la bufala del selfie di papa Fracesco

il primo selfie di Papa Francesco?

è una bufala

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Sta girando da qualche ora, rilanciato via Twitter a suon di retweet, quello che in tanti hanno definito “il primo selfie di Papa Francesco”. Peccato che non ci sia niente di vero. Se ora sappiamo che un selfie del Santo Padre ha delle altissime potenzialità virali, ci spiace deludere i più creduloni: si tratta di un falso confezionato (quasi) ad arte.

 L’immagine arriva da un videochat di Papa Francesco del settembre dello scorso anno (trovate il video integrale a questo indirizzo), mentre a rilanciare il falso “selfie” ci ha pensato un account fake del Vaticano su Instagram, che si presenta come “the official IG of the Holy See e conta su ben 146 mila seguaci e 604 immagini già caricate.

A crederci sono stati in tanti – 11.600 mi piace in poche ore e migliaia di condivisioni su Twitter – e anche qualche organo di stampa internazionale non ci ha pensato due volte prima di pubblicarlo sui propri profili social.

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si aprirà l’islam alla realtà dei gay?

imam e gay

“la mia rivoluzione nell’Islam”

intervista a Ludovic-Mohamed Zahed

di Luca Tancredi Barone

Omosessuale. Musulmano. Algerino emigrato in Francia. Imam. Sposato e divorziato. Un master in psicologia cognitiva. Due dottorati: antropologia religiosa (con una tesi non sorprendentemente centrata sull’Islam e l’omosessualità) e l’altro in psicologia sociale delle religioni. A Ludovic-Mohamed Zahed (nato Lotfi Mohamed), 38 anni, non manca davvero nessun elemento per cortocircuitare le sovrastrutture delle sue multiple identità.

Effeminato, lo hanno sempre preso in giro a scuola. Il fratello grande lo picchiava perché fosse “più uomo”. Durante la guerra civile si unisce alla comunità salafita e impara l’arabo e a leggere il Corano. Fu allora che decise di diventare imam, guida spirituale per gli altri fedeli, e di dedicarsi all’esegesi del Libro sacro. Ma capisce anche con dolore e violenti rifiuti che quello che sente per alcuni suoi fratelli salafiti non è solo amore spirituale. Si allontana anche dal salafismo, troppo ideologico per lui. Si avvicina per un breve periodo al buddismo. Tornato a Marsiglia, a 19 anni ingenuamente si innamora, senza saperlo, di un votante del Front National. Che, mentendogli, gli contagia il virus dell’Hiv. Fa un difficile coming out in famiglia, anche se oggi entrambi i genitori lo accettano e “hanno capito che l’omosessualità non è una scelta, una malattia, un peccato o una moda”, racconta.

Nel 2012 diventa famoso in tutto il mondo per aver fondato a Parigi la “Moschea inclusiva dell’unità”, la prima moschea gay-friendly in Europa: “un luogo di protezione e adorazione, con preghiere comuni praticate in un contesto egualitario e senza alcuna forma di discriminazione basata sul genere, e basata su una interpretazione progressista dell’Islam”, secondo la sua definizione.

Lei è un coacervo di stigmi. In quale delle identità si sente più a suo agio? Quale comunità la accetta di più?

Tutto è difficile. Ma è paradossale: è più facile quando sei discriminato su più fronti, perché sei più forte e sei capace di superare ogni stigma. Lo stigma può spazzarti via dalla faccia della terra o farti più forte. Dopo che hai affrontato la prima discriminazione, poi la seconda, la terza… cominci a capire cosa c’è alla base di ogni discriminazione. Il meccanismo è sempre lo stesso, solo la facciata cambia.

Come è diventato imam? Chi l’ha scelto?

Ho fondato la prima moschea inclusiva in Europa a Parigi, e avevo studiato teologia islamica 5 anni in Algeria. La mia comunità e l’organizzazione di omosessuali musulmani di cui ero parte mi hanno detto: abbiamo bisogno di un imam, e io ho detto: d’accordo, ma solo se studierete con me per diventare anche voi imam. Poi si sono aggiunte molte persone che volevano pregare con noi, anche etero che volevano sapere di che parlavamo. Perché, quando si parla di islam, si parla di cose che vogliamo applicare alla nostra vita. E quindi eravamo gay e transessuali che curiosamente eravamo la avanguardia del nuovo islam riformato in Francia. Oggi comunque non sono più l’imam principale. Io volevo solo istruire altre persone e dire loro: ora siete liberi di fare quello che pensate sia meglio per voi. Io ora mi concentro più sulla ricerca.

Si può smettere di essere imam?

Ci sono diversi tipi di imam. L’imam che guida le preghiere, l’imam che fa le fatwā – quindi ricerca, pubblicazioni, eccetera: un teologo – e infine l’imam che insegna ad altri imam nella madrasa. Prima guidavo più le preghiere, oggi faccio più ricerca e insegnamento.

La moschea dell’unità che ha fondato è realmente significativa nel mondo musulmano o è un’eccezione?

Mi piacerebbe dire che ogni moschea è un’eccezione perché come noto non esiste un clero nell’islam. C’è piena libertà, con tanti svantaggi: ciascuno può dire di essere un imam e che ucciderà tutti perché gliel’ha detto Dio. Ma allo stesso tempo, se invece vuoi riformare la visione dell’islam, è molto semplice. Basta avere una comunità alle spalle.

Sembra che la posizione dell’Islam sull’omosessualità sia abbastanza chiara: incompatibilità assoluta. Come riesce a far convivere le sue due identità?

Spesso si indicano Sodoma e Gomorra, nell’antica Mesopotamia. Secondo lo storico Erodoto, la gente di quelle città adorava una dea dell’amore e della guerra, che era una rappresentazione molto violenta della loro religione. Le offrivano la verginità e la sessualità dei loro figli e delle loro figlie per fertilizzare i campi. A quei tempi, i preti usavano già il loro potere per controllare le identità della gente. La vera gente di Sodoma e Gomorra non era omosessuale. Gli uomini, le donne e i bambini erano interessi da sacrificare.

C’è un verso importante nel Corano: Dio parla agli abitanti di Sodoma e Gomorra attraverso la bocca degli angeli. Non c’è alcuna referenza all’omosessualità nel Corano. Menziona soltanto lo stupro di uomini, donne e bambini nel nome di un’ideologia. Esattamente quello che fanno i leader musulmani fascisti e immorali oggi nel nome dell’islam. Sono loro i veri sodomiti, non gli omosessuali.

Nonostante le dichiarazioni di molti accademici musulmani, la posizione dell’islam sull’omosessualità è molto complicata. Benché molti musulmani credano che Allah abbia una netta preferenza a che i fedeli si impegnino in matrimoni eterosessuali date le lodi che ne fa, in realtà né Allah né il Profeta (che la pace discenda su di lui) hanno mai apertamente bandito le relazioni omosessuali per i musulmani, né Allah ha mai condannato identità sessuali alternative.

Alcuni accademici musulmani invece bandiscono del tutto l’omosessualità basandosi sulla loro interpretazione dei versi 4:15-16 del Corano [che condannano uomini e donne che hanno relazioni fuori dal matrimonio, ndr] e sulla loro lettura sbagliata della storia di Lot [che nella Bibbia scappa da Sodoma e Gomorra e la cui moglie si trasforma in statua di sale, ndr].

La posizione del Corano e dell’Hadíth [l’insieme dei racconti sulla vita di Maometto che costituisce la Sunna, parte integrante del diritto islamico assieme al Corano, ndr] sull’omosessualità è molto più complessa di quanto si immaginino molti musulmani. Tra i compagni del Profeta, c’erano i “mukhannathun”, gruppo di omosessuali travestiti, talvolta mal tradotti con la parola “eunuchi”, ermafroditi o uomini effeminati. Anche se è chiaro che molti dei compagni erano loro fortemente ostili, il Profeta ne protesse almeno uno da un linciamento. Non solo li tollerava, ma – secondo un verso del Corano – ne impiegò uno in casa. Dopo la morte del Profeta, molti mukhannathun ebbero un ruolo molto importante nella vita e nella cultura della città di Medina. I mukhannathun, che il Profeta si rifiutò di eliminare nonostante le pressioni dei suoi compagni, sopravvivono ancora oggi nei paesi musulmani.

Lei sostiene spesso che se oggi fosse vivo, Maometto sposerebbe le coppie gay. Come può esserne tanto certo?

Ne sono certo perché era una persona pragmatica che rispettava il benessere delle persone, secondo la tradizione. Cinque anni fa fondai l’organizzazione degli Omosessuali musulmani di Francia perché non volevo rifiutare né la mia omosessualità né il mio islam. Quando scoprii che potevo essere entrambe le cose, trovai pace. La Fratellanza salafita era molto importante in Algeria negli anni Novanta. Quando ero adolescente, ero molto affascinato dall’islam, e fu per questo che mi unii a loro nelle moschee, e diventai salafista. Allora era l’unico islam disponibile. È così che imparai l’arabo e a leggere il corano a memoria. Sfortunatamente tutta la filosofia di vita bellissima di rispetto contenuta nell’islam era macchiata da un’ideologia che era il contrario della spiritualità religiosa. Oggi rifiuto totalmente una rappresentazione fascista o politica della mia tradizione spirituale che so essere ispirata dalla pace.

Per lei l’islam sociologicamente non esiste. L’islam sono i suoi fedeli, come lei. Per cui dice che chiunque voglia escludere per esempio gay o donne si mette fuori dall’islam. Come possiamo essere sicuri che non sia lei a essere fuori dalla fede?

Sociologicamente, l’islam non è vivo e non parla. La nostra relazione con il divino è unica per ciascun essere umano, senza maestri fra Dio e ciascuno di noi. In arabo lo chiamiamo Tawhid: unicità di Dio che rispecchia l’unità umana, attraverso il pluralismo e la diversità. Questa è la mia rappresentazione dell’islam: “essere in pace”, come dicevo. La sfida maggiore di oggi nelle società arabo-musulmane è il fascismo, che è una minaccia comune a tutte le società che vivono una crisi economica e politica. Ma questo non ha nulla a che fare con l’islam o la cultura araba in sé. Alcuni vogliono imporre un’ideologia fascista attraverso l’islam. Purtroppo questo succede continuamente in molte culture e religioni. Loro cercano di mostrare una facciata di bontà e felicità, ma pensano solo a se stessi, sono concentrati sulle loro paure e fobie. E hanno bisogno di trovare capri espiatori, e di solito sono le minoranze religiose o etniche. Il vero problema è che la società islamica è perduta. Un giorno forse troveremo il modo di risolvere questo problema, Insh’Allah, con la volontà di Dio. Io sono sicuro che Dio rispetta la mia scelta perché per me l’islam aiuta ciascuno di noi nella sua ricerca della felicità, mentre il fascismo pretende solo di normalizzare e poi controllare le sessualità.

Da giovane lei fu un salafita. Oggi difende un islam spirituale invece di un islam dogmatico. Mi spiega che significa?

Essere salafista a 12 anni voleva solo dire imparare il Corano e tornare al “salaf”, la fonte dell’islam. Non voleva dire essere fascista. La differenza fra i due tipi di islam è la politica. Islam, come ho già detto, significa essere in pace. E non potrebbe mai essere usato per controllare la libertà delle persone. È basato sulla conoscenza di sé, degli altri e del rispetto proattivo della diversità. Di conseguenza, la conoscenza dell’islam, in particolare della rappresentazione che cercano di stabilire le “nuove teologie islamiche” può contribuire a combattere pacificamente l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia incoraggiando ciascun individuo a trovare in lui o lei l’interpretazione più giusta del messaggio divino rispetto alla nostra umanità. In questa conoscenza della teologia islamica della liberazione, e in particolare il contributo degli attivisti e degli intellettuali LGBT o delle femministe, può apportare alla materia un valore aggiunto alla coscienza umana. In una parola, il Tawhid islamico può permettere agli individui, che appartengano o no a una minoranza sessuale, di vivere meglio e accettarsi. L’islam è un fattore di emancipazione che incoraggia all’autodeterminazione, non un fattore d’oppressione. Quando apparve l’islam, fu una vera rivoluzione. Lo è ancora: musulmano è progressista e inclusivo.

Torniamo alla Francia. Come crede che stia gestendo la convivenza con il mondo musulmano? Crede che il modello laicista francese possa essere esportato?

Sono trent’anni che in Francia stiamo cercando un rinnovato equilibro stabile tra la laicità e il cosiddetto “islam francese”: non un islam importato, ma una rappresentazione del nostro background adattato alle nostre leggi e al nostro contesto culturale qui e ora. Abbiamo ancora questioni aperte come può immaginare.

Una cosa che viene in mente pensando alla Francia di oggi è anche l’attentato contro la rivista Charlie Hebdo. È possibile secondo lei ridere di un gay musulmano?

Credo proprio di sì. Anni fa avevamo una striscia comica regolare nella newsletter quadrimensile di HM2F. Può cercarle, si trovano ancora online.

Un paio di domande personali, se mi permette. Come spiega l’essersi innamorato in più di una occasione di votanti del Front National? Lo dico evidentemente con tutto il rispetto per le scelte emozionali di ciascuno.

Molto semplicemente perché come può immaginare nessuno di loro si presenta dicendo: “mi chiamo … e, a proposito, voto FN”.

E il suo coming out? Immagino non sia stato semplice.

Vengo da una famiglia, in Algeria, molto conservatrice. I miei genitori, musulmani, però sono in un certo senso più liberali. Sono loro ad avermi insegnato che l’islam è fatto più di spiritualità che di dogmi religiosi. Ma – lo racconto nella mia autobiografia – ero un bambino timido ed effemminato. Mio padre mi insultava spesso per questo. Mio nonno paterno era anche peggio: a volte era anche fisicamente aggressivo. Ecco perché decisi di fare il mio coming out a 21 anni. Fu proprio l’essere attaccato violentemente che mi ha spinto a prendere coraggio per fare questo passo. Sembra strano, ma so che anche ad altri succede di decidere di fare questo passo quando vengono attaccati fisicamente. Io ero attaccato e discriminato in casa perché gay; fuori casa dovevo sopportare anche l’islamofobia perché sono musulmano e arabo. Ho fatto coming out perché avevo la necessità di trovare il mio posto nella società. Poi, per fortuna, ho avuto la fortuna di poter lavorare, studiare e viaggiare. Oggi ho ritrovato un equilibrio interiore, precario come per tutti, e sono molto più forte, con una vita sociale più bilanciata.

(10 dicembre 2015)

 
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i centomila nomi di un campo nomadi

‘campo nomadi’

i 25 nomi di una realtà innominabile

 di
Presidente Associazione 21 luglio
Campo Nomadi

Secondo il Corano è impossibile arrivare a una definizione di Dio che lo contenga nella sua essenza. Ciò che resta è cercare una parola, necessariamente incompleta, che ne indichi una parte e che ne mostri un riflesso della realtà. I 99 nomi di Allah rappresentano quindi il tentativo umano, limitato e parziale, di codificare una realtà divina nella sua pienezza.

Nella nostra esperienza quotidiana sono molteplici le realtà, divine e umane, che rientrano nella categoria dell’indefinibile. Tra queste troviamo quella discussa e contrastata del “campo nomadi”, che nominiamo in maniera diversa a seconda dell’aspetto che di esso vogliamo sottolineare. Il “campo nomadi” è all’interno della visione simbolica del margine, esiste perché esiste un confine, fisico e mentale, che lo circoscrive, rappresentando uno strappo invisibile del tessuto urbano, una ferita aperta nella periferia delle nostre città. Giuridicamente è una zona grigia, un’enclave del non diritto dentro un quadro giuridico nel quale emerge come un buco nero. E’ progettato e gestito in nome della legalità, ma dalla legalità si allontana per i diritti che al suo interno vengono violati; è transitorio, ma poi si trasforma in permanente; è un camping attrezzato, dove però mancano i servizi essenziali; è un’area per concentrare gli “zingari”, ma poi al suo interno scopriamo esserci cittadini italiani.

Per tale ragione sono molti e inutili i tentativi degli amministratori di inchiodarlo ad una parola istituzionalmente riconosciuta adeguata. Ne ho individuate almeno venticinque; venticinque modalità con cui, da nord a sud, gli amministratori locali hanno cercato di dare nome a qualcosa di istituzionalmente sfuggente.

Il “campo nomadi” di Collegno, Vicenza e Barletta, altro non è che il “campo nomadi di sosta prolungata” di Tortona. A Cosenza l’insediamento sgomberato a Vagli Lise è stato nominato per anni dagli amministratori con un nome politicamente corretto: “campo rom”. Al di là della tipologia molte amministrazioni hanno ancorato il “campo” alla romantica visione del viaggio. Sul territorio comunale di Arezzo insiste un “campo di transito per popolazioni nomadi”, che a Torino diventa “area sosta per nomadi” e nella Provincia Autonoma di Bolzano “villaggio per nomadi”. Il medesimo luogo viene chiamato a Castelfranco “micro-area sosta provvisoria per nomadi”, a Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza, “area destinata alla popolazione nomade”, “area sosta per comunità di nomadi” a San Lazzaro di Savena e, a Verona, “area sosta attrezzata per nomadi/sinti”.

Alcuni Comuni hanno preferito sostituire il termine “campo” con quello più ibrido di “area” e quindi i rom della Bologna vivono in “microaree”. A Seriate una famiglia rom vive in una “microarea permanente” ideata da una giunta di centro-destra che per quella di centro-sinistra di Modena diventa più semplicemente “area sosta”, “area di transito” in alcuni Comuni dell’Emilia Romagna, per trasformarsi in “area di transito attrezzata per la sosta temporanea” nella maggioranza dei comuni padani.

Le macro definizioni restano quelle di “campo” – che a Roma può essere “tollerato” o “non attrezzato”, “consolidato” a Milano” e di “sosta” a Lecce – o di “villaggio”. Questo termine, particolarmente bucolico è diffuso a macchia di leopardo sul territorio italiano. Nelle delibere romane si parla di “villaggio della solidarietà” (con giunte di sinistra) o di “villaggio attrezzato (con giunte di destra) mentre a Torino, quando si costruì l’insediamento di via Germagnano nel 2004 il Comune parlò ambiziosamente di “villaggio residenziale”.

La fantasia degli amministratori trentini è ferma a “villaggio sinti e rom” mentre in Toscana, dove ci si batte il superamento, si è arrivati alla presenza di “micro villaggi”. A Nicastro, in Calabria, c’è un insediamento riservato a cittadini rom italiani presenti in Italia di cinque secoli. Sembra comprensibile che per loro il Comune abbia auto la lungimiranza di costruire un “villaggio di prefabbricati”!

Dietro questi venticinque nomi, tuttavia, si nasconde un’unica realtà. Quella del ghetto etnico racchiuso all’interno di una recinzione metallica che marca il confine visibile tra chi abita l’insediamento e chi vive al di fuori. Quella di una vergogna che è tutta italiana e che non troviamo neanche il coraggio di chiamare per quello che è.

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