il severo monito di Bauman

 

“neppure i paesi più ricchi e sviluppati possono davvero credere di sopravvivere a un conflitto globale che li veda opposti alla maggioranza povera e disperata degli abitanti del pianeta”

una essenziale ‘rassegna stampa’ in memoria di Bauman dal prezioso sito ‘finesettimana’:

 

La civiltà nasce dalle paure che oggi il potere trasforma in merce politica di Zygmunt Bauman in Corriere della Sera del 10 gennaio 2017

La quantità e l’intensità della paura nelle società umane non rispecchiano più la gravità oggettiva o l’imminenza del pericolo, ma l’abbondanza di offerte sul mercato e l’intensità della promozione (o propaganda) commerciale.
Sono assai rare le star della cultura. Ma Zygmunt Bauman, scomparso ieri all’età di 91 anni, ha goduto di un’immensa popolarità grazie alla sua capacità di parlare alla gente con un linguaggio semplice e comprensibile, mai riduttivo. Lascia un vuoto incolmabile: aumenterà la «solitudine del cittadino globale», privo della sua voce indignata e rassicurante.
La destinazione prescelta potrebbe essere irraggiungibile. La sua visione, però, ci sprona, ci induce a metterci in cammino e a continuare a camminare.
il populismo, di destra e di pseudo-sinistra: «Alcuni acchiappavoti, che si presentano come outsider non toccati dalla corruzione fino al momento, riescono a lucrare sulla frustrazione dell’elettorato facendo promesse che sanno benissimo non potranno mantenere una volta eletti»
Era la voce narrante di una modernità privata delle sue “solide” basi economiche, l’analista di un mondo orfano della grande industria di massa, ma ancora combattivo e desideroso di riscossa dalle iniquità estreme e da un consumismo cieco
«Ma io, a dispetto di tutto, sono ottimista. Per un motivo molto semplice: neppure i paesi più ricchi e sviluppati possono davvero credere di sopravvivere a un conflitto globale che li veda opposti alla maggioranza povera e disperata degli abitanti del pianeta».
La crisi economica ha scompaginato in maniera irrimediabile il quadro, generando diseguaglianze e distruggendo larghe fasce di classi medie.., mentre i flussi migratori li spaventavano facendoli diventare sensibili ai messaggi politici dei populisti in Europa e negli Usa, con la crescita dell’instabilità istituzionale e della radicalizzazione dello scontro con chiunque viene percepito come diverso o non assimilabile. In politica si proclamava con orgoglio socialista.
E’ stato capace di trasmettere a molti di noi, anche per merito di un linguaggio immaginifico ma semplice, il senso delle sue riflessioni critiche. Che non è un merito da poco
un serio sforzo di definizione filosofica della morale e di proposta di un’etica che contrasti la barbarie. Centrale è la categoria l’Amore che è «accettazione incondizionata della diversità dell’altro e del suo diritto alla propria diversità (…). L’amore consiste nell’abbracciare l’Altro come valore in sé».
Francesco è oggi la guida una chiesa dove – almeno nelle intenzioni del suo pontefice – la verità non è più dogmatica, ma è la partecipazione caritatevole di molti. La caritas prima di tutto. Non per nulla quella di Francesco è la sola voce radicalmente a favore dell’accoglienza in tema di migrazioni. Un tema che a Bauman stava molto a cuore.
“Un dialogo necessario tra laici e credenti per la costruzione della pace e di una società più inclusiva, perché il dio dell’altro non è più dall’altra parte del confine, ma è qui”. Anche perché Zygmunt Bauman non ammetteva alternative: “Il dialogo è una questione di vita o di morte: o ci capiamo, o toccheremo il fondo insieme”. Dialogo messo in pratica da lui stesso, incontrando Papa Francesco.
… fra le cose che mi ha insegnato c’è anche la consapevolezza che la vita che abitiamo è qualcosa che ci trascende, che è più grande delle nostre piccole o grandi individualità, e che quando ci pensiamo nel mondo dobbiamo andare al di là di noi stessi e dei nostri affetti, e finanche delle altre persone, che dobbiamo riuscire a scioglierci dai laccioli umanistici che ci fanno sentire i padroni del mondo visto che dovremmo piuttosto sentirci al servizio di questo mondo, e onorarlo, e accettare l’inesorabilità che altri prendano il nostro posto. Senza tristezza. Serename
Negli anni Novanta, il filosofo e sociologo orientò i suoi testi verso una comunicazione veloce. E pur parlando di globalizzazione, lavoro, incertezza e amore, diventò un autore di successo, amato dal grande pubblico
È molto amato dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito
«Tutte le culture umane possono essere decodificate come ingegnosi congegni che rendono la vita vivibile, nonostante la consapevolezza della morte».

il mondo migliora non con la competizione ma con la solidarietà

Bauman:

«cari top manager, siate più solidali

esce in questi giorni da Città nuova il libro Il destino della modernità con testi del sociologi Zygmunt Bauman, Chiara Giaccardi e Mauro Magatti a partire dalla domanda «Quale società dopo la crisi economica?» (pagine 100, euro 12).

alcuni brani firmati da Zygmunt Bauman
L’anelito di libertà ha attraversato tutta la storia dell’umanità, dando vita a movimenti politici, ordinamenti giuridici e sistemi economici. Oggi la società occidentale è autenticamente libera? Partendo da tale interrogativo, Zygmunt Bauman, il teorico della società liquida, e i sociologi Mauro Magatti e Chiara Giaccardi indagano sull’esito paradossale del poderoso sviluppo economico degli ultimi 40 anni. Il progresso ha aumentato le potenzialità di scelta dell’uomo, ma lo ha ingabbiato in una concezione radicalmente individualista dell’esistenza umana, prigioniero del consumismo, degli apparati tecno-economici e della volontà di affermare se stesso.

Ritengo che la questione centrale che investe la libertà nel mondo contemporaneo sia rappresentata dall’alternativa tra il concetto di competizione e quello di solidarietà.

La competizione è, di fatto, una concorrenza che spinge ogni essere umano a portare avanti la propria posizione e che porta a sostenere: «Io voglio che le cose siano come io le desidero». La solidarietà, invece, presuppone l’idea che tutti gli uomini e le donne possano vivere insieme in modo collaborativo e possano cercare di diventare, tutti, più felici.

Nella società odierna, mi sembra di poter rilevare che ci sono alcuni elementi della libertà umana che sono quanto meno in discussione se non addirittura in pericolo. Le capacità di scelta che sono nella disponibilità degli uomini si stanno, infatti, progressivamente restringendo; la responsabilità decisionale, inoltre, viene negata a molte persone; e la speranza, infine, per molti giovani, di poter realizzare e mettere in pratica ciò che è stato insegnato loro dalla scuola, dalla famiglia e dalla società sembra venir meno. Una percentuale molto alta di questi giovani, infatti, dopo aver completato la loro istruzione – anche solo quella superiore – è molto felice della formazione che ha ricevuto e dell’impegno che ha profuso per raggiungere determinate competenze. Tuttavia, una volta concluso il ciclo scolastico, essi si trovano a entrare in un mercato del lavoro estremamente difficile, dove è molto complicato trovare un’occupazione. Molto spesso non riescono a trovare il tipo di lavoro per cui si sono preparati, per cui hanno investito il loro tempo, che rispecchi i loro desideri e che dia un senso alla propria vita, rendendo la propria esistenza più gratificante possibile.

La società attuale, infatti, sta lentamente e costantemente diventando una società oligarchica in cui la classe politica – sempre più autoreferenziale – invece di farsi carico dei problemi della società e di interessarsi di coloro che hanno più bisogno di aiuto e di assistenza, continua a garantire la possibilità che la ricchezza si accumuli nelle mani di poche persone. E questo non solo è da condannare a livello morale ed etico, ma è anche pericoloso per i valori della democrazia e della meritocrazia.

Cosa significa meritocrazia? I principi della meritocrazia sono stati definiti già nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il cui primo articolo afferma che «le distinzioni socia- li non possono fondarsi che sull’utilità comune». Cioè su quanto una singola persona può dare allo sviluppo del benessere di tutta la società. Oggi, però, sta accadendo esattamente il contrario. Thomas Piketty, a questo proposito, ha messo bene in evidenza come l’aumento delle disuguaglianze rifletta ampiamente una esplosione ‘senza precedenti’ dei più alti redditi da lavoro e la separazione sociale che esiste, di fatto, tra la vita dei top manager delle grandi aziende e il resto della popolazione. I più importanti dirigenti aziendali, infatti, avendo il potere di stabilire i propri compensi, si sono attribuiti delle retribuzioni che in moltissimi casi – e ‘senza alcun contegno’, scrive sempre l’economista francese – non hanno un evidente rapporto con la loro ‘produttività individuale’.

Se siamo d’accordo con la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, ovvero che la distinzione sociale può essere basata soltanto sull’utilità alla comunità, allora dovremmo declinare il criterio di utilità con quello di solidarietà: ovvero con il proposito di condividere il miglioramento della vita umana con tutti gli altri membri della comunità.

perché viviamo con tanta paura e incertezza addosso?

alle radici dell’insicurezza

intervista a Zygmunt Bauman Zygmunt Bauman

a cura di Davide Casati
in “Corriere della Sera”

Quella a cui stiamo assistendo — in modo così prossimo e sconvolgente, nelle ultime settimane — è un’epoca segnata «dalla paura e dall’incertezza. E non bisogna illudersi: i demoni che ci perseguitano non evaporeranno». Anche perché — spiega il filosofo e sociologo polacco Zygmunt Bauman, uno dei grandi pensatori della sfuggente modernità in cui viviamo — la loro origine ha a che fare con gli stessi elementi costitutivi della nostra società e delle nostre vite

Professor Bauman, di fronte alla catena di attacchi di questi giorni, l’Europa si trova a fare i conti con un abisso di paura e di insicurezza. Quali risposte possono colmarlo?

«Le radici dell’insicurezza sono molto profonde. Affondano nel nostro modo di vivere, sono segnate dall’indebolimento dei legami interpersonali, dallo sgretolamento delle comunità, dalla sostituzione della solidarietà umana con la competizione senza limiti, dalla tendenza ad affidare nelle mani di singoli la risoluzione di problemi di rilevanza più ampia, sociale. La paura generata da questa situazione di insicurezza, in un mondo soggetto ai capricci di poteri economici deregolamentati e senza controlli politici, aumenta, si diffonde su tutti gli aspetti delle nostre vite. E quella paura cerca un obiettivo su cui concentrarsi. Un obiettivo concreto, visibile e a portata di mano».

Un obiettivo che molti individuano nel flusso di profughi e migranti.

«Molti di loro provengono da una situazione in cui erano fieri della propria posizione nella società, del loro lavoro, della loro educazione. Eppure ora sono rifugiati, hanno perso tutto. Al momento del loro arrivo entrano in contatto con la parte più precaria delle nostre società, che vede in loro la realizzazione dei loro incubi più profondi».

Di fronte a questa sfida, si moltiplicano i richiami da parte di alcune forze politiche alla costruzione di nuovi muri. Si tratta di una risposta sensata?

«Credo che si debba studiare, memorizzare e applicare l’analisi che papa Francesco, nel suo discorso di ringraziamento per il premio Charlemagne, ha dedicato ai pericoli mortali della “comparsa di nuovi muri in Europa”. Muri innalzati — in modo paradossale, e in malafede — con l’intenzione e la speranza di mettersi al riparo dal trambusto di un mondo pieno di rischi, trappole e minacce. Il Pontefice nota, con preoccupazione profonda, che se i padri fondatori dell’Europa, “messaggeri di pace e profeti del futuro”, ci hanno ispirato nel “creare ponti, e abbattere muri”, la famiglia di nazioni che hanno promosso sembra ultimamente “sempre meno a proprio agio nella casa comune. Il desiderio nuovo, ed esaltante, di creare unità sembra svanire; noi, eredi di quel sogno, siamo tentati di soffermarci solo sui nostri interessi egoistici, e di creare barriere”».

Nei suoi studi, lei ha indicato come valori fondativi delle nostre società la libertà e la sicurezza: dopo un’epoca in cui, per far crescere la prima, abbiamo progressivamente rinunciato alla seconda, ora il pendolo sta invertendo il suo corso. Quali riflessi politici ne derivano? Zygmunt Bauman1

«Di fronte a noi abbiamo sfide di una complessità che sembra insopportabile. E così aumenta il desiderio di ridurre quella complessità con misure semplici, istantanee. Questo fa crescere il fascino di “uomini forti”, che promettono — in modo irresponsabile, ingannevole, roboante — di trovare quelle misure, di risolvere la complessità. “Lasciate fare a me, fidatevi di me”, dicono, “e io risolverò le cose”. In cambio, chiedono un’obbedienza incondizionata».

Sembra quello che sta proponendo il candidato alla presidenza degli Stati Uniti Donald Trump, le cui posizioni su sicurezza e immigrazione sono state di recente indicate dal presidente ungherese Viktor Orban come modelli anche per l’Europa

«Quella a cui stiamo assistendo è una tendenza preoccupante: istanze di tipo sociale, come appunto l’integrazione e l’accoglienza, vengono indicate come problemi da affidare a organi di polizia e sicurezza. Significa che lo stato di salute dello spirito fondativo dell’Unione Europea non è in buona salute, perché la caratteristica decisiva dell’ispirazione alla base dell’Ue era la visione di un’Europa in cui le misure militari e di sicurezza sarebbero divenute — gradualmente, ma costantemente — superflue».

L’Islam è indicato da alcune forze politiche — ad esempio, la tedesca Pegida — come una fede intrinsecamente violenta, incompatibile con i valori occidentali. Che ne pensa?

«Bisogna assolutamente evitare l’errore, pericoloso, di trarre conclusioni di lungo periodo dalle fissazioni di alcuni. Certo: come ha detto il grandissimo sociologo tedesco Ulrich Beck, al fondo della nostra attuale confusione sta il fatto che stiamo già vivendo una situazione “cosmopolita” — che ci vedrà destinati a coabitare in modo permanente con culture, modi di vita e fedi diverse — senza avere compiutamente sviluppato le capacità di capirne le logiche e i requisiti: senza avere, cioè, una “consapevolezza cosmopolita”. Ed è vero che colmare la distanza tra la realtà in cui viviamo e la nostre capacità di comprenderla non è un obiettivo che si raggiunge rapidamente. Lo choc è solo all’inizio».

Siamo destinati quindi a vivere in società nelle quali il sentimento dominante sarà quello della paura?

«Si tratta di una prospettiva fosca e sconvolgente, ma attenzione: quello di società dominate dalla paura non è affatto un destino predeterminato, né inevitabile. Le promesse dei demagoghi fanno presa, ma hanno anche, per fortuna, vita breve. Una volta che nuovi muri saranno stati eretti e più forze armate messe in campo negli aeroporti e negli spazi pubblici; una volta che a chi chiede asilo da guerre e distruzioni questa misura sarà rifiutata, e che più migranti verranno rimpatriati, diventerà evidente come tutto questo sia irrilevante per risolvere le cause reali dell’incertezza. I demoni che ci perseguitano — la paura di perdere il nostro posto nella società, la fragilità dei traguardi che abbiamo raggiunto — non evaporeranno, né scompariranno. A quel punto potremmo risvegliarci, e sviluppare gli anticorpi contro le sirene di arringatori e arruffapopolo che tentano di conquistarsi capitale politico con la paura, portandoci fuori strada. Il timore è che, prima che questi anticorpi vengano sviluppati, saranno in molti a vedere sprecate le proprie vite».

Lei ha sostenuto che le possibilità di ospitalità non sono senza limiti, ma nemmeno la capacità umana di sopportare sofferenza e rifiuto lo è. Dialogo, integrazione ed empatia richiedono però tempi lunghi…

«Le rispondo citando ancora una volta papa Francesco: “sogno un’Europa in cui essere un migrante non sia un crimine, che promuove e protegge i diritti di tutti senza dimenticare i doveri nei confronti di tutti. Che cosa ti è accaduto, Europa, luogo principe di diritti umani, democrazia, libertà, terra madre di uomini e donne che hanno messo a rischio, e perso, la propria vita per la dignità dei propri fratelli?”. Queste domande sono rivolte a tutti noi; a noi che, in quanto esseri umani, siamo plasmati dalla storia che contribuiamo a plasmare, consapevolmente o no. Sta a noi trovare risposte a queste domande, e a esprimerle nei fatti e a parole. Il più grande ostacolo per trovarle, quelle risposte, è la nostra lentezza nel cercarle».

“saranno le migrazioni e decidere il destino dell’Europa”

contro l’Europa del sospetto

intervista a Zygmunt BaumanZygmunt Bauman1

a cura di Fulvio Scaglione

 

Saranno le migrazioni e decidere il destino dell’Europa? La domanda, che sarebbe parsa avventata solo poco tempo fa, domina oggi il dibattito politico come le discussioni quotidiane. Il referendum sulla Brexit è stato in gran parte giocato su questo tema. E così anche la campagna elettorale per le elezioni presidenziali austriache, che la Corte Costituzionale ha deciso di far ripetere. Due momenti di scelta che hanno spaccato a metà Gran Bretagna e Austria e hanno di colpo rivelato la precarietà dell’assetto istituzionale comunitario. 

Il professor Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo, è il più acuto studioso della società postmoderna e ha raccontato in pagine memorabili l’angoscia dell’uomo contemporaneo, trasformatosi da produttore in consumatore. La sua metafora della “società liquida” (in cui l’individuo è sempre più costretto ad adeguarsi ai comportamenti dei gruppi per non sentirsi escluso) è ormai diventata proverbiale. Nato in Polonia da genitori ebrei, Bauman conobbe da ragazzo l’esperienza della fuga davanti alla persecuzione e dell’esilio. Forse anche per questo il suo punto di vista sull’incontro-scontro tra migranti ed Europa è originale e contro corrente.

«Oggi si fa spesso confusione tra fenomeni assai diversi», dice Bauman. «Uno è l’emigrazione-immigrazione, da un luogo verso un altro luogo. Tutt’altra cosa è la migrazione: che muove da un luogo, certo, ma verso dove? I due fenomeni hanno radici molto diverse ma effetti molto simili, perché simili sono le condizioni psicosociali dei luoghi di approdo. Umberto Eco, ben prima dell’attuale panico da migrazioni, notò nei suoi Cinque scritti morali che l’immigrazione può essere controllata, limitata, pianificata o accettata, mentre questo non è il caso delle migrazioni. Come tutti i fenomeni naturali, le migrazioni non possono essere controllate. Eco si faceva allora una domanda cruciale: è ancora possibile distinguere l’immigrazione dalla migrazione, quando l’intero pianeta sta diventando teatro di un incessante spostamento incrociato di popoli? E si rispondeva: l’Europa diventerà un continente multirazziale o “colorato”, che ci piaccia o no».

Zygmunt Bauman

Secondo molti studi, per esempio quelli del Pew Research Center di Washington, oggi gli europei sono i più ostili ai migranti. Come si spiega questo, in un continente che nel passato anche recente ha mandato migranti in tutto il mondo?
«Oggi gli europei hanno paura del futuro, hanno perso la fiducia nella capacità collettiva di mitigarne gli eccessi e renderlo più amichevole. La parola “progresso”, che ancora usiamo per inerzia, evoca emozioni opposte a quelle che sentiva Immanuel Kant quando coniò il termine. Il pensiero del futuro, oggi, desta in noi più spesso l’idea di una catastrofe imminente che non quella di una vita più confortevole. E lo straniero rappresenta tutto ciò che di instabile e imprevedibile c’è nella nostra vita. Per questo guardiamo ai migranti come a un segno visibile e tangibile della fragilità del nostro benessere e delle sue prospettive. Come direbbe il filosofo Michael Walzer, è sempre in primo luogo contro gli stranieri che i residenti di un quartiere “si organizzeranno per difendere le loro politiche e culture locali” e proveranno a trasformarlo in un “piccolo Stato”. Però è assai difficile, per non dire impossibile, costruire uno Stato futuro libero da stranieri. Quindi l’immagine-guida di questo sforzo viene quasi sempre recuperata dal passato. Il passato com’era ma, ancor più spesso, come può essere immaginato: tutto “nostro”, senza sfumature, non ancora intaccato dall’importuna vicinanza degli “altri”. È la reazione tipica della politica che, quando perde la capacità di dar forma al futuro, tende a trasferirsi nello spazio della memoria collettiva, che può essere facilmente manipolata e dà una sensazione di beata onnipotenza. È un’illusione? Sì, certo. Ma è un’illusione che tiene a galla un numero sempre crescente di noi europei».

Eppure per giustificare l’ostilità nei confronti dei migranti si adducono questioni economiche. In sostanza: non abbiamo i soldi per accoglierli.
«Le ragioni psicosociali e culturali vengono travestite da ragioni economiche per renderle più “razionali” e quindi “politicamente corrette”. Le ricerche più serie mostrano che gli immigrati contribuiscono alla ricchezza del Paese d’arrivo più di quanto prendano in termini di servizi sociali. Altri studi, oltre alle conclusioni del comune buonsenso, mostrano che la diffidenza nei confronti di immigrati e migranti è maggiore laddove ce n’è un numero minore. Nella campagna referendaria per la Brexit i residenti delle aree con meno immigrati hanno votato per portare la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Londra, città di infinite diaspore culturali ed etniche, ha votato per restare. Il sospetto quindi è che l’ostilità verso gli “alieni” sia generata soprattutto dal non avere avuto l’opportunità di sviluppare la capacità di interagire con le differenze. Mancando questa, è facile che gli stranieri diventino il simbolo delle forze, reali ma lontane e ignote, che regolano l’andamento del mondo e generano quel sentimento di precarietà che angoscia tanti europei».

L’Europa e altre parti del mondo si stanno riempiendo di muri. Non è straordinario che di fronte a fenomeni così complessi ci si affidi a strumenti così primitivi?
«Viviamo la crisi della separazione tra potere e politica: i poteri si affrancano dal controllo della politica e la politica perde così il più importante tra i presupposti per produrre azioni effettive. Ma sopra questa crisi ce n’è un’altra, l’incongruenza segnalata dal sociologo Ulrich Beck: viviamo già in una condizione cosmopolita di interdipendenza e scambio a livello planetario, ma la nostra consapevolezza cosmopolita è ancora ai primi vagiti. Il sociologo americano William Fielding Ogburn nel 1922, in piena epoca colonialista e imperialista, coniò l’espressione “ritardo culturale” per descrivere il disagio dei “selvaggi” che erano esposti a una forte pressione verso la modernizzazione ma erano ancora innocenti rispetto alla mentalità moderna. È come se oggi fossimo noi europei a portare il bastoncino nella corsa a staffetta tra i continenti, il che genera ansia. Il mercato, sotto forma di merci e di beni, ci offre un’ampia gamma di antidepressivi e anti-tutto. Vuole spingere ognuno di noi a ritagliarsi una piccola nicchia consolante e ben attrezzata. Ognuno per sé e gli altri si arrangino. Così ci accecano rispetto alla natura del nostro problema invece di aiutarci a sradicarne le cause».

E per aiutare la gente, invece, ad aprire gli occhi?
«C’è una personalità assai determinata nel sollevare certe questioni, ed è papa Francesco. Che lo fa, peraltro, senza pretendere di avere la bacchetta magica ma, al contrario, invitando a fare sforzi giusti ma che potrebbero anche fallire. C’è un passo del discorso che tenne il 6 maggio 2016, al conferimento del Premio Carlomagno, che andrebbe imparato a memoria: “Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro, portando avanti la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni (Evangelii gaudium, 239). La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione”. Papa Francesco vuole sottrarre le sorti della pacifica convivenza ai politici di professione e al reame oscuro della politica per portarle nelle strade, tra i negozi e gli uffici, negli spazi pubblici dove noi tutti ci incontriamo. Vuole affidare le speranze del genere umano non ai generali dello “scontro di civiltà” ma a noi soldati semplici della vita quotidiana. Perché questo accada, però, devono realizzarsi anche altre condizioni e il Papa ce le ricorda: “La giusta distribuzione dei frutti della terra e del lavoro umano non è mera filantropia. È un dovere morale. Se vogliamo pensare le nostre società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani. Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da un’economia liquida a un’economia sociale”. Ho una sola parola da aggiungere: amen».

(Avvenire, 13 luglio 2016)

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