l’Alan dei Rohingya – la strage degli innocenti continua senza sosta

quel bimbo nel fango è l’Alan dei Rohingya

di Roberto Toscano
in “la Repubblica” 

Il corpo di un bambino di pochi mesi annegato quando la sua famiglia cercava la salvezza fuggendo dall’oppressione e dalla repressione. Lo avevamo già visto. Allora, nel settembre 2015, si chiamava Alan Kurdi, oggi Mohammed Shohayet. Come allora, il mondo presta attenzione, si commuove. Sinceramente, di certo, ma è anche legittimo chiedersi come mai questi due piccoli siano riusciti a rompere quel muro di sostanziale indifferenza che caratterizza questo nostro tempo — il tempo di una protratta, atroce strage di innocenti dalla Siria allo Yemen. «Ecco l’Alan Kurdi Rohingya: ora il mondo prenderà atto?».

È l’interrogativo che ieri ha lanciato la rete televisiva statunitense Cnn accanto alla foto di Mohammed Shohayet, un rifugiato Rohingya di 16 mesi fuggito dalle violenze nello Stato birmano di Rakhine verso il Bangladesh solo per annegare durante il viaggio insieme alla madre, lo zio e al fratello di tre anni. La sua foto era circolata su vari siti bengalesi già all’inizio dello scorso dicembre, ma è diventata virale solo ieri dopo che la giornalista della Rebecca Wright ha incontrato il padre del piccolo Mohammed in un campo bengalese e raccontato la sua storia. L’uomo, Zafor Alam, aveva traversato il fiume Naf che separa la Birmania dal Banghadesh da solo, la famiglia avrebbe dovuto raggiungerlo a inizio dicembre ma la loro nave era affondata. «Mi hanno detto di aver ritrovato il corpo di mio figlio e mandato la sua foto tramite cellulare. Ogni volta che la vedo mi sento morire».

Si ripropone qui per chi fa un giornale un problema di etica professionale, nel senso che non è facile giustificare quella che può sembrare la concessione a una commozione che sappiamo troppo episodica e troppo poco coerente rispetto a una sistematica sordità morale fatta di ignoranza ed egoismo. È giusto resistere alle tentazioni del conformismo patetico, ma è anche vero che la solidarietà umana può scattare solo se l’astratto si trasforma in concreto, solo se i bambini morti, i tanti bambini morti per noi senza volto e senza nome, diventano Alan e Mohammed. La commozione però dovrebbe diventare la premessa di una presa di coscienza sia morale che politica. Certo, la responsabilità è direttamente proporzionale al potere di cui si dispone per incidere sulla realtà, e oggi più che mai la sensazione degli individui — in questo mondo sempre più ingovernabile — è quella dell’impossibilità di contare e di agire.

Ma siamo davvero così irrimediabilmente impotenti? Quanto meno in quella ristretta parte del mondo in cui esiste ancora la figura del cittadino ed è possibile pronunciarsi sulle scelte politiche, solidarietà o chiusura sono due strade ugualmente praticabili, costituiscono anzi una componente sempre più importante del dibattito politico. Lo spostamento attraverso le frontiere di grandi masse umane, sia rifugiati che migranti, ci chiama in causa soprattutto alla luce della drammatica contraddizione che sta alla radice del presente disordine mondiale: quella fra la realtà globale dei grandi fenomeni — dalla sicurezza all’ambiente, dalla finanza alle pandemie — e il persistere di una struttura non solo politica, ma anche eticoculturale, che ancora riconosce solo istituzioni e appartenenze identitarie di tipo parziale, nazionale quando non tribale. Quei bambini a faccia in giù su una spiaggia o sulla riva di un fiume (o quelli dilaniati dai bombardamenti in Siria o in Yemen) sono nostri, ci appartengono, così come
appartengono a tutti gli italiani le vittime del terremoto in Umbria. Ma la presa di coscienza di tipo morale non può avvenire senza la conoscenza. Qui la responsabilità di chi fa informazione è primaria e indiscutibile. Così come si è cercato di spiegare perché Alan è annegato vicino alla costa turca oggi è doveroso raccontare le vicende che hanno portato Mohammed a morire in un fiume che divide la Birmania dal Bangladesh. Posti lontani, ma dove le tragedie umane non sono poi così diverse da quelle che vediamo sulle coste del Mediterraneo.

Sono tragedie che sempre rientrano nella categoria della violazione di diritti umani, in particolare nella negazione dei diritti delle minoranze. In Myanmar, un paese a maggioranza buddista che un tempo si chiamava Birmania, vivono oltre un milione di musulmani, i Rohingya. Ci vivono da lungo tempo, ma non vengono riconosciuti come cittadini e li si considera immigrati privi di diritti. Vengono discriminati e sono oggetto di una repressione dura e indiscriminata. Certo, la Birmania è stata retta a lungo — e tuttora lo è nonostante alcune limitate riforme politiche — da un duro regime militare, ma attribuire esclusivamente il problema a un regime dittatoriale sarebbe troppo ottimista e falsamente consolatorio. Purtroppo l’esclusione e la discriminazione nei confronti di chi è diverso non è monopolio di una sola cultura o di una sola religione. Condanniamo giustamente l’intolleranza del radicalismo islamico nei confronti dei cristiani, ma in questo caso i musulmani sono gli oppressi, mentre gli oppressori appartengono alla religione che più viene associata alla pace e alla comprensione universale: il buddismo. Tutte le religioni hanno avuto storicamente una versione intollerante, quando non fascista, e il buddismo evidentemente non fa eccezione. Nel caso della Birmania, poi, risulta particolarmente scoraggiante constatare che anche una vera eroina del dissenso, Aung San Suu Kyi, nel 1991 Premio Nobel per la pace, non è capace di sottrarsi a una visione sostanzialmente settaria. Ha lottato con coraggio, pagandolo con lunghi anni di reclusione a domicilio coatto, per la libertà del proprio popolo, ma evidentemente per lei i musulmani non fanno parte del suo popolo e il perimetro della sua solidarietà e del suo impegno politico e morale non si estende oltre a quelli che lei considera affini per cultura e religione. Lo stesso limite e lo stesso problema, ovunque. Se non sapremo affrontarlo con intelligenza e coraggio politico il disordine e la violenza continueranno, e non basterà certo a salvarci la commozione di fronte all’immagine di bambini morti.

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non esiste la minaccia Islam – i nemici sono altri

l’Islam non è una minaccia

il vero nemico da battere,

le strategie del Signori della Paura,

il ruolo dei cristiani

intervista con lo storico fiorentino Franco Cardini

Islam e Occidente

cristina uguccioni    

Questa Europa «stanca e invecchiata» (come l’ha definita papa Francesco), minata da una pervasiva dissoluzione del legame sociale, insidiata da un dilagante individualismo autoreferenziale e governata dalla religione globale del denaro (fenomeno decisivo per comprenderne le dinamiche), da alcuni decenni si trova alle prese con l’Islam. È un termine, questo, rispetto al quale nessun europeo si sente ormai estraneo e intorno al quale si accendono discussioni pubbliche che spesso assumono toni scomposti, persino violenti. E tratti molto superficiali. In questo passaggio d’epoca urgono riflessioni pensate e pacate, conoscenze storiche e religiose corrette, analisi accurate, capacità di visione, cuore saldo nella compassione (indispensabile affinché ogni comunità umana resti “comunità” e “umana”): un lavoro non frettoloso, che si mostri in grado di far fronte con intelligenza e sensibilità ai molti mutamenti in atto e agli interrogativi che si levano nella società europea.

Sull’Islam abbiamo rivolto alcune domande allo storico Franco Cardini, autore del volume di recente pubblicazione

“L’islam è una minaccia? [Falso!]” (Laterza)

Già docente di Storia medioevale all’Università di Firenze e in altri atenei europei ed extraeuropei, Cardini attualmente è membro del Consiglio direttivo dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo e professore emerito dell’Istituto di Scienze Umane e Sociali annesso alla Scuola Normale Superiore.

 

Può illustrare brevemente la tesi centrale del suo volume?

«L’Islam è una religione che conta oltre un miliardo e mezzo di fedeli ed è quindi la seconda religione più diffusa al mondo, dato che i cristiani ammontano a poco più di due miliardi. I musulmani nella stragrande maggioranza sono insediati tra l’Africa occidentale e il Sud-est asiatico (nel senso della longitudine) e tra Caucaso, Asia centrale e Corno d’Africa (in quello della latitudine). Essi fanno parte, nella quasi totalità, di quell’85-90% del genere umano che, secondo i dati più recenti diffusi dall’ONU, vive gestendo appena il 10-15% delle ricchezze mondiali. E qui sta il punto. A mio giudizio nella nostra epoca il vero nemico da battere non è l’Islam (che oggi è realtà polimorfa e in cammino per superare alcune contraddizioni) e neppure la sua tragica e brutale deformazione, il fondamentalismo islamico (che, ovviamente, va contrastato).

Il vero nemico, il verme che sta corrompendo la terra è l’ingiusta ripartizione delle ricchezze del pianeta, l’assurdo, osceno squilibrio di una umanità divisa tra pochi ricchi e una sterminata moltitudine di poveri. Papa Francesco non perde occasione di ricordarcelo: l’Enciclica Laudato si’, sotto questo profilo, è esemplare. La nostra economia uccide e occorre perseguire la giustizia, che non consiste solo in una equa distribuzione delle risorse ma passa attraverso un mutamento radicale di valori e stili di vita. E, aggiungo, attraverso, ad esempio, il rispetto del diritto internazionale».

A cosa si riferisce in particolare?

«Mi riferisco a quel comma importantissimo e sempre disatteso secondo il quale le ricchezze del suolo e del sottosuolo di una determinata area appartengono a coloro che lì sono insediati. Da quando, mezzo millennio orsono, è iniziato il colonialismo e quindi la globalizzazione (perché essa è iniziata allora) questo principio è stato costantemente violato. Ora siamo arrivati alla fase del redde rationem e l’imponente afflusso di migranti nel ricco Occidente ne è una delle espressioni più vistose. Il nemico da battere, lo ripeto, è questo ingiusto sistema economico: esso ha innegabilmente reso prospero l’Occidente, ma ha generato uno squilibrio che è ormai improscrastinabile curare, anche nel nostro stesso interesse. Invece, in Occidente, ci siamo concentrati di volta in volta su altri nemici che ci hanno distratto da quello più feroce: dapprima, tutto il male del mondo era causato dal nazismo e dal fascismo, poi, caduti quei regimi, tutte le colpe furono dell’Unione Sovietica e del comunismo; finito l’impero sovietico e il tramontato il comunismo, ora si è passati al fondamentalismo islamico (fingendo di non sapere che è stato tenuto a battesimo dalle potenze occidentali) e, più in generale, all’Islam.

Che l’Islam sia una minaccia sta ormai diventando un dogma laico, diffuso dai Signori della Paura, i quali – per fini economici, ma anche in vista di vantaggi politici ed elettorali – sfruttano le insicurezze e i timori delle persone istigando all’odio. I loro metodi vanno smascherati».

Nel volume lei afferma che al fine di far apparire effettivo, vero, reale, irrefutabile alla luce della ragione questo dogma laico «si tende a rivestirlo di prove o di qualcosa che loro somiglia». Può illustrare come avviene questo processo?

«Le tecniche di questi Signori paiono ispirate al romanzo “Il montaggio” di Vladimir Volkoff: si spigola fra i fatti di cronaca mettendo in fila eventi orribili, snocciolando uno dopo l’altro nomi, fatti, date così da dare l’impressione che i musulmani siano ovunque e sempre una minaccia. Ogni fatto di cronaca nera, anche minimo, il cui protagonista è un musulmano, viene ingigantito e proposto a modello. Si passa quindi senza scrupolo alcuno dalla presentazione analitica e casistica, fondata magari su un numero circoscritto di episodi, a un’indebita generalizzazione sulla base di una arbitraria selezione degli eventi proposti come esemplari: si descrive un albero ma lo si presenta come fosse uno qualunque di una foresta di centomila alberi tutti uguali. E così non si riconoscono, consapevolmente e colpevolmente, le migliaia di casi di onesti musulmani che vivono pacificamente nelle nostre città e che stanno cercando (concediamo del tempo) o hanno già trovato il modo di essere bravi musulmani non solo in Europa, ma d’Europa. Queste migliaia di persone inappuntabili non fanno notizia, si parla pochissimo di loro. Eppure esistono! Così come esistono, ma sono quasi del tutto trascurati, i molti pronunciamenti, incontri, documenti in cui i musulmani condannano apertamente l’uso della violenza in nome di Dio e prendono le distanze dal terrorismo. I mass media hanno una responsabilità enorme. La disinformazione genera squilibri gravi che danneggiano la democrazia».

Europa e Islam sono nemici da sempre: questa è una delle affermazioni che circolano con maggior insistenza; ma, lei afferma, non è fondata.

«Persino non pochi libri di storia in uso nelle nostre scuole sostengono questa tesi. È falsa. Quello compreso tra il 1200 e il 1500, pur segnato da numerose guerre, è stato uno dei periodi più gloriosi della civiltà europea. È stato il tempo delle grandi cattedrali, della nascita delle università, di importantissime acquisizioni scientifiche, di uno straordinario sviluppo dell’arte. Tutto ciò avvenne grazie a una grande floridezza economica che, nata sotto l’impulso operoso dei comuni, delle repubbliche marinare, delle città mercantili europee, fu determinata in gran parte dai costanti, intensi traffici con il vicino Oriente musulmano».

In questo contesto, che rilevanza ebbero le crociate?

«L’immensa ricchezza duecentesca dell’area mediterranea fu dovuta al commercio tra i paesi cristiani e musulmani e questo fenomeno macroscopico, quasi del tutto ignorato da molti media e da non pochi insegnanti, è ben più rilevante delle crociate che si possono considerare punture di spillo. L’Islam, nel suo complesso, non si è veramente reso conto di quanto era accaduto sino all’Ottocento, tanto che non esisteva neppure un termine arabo per definire le crociate. Nell’Ottocento i musulmani utilizzarono un neologismo (“hurub as-salibyya”, “guerre della croce”) quando dovettero tradurre i testi scolastici che le potenze coloniali imponevano di adottare. Le crociate – considerate come difesa contro un Islam aggressivo e sanguinario – vennero usate dagli occidentali quasi come antefatto giustificativo del loro dominio, ossia per dare giustificazione morale al colonialismo. Giova però ricordare che la prima grande espansione musulmana, iniziata nel VII secolo – contrariamente a quanto molti credono – si verificò con pochissima violenza (come ho diffusamente spiegato nel mio libro): i popoli si lasciarono conquistare, l’Islam ebbe vita facile nella sua espansione a causa della debolezza dell’impero persiano e di quello bizantino il quale, pur glorioso, a quell’epoca era in forte crisi. Bisogna inoltre rammentare che talora i cristiani imposero il proprio credo con la spada: si pensi a Carlo Magno o all’Ordine Teutonico dell’Europa nordorientale del medioevo. In conclusione, chi sostiene che Europa e Islam siano da sempre nemici e che ciò sia sempre avvenuto per colpa totale o prevalente dell’Islam mostra di conoscere assai poco la storia».

Che ha molto da insegnare.

«Certo, se si accetta di ascoltarla. Ai cristiani, ai musulmani, agli uomini di buona volontà la storia fornisce il modello di tempi nei quali la convivenza era non solo possibile ma anche franca e cordiale: si pensi ad esempio all’impero mongolo o al sultanato di al-Akbar nell’India moghul tra XVI e XVII secolo. Ma i modelli storici restano lettera morta se non si afferma la volontà di seguirne i suggerimenti, di far vivere il seme che essi hanno piantato. Questa è, a mio avviso, la sostanza della sfida odierna».

In questo passaggio d’epoca, quale dovrebbe essere a suo giudizio il compito dei cristiani?

«Le imponenti migrazioni degli ultimi anni stanno creando in moltissimi italiani ed europei un forte senso di disagio e insicurezza: sottovalutarlo e non farsene carico sarebbe un errore. Ma sarebbe ancor più sbagliato alimentarlo. Papa Francesco ci sta dando l’esempio, sia distinguendo la fede islamica dal terrorismo fondamentalista, sia incoraggiando tutti a costruire vita buona con le disperate genti che giungono in Europa, anche con quelle musulmane. Penso che un cristiano dovrebbe sentire in modo speciale il dovere di aiutare chi è più vulnerabile e abbia anche il dovere di andare controcorrente affermando con un po’ di coraggio civile, se occorre, alcune verità scomode rispetto al mainstream attuale.

Non possiamo nascondere che vi sono obiettive difficoltà teoriche e concettuali nel dialogo tra cristiani e musulmani che non si possono aggirare né in nome dell’ottimismo del cuore, né in quello della retorica irenistico-ecumenica. Tuttavia il dialogo prosegue in modo proficuo e, nella pratica, nella vita di tutti i giorni, la convivenza pacifica si rivela possibile e infatti esiste. La Chiesa, con parole e opere concrete, sta indicando a tutti la strada con grande chiarezza. L’edificazione di legami buoni nella quotidianità passa attraverso un lavoro artigianale: e il primo mattone è la comprensione reciproca, che è arte difficile. L’immigrato musulmano fa paura, ma se quel volto anonimo comincia ad avere un nome, se scopriamo che anche lui, come noi, ha figli da mandare a scuola, genitori da accudire, problemi di salute, sogni e preoccupazioni, allora le cose possono iniziare a cambiare. Certo, bisogna impegnarsi. Penso che nella quotidianità i cristiani debbano continuare a promuovere e favorire buone pratiche di incontro e integrazione, costruendo dalla base ciò che le istituzioni, in larga misura, paiono esitanti a progettare. È quanto anch’io cerco di fare».

Vuole illustrare il suo impegno?

«Nel piccolo paese dove vivo, Bagno a Ripoli, alle porte di Firenze, sono giunte alcune famiglie senegalesi, una trentina di persone inclusi bambini e anziani. Il loro arrivo ha scatenato molte proteste: da parte mia, insieme ad alcuni amici, ho voluto conoscere le ragioni di tutti e sto cercando di organizzare incontri tra i residenti e i migranti affinché si conoscano, coinvolgendo in quest’opera il parroco, il sindaco e altri rappresentanti delle istituzioni. Mi sono rivolto per questo al presidente della Regione, che conosco: per rispetto dell’autorità costituita, aspetto un suo cenno prima di procedere in modo che quanto riusciremo a fare appaia come un atto che ha la legittimazione istituzionale e non solo come un gesto frutto della buona volontà di qualche privato cittadino.

In Italia sono moltissime le persone che stanno lavorando per costruire buona convivenza, ma quest’opera sarebbe più efficace se fosse maggiormente e più organicamente sostenuta dalle istituzioni locali e nazionali. I sindaci, ad esempio, dovrebbero promuovere periodici momenti di incontro tra italiani e migranti appena giunti, avvalendosi di mediatori culturali che facciano da interprete. E invece, in molti casi, si limitano a protestare per “l’invasione”».

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la apparente ‘modernità’ della teologia di Sorrentino

 

la teologia (pre-conciliare)  di Pio XIII

 

  Il papa inventato da Paolo Sorrentino merita ulteriori riflessioni e approfondimenti teologici. C’è da chiedersi se questa figura fantastica e struggente, equivoca e coinvolgente, sia davvero una figura moderna. Perché è piuttosto una modernità tridentina, che in maniera spesso subliminale bussa alla porta del cristianesimo odierno, invocando un ritorno indietro verso una fede e una chiesa preconciliare e tradizionalista piuttosto che tradizionale. Ma cosa sarebbe la Chiesa cattolica senza il Vaticano II, o meglio, è possibile oggi un cattolicesimo ispirato esclusivamente alla modernità tridentina?

Quando viene eletto un papa nella persona di un cardinale quasi del tutto sconosciuto, soprattutto alla curia romana, bisogna aspettarsi delle sorprese, nelle quali, agli occhi della fede, agisce lo Spirito, salvo poi che a sorprenderci possa essere anche un pontefice noto, come papa Benedetto, col suo gesto inatteso e per alcuni inspiegabile della rinuncia. È questo anche il caso di Pio XIII, al secolo Lenny Belardo, protagonista della serie tv diretta da Paolo Sorrentino. Molti aspetti di questa fiction fanno riflettere e meriterebbero approfondimenti, qui ci soffermeremo in particolare sulla sua “teologia”, così come si esprime nei discorsi che gli sono stati messi in bocca dall’autore della sceneggiatura, dai quali assumeremo alcuni spunti per l’oggi della fede e della chiesa cattolica.

Prima dei discorsi “ufficiali” che il giovane papa pronunzierà, viene messo in scena un discorso onirico (I episodio) ispirato al Dio che non si dimentica di nessuno e al fatto che l’armonia con Lui passa attraverso l’armonia con la vita e l’esperienza del gioco, per concludersi sulla felicità, con una serie di passaggi decisamente e volutamente provocatori, non di rado irritanti, che lasciano la folla perplessa e sgomenta. Ed eccoci al primo drammatico discorso (II episodio) tenuto da una loggia in penombra di un pontefice che sceglie il nascondimento e rifugge l’esposizione mediatica. Il tema è la denuncia del fatto che ci siamo dimenticati di Dio. La sua assenza è frutto di questa dimenticanza. Del resto siamo nel tempo della povertà e il mondo è diventato così povero da non avvertire la mancanza di Dio come mancanza (M. Heidegger).

Il Dio dimenticato è un Dio che esige tutto e si potrà vedere il papa solo se ci si ricorderà di Dio, non c’è posto per la chiesa e il suo pontefice supremo in un mondo che ha dimenticato Dio. E bisogna essere più vicini a Dio che agli uomini, perché “tutti noi siamo soli davanti a Dio”. Non è il papa che deve provare l’esistenza di Dio, ma chi si è dimenticato di Lui a dover dimostrare la sua non esistenza. È un Dio col quale Belardo ingaggia una lotta senza pari. Del resto lo stesso Benedetto XVI, nel suo discorso ad Erfurt (stiamo ricordando i 500 anni dalla riforma) aveva detto che la teologia è “lotta con Dio”: “Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio”.

Dovremo attendere il V episodio per ascoltare il discorso ai cardinali del nuovo, giovane papa, che ha atteso il rientro della tiara dagli Stati Uniti, cui, a suo dire “incautamente” l’aveva ceduta, mettendola all’asta, Paolo VI. Il mistero di Dio si infittisce e la chiesa dovrà chiudere le sue porte, perché ritorni ad essere il luogo del mistero. Dobbiamo essere “proibiti, inaccessibili e misteriosi” e smettere di guardare al mondo che non ha nulla da dirci, perché solo la chiesa possiede la verità (citazione di Ignazio d’Antiochia). È una profonda e per nulla banale critica alla “chiesa in uscita” e alla visione del Vaticano II: evangelizzazione, ecumenismo, tolleranza non dovranno più appartenere alla chiesa, da cui è bandita la parola “compromesso”.

Nonostante l’innegabile suggestione che può suscitare, la spietata posizione, peraltro estemporanea ed anacronistica, del giovane papa finisce col rinnegare un punto di non ritorno, che il credente oggi non può ritenere alla stregua di una parentesi o di una deriva. Il look, accuratamente scelto per questa occasione e il bacio della pantofola, sembrerebbero elementi di folklore, ma rivelano un’immagine di chiesa, ispirata al senso del mistero ed estremamente esigente, perché il nuovo papa non vuole amici o simpatizzanti, ma solo innamorati. Allorché si sono riempite le piazze di folle plaudenti, i cuori sono rimasti vuoti di Dio. L’immagine della porta piccola e stretta, nonché chiusa, rappresenta simbolicamente l’ecclesiologia di Pio XIII. E il perdono non potrà mai più essere concesso ad libitum.

Le contraddizioni e i mali della chiesa sono, in forma spietata, presenti in tutta la serie, dall’omosessualità del clero alla pedofilia, dalla sovresposizione mediatica al carrierismo, dalla mondanità ai compromessi. Mali da cui non è esente la missione e l’esercizio della carità, come viene rappresentata nel viaggio in Africa e nel discorso lì pronunciato (episodio VIII). Dio è amore, ma il giovane papa non parlerà di Dio, perché chiede a gran voce la pace. Una pace bella e sconcertante, da lui stesso sperimentata in una gita sul fiume in Colorado coi suoi genitori all’età di otto anni. Datemi la pace e vi darò Dio: è questo il suo messaggio all’Africa dilaniata da conflitti e percossa da dittatori che indossano la maschera della carità. Giungiamo così all’epilogo veneziano, con l’ultimo discorso, pronunciato da piazza san Marco (X episodio).

Siamo così al filo rosso di tutta la serie: l’assenza di Dio è il riflesso dell’assenza del padre. Ma a Venezia, ispirandosi alla beata Juana e ribadendo che Dio (una “linea aperta”) non si mostra, non parla, non si fa vedere, non ci conforta, conclude col sorriso di Dio e chiede a tutti di sorridere. Ai bambini amava ripetere: “Pensate a tutte le cose che vi piacciono: quello è Dio”. Il cerchio in un certo senso si chiude perché ritorna il messaggio del discorso onirico iniziale, epurato da tutte le provocazioni morali in esso contenute. Da tutta la vicenda espressa nella serie, emerge con chiarezza l’ispirazione agostiniana adottata da Pio XIII: “se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l’idea giusta”.

La contrapposizione delle due città, la dialettica assenza/presenza di Dio, l’amore assoluto della “terza navigazione”, espresso nelle mirabili pagine dei commenti agostiniani alle lettere di Giovanni, sono fonti certamente non secondarie di questa teologia. Potremmo concludere sottolineando la paradossalità costitutiva di questa visione, che ad esempio emerge allorché Lenny Belardo si paragona a Dio, dicendo che la sua natura è la contraddizione e rintracciandone l’immagine nelle proprie contraddizioni. Mi sono chiesto se davvero questa figura fantastica e struggente, equivoca e coinvolgente sia antiquata, lasciandomi interrogare sul fascino che ha esercitato sui giovani studenti di teologia. Mi sono risposto che si tratta di una figura moderna, della modernità tridentina, che in maniera spesso subliminale bussa alla porta del cristianesimo odierno, invocando un ritorno indietro verso una fede e una chiesa preconciliare e tradizionalista piuttosto che tradizionale.

Ma l’elemento più inquietante della teologia di Pio XIII è che quello che emerge dai suoi discorsi potrebbe rivelarsi un Dio senza Cristo, o meglio una teologia senza cristologia. Meglio ancora siamo di fronte a una cristologia sommersa, in cui si rovescia la prospettiva oggi comune nelle teologie contemporanee: non è Cristo che rivela il volto di Dio, ma la questione cruciale di Dio che dischiude il volto di un Gesù, che rimane sempre velato, come il corpo del Cristo di Giuseppe Sanmartino, presente nella cappella Sansevero di Napoli. Il crocifisso dell’immagine rovesciata con cui si risveglia e l’unico cenno al radicalismo della croce presente nell’ultimo passaggio del discorso ai cardinali, ci situano di fronte a una prospettiva teologica unilaterale e forse perdente, ma anche suggestiva e impressionante, con la domanda di fondo: cosa sarebbe la chiesa cattolica senza il Vaticano II, o meglio, è possibile oggi un cattolicesimo ispirato esclusivamente alla modernità tridentina? L’impossibilità è l’orizzonte di una fiction, che meriterebbe ulteriori approfondimenti e riflessioni.

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bella Italia cattiva accoglienza

il Belpaese della malaccoglienza ai migranti

la nostra Africa

Oltre il 77 percento dei circa 180 mila profughi entrati nel sistema di asilo italiano vive in un limbo, ammassato in mega strutture inadatte

Il Veneto della rivolta di Cona, governato dalla Lega Nord, è una delle regioni meno virtuose a livello di buone pratiche per l’accoglienza ai migranti e richiedenti asilo. Su un totale di 14.221 immigrati presenti sul suo territorio al 30 novembre scorso (dati del Viminale), appena 519 sono quelli che hanno trovato posto nel circuito Sprar, mentre quasi 11 mila (10.627) persone sono state ammassate nelle cosiddette «strutture temporanee» gestite dalle Prefetture con una modalità che non riesce ad uscire da logiche emergenziali e basate su mega strutture di contenimento.

In tutta Italia la mancanza di collaborazione degli enti locali, su cui si basano i bandi dei progetti Sprar, che dovrebbero formare una rete capillarmente diffusa di accoglienza accurata e finalizzata a integrare economicamente e socialmente i migranti in piccoli nuclei, tende a rigenerare logiche securitarie di contenimento in mega strutture come ex caserme o alberghi vuoti. La Sicilia – come si vede dal grafico – è la regione più virtuosa in questo senso, dove i migranti ospitati negli Sprar sono 4.259, pari però a quelli ancora nel limbo dei Cas, centri di prima accoglienza. Al vecchio piano Sprar del 2015 hanno partecipato soltanto 339 comuni (su 7.983, dopo le ultime fusioni imposte per spending review), 29 province e 8 unioni comunali in 10 regioni. I progetti Sprar 2016 sono appena scaduti e dall’8 agosto scorso il Viminale ha riformato il sistema di accesso cercando di aumentarne la capienza con premi fiscali e agevolazioni agli enti locali che accettano di parteciparvi.

Il ministero dell’Interno non ha mai sposato in modo sistematico l’accoglienza diffusa ma nell’ultimo anno, sulla scia della battaglia delle associazioni antirazziste e umanitarie oltre che a causa delle inchieste della magistratura e dei richiami delle commissioni per i diritti umani di Strasburgo, almeno la tipologia funzionale alla detenzione e ai respingimenti dei migranti economici dei Cie sembrava avviata a un lento dissolvimento.

A rianimare invece l’idea di risolvere il problema dei profughi utilizzando mega strutture come ex caserme – sempre utilizzate dalle prefetture quando non sanno dove dare un tetto ai migranti in arrivo dagli Hotspot – è stata anche una delle ultime puntate di Report prima dell’addio di Milena Gabanelli alla Rai.

Poi il nuovo governo Gentiloni ha spostato Angelino Alfano, che proprio fuggendo dalla gestione della politica sull’immigrazione, poco politicamente redditizio nel centrodestra, è approdato alla Farnesina, lasciando al Viminale Marco Minniti che ha inaugurato il suo dicastero promettendo un ritorno in pompa magna di Cie ed espulsioni, proprio come Matteo Salvini ha sempre sbraitato di volere.

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