due nascite celebrate nello stesso giorno a mettere in sintonia due grandi religioni

le nascite di Gesù e di Maometto dopo 457 anni celebrate nella stessa data…

e piccoli gesti segni di rispetto reciproco

Non accadeva da 457 anni che la celebrazione della nascita di Gesù coincidesse con quella del profeta Maometto. Quest’anno, infatti, il Mawlid al-Nabī verrà ricordato la sera del 24 dicembre nella totalità del mondo arabo. In precedenza, la coincidenza si era verificata nel 1558, mentre nel 1852 il Mawlid coincise con il 25 dicembre. A spiegarlo, in un articolo diffuso sul sito web della Conferenza episcopale francese e citato da L’Osservatore Romano, è padre Vincent Feroldi, direttore del Servizio nazionale per le relazioni con i musulmani.

 
La gioia comune di cristiani e musulmani
La notizia ha suscitato vasta eco in Francia e non solo: “Da giorni – spiega padre Feroldi – i media algerini e marocchini ne parlano. La trasmissione ‘Islam de France’ del 27 dicembre sarà dedicata a questo tema. Alcune diocesi, come quelle di Metz, Angers e Lille, si sono mobilitate attorno all’avvenimento. Cristiani e musulmani, in Belgio come in Maghreb, se ne rallegrano”.
 
Un segno di Dio in questi tempi difficili
“Comunità cristiane e musulmane — scrive ancora padre Feroldi — avranno il cuore in festa. Renderanno grazie a Dio, ciascuna nella propria tradizione, per questa buona novella che è la nascita di Gesù o di Maometto, nascite che saranno fonte di incontro tra uomini e donne credenti e Colui che è fonte di vita, fonte della vita”. “In tale unità di data rarissima – aggiunge padre Vincent – molti vogliono vedervi un segno di Dio, in questi tempi difficili in cui la pace annunciata dagli angeli, la notte di Natale, è maltrattata dalla follia degli uomini”.
 
Festeggiare ciò che unisce senza ignorare ciò che differenzia
Il messaggio lanciato, dunque, dal direttore dell’organismo episcopale è di “festeggiare ciò che ci unisce senza ignorare ciò che ci differenzia”, perché “non si tratta di incorrere in un banale sincretismo, comparando Gesù e Maometto”, ma “questa simultaneità di feste è una bellissima opportunità di incontro e di scambio”, perché “offre la possibilità di dirsi che siamo felici di stare insieme, credenti, in uno stesso atteggiamento spirituale e umano in cui, da una parte, ci rivolgiamo a Dio nella preghiera e, dall’altra, viviamo momenti di fratellanza e amicizia” in famiglia e con il prossimo.
 
Rispetto e riconoscimento reciproci tra le due religioni
L’invito dunque è ad “accoglierci vicendevolmente tra cristiani e musulmani, in questo periodo di Natale, esprimendo “il rispetto ed il riconoscimento reciproci delle due tradizioni religiose”, e dando così “un grande segnale del vivere insieme in quest’epoca in cui, in nome della religione e di Dio, alcuni predicano odio o commettono attentati”. Nel 2015 — conclude padre Feroldi — “Gesù il Salvatore è più che mai segno, grazia e misericordia per tutti gli uomini. È il principe della pace”
(Fonte: RADIO VATICANA)
 
 
… Kamel Layachi, il rappresentante delle comunità islamiche del Veneto, dice “il presepe non ci dà fastidio” e lo fa nelle ore in cui gira per il mondo la notizia dei musulmani che, in Kenya, salvano la vita ai cristiani quando al- Shaabab assalta il bus nel quale si trovavano gli uni e gli altri.
 
I musulmani del pullman in Africa hanno detto ai fanatici affiliati ad Al-Qaeda “ammazzateci tutti musulmani e cristiani, oppure lasciateli andare”. E prima, quando dentro l’autobus si erano accorti di ciò che stava per accadere, si erano scambiati i vestiti gli uni con gli altri per confondere i carnefici. Scambiarsi i vestiti per scambiarsi la pelle, per proteggersi la vita. “O tutti o nessuno”, hanno detto. Prima della professione in un credo religioso è una bella professione di fede nella vita, di quella vita che viene prima di ogni credo religioso. Infatti, a ben pensarci, cosa avevano in comune i salvatori musulamani con le vittime predestinate cristiane? La vita. Stessa patria, stesso pullman, stesso viaggio. Forse stesso luogo di lavoro, stessa guerra, stessa fatica di vivere. Stesso biglietto, stesso diritto di vivere. O tutti o nessuno. Musulmani che non si sentivano “altro” – diversi – rispetto ai cristiani. Bella professione di fede.
 
Tutto ciò che è profondamente umano non può offendere, turbare, né un cristiano né un musulmano. Non erge muri ma è profondo e fondo come le fondamenta di un ponte. Gettare le basi per costruire. Con piccoli gesti, piccoli come un tenace filo d’erba. Piccoli come una frase di auguri. Così dice il figlio di Layachi: “fare gli auguri è un gesto di rispetto”. E questo piccolo rispetto espresso in un piccolo augurio, si conquista la prima pagina della nostra coscienza.
 
 
Piccoli gesti…
 
La comunità musulmana di Taranto ha donato all’arcivescovo Filippo Santoro una statuetta di Gesù Bambino in segno di rispetto per il Natale. La consegna è avvenuta a margine dell’apertura della Porta Santa nella Basilica di San Martino a Martina Franca.
Hanno partecipato i richiedenti asilo dello Sprar di Martina Franca, insieme ad Hassen Chiha, esponente della comunità musulmana di Taranto e tra i fondatori dell’associazione Umat (Unione dei musulmani amici di Taranto). (fonte: ANSA)
 
Comunicato stampa dalla pagina fb del Centro Islamico Crema
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il peccato della guerra

LA GUERRA E’ UN PECCATO

INVOCHIAMO TUTTI MISERICORDIA

di Antonino Drago

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Quello che sta facendo papa Francesco è del tutto straordinario.

Senza tante analisi intellettuali, ha chiamato la situazione internazionale così come farebbe qualsiasi anziano che, per esperienza di vita, sa che la guerra è il peggiore avvenimento possibile, non solo per le morti e le distruzioni, ma anche per la diffusa avidità e corruzione umana. Ha dichiarato l’attuale situazione “una guerra mondiale a pezzetti”

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Poi, si e cacciato personalmente dentro questo tipo di inferno terrestre. E’ andato nell’epicentro della guerra in Africa, a Banguì. A rischio della vita, sulla papa mobile assieme all’iman, ha sfdato la guerra. Lì ha gridato ai guerriglieri: “Deponete le armi!” e ha fatto gridare “Pace!” alle folle.

E’ stata una azione degna di San Francesco, che per fede andò contro tutte le guerre del tempo, (anche se promosse dai cristiani: le crociate). E’ in Africa che il papa ha consacrato in mood particolare il suo nome Francesco, più che con gli atti di misericordia o di umiltà o di semplicità che ci ha fatto vedere nel passato.

In più occorre sottolineare la novità importantissima. Il titolo di questo scritto dice subito quello che pochi giornali hanno riportato; sull’aereo di ritorno dall’Africa ha detto che la guerra è un peccato:

“Noi da anni siamo in una guerra mondiale a pezzi e ogni volta i pezzi sono meno pezzi e sono sempre più grandi. Il Vaticano non so che cosa pensa. Che cosa penso io? Che le guerre sono un peccato.”

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Sappiamo bene che i soldati, per sfogare la loro rabbia o lo scoraggiamento esprimevano i loro sentimenti di contrarietà alla guerra (c’è anche una canzone alpina “I monti scarpazi”). Ma queste sono tutte espressioni soggettive. E’ ben più la frase “La guerra è pazzia!”, che papa Francesco ha gridato (ad esempio, nel silenzio gelido delle autorità civili e militari, davanti al mausoleo per il centinaio di migliaia di morti in guerra di Redipuglia); perché questa espressione è oggettiva. esprime la conclusione di un ragionamento oggettivo, esprime la forza della ragione contro la ragione delle armi. Di fatto, nella Grande Guerra hanno scritto frasi simili, quando erano cappellani militari (volontari, non graduati dell’esercito): Papa Giovanni, Padre Pio, Don Minzoni,… Anche il papa del tempo chiamò pazza quella guerra (“inutile strage”). Nella sua lettera ai cappellani militari Don Milani ha dimostrato che nei suoi cento anni di guerre l’Italia si è comportata in maniera assurda.

L’appellarsi alla ragione può allargare l’uditorio anche ai non credenti. Ma lo può fare qualsiasi uomo, di fede o non. Inoltre ogni ragionamento può dipendere dal punto di vista e può essere contrastato con un altro ragionamento. Di fatto, nessun generale si è lasciato convincere e di conseguenza si è dimesso.

Con l’ultima frase Papa Francesco dice ancora di più; perché essa appartiene al linguaggio preciso della teologia sul rapporto uomo-Dio: “peccato”. E’ la prima volta che un Papa a proposito di guerre usa la parola “peccato”. Essa esprime un giudizio etico; e l’etica ha un ruolo centrale nell’insegnamento della Chiesa, maestra di vita.

Certo allo stato attuale, il suo giudizio è personale. Ma con questa frase papa Francesco si dichiara di fatto obiettore di coscienza. Nella Chiesa cattolica l’obiezione di coscienza è entrata solo mezzo secolo fa; oggi è arrivata al livello del vertice.

In più Bergoglio non è uno qualsiasi, è un papa. Certo, come papa, non stava parlando ex cathedra; e certo, non usa quella frase come discriminante (ad esempio, potrebbe richiamare i cappellani militari dalle caserme, abolire la diocesi castrense e il seminario castrense…).

Ma essendo anche papa, il suo giudizio non è solo personale. Infatti, compete soprattutto a lui come papa il giudicare qualcosa peccato, più che il dire frasi soggettive o razionali. Sono proprio i giudizi etici che i fedeli si aspettano da un papa per chiarirsi le idee spirituali e per scegliere le direzioni di vita. Quindi quella frase è anche un invito da papa a fare altrettanto (cioè obiettare) e soprattutto a pensare di conseguenza.

Quali conseguenze?

In tutte le chiese cristiane il dibattito sulla pace si è arenato sul dilemma: per un cristiano la pace è un impegno etico (di buona volontà), o è un impegno di fede (dal quale si vede se egli è u cristiano)? Ad es.: davanti ai missili nucleari, che pensare in coscienza? Che occorre fare uno sforzo di mediazione tra gli attori politici, affinché arrivino ad un disarmo progressivo e bilaterale e infine alla pace, o seguire l’invito del vescovo di Seattle: “Non adorate gli idoli di metallo!”; e quindi riporre la propria fiducia non nella “sicurezza” delle armi nucleari ma in Dio?

Se, come dice papa Francesco, “La guerra è un peccato”, è chiaro che lui considera la pace un impegno di fede. E così infatti Papa Francesco lo ha attuato col suo viaggio in una situazione di guerra selvaggia, mentre tutti i governanti nel mondo vivevano la paura di essere colpiti da guerriglia urbana, come a Parigi il 13 novembre.

In opposizione alle guerre e alle paure ha lanciato, in quell’ombelico africano delle guerre nel mondo, il massimo segnale in suo potere, come papa: ha inaugurato il giubileo mondiale, dichiarando Banguì la capitale spirituale dell’umanità di oggi, in opposizione alle capitali economiche, belliche, culturali e anche gerarchiche della vita religiosa (Roma compresa). Questa sua azione è stata degna di Colui che ha ribaltato la logica (bellica) del mondo; ad es., nascendo al di fuori di ogni struttura, anche alberghiera.

Ma se il papa dice che la guerra è peccato, che tipo di peccato è? Qui papa Francesco non fa una fuga in avanti, mettendosi a fare lezione; lascia che il popolo di Dio si impegni in una ricerca.

All’inizio del suo Vangelo Giovanni, che sicuramente conosceva l’intimo del Cristo, riporta come un fatto cruciale la dichiarazione con cui il parente stretto (in tutti i sensi) di Gesù, San Giovanni battista, lo presenta alla folla e quindi alla storia dell’umanità: “Ecco Colui che toglie IL peccato DEL mondo”.

Ma come lo toglie? Forse con le confessioni personali? Questo lo faceva Giovanni il Battista, ma non Gesù; che mai è stato visto confessare qualcuno. Piuttosto è stato lo stesso Gesù a dire che cosa è venuto a fare: “Non crediate che io sia venuto ad abrogare la Legge o i profeti, non sono venuto per abrogare, ma a portarla a compimento.”(Mt 5, 17) Quale compimento?

Cinquant’anni fa Lanza del Vasto, discepolo di Gandhi negli anni 1937-38 e fondatore delle Comunità dell’Arca, ha interpretato tutti i brani evangelici (Commentaire à l’Evangile, Denoel, 1951) in una maniera così originale che è innovativa anche rispetto ai commenti attuali. E’ stato originale anche nel rispondere alla suddetta domanda con sei idee forti e chiare.

La prima è che “la Legge” che il Cristo non vuole abrogare è proprio quella scritta da suo Padre. Questa Legge Antica non è da abolire o da pensare che sia sorpassata, come invece hanno immaginato molti cristiani, presi dall’euforia di essere entrati in una nuova era storica, dove basta l’intenzione di un amore indifferenziato.

La seconda idea di Lanza del Vasto è che il Figlio di Dio doveva venire per “completare la Legge” non perché sulle tavole di Mosé suo Padre avesse scritto male o insufficientemente; ma perché quella Legge chiedeva ben di più di quanto gli uomini avevano fatto fino ad allora per seguirle.

C’era soprattutto un punto della Legge che era stato malinteso dagli uomini (o forse essi hanno fatto finta di non capirlo). Questo punto non è tanto il “Non dire falsa testimonianza”, o il “Non rubare”, o il “Non commettere adulterio”. Colui che non osserva questi comandamenti già deve avere paura delle azioni vendicative degli offesi e deve anche affrontare le penose punizioni inflittegli dalla organizzazione pubblica della giustizia. Invece il comandamento malinteso dagli uomini è il “Non uccidere”: allorquando viene uccisa una persona singola, a questo atto si dà un significato negativo molto forte, tanto che si condanna l’uccisore a punizioni pesanti; ma quel comandamento viene messo da parte, o gli si dà un significato esattamente opposto, quando l’uccisore fa parte di un collettivo-istituzione che è in conflitto armato con un altro collettivo-istituzione. Cosicché mentre in tempo di pace quel comandamento vale strettamente, invece in tempo di guerra coloro che uccidono di più vengono esaltati ed onorati dal proprio gruppo. Infatti in tempo di guerra ogni collettivo vede gli altri come “i cattivi”, quelli che “impersonano il Male” e che quindi “devono” essere annullati, sperabilmente prima che essi reagiscano, così da evitare le conseguenze negative del proprio uccidere. Nel periodo in cui tutta la società si organizza nell’azione unitaria di uccidere i nemici anche le autorità religiose (salvo rare eccezioni recenti) accettano una guerra dichiarata dal potere politico e chiedono a Dio la vittoria del proprio collettivo, contro l’altro collettivo, le cui autorità religiose (magari della stessa fede) chiedono anche loro la vittoria a Dio mediante lo sterminio degli “altri”.

Quindi l’Inviato, il Messia si riferiva ad un preciso comandamento della Legge antica: “NON UCCIDERE / che fu scritto su una tavola di pietra e senza margini affinché non si potessero agganciare commenti.”1

Infatti Gesù, quando subito dopo spiega in che cosa egli voglia completare la Legge (Mt 5, 21), incomincia proprio dal 5° comandamento. E se poi parla anche del “Non commettere adulterio”, è perché anche su quella Parola gli uomini avevano agganciato un loro commento interpretativo (da far subire alla donna, allora senza diritti). Ma certamente per Gesù questi compromessi nel matrimonio erano di minore rilevanza rispetto alle uccisioni in massa. E nella sua vita ha mostrato che il quinto è il comandamento cruciale: quando è stato davanti ad una banda armata dice a Pietro di rimettere la spada nel fodero ; e gli dice. “Che ti credi che non ho legioni di angeli …?”; e poi subito il nemico ferito (Mt 26, 52-53; Lc 23, 50-51) Poi, nella passione, non fa saltare in aria nessuno che lo sta offendendo, ferendo, uccidendo.

Perciò Gesù ha restaurato la quinta Parola del Padre eterno nella sua interezza: occorre seguirla come le altre nove, cioè così come è scritta, senza far distinzione se si è da soli o si appartiene ad un collettivo comandato da una autorità pubblica; quindi davanti ad ogni istituzione e in tutti i tempi, anche quello di guerra.

La terza idea di Lanza del Vasto è che, oltre i peccati personali, ci sono quelli strutturali, quelli che vengono eseguiti anche da bravi padri di famiglia, perché se intruppati da un comandante con i gradi, diventano delle belve feroci. In definitiva gli uomini avevano seguito la Legge personalmente, ma poi nella vita sociale avevano organizzato anche delle piccole torri di Babele.

Infatti la vita di Cristo prende significato pieno solo se la si vede in opposizione ai peccati strutturali della società del suo tempo (l’occupazione imperiale dei Romani, l’imposizioone oppressiva e formalistica di carichi religiosi, la emarginaione della donna…). Come? Per prima cosa è nato povero e tale è rimasto; non per rivaleggiare con i fachiri o per una ideologia della povertà delle masse, ma come emarginazione naturale di chi obietta ai poteri sociali costituiti.

Dio Padre dice con chiarezza tutto il male (strutturale) in cui entra un popolo che si dà un re (Sam I, 8, 7-18; ma anche tutto questo libro). E Gesù ha respinto la tentazione che giustamente gli offriva il potere dell’impero romano e della gerarchia religiosa: se avesse accettato, avrebbe comandato il mondo (al posto del Padre). Non solo Gesù ha risposto da obiettore ai peccati strutturali costituiti dalle due grandi istituzioni del suo tempo, ma anche la sua vita ha minato non violentemente il loro strapotere terreno (ad es. contro i dottori della legge; Lc 21, 46). Infatti le uniche accuse sensate che ha ricevuto sono che andava contro l’autorità religiosa (si dichiarava Figlio di Dio) e contro l’autorità politica “aveva sobillato il popolo” (Lc 23, 5).

(Trent’anni dopo questo commento al Vangelo, il magistero della Chiesa, con la Sollicitudo rei socialis, ha introdotto per la prima volta il concetto del peccato strutturale, esemplificandolo nelle divisioni del mondo in Est/Ovest e Nord/Sud. Era un buon inizio. Ma poi non se ne è più parlato).

La quarta idea è che, certo, se si fa come il Messia, si può anche morire. Così è stato per lui. Ma la sua sconfitta sulla croce, e qui sta la essenza del Cristianesimo, è stata vinta dalla risurrezione (che San Paolo predicava per prima alle genti): questo è il pegno che ha lasciato a chi combatte come Lui, non violentemente: costui vincerà, o su questa terra o nella vita ultraterrena.

Il cristiano (letteralmente: seguace, imitatore di Cristo) affronta i peccati strutturali del suo tempo (le guerre, la schiavitù, il colonialismo, la fame e le malattie nel mondo, lo sfruttamento in fabbrica, la finanza mondiale, ecc.) perché ci vede dei peccati contro Dio Padre, commessi da collettivi e diventati strutturali e quindi considera questo suo impegno come costitutivo del suo seguire la Buona Novella: E’ possibile vincere il male strutturale (anche se costa la vita).

Ma come si fa? La quinta idea è che “… qui siamo giunti ad un punto culminante, se non al punto culminante della Nuova Legge”, perché qui Gesù rivela il metodo, sconosciuto fino ad allora.

La nuova legge indicata da Cristo, di far valere il 5° comandamento anche in tempo di guerra, invita non ad ossessionarci e ad abbacinarci con tutti i colossali peccati del mondo, ma ad affrontare le catastrofi sociali indirizzandosi a quelli ch e le causano. compiendo atti che li coinvolgano in una logica di rinnovamento personale. Cioè invita a seguirlo: Gesù si pone come fratello nostro e invita tutti a rapportarci come fratelli con tutti gli uomini, in qualsiasi circostanza della vita:“Gli Antichi vi hanno detto […] Ma io dico a voi che mi ascoltate: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano,…” (Mt 5, 43). In questo senso la Legge di Gesù è del tutto nuova; non è prescrittiva, ma è creativa, perché spinge ad immedesimarci nei rapporti interpersonali e lì inventare le mosse migliori per coinvolgere il nemico. Quali atti? Gesù ha predicato che ai mali strutturali del mondo, guerre per prime, le reazioni possibili sono gli atti indicati dalle otto Beatitudini (dalle prime quattro che restano nell’ambito personale, alle altre che agiscono sulla società).

La sesta idea di Lanza del Vasto è detta con frasi forti: “… la Nuova Legge [è] così nuova per noi che si può dire che non è stata intesa da duemila anni, da quando è stata promulgata…”(p. 193) Infatti essa è sembrata strana o addirittura estranea ai cristiani stessi. Ma perché? Perché nel frattempo l’Occidente, chiamandosi cristiano, ha costruito tante istituzioni sociali, che ha chiamato “progresso” e “modernità”; cosicché è apparso naturale, anche ai cristiani, appartenere a tutte e seguire le loro leggi, compres quelle della istituzione “difesa” armata di bombe nucleari.

Con ciò Cristo è stato profeta; prima che l’Occidente costruisse le sue tantissime istituzioni, lui ci ha avvertito che la fedeltà a Dio Padre comporta anche la obiezione di coscienza ai peccati strutturali delle istituzioni, per prima la istituzione bellica, perché “la guerra è peccato”.

Ora che siamo arrivati alla guerra nucleare, che è capace di distruggere l’umanità intera, dovrebbe essere chiaro a tutti, anche per via di ragione, che Cristo è venuto per farci affrontare i peccati strutturali, pena la esplosione della vita nel mondo.

Cinquant’anni fa la Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII aveva dichiarato le armi di distruzione di massa “aliene dalla ragione”, pazzie. Poi esse furono l’oggetto dell’unica condanna emessa dal Concilio Vaticano II (GS n. 80): “crimini… delitto che va condannato con estremo rigore”).

Poi è successo qualcosa? No! Le 50.000 bombe nucleari (in gran parte negli arsenali dei Paesi a maggioranza cristiana!) sono rimaste intatte, perché la condanna riguardava l’uso sulle città, non il possesso, perfezionamento e la minaccia per imporsi sugli altri Stati.

Con la sua frase sul peccato della stessa guerra papa Francesco sta portando a compimento il Concilio: vuole far uscire le armi nucleari e la guerra dalla storia, ma nello stesso tempo lo sta innovando dalla radice sul punto cruciale di come essere cristiano oggi: con il suo esempio, ad es. in Africa, dà il senso concreto di che cosa significhi amare quando si deve obiettare al peccato strutturale guerra e quindi di come “essere nel mondo senza essere mondo”, per essere “il sale della Terra” (Mt 5, 13).

Dopo duemila anni che “la Nuova Legge non è stata intesa”, dopo quasi mille anni da quando San Francesco, novello Cristo, ha esemplificato dove dirigere l’impegno di fede cristiana (anti-guerre), Papa Francesco vuole incominciare sul serio, con tutti i cristiani e gli uomini di buona volontà, la lotta contro i peccati strutturali sulla terra.

Ma sa bene che finora noi cristiani abbiamo ignorato sia la volontà del Padre sulle guerre sia l’esempio di Cristo per superarle. In questa situazione la Chiesa oggi deve fare da “ospedale da campo” rispetto a dei cristiani la cui fede non ha ancora una bussola rispetto ai peccati strutturali. Perciò papa Francesco ci invita a ripartire chiedendo che il Padre abbia misericordia per la nostra tradizione oscura.

In più egli sa anche bene che la Chiesa stessa ha i suoi peccati strutturali e che fa una gran fatica a liberarsene (tanto che il papa precedente si è dimesso per dichiarata incapacità di riuscire a convertirla). La Chiesa stessa ha da chiedere misericordia; anzi, lo deve fare per prima.

Per questo motivo papa Francesco ha fatto di più di San Francesco, che per andare contro la crociata che voleva liberare solo le pietre del sepolcro di Cristo, istituì il presepio dove due o tre riuniti nel Suo nome lo rendono presente. Papa Francesco ha indetto il giubileo straordinario, affinché tutti chiediamo misericordia. Quindi non perché, in un tempo di corruzione e mancanza di etica, si riceva un confortevole “tana salvi tutti!” per i peccati generali, o perché, fidando sulla misericordia finale di Dio, si possa dimenticare che sull’etica personale e pubblica il Padre eterno ha dato dieci Parole che sono valide per l’eternità; ma affinché si faccia penitenza per un passato millenario che ci vede tutti corresponsabili in solido (come diceva Don Milani) e poi si inizi una lotta comune per convertire la nostra società dai peccati strutturali. Infatti la misericordia è la Beatitudine che sta al centro delle otto, separa quelle degli atti passivi del cristiano da quelli attivi; dopo aver chiesto misericordia, tutti assieme potremo mettere mano ai maggiori peccati strutturali del mondo.

Certo, gran parte di quanto qui detto è implicito nella frase che papa Francesco ha affermato sulla guerra: “La guerra è peccato”. Ma se egli esprimesse di più di quella frase, che come singola frase può ancora essere stravolta dai ritardatari, subito verrebbe accusato di essere un “fondamentalista” e come tale scartato a priori come persona irragionevole. Non so se è lo Spirito Santo che lo fa navigare tra gli scogli con tanta sapienza. So comunque che la sua strategia risulta di fatto la più sapiente possibile, da parte di un uomo che si vede posto a capo di una Chiesa bimillenaria che oggi più che mai deve riscoprire la sua missione nel mondo.

Di certo, è un grande momento storico quello che stiamo vivendo. Papa Francesco sta camminando nella profezia.

Dopo una guerra finita, conclusasi con la pace, sarebbe assai bene che, dopo aver celebrato un ringraziamento, si indicesse un giorno di penitenza del popolo allo scopo di invocare, in nome dello Stato, mercé dal cielo, per il grande atto colpevole che il genere umano commette sempre di nuovo: non volersi sottomettere, nel rapporto con gli altri popoli, ad una costituzione legale; ma, fiero della sua indipendenza, piuttosto fare uso del barbaro strumento della guerra (benché attraverso essa non si attui ciò che si cerca, cioè il diritto di uno Stato). In ancor più forte contrasto con l’idea morale di un Padre universale degli esseri umani, stanno gli inni che si cantano al Signore degli eserciti in tempo di guerra e le feste di ringraziamento per una vittoria conquistata con le armi; perché, oltre ad esprimere l’indifferenza nei confronti del modo con cui i popoli cercano il loro reciproco diritto (cosa che già è abbastanza triste), aggiungono la gioia di aver distrutto, senza farsene una colpa, molti uomini e le loro fortune”. (nota 13)

«Articolo 3: Gli eserciti permanenti (miles perpetuus) devono col tempo scomparire del tutto».

(I. Kant “Per la pace perpetua” 1793)

1 Lanza del Vasto: Che cosa è la non violenza, Jaca book, Milano 1978, p. 81.

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al cuore del mistero natalizio

SE DIO SI FA UMANO

di ENZO BIANCHI

Bianchi

Al cuore della nostra fede c’è il mistero dell’incarnazione di Dio: Dio si è fatto uomo in Gesù di Nazareth, il quale è nato, ha vissuto, è morto quale umana creatura nella storia e in mezzo all’umanità. Tuttavia, questa fede che noi confessiamo non sempre ci appare in tutte le sue conseguenze: ripetiamo che Dio si è fatto uomo, ma poi non approfondiamo, non osiamo dare alla carne di Gesù il peso che merita, la realtà che essa è in un corpo umano.

Innanzitutto, dire che Dio si è incarnato significa dire che non si è fatto uomo in generale, non ha semplicemente unito la natura umana alla sua qualità di Figlio di Dio, ma che è diventato un uomo “singolare”, preciso. E questo è avvenuto nascendo da Maria di Nazareth – “nato da donna”, scrive san Paolo (Gal 4,4) – ma cresciuto nel mondo a poco a poco, costruendosi in una persona plasmata dalla famiglia natale, dalle esperienze vissute, dalle contraddizioni affrontate, dal bene e dal male che ha dovuto riconoscere nel mondo e tra gli esseri umani. Dovremmo dire non solo che Dio si è incarnato, ma Dio si è umanizzato! Non facciamo letture cariche di supposizioni o di ipotesi psicologiche – tanto praticate oggi, ma svianti e sovente insensate – atteniamoci invece ai vangeli.

La venuta del Figlio di Dio che rinunciava al privilegio della sua condizione di Dio, spogliandosi degli attributi divini, non poteva avvenire se non in una famiglia credente e povera tra quelli che erano gli anawim, i “curvati”, i poveri che aspettavano la salvezza solo da Dio. E sua madre, Maria, e suo padre secondo la legge, Giuseppe, accolgono Gesù e lo mettono al mondo dandogli quell’amore e quella fiducia indispensabili a un bambino per crescere.

Anche nel rapporto filiale con Maria e Giuseppe, Gesù ha vissuto fatiche, difficoltà, contraddizioni… Certo, Maria era una donna che viveva dell’obbedienza alla parola di Dio, e Giuseppe è detto “uomo giusto”, dunque erano dei buoni genitori, ma questo non risparmia a Gesù le difficoltà quotidiane che si incontrano crescendo in una famiglia umana. In questo modo Gesù si umanizza come ogni essere umano e la sua personalità viene plasmata dalle relazioni con quei precisi parenti (“fratelli e sorelle di Gesù”), in quel preciso villaggio di Nazareth, con quanti frequentavano la sua famiglia e l’officina del carpentiere Giuseppe. Così è cresciuto umanizzandosi, imparando a “diventare un uomo”, a plasmare la sua personalità con il bagaglio ricevuto (la natura) e la storia in cui era immesso (la cultura). Dio, suo Padre, ha saputo rispettare la crescita autonoma di Gesù, senza mai fargli mancare l’ispirazione, la grazia, la fedeltà. La Lettera agli Ebrei lo dice con chiarezza: “Gesù imparò attraverso le sofferenze patite l’obbedienza filiale” (Ebr 5,8).

Purtroppo in molti cristiani questa immagine di Gesù veramente umano, umanissimo, è assente perché la sua qualità di Dio pare potersi affermare solo a scapito della sua qualità umana. L’umanizzazione di Dio ci scandalizza, e d’altronde questa è una verità solo cristiana, aborrita dai monoteismi, sia quello giudaico che quello dell’islam. Resta la verità dei vangeli: Gesù non è stato uomo per finta, non era solo simile a noi, era “della nostra stessa pasta”, come dicevano i primi padri della chiesa. E se i vangeli non ci parlano di Gesù nella crescita e nella giovinezza è perché non c’era nulla da dire, essendo la sua vita così ordinaria e quotidiana. Tuttavia non si finisca per pensare che questa umanissima condizione di Gesù gli impedisse di ascoltare Dio in un modo personalissimo, unico, come unica era la sua venuta nel mondo: unica ma sempre umanissima. “Cresceva in sapienza, in taglia e in grazia presso Dio e presso gli uomini” (Lc 2,52) e quindi sapeva afferrare nella sua esistenza umana ciò che Dio Padre voleva da lui, anche quando Giuseppe e Maria non lo capivano.

 
 

 
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49ma giornata mondiale della pace

Messaggio per la Giornata della pace 2016

Messaggio-per-la-Giornata-della-pace-2016_articleimage

il testo integrale del Messaggio del Santo Padre Francesco per la 49ª Giornata Mondiale della Pace, che si celebra il 1° gennaio 2016 sul tema: «Vinci l’indifferenza e conquista la pace»

da Toscana Oggi

Vinci l’indifferenza e conquista la pace

1. Dio non è indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona! All’inizio del nuovo anno, vorrei accompagnare con questo mio profondo convincimento gli auguri di abbondanti benedizioni e di pace, nel segno della speranza, per il futuro di ogni uomo e ogni donna, di ogni famiglia, popolo e nazione del mondo, come pure dei Capi di Stato e di Governo e dei Responsabili delle religioni. Non perdiamo, infatti, la speranza che il 2016 ci veda tutti fermamente e fiduciosamente impegnati, a diversi livelli, a realizzare la giustizia e operare per la pace. Sì, quest’ultima è dono di Dio e opera degli uomini. La pace è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono chiamati a realizzarlo.

Custodire le ragioni della speranza

2. Le guerre e le azioni terroristiche, con le loro tragiche conseguenze, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o religiosi, le prevaricazioni, hanno segnato dall’inizio alla fine lo scorso anno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”. Ma alcuni avvenimenti degli anni passati e dell’anno appena trascorso mi invitano, nella prospettiva del nuovo anno, a rinnovare l’esortazione a non perdere la speranza nella capacità dell’uomo, con la grazia di Dio, di superare il male e a non abbandonarsi alla rassegnazione e all’indifferenza. Gli avvenimenti a cui mi riferisco rappresentano la capacità dell’umanità di operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici, dell’apatia e dell’indifferenza rispetto alle situazioni critiche.

Tra questi vorrei ricordare lo sforzo fatto per favorire l’incontro dei leader mondiali, nell’ambito della COP 21, al fine di cercare nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici e salvaguardare il benessere della Terra, la nostra casa comune. E questo rinvia a due precedenti eventi di livello globale: il Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo sostenibile del mondo; e l’adozione, da parte delle Nazioni Unite, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, finalizzata ad assicurare un’esistenza più dignitosa a tutti, soprattutto alle popolazioni povere del pianeta, entro quell’anno.

Il 2015 è stato un anno speciale per la Chiesa, anche perché ha segnato il 50° anniversario della pubblicazione di due documenti del Concilio Vaticano II che esprimono in maniera molto eloquente il senso di solidarietà della Chiesa con il mondo. Papa Giovanni XXIII, all’inizio del Concilio, volle spalancare le finestre della Chiesa affinché tra essa e il mondo fosse più aperta la comunicazione. I due documenti, Nostra aetate e Gaudium et spes, sono espressioni emblematiche della nuova relazione di dialogo, solidarietà e accompagnamento che la Chiesa intendeva introdurre all’interno dell’umanità. Nella Dichiarazione Nostra aetate la Chiesa è stata chiamata ad aprirsi al dialogo con le espressioni religiose non cristiane. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes, dal momento che «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo»[1], la Chiesa desiderava instaurare un dialogo con la famiglia umana circa i problemi del mondo, come segno di solidarietà e di rispettoso affetto[2].

In questa medesima prospettiva, con il Giubileo della Misericordia voglio invitare la Chiesa a pregare e lavorare perché ogni cristiano possa maturare un cuore umile e compassionevole, capace di annunciare e testimoniare la misericordia, di «perdonare e di donare»,di aprirsi «a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica», senza cadere «nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che distrugge»[3].

Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla vita comune. La dignità e le relazioni interpersonali ci costituiscono in quanto esseri umani, voluti da Dio a sua immagine e somiglianza. Come creature dotate di inalienabile dignità noi esistiamo in relazione con i nostri fratelli e sorelle, nei confronti dei quali abbiamo una responsabilità e con i quali agiamo in solidarietà. Al di fuori di questa relazione, ci si troverebbe ad essere meno umani. E’ proprio per questo che l’indifferenza costituisce una minaccia per la famiglia umana. Mentre ci incamminiamo verso un nuovo anno, vorrei invitare tutti a riconoscere questo fatto, per vincere l’indifferenza e conquistare la pace.

Alcune forme di indifferenza

3. Certo è che l’atteggiamento dell’indifferente, di chi chiude il cuore per non prendere in considerazione gli altri, di chi chiude gli occhi per non vedere ciò che lo circonda o si scansa per non essere toccato dai problemi altrui, caratterizza una tipologia umana piuttosto diffusa e presente in ogni epoca della storia. Tuttavia, ai nostri giorni esso ha superato decisamente l’ambito individuale per assumere una dimensione globale e produrre il fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”.

La prima forma di indifferenza nella società umana è quella verso Dio, dalla quale scaturisce anche l’indifferenza verso il prossimo e verso il creato. È questo uno dei gravi effetti di un umanesimo falso e del materialismo pratico, combinati con un pensiero relativistico e nichilistico. L’uomo pensa di essere l’autore di sé stesso, della propria vita e della società; egli si sente autosufficiente e mira non solo a sostituirsi a Dio, ma a farne completamente a meno; di conseguenza, pensa di non dovere niente a nessuno, eccetto che a sé stesso, e pretende di avere solo diritti[4]. Contro questa autocomprensione erronea della persona, Benedetto XVI ricordava che né l’uomo né il suo sviluppo sono capaci di darsi da sé il proprio significato ultimo[5]; e prima di lui Paolo VI aveva affermato che «non vi è umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana»[6].

L’indifferenza nei confronti del prossimo assume diversi volti. C’è chi è ben informato, ascolta la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso. Purtroppo dobbiamo constatare che l’aumento delle informazioni, proprio del nostro tempo, non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale[7]. Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche misura, relativizza la gravità dei problemi. «Alcuni semplicemente si compiacciono incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia politica dei governanti»[8].

In altri casi, l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una responsabilità estranea a noi, che non ci compete[9]. «Quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… Allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene»[10].

Vivendo in una casa comune, non possiamo non interrogarci sul suo stato di salute, come ho cercato di fare nella Laudato si’. L’inquinamento delle acque e dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri, perché tutto è in relazione. Come anche il comportamento dell’uomo con gli animali influisce sulle sue relazioni con gli altri[11], per non parlare di chi si permette di fare altrove quello che non osa fare in casa propria[12].

In questi ed in altri casi, l’indifferenza provoca soprattutto chiusura e disimpegno, e così finisce per contribuire all’assenza di pace con Dio, con il prossimo e con il creato.

La pace minacciata dall’indifferenza globalizzata

4. L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e spirituale della singola persona ed investe la sfera pubblica e sociale. Come affermava Benedetto XVI, «esiste un’intima connessione tra la glorificazione di Dio e la pace degli uomini sulla terra»[13]. Infatti, «senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per la pace»[14]. L’oblio e la negazione di Dio, che inducono l’uomo a non riconoscere più alcuna norma al di sopra di sé e a prendere come norma soltanto sé stesso, hanno prodotto crudeltà e violenza senza misura[15].

A livello individuale e comunitario l’indifferenza verso il prossimo, figlia di quella verso Dio, assume l’aspetto dell’inerzia e del disimpegno, che alimentano il perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e insicurezza.

In questo senso l’indifferenza, e il disimpegno che ne consegue, costituiscono una grave mancanza al dovere che ogni persona ha di contribuire, nella misura delle sue capacità e del ruolo che riveste nella società, al bene comune, in particolare alla pace, che è uno dei beni più preziosi dell’umanità[16].

Quando poi investe il livello istituzionale, l’indifferenza nei confronti dell’altro, della sua dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e politiche che finiscono per costituire minacce alla pace. Tale atteggiamento di indifferenza può anche giungere a giustificare alcune politiche economiche deplorevoli, foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del proprio benessere o di quello della nazione. Non di rado, infatti, i progetti economici e politici degli uomini hanno come fine la conquista o il mantenimento del potere e delle ricchezze, anche a costo di calpestare i diritti e le esigenze fondamentali degli altri. Quando le popolazioni vedono negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza[17].

Inoltre, l’indifferenza nei confronti dell’ambiente naturale, favorendo la deforestazione, l’inquinamento e le catastrofi naturali che sradicano intere comunità dal loro ambiente di vita, costringendole alla precarietà e all’insicurezza, crea nuove povertà, nuove situazioni di ingiustizia dalle conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale. Quante guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse naturali[18]?

Dall’indifferenza alla misericordia: la conversione del cuore

5. Quando, un anno fa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Non più schiavi, ma fratelli”, evocavo la prima icona biblica della fraternità umana, quella di Caino e Abele (cfr Gen 4,1-16), era per attirare l’attenzione su come è stata tradita questa prima fraternità. Caino e Abele sono fratelli. Provengono entrambi dallo stesso grembo, sono uguali in dignità e creati ad immagine e somiglianza di Dio; ma la loro fraternità creaturale si rompe. «Non soltanto Caino non sopporta suo fratello Abele, ma lo uccide per invidia»[19]. Il fratricidio allora diventa la forma del tradimento, e il rifiuto da parte di Caino della fraternità di Abele è la prima rottura nelle relazioni familiari di fraternità, solidarietà e rispetto reciproco.

Dio interviene, allora, per chiamare l’uomo alla responsabilità nei confronti del suo simile, proprio come fece quando Adamo ed Eva, i primi genitori, ruppero la comunione con il Creatore. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!”» (Gen 4,9-10).

Caino dice di non sapere che cosa sia accaduto a suo fratello, dice di non essere il suo guardiano. Non si sente responsabile della sua vita, della sua sorte. Non si sente coinvolto. È indifferente verso suo fratello, nonostante essi siano legati dall’origine comune. Che tristezza! Che dramma fraterno, familiare, umano! Questa è la prima manifestazione dell’indifferenza tra fratelli. Dio, invece, non è indifferente: il sangue di Abele ha grande valore ai suoi occhi e chiede a Caino di renderne conto. Dio, dunque, si rivela, fin dagli inizi dell’umanità come Colui che si interessa alla sorte dell’uomo. Quando più tardi i figli di Israele si trovano nella schiavitù in Egitto, Dio interviene nuovamente. Dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7-8). È importante notare i verbi che descrivono l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è indifferente. È attento e opera.

Allo stesso modo, nel suo Figlio Gesù, Dio è sceso fra gli uomini, si è incarnato e si è mostrato solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si identificava con l’umanità: «il primogenito tra molti fratelli»(Rm 8,29). Egli non si accontentava di insegnare alle folle, ma si preoccupava di loro, specialmente quando le vedeva affamate (cfr Mc 6,34-44) o disoccupate (cfr Mt 20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede, certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte.

Gesù ci insegna ad essere misericordiosi come il Padre (cfr Lc 6,36). Nella parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) denuncia l’omissione di aiuto dinanzi all’urgente necessità dei propri simili: «lo vide e passò oltre» (cfr Lc 10,31.32). Nello stesso tempo, mediante questo esempio, Egli invita i suoi uditori, e in particolare i suoi discepoli, ad imparare a fermarsi davanti alle sofferenze di questo mondo per alleviarle, alle ferite degli altri per curarle, con i mezzi di cui si dispone, a partire dal proprio tempo, malgrado le tante occupazioni. L’indifferenza, infatti, cerca spesso pretesti: nell’osservanza dei precetti rituali, nella quantità di cose che bisogna fare, negli antagonismi che ci tengono lontani gli uni dagli altri, nei pregiudizi di ogni genere che ci impediscono di farci prossimo.

La misericordia è il cuore di Dio. Perciò dev’essere anche il cuore di tutti coloro che si riconoscono membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli; un cuore che batte forte dovunque la dignità umana – riflesso del volto di Dio nelle sue creature – sia in gioco. Gesù ci avverte: l’amore per gli altri – gli stranieri, i malati, i prigionieri, i senza fissa dimora, perfino i nemici – è l’unità di misura di Dio per giudicare le nostre azioni. Da ciò dipende il nostro destino eterno. Non c’è da stupirsi che l’apostolo Paolo inviti i cristiani di Roma a gioire con coloro che gioiscono e a piangere con coloro che piangono (cfr Rm 12,15), o che raccomandi a quelli di Corinto di organizzare collette in segno di solidarietà con i membri sofferenti della Chiesa (cfr 1 Cor 16,2-3). E san Giovanni scrive: «Se qualcuno possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui?» (1 Gv 3,17; cfr Gc 2,15-16).

Ecco perché «è determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto, dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre. Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti, insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di misericordia»[20].

Così, anche noi siamo chiamati a fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento nelle nostre relazioni gli uni con gli altri[21]. Ciò richiede la conversione del cuore: che cioè la grazia di Dio trasformi il nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr Ez 36,26), capace di aprirsi agli altri con autentica solidarietà. Questa, infatti, è molto più che un «sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane»[22]. La solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo veramente responsabili di tutti»[23], perché la compassione scaturisce dalla fraternità.

Così compresa, la solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’innegabile inter-dipendenza che sempre più esiste, specialmente in un mondo globalizzato, tra la vita del singolo e della sua comunità in un determinato luogo e quella di altri uomini e donne nel resto del mondo[24].

Promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per vincere l’indifferenza

6. La solidarietà come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale, esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno responsabilità di carattere educativo e formativo.

Il mio primo pensiero va alle famiglie, chiamate ad una missione educativa primaria ed imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici gesti di devozione che le madri insegnano ai figli[25].

Per quanto riguarda gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Rivolgendosi ai responsabili delle istituzioni che hanno compiti educativi, Benedetto XVI affermava: «Ogni ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri; luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna»[26].

Anche gli operatori culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee, in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso. E’ loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di interessi particolari. I mezzi di comunicazione, infatti, «non solo informano, ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene, infatti, per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o negativamente, sulla formazione della persona»[27]. Gli operatori culturali e dei media dovrebbero anche vigilare affinché il modo in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e moralmente lecito.

La pace: frutto di una cultura di solidarietà, misericordia e compassione

7. Consapevoli della minaccia di una globalizzazione dell’indifferenza, non possiamo non riconoscere che, nello scenario sopra descritto, si inseriscono anche numerose iniziative ed azioni positive che testimoniano la compassione, la misericordia e la solidarietà di cui l’uomo è capace. Vorrei ricordare alcuni esempi di impegno lodevole, che dimostrano come ciascuno possa vincere l’indifferenza quando sceglie di non distogliere lo sguardo dal suo prossimo, e che costituiscono buone pratiche nel cammino verso una società più umana.

Ci sono tante organizzazioni non governative e gruppi caritativi, all’interno della Chiesa e fuori di essa, i cui membri, in occasione di epidemie, calamità o conflitti armati, affrontano fatiche e pericoli per curare i feriti e gli ammalati e per seppellire i defunti. Accanto ad essi, vorrei menzionare le persone e le associazioni che portano soccorso ai migranti che attraversano deserti e solcano mari alla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste azioni sono opere di misericordia corporale e spirituale, sulle quali saremo giudicati al termine della nostra vita.

Il mio pensiero va anche ai giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica sulle situazioni difficili che interpellano le coscienze, e a coloro che si impegnano per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze etniche e religiose, dei popoli indigeni, delle donne e dei bambini, e di tutti coloro che vivono in condizioni di maggiore vulnerabilità. Tra loro ci sono anche tanti sacerdoti e missionari che, come buoni pastori, restano accanto ai loro fedeli e li sostengono nonostante i pericoli e i disagi, in particolare durante i conflitti armati.

Quante famiglie, poi, in mezzo a tante difficoltà lavorative e sociali, si impegnano concretamente per educare i loro figli “controcorrente”, a prezzo di tanti sacrifici, ai valori della solidarietà, della compassione e della fraternità! Quante famiglie aprono i loro cuori e le loro case a chi è nel bisogno, come ai rifugiati e ai migranti! Voglio ringraziare in modo particolare tutte le persone, le famiglie, le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari, che hanno risposto prontamente al mio appello ad accogliere una famiglia di rifugiati[28].

Infine, vorrei menzionare i giovani che si uniscono per realizzare progetti di solidarietà, e tutti coloro che aprono le loro mani per aiutare il prossimo bisognoso nelle proprie città, nel proprio Paese o in altre regioni del mondo. Voglio ringraziare e incoraggiare tutti coloro che si impegnano in azioni di questo genere, anche se non vengono pubblicizzate: la loro fame e sete di giustizia sarà saziata, la loro misericordia farà loro trovare misericordia e, in quanto operatori di pace, saranno chiamati figli di Dio (cfr Mt 5,6-9).

La pace nel segno del Giubileo della Misericordia

8. Nello spirito del Giubileo della Misericordia, ciascuno è chiamato a riconoscere come l’indifferenza si manifesta nella propria vita e ad adottare un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive, a partire dalla propria famiglia, dal vicinato o dall’ambiente di lavoro.

Anche gli Stati sono chiamati a gesti concreti, ad atti di coraggio nei confronti delle persone più fragili delle loro società, come i prigionieri, i migranti, i disoccupati e i malati.

Per quanto concerne i detenuti, in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio[29], avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia.

Per quanto riguarda i migranti, vorrei rivolgere un invito a ripensare le legislazioni sulle migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità.

Desidero, inoltre, in quest’Anno giubilare, formulare un pressante appello ai responsabili degli Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle che soffrono per la mancanza di lavoro, terra e tetto. Penso alla creazione di posti di lavoro dignitoso per contrastare la piaga sociale della disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società. La mancanza di lavoro intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle loro famiglie. Un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata alle donne – purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo – e ad alcune categorie di lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale.

Infine, vorrei invitare a compiere azioni efficaci per migliorare le condizioni di vita dei malati, garantendo a tutti l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per la vita, compresa la possibilità di cure domiciliari.

Volgendo lo sguardo al di là dei propri confini, i responsabili degli Stati sono anche chiamati a rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale, affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle nazioni.

In questa prospettiva, desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze materiali, culturali e sociali, ma anche – e per lungo tempo – l’integrità morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita.

Affido queste riflessioni, insieme con i migliori auspici per il nuovo anno, all’intercessione di Maria Santissima, Madre premurosa per i bisogni dell’umanità, affinché ci ottenga dal suo Figlio Gesù, Principe della Pace, l’esaudimento delle nostre suppliche e la benedizione del nostro impegno quotidiano per un mondo fraterno e solidale.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2015
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia

FRANCISCUS PP.

__________________

[1] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1.

[2] Cfr ibid., 3.

[3] Bolla di indizione del Giubileo straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, 14-15.

[4] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 43.

[5] Cfr ibid., 16.

[6] Lett. Enc. Populorum progressio, 42.

[7] «La società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 19).

[8] Esort. ap. Evangelii gaudium, 60.

[9] Cfr ibid., 54.

[10] Messaggio per la Quaresima 2015.

[11] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 92.

[12] Cfr ibid., 51.

[13] Discorso in occasione degli auguri al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 7 gennaio 2013.

[14] Ibidem.

[15] Cfr Benedetto XVI, Intervento durante la Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia nel mondo, Assisi, 27 ottobre 2011.

[16] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 217-237.

[17] «Fino a quando non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 59).

[18] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 31; 48.

[19] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2015, 2.

[20] Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, 12.

[21] Cfr ibid., 13.

[22] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollecitudo rei socialis, 38.

[23] Ibid.

[24] Cfr ibid.

[25] Cfr Catechesi nell’Udienza Generale del 7 gennaio 2015.

[26] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2012, 2.

[27] Ibidem.

[28] Cfr Angelus del 6 settembre 2015.

[29] Cfr Discorso alla delegazione dell’Associazione internazionale di diritto penale, 23 ottobre 2014.

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