e in Africa (anche se molti profughi in Italia, per esempio, arrivano anche da Paesi come l’Afghanistan).

I MIGRANTI AL CENTRO DEL MONDO

In questo contesto si inserisce il magistero di Bergoglio, che pone la questione migratoria come spartiacque dell’epoca. Il papa capovolge l’assunto leghista-lepenista dell’invasione e ne fa la base di un rinnovato cattolicesimo – appunto universale – che guarda al popolo dei profughi e dei migranti come al cuore del mondo contemporaneo in cui dovrà vivere l’annuncio cristiano.

Papa Lavanda Piedi

Il papa durante la lavanda dei piedi del 2016

Le affermazioni del pontefice, un po’ alla volta, sono diventate pure le parole delle chiese locali, di una buona parte dei vescovi, dalla Francia all’Italia, il che mette in allarme la leadership dei movimenti politici oggi più attivi sulla scena europea. Di certo la difesa dei migranti da parte della Chiesa non è una novità, ma con Bergoglio è in corso un salto di qualità, ed è qui che emerge lo scarto compiuto dalla Chiesa di Roma nel conclave del 2013 con un capovolgimento di priorità che ha molto da insegnare alla politica.

CRITICHE PER LA LAVANDA DEI PIEDI

Francesco l’argentino, proveniente dall’emisfero Sud del mondo, il figlio di emigranti italiani tornato a Roma da papa, illumina l’umanità “degli scartati”, ne afferma la centralità e anche la priorità cristiana in ambito umanitario e politico. Per questo Matteo Salvini contestò al papa addirittura la cerimonia della lavanda dei piedi del 2016, celebrata nel centro d’accoglienza di Castelnuovo di Porto, vicino a Roma. «Francesco sceglie i clandestini», è stata la rovente accusa; un riconoscimento, probabilmente, per il papa.

Marine Le Pen

Marine Le Pen, leader del Front national francese

Di recente diversi esponenti del Front national hanno attaccato Bergoglio. «La Chiesa cattolica è disconnessa dalla realtà, in nome dell’accoglienza verso gli altri respinge noi. Oggi è rappresentata da vescovi politici, che sono avversari della fede», ha detto Gilbert Collard, intellettuale e parlamentare lepenista, mentre i vertici del partito accusano l’episcopato di fare politica e di volersi sostituire ai partiti. Salvini, nel settembre 2016, ha rimproverato al Santo padre di aver riempito la Chiesa di imam e ha aggiunto: «Benedetto XVI è il mio papa». E tuttavia le parole di Ratzinger sull’immigrazione erano altrettanto chiare di quelle di Francesco.

ACCUSE PER IL DOPO ROUEN

Fra le cose che però non sono piaciute ai partiti populisti c’è stata la reazione della Santa sede all’assassinio del prete Jacques Hamel, vicino Rouen, nel luglio 2016. «Il fondamentalismo islamico ha colpito in Chiesa», è stato il grido di protesta. Ma appunto padre Hamel era davvero un martire scomodo: amico delle comunità musulmane e uomo del dialogo, e per questo ricordato anche e in modo clamoroso, pubblico, dai musulmani di Francia; fece scalpore la loro partecipazione massiccia ai funerali nella cattedrale di Rouen (con gli imam in Chiesa), un rifiuto senza precedenti dell’estremismo.

Se uno si dice cristiano

e poi caccia il rifugiato, l’affamato,

l’assetato, chi ha bisogno,

allora è un ipocrita

Papa Francesco 

                                                       

Di certo se la partita della religione-identità o dell’ideologia politica, della fede come collante nazionale, si gioca su vari fronti e su diverse sponde del Mediterraneo, la Chiesa di Roma – da quando Giovanni Paolo II diede vita al primo incontro interreligioso di Assisi nel 1986 – a questa opzione si è sempre opposta. E ancor di più si intensifica un simile percorso con papa Francesco. La radicalità del Vangelo è la linea che segue il pontefice, e lungo questo crinale incontra non pochi avversari che però hanno il limite di voler credere più nell’istituzione che nella Rivelazione.

CRISTIANI IN CONTRADDIZIONE

A costoro il papa, nell’ottobre del 2016, ha risposto in modo netto: «Se uno si dice cristiano e poi caccia il rifugiato, l’affamato, l’assetato, chi ha bisogno, allora è un ipocrita. C’è una contraddizione in quelli che vogliono difendere il cristianesimo in Occidente e poi sono contro i rifugiati e le altre religioni». Le distanze non potrebbero essere più grandi.

Papa Migranti

Papa Francesco visita i migranti dell’isola di Lesbo, in Grecia

Il conflitto è dunque evidente, e destinato ad alimentare sia una polemica fatta di slogan e accuse tutto sommato superficiali sia una più reale discussione su temi chiave: società cosmopolite, diritti e doveri, identità e nazionalismi. A questa miscela già così densa Francesco aggiunge un altro elemento: la sottolineatura delle ragioni sociali e politiche dell’immigrazione. Il papa del Sud del mondo chiede infatti alla comunità internazionale di guardare alle guerre, alle sofferenze delle popolazioni, ai barconi affondati più che ai respingimenti. O meglio di mettere mano alle cause per rimuovere gli effetti e quindi le conseguenze in ‘casa nostra’.

COL CUORE NELLE “MANGIATOIE DI DIGNITÀ”

Per questo le sue parole, come quelle pronunciate in occasione della messa di Natale, risultano così urticanti: «Lasciamoci interpellare dal Bambino nella mangiatoia», ha scandito Francesco, «ma lasciamoci interpellare anche dai bambini che, oggi, non sono adagiati in una culla e accarezzati dall’affetto di una madre e di un padre, ma giacciono nelle squallide “mangiatoie di dignità”: nel rifugio sotterraneo per scampare ai bombardamenti, sul marciapiede di una grande città, sul fondo di un barcone sovraccarico di migranti».

IN ATTESA DI UNA RIFORMA DELLA CHIESA

Di certo l’insieme di problemi posti dal papa non solo rientra in una più generale riforma della Chiesa, o meglio di rimessa in moto del Concilio Vaticano II, ma tocca ferite aperte del mondo contemporaneo, intervenendo nel dibattito pubblico di questo periodo e dei prossimi anni.

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