questa volta è Gesù bambino che scrive una letterina

caro preside, cari politici e genitori,

scusate se vi disturbo mentre vi state azzuffando per me ma volevo dire anch’io la mia

gesù bambino

è da duemila anni che si festeggia la mia nascita e negli ultimi tempi sembra essere diventata un problema. Più che unire ora vi divido. Ma siete così sicuri che mi interessino i vostri canti? Natale è solo un brindisi, il taglio del panettone, i lavoretti, il Tu scendi dalle stelle cantato dai vostri bambini mentre scattate quelle immemorabili fotografie del piccolo che alla recita è sicuramente il più bravo? Serve a voi grandi o serve ai bambini questa festa?

Ho letto che da giorni l’Italia intera discute se è giusto o meno festeggiare il Natale a scuola, ma forse dovremmo tornare a chiederci cos’è il Natale?

Non voglio pensare che senza pandoro al cioccolato, regali, dolci nenie e stelline, non si riconosca più il senso del mio essermi fatto carne tra voi. Non credevo nemmeno, sinceramente, di essere venuto sulla terra solo perché un giorno avreste potuto, grazie a me, affermare un’identità. L’unica identità che conosco è quella umana.

Spero che il ricordo della mia nascita non sia solo tradizione, recite e presepi. Sono convinto pure io di non essere troppo di disturbo ai nostri fratelli musulmani, ai buddisti, agli induisti. Ho letto, tra l’altro, che ora il paladino del Natale è quel signore che si chiama Matteo Salvini che vorrebbe le ruspe contro le grotte del giorno di oggi, senza accorgersi che io son nato in un luogo simile a quelle baracche proprio perché nessuno mi ha voluto: ero un profugo.

A difendere il Natale ci ha pensato anche quell’altro tizio, Roberto Formigoni, che non mi risulta essere uno stinco di santo. Come sono finito male!

A Rozzano hanno fatto presidi davanti alla scuola ma vi prego, lasciate in pace i bambini. Ve lo immaginate un presidio davanti alla capanna di Betlemme?

Forse, care mamme e caro preside, sarebbe stato utile a tutti sedersi e chiedersi: come possiamo dare un senso ancora al Natale, anche in una scuola?

Se per quei genitori è davvero importante celebrare la mia nascita, portare la mia Parola in un’aula, farla ascoltare e vivere anche a fratelli di religione diversa (magari festeggiando poi una loro festa), perché non provare a fare qualcosa di diverso da qualche canto e un lavoretto? Magari la semplice condivisione, nei giorni prenatalizi, di un tempo con gli anziani della casa di riposo; la visita ad una casa d’accoglienza. Perché sia davvero Natale, se ci credete e non una spruzzata di buonismo e folclore.

Permettetemi di suggerirvi la lettura di un testo che un uomo che ha davvero vissuto il Natale ha scritto per voi qualche anno fa. Si chiamava don Tonino Bello.

Carissimi, non obbedirei al mio dovere di vescovo se vi dicessi “Buon Natale” senza darvi disturbo. Io, invece, vi voglio infastidire. Non sopporto infatti l’idea di dover rivolgere auguri innocui, formali, imposti dalla routine di calendario. Mi lusinga addirittura l’ipotesi che qualcuno li respinga al mittente come indesiderati. Tanti auguri scomodi, allora, miei cari fratelli! Gesù che nasce per amore vi dia la nausea di una vita egoista, assurda, senza spinte verticali e vi conceda di inventarvi una vita carica di donazione, di preghiera, di silenzio, di coraggio. Il Bambino che dorme sulla paglia vi tolga il sonno e faccia sentire il guanciale del vostro letto duro come un macigno, finché non avrete dato ospitalità a uno sfrattato, a un marocchino, a un povero di passaggio. Dio che diventa uomo vi faccia sentire dei vermi ogni volta che la vostra carriera diventa idolo della vostra vita, il sorpasso, il progetto dei vostri giorni, la schiena del prossimo, strumento delle vostre scalate. 

Maria, che trova solo nello sterco degli animali la culla dove deporre con tenerezza il frutto del suo grembo, vi costringa con i suoi occhi feriti a sospendere lo struggimento di tutte le nenie natalizie, finché la vostra coscienza ipocrita accetterà che il bidone della spazzatura, l’inceneritore di una clinica diventino tomba senza croce di una vita soppressa. Giuseppe, che nell’affronto di mille porte chiuse è il simbolo di tutte le delusioni paterne, disturbi le sbornie dei vostri cenoni, rimproveri i tepori delle vostre tombolate, provochi corti circuiti allo spreco delle vostre luminarie, fino a quando non vi lascerete mettere in crisi dalla sofferenza di tanti genitori che versano lacrime segrete per i loro figli senza fortuna, senza salute, senza lavoro. Gli angeli che annunciano la pace portino ancora guerra alla vostra sonnolenta tranquillità incapace di vedere che poco più lontano di una spanna, con l’aggravante del vostro complice silenzio, si consumano ingiustizie, si sfratta la gente, si fabbricano armi, si militarizza la terra degli umili, si condannano popoli allo sterminio della fame. I Poveri che accorrono alla grotta, mentre i potenti tramano nell’oscurità e la città dorme nell’indifferenza, vi facciano capire che, se anche voi volete vedere “una gran luce” dovete partire dagli ultimi. Che le elemosine di chi gioca sulla pelle della gente sono tranquillanti inutili. Che le pellicce comprate con le tredicesime di stipendi multipli fanno bella figura, ma non scaldano. Che i ritardi dell’edilizia popolare sono atti di sacrilegio, se provocati da speculazioni corporative. I pastori che vegliano nella notte, “facendo la guardia al gregge ”, e scrutano l’aurora, vi diano il senso della storia, l’ebbrezza delle attese, il gaudio dell’abbandono in Dio. E vi ispirino il desiderio profondo di vivere poveri che è poi l’unico modo per morire ricchi. Buon Natale! Sul nostro vecchio mondo che muore, nasca la speranza.

Gesù Bambino.

Ps: sia chiaro che l’autore di questa fantasiosa lettera è faticosamente ateo, crede nella laicità della scuola e nel rispetto di ogni cultura, anche quella cattolica cristiana. 

 

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i giovani rom delineano un paese nuovo

il manifesto dei giovani Rom

‘primavera romanì’

«questa è l’Italia che vogliamo»

giovani rom1

di Paola Grechi

Immaginare insieme l’Italia che si vorrebbe. Dove sia possibile costruire rispetto e diritti, per tutti. Sono i sogni molto concreti di venti giovani attivisti rom e sinti di diverse città italiane, da nord a sud. Alle spalle hanno ognuno una storia diversa, alcuni risiedono nei “campi”, altri in casa, ma hanno in comune un obiettivo: contribuire a rendere l’Italia un paese in cui le discriminazioni e l’intolleranza cedano il posto al dialogo e all’inclusione. Hanno raccolto le loro idee in un manifesto lanciato dopo la due giorni di discussione “Primavera Romanì. I giovani rom e l’Italia di domani”, promossa dall’Associazione 21 luglio. Si sono suddivisi in quattro gruppi e con altri ragazzi italiani hanno ragionato su come dovrebbero cambiare le politiche sulla casa, i giovani, il lavoro e la scuola.

I venti protagonisti dell’incontro, il primo in Italia interamente dedicato alla voce dei giovani rom e sinti, provengono da Vicenza, Torino, Lucca, Roma, Oristano, Cagliari e Mazara del Vallo. E per spiegare chi sono hanno utilizzato il mezzo migliore, ci hanno messo la faccia. 

«Molti di noi vengono da una storia di disagio, soprusi ed esclusione, ma non ci siamo fermati e non ci fermeremo. Nella storia dei nostri nonni, dei nostri padri e delle nostre madri ci sono state persecuzioni, deportazioni, crimini contro l’umanità. Anche oggi molti di noi vivono la fuga dalle guerre, la ghettizzazione e il dolore del rifiuto, e ci sembra che quella storia non finisca mai. Questo non ci impedisce di essere qui e di scrivere insieme una nuova pagina per la nostra Italia, perché vogliamo andare oltre ed essere attori di un cambiamento di cui tutti possano giovare».

 

E continuano:

«Non accettiamo più che i nostri figli vivano in un paese di ghetti, separazioni, disuguaglianze, povertà, odio e razzismo, né oggi, né domani. La memoria di ciò che è stato, e la consapevolezza di ciò che è, sono per noi la spinta verso la costruzione di una storia diversa. Sogniamo per l’Italia un risveglio di umanità. Vogliamo essere un esempio di società unita e libera, come l’Italia dovrebbe essere. Un paese orgoglioso dei suoi valori, aperto verso i deboli, che consenta a ciascuno di essere apprezzato, amato e riconosciuto per le proprie passioni e qualità. Un’Italia che abbracci le differenze e si consideri fortunata per la ricchezza di tutte le culture che la compongono. Un’Italia serena».

@CorriereSociale

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la vera integrazione è ‘annusare’ e ‘lasciarsi annusare’

immigrati

integrazione cosa è?

migranti

c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro…

 

Che il linguaggio moderno si avvii progressivamente verso la sintesi e rifugga dall’analisi è realtà anche troppo nota. Ma che cosa questo produca è un po’ meno noto. Un processo conoscitivo ‘analitico’ conduce a differenziare i termini di un problema, a coglierne i significati in profondità fino alle aree inconsce della mente. Un processo conoscitivo ‘sintetico’ accelera sicuramente la ‘presa’ sulla situazione, ma ne ostacola l’approfondimento e quindi ne compromette sia la diagnosi che la cura. Invale il binomio immigrazione/integrazione sino a stabilirli come termini pressoché equivalenti.

un problema secolare

In realtà l’immigrazione è fenomeno che appartiene a una realtà secolare e ora più che mai attuale, mentre l’integrazione è una categoria che appartiene al sociale e all’emotivo, più attuale che mai: basti questa considerazione per comprendere che ci troviamo su livelli molto distanti fra loro. Tuttavia il pensiero ‘sintetico’ li unifica, li semplifica, vorrei dire li banalizza. Questo conduce a non vedere le differenze sostanziali fra queste due realtà per cui, di fronte a un fenomeno di così vasta portata e complessità, subentrano confusione e sensazione di impotenza. Non è difficile comprendere che di qui a considerazioni massimaliste e dicotomiche il passo è breve. Ne discende la formazione dei due partiti: i favorevoli e i contrari. Ovvero chi apre indiscriminatamente le frontiere a chiunque, chi eleva muri e fili spinati. Se è vero che la realtà integrazione è strettamente interconnessa con la realtà immigrazione, allora sarà bene partire dal dato fondante di base, «integrazione», che costituisce il tessuto emotivo-sociale sul quale si poggia il dato fenomenico esterno, «immigrazione». Ma allora occorre un discernimento chiaro fra le due realtà e soprattutto una conoscenza reale, analitica di «integrazione». Quando avrò capito che cosa significa «integrazione» (diagnosi), solo allora sarò in grado di comprendere in quale misura e con quali strumenti (cura) potrò affrontare l’«immigrazione». Le posizioni non saranno più del ‘favorevole’ o del ‘contrario’, ma del ‘possibile’ o del ‘non possibile’. Mi pare facile vedere che questa è la via per ridurre posizioni partitiche o, ancor più, conflittuali, che logorano, usurpano energie e soprattutto difficilmente aiutano a risolvere. Allora: che cosa significa integrazione? Di che cosa è fatta? Che cosa si vuole integrare? Perché si presenta così difficile da realizzare?

che cosa significa?

L’integrazione, nella relazione umana, significa in primis avvicinare e ritrovare una nuova modalità di essere del razionale con l’irrazionale. Quando due creature iniziano un processo di condivisione, più o meno estesa, il primo problema che si pone è l’accostamento del loro reciproco cognitivo e dei loro reciproci comportamenti (il razionale). E appresso si presenta la difficoltà di far convivere il reciproco emotivo, affettivo, pulsionale (l’irrazionale). La vita di ogni persona si intesse ogni giorno di questa combinazione interna. Impresa non facile, per ognuno di noi. Per la realtà che stiamo osservando, si tratta di trovare una convivenza che dall’individuo si estende al gruppo e alle istituzioni. Impresa ancor più ardua. Andiamo oltre: integrazione del noto, del conosciuto con l’ignoto, con lo sconosciuto. Se già è sconosciuto il vicino di casa, ancor più è facile pensare che lo sia il vicino di continente. L’irrazionale fa paura, l’ignoto fa paura. Se il sentimento della paura è il più diffuso nel mondo umano e animale, possiamo ben comprendere che ogni movimento di integrazione smuove, inizialmente a livelli subliminali, questo scomodo stato di essere con il quale, è molto importante saperlo, occorre fare i conti. Senza arretrare, ma anche senza atteggiamenti di non curanza e men che mai di sfida.

di che cosa è fatta?

Sembra assurdo dirlo, ma prima di tutto di separazione. Si possono integrare parti ben distinte e separate fra loro. Pena la confusione e, per conseguenza inevitabile, il conflitto. Questo modo di procedere è il più disatteso, perché la diversità fa paura. E torniamo al punto di prima. Niente più allontana che il vedere il diverso come uguale. Non potrò mai capirlo, né aiutarlo, perché non vedo in che cosa lui si distingue da me e in che cosa io mi distinguo da lui. Nel tentativo di vederlo, illusoriamente, speculare a me stesso.

che cosa si vuole integrare?

Nel 1967 Christiaan Barnard tentò il primo trapianto di cuore: il paziente morì diciotto giorni dopo. Il chirurgo non aveva tenuto sufficientemente conto dell’azione di rigetto. Ci vollero otto anni di studi per arrivare al nuovo, riuscito trapianto. Accostare un ‘sistema’ umano a un altro ‘sistema’ umano, per di più non solo individuale, ma sociale e istituzionale, è operazione ancor più complessa che inserire un organo in un corpo. In un processo di integrazione, per il fenomeno che stiamo studiando, si vogliono integrare: – modalità di ‘sentire’ emozioni e affetti, che possono essere profondamente diversi da cultura a cultura; – modalità di gestire le pulsioni di base (sessualità e aggressività), che trovano espressioni talora antitetiche; – sistemi valoriali, sia civili che religiosi, che provengono da storie talora millenarie molto lontane fra loro temporalmente e geograficamente e che possono essersi anche combattuti; – sistemi abitativi: la capanna, la baracca, il condominio, il grattacielo.

perché è così difficile?

E qui veniamo al grande capitolo delle resistenze. Un percorso psicoterapeutico, chiunque lo sa, è un processo di cambiamento. Quando un paziente si presenta a me per la prima volta, esaurita la doverosa parte psicodiagnostica, il primo aspetto cui presto attenzione è la resistenza che questa persona opporrà al nostro lavoro. Si pensa che questo non dovrebbe esistere, visto che la persona sta male e desidera stare bene. Il fatto è che cambiare significa allontanarsi da un terreno di sofferenza, ma conosciuto e relativamente sicuro, per avviarsi verso un mondo non conosciuto e non ancora sperimentato come sicuro. Se ben si pensa, non è strano che al desiderio di cambiamento si opponga, ancora una volta, la paura. A chi spetta il compito di affrontarla e trattarla? In psicoterapia ovviamente al terapeuta: il paziente lo spia a ogni istante per vedere se e come la affronta. Perché così potrà fare anche lui.

e nei fenomeni migratori?

Ovviamente questo compito appartiene, prima di tutti, a chi ospita. E il comportamento dei Paesi europei, in quest’ultimo paio d’anni, ci ha mostrato con molta chiarezza chi è capace di trattare questo scomodo sentimento, chi si è aperto e chi si è chiuso. E c’è un solo modo per far comprendere all’altro che non ho troppa paura di lui: andargli incontro, parlargli, annusarlo (con tutto rispetto per gli animali) e lasciarsi annusare. Avvicinarsi a lui, ma consentire anche a lui di avvicinarsi a noi, perché possa farci sentire la sua paura e la sua rabbia. La rabbia e l’invidia che inevitabilmente gli provengono dal vederci vivere in un mondo di pace, magari con agio e in un’indubbia posizione di superiorità. È bene non dimenticare che se loro sono ‘stranieri’ per noi, anche noi siamo ‘stranieri’ per loro… Dove si vede che la testa è di scarso aiuto, mentre le emozioni possono contribuire a farci comprendere la realtà dei fatti assai più che tanti ragionamenti. E l’altro, il migrante, il rifugiato politico, lo ‘straniero’, se si realizzano queste condizioni, impiegherà poco tempo a ‘sentire’, perché l’apparato emozionale è universale e, tanto meno sarà acculturato, tanto più i suoi sensori emotivi, non ostacolati dalle infrastrutture intellettive, gli permetteranno di capire se il terreno su cui si sta poggiando è sicuro o infido.

qualche esempio

A Gioiosa Jonica, in provincia di Reggio Calabria, sono stati avviati quindici tirocini formativi presso aziende private (imprese artigiane, vivai, pizzerie…) per imparare mestieri fruibili in aree che non risentano in modo importante della crisi dell’occupazione. In Alto Adige, in occasioni di festeggiamenti locali, uomini e donne di colore sono stati invitati a preparare cibi dei loro paesi, serviti contemporaneamente ai piatti altoatesini. In provincia di Verona, a Buttapietra, il Sindaco ha organizzato tornei giovanili di calcio per ragazzi del Comune e giovani del Ghana, della Costa d’Avorio, della Nigeria. Gli stessi ragazzi, il sabato, si ritrovano per pulire le strade del paese e curare il verde cittadino. Di singolare interesse l’iniziativa di una Scuola di Treviso dove una maestra in pensione insegna a cinesi, magrebini, albanesi il dialetto locale. Intervistata ha detto: «Va bene insegnare l’italiano, ma qui quasi tutti i ragazzi, in Parrocchia e al bar, parlano in dialetto… Prima che la lingua, a questi ragazzi che arrivano dall’Africa o dal Medio Oriente, bisogna insegnare il nostro linguaggio, perché possano capirci».

Piero Ferrero

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la positività delle crisi: fanno male ma sono opportune

la crisi come opportunità

per definizione l’essere umano tende alla progressione, all’evoluzione e perciò alla crisi. In definitiva tutta la vita è un susseguirsi di crisi e tentativi di ricomposizione.

Non esiste la stabilità, perlomeno non per periodi lunghi.

Eventi interni o esterni scandiscono passaggi di stato che necessitano di nuovi equilibri. La nascita, i primi passi, l’ingresso a scuola, la pubertà, l’adolescenza, le prime relazioni sentimentali, il matrimonio, la genitorialità, sono solo alcune delle eventualità critiche che una persona si trova ad affrontare nella vita

Quello che poi fa con la sua crisi determina il risultato della stessa perché ogni crisi esistenziale può generare indifferentemente una condizione prolungata di sofferenza o un cambiamento evolutivo. Anche una volta raggiunti certi obiettivi una crisi si può sempre presentare:
– nella relazione sentimentale, qualcosa che non abbiamo bene focalizzato ci ha allontanato dal partner o lo ha allontanato da noi;
– nell’attività professionale, non ci soddisfano più le condizioni lavorative o economiche;
– nelle abitudini di vita, siamo stanchi delle solite cose;
– nella salute, una malattia ci può costringere all’inattività e con essa alla riflessione su dove siamo e che tipo di vita stiamo vivendo;
– in qualche altro settore della vita.

Le sue manifestazioni saranno più o meno concrete – cioè andare dal malessere fisico alla sofferenza psicologica – in base al personale modo di essere, al livello di sofisticazione raggiunto dalle nostre capacità emotive e cognitive.

Una crisi rappresenta la rottura dell’equilibrio psichico precedente e spinge verso il cambiamento e la ricerca di un nuovo equilibrio. Ogni volta che siamo toccati da eventi significativi, positivi o negativi, o anche ogni volta che raggiungiamo nuove consapevolezze, siamo costretti a ricercare equilibri di ordine superiore, più sofisticati e articolati.

Una crisi è contemporaneamente un momento critico e un’opportunità. Immaginiamo un’insoddisfazione a livello lavorativo che non si trasforma nella ricerca di un miglioramento oppure un disagio di coppia che non si trasforma in un aumento della comunicazione tra i partner o un’adolescenza che non sfocia nella maturità: ogni volta c’è il rischio di perdersi o di rimanere bloccati. Ma il più delle volte ci si riesce e la crisi diventa un cambiamento di vita.

A volte attraverso soluzioni pratiche, a volte con la riflessione, a volte con il dialogo, con la condivisione, con il confronto.

p.s.: non ricordo più dove ho trovato questa bella riflessione; mi è piaciuta e l’ho pubblicata, chiedendo scusa all’autore se non ne pubblico il nome

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il senso universale di un ‘anno santo della misericordia’

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un appello rivolto a tutti

di Vito Mancuso

in “la Repubblica” del 2 dicembre 2015

oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà

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Il Papa e l’Occidente ferito. “Avere cura dei poveri” non è esclusiva cristiana. Le parole chiave sono due: giubileo e misericordia. La domanda invece è una sola: ci sono sensati motivi oggi perché una mente razionale faccia sua la prospettiva di vivere all’insegna del giubilo e della misericordia? Dicendo “oggi” non mi riferisco solo al clima di paura dentro cui siamo immersi ogni giorno di più; mi riferisco anche e soprattutto alla filosofia di vita che pervade la mente occidentale da qualche secolo a questa parte rendendola incapace di generare pace perché concepisce l’esistenza come “guerra di tutti contro tutti” (Hobbes), “lotta per la sopravvivenza” (Darwin), “volontà di potenza” (Nietzsche). Oggi si è perlopiù convinti che pensare in modo rigoroso conduca necessariamente al conflitto perché già la natura nella sua intima essenza è considerata come conflitto, mentre ogni prospettiva che invita all’armonia viene sentita come evasione e incapacità di cogliere la realtà. Dalla destra liberista alla sinistra neodarwinista il pensiero occidentale oggi si muove all’insegna del detto di Eraclito “il conflitto è padre di tutte le cose e di tutte è re” (fr. 14). Si dimentica però quanto il grande filosofo aggiungeva, cioè che “da elementi che discordano si ha la più bella armonia” (fr. 24) e che “armonia invisibile è migliore della visibile” (fr. 27).

piazza_san_pietro-vaticano Il Giubileo straordinario della misericordia indetto da Francesco è una celebrazione di quell’armonia invisibile nominata da Eraclito e a cui tutti gli esseri umani, se aprono il cuore e la mente, possono partecipare. Nella bolla di indizione il Papa scrive che la misericordia “è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita” (Misericordiae vultus 2). Sono parole di intenso ottimismo secondo cui ogni essere umano, se prende sul serio la luce che pervade lo sguardo dell’altro, si apre alla dinamica della relazione interpersonale e può superare il conflitto che abita la superficie dell’essere. Francesco fonda l’appello alla misericordia in prospettiva cristiana dicendo che “Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”. Ma non si tratta di un’esclusiva cristiana. La Bibbia ebraica istituisce il giubileo nel Levitico e celebra la misericordia divina nei Salmi. L’islam apre ognuna delle 114 sure del Corano “nel nome di Dio clemente e misericordioso”. Il buddhismo insegna la misericordia mediante la dottrina delle quattro dimore divine: gentilezza amorevole verso tutti, compassione infinita verso i sofferenti, gioia compartecipe, equanimità. Tutte le religioni genuinamente interpretate hanno al centro l’ideale di pace e misericordia. Si tratta di una prospettiva cui può giungere anche la pura ragione. Guardare gli altri con occhi sinceri significa infatti praticare l’imperativo categorico kantiano: “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo” (Fondazione della metafisica dei costumi, BA 67). La misericordia solidale non è buonismo dolciastro, è applicazione della legge etica fondamentale dell’umanità. La quale a sua volta è riproduzione dell’armonia relazionale che informa l’energia primordiale caotica portandola a comporre sistemi sempre più complessi sotto forma di atomi, molecole, cellule, organi, apparati, organismi, fino allo splendore della mente che pensa e del cuore che ama. Papa Francesco è una mente che pensa e un cuore che ama, e per questo le sue parole e i suoi gesti giungono come un balsamo sulle piaghe della sfiduciata mente occidentale. Egli invita a prendersi cura dei poveri: facendo così forse scopriremo che la vera povertà non riguarda le tasche, riguarda gli occhi e la loro incapacità di guardare gli altri in modo sincero

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la guerra si può abolire

aboliamo insieme la guerra

un’utopia da realizzare adesso

di Gino Strada

Strada

in “Avvenire” del 1 dicembre 2015

è possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare

Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. A Quetta, la città pakistana vicina al confine afgano, ho incontrato per la prima volta le vittime delle mine antiuomo. Ho operato molti bambini feriti dalle cosiddette ‘mine giocattolo’, piccoli pappagalli verdi di plastica grandi come un pacchetto di sigarette. Sparse nei campi, queste armi aspettano solo che un bambino curioso le prenda e ci giochi per un po’, fino a quando esplodono: una o due mani perse, ustioni su petto, viso e occhi. Bambini senza braccia e ciechi. Conservo ancora un vivido ricordo di quelle vittime e l’aver visto tali atrocità mi ha cambiato la vita. Mi è occorso del tempo per accettare l’idea che una ‘strategia di guerra’ possa includere prassi come quella di inserire, tra gli obiettivi, i bambini e la mutilazione dei bambini del ‘Paese nemico’. Armi progettate non per uccidere, ma per infliggere orribili sofferenze a bambini innocenti, ponendo a carico delle famiglie e della società un terribile peso. Ancora oggi quei bambini sono per me il simbolo vivente delle guerre contemporanee, una costante forma di terrorismo nei confronti dei civili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10% erano presumibilmente dei militari. Il 90% delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo ‘il nemico’? Chi paga il prezzo della guerra?

Strada1 Nel secolo scorso, la percentuale di civili morti aveva fatto registrare un forte incremento passando dal 15% circa nella prima guerra mondiale a oltre il 60% nella seconda. E nei 160 e più ‘conflitti rilevanti’ che il pianeta ha vissuto dopo la fine della seconda guerra mondiale, con un costo di oltre 25 milioni di vite umane, la percentuale di vittime civili si aggirava costantemente intorno al 90% del totale, livello del tutto simile a quello riscontrato nel conflitto afgano. Lavorando in regioni devastate dalle guerre da ormai più di 25 anni, ho potuto toccare con mano questa crudele e triste realtà e ho percepito l’entità di questa tragedia sociale, di questa carneficina di civili, che si consuma nella maggior parte dei casi in aree in cui le strutture sanitarie sono praticamente inesistenti. Negli anni, Emergency ha costruito e gestito ospedali con centri chirurgici per le vittime di guerra in Ruanda, Cambogia, Iraq, Afghanistan, Sierra Leone e in molti altri Paesi, ampliando in seguito le proprie attività in ambito medico con l’inclusione di centri pediatrici e reparti maternità, centri di riabilitazione, ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’origine e la fondazione di Emergency, avvenuta nel 1994, non deriva da una serie di principi e dichiarazioni. È stata piuttosto concepita su tavoli operatori e in corsie d’ospedale. Curare i feriti non è né generoso né misericordioso, è semplicemente giusto. Lo si deve fare. In 21 anni di attività, Emergency ha fornito assistenza medico-chirurgica a oltre 6,5 milioni di persone. Una goccia nell’oceano, si potrebbe dire, ma quella goccia ha fatto la differenza per molti. In qualche modo ha anche cambiato la vita di coloro che, come me, hanno condiviso l’esperienza di Emergency. Ogni volta, nei vari conflitti nell’ambito dei quali abbiamo lavorato, indipendentemente da chi combattesse contro chi e per quale ragione, il risultato era sempre lo stesso: la guerra non significava altro che l’uccisione di civili, morte, distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. Confrontandoci quotidianamente con questa terribile realtà, abbiamo concepito l’idea di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco. In realtà, questa era la speranza condivisa in tutto il mondo all’indomani della seconda guerra mondiale. Tale speranza ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella Premessa dello Statuto dell’Onu: «Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti  fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole».

Strada2 Il legame indissolubile tra diritti umani e pace e il rapporto di reciproca esclusione tra guerra e diritti erano stati inoltre sottolineati nella Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948. «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti» e il «riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». 70 anni dopo, quella Dichiarazione appare provocatoria, offensiva e chiaramente falsa. A oggi, non uno degli Stati firmatari ha applicato completamente i diritti universali che si è impegnato a rispettare: il diritto a una vita dignitosa, a un lavoro e a una casa, all’istruzione e alla sanità. In una parola, il diritto alla giustizia sociale. All’inizio del nuovo millennio non vi sono diritti per tutti, ma privilegi per pochi. La più aberrante in assoluto, diffusa e costante violazione dei diritti umani è la guerra, in tutte le sue forme. Cancellando il diritto di vivere, la guerra nega tutti i diritti umani. Vorrei sottolineare ancora una volta che, nella maggior parte dei Paesi sconvolti dalla violenza, coloro che pagano il prezzo più alto sono uomini e donne come noi, nove volte su dieci. Non dobbiamo mai dimenticarlo. Solo nel mese di novembre 2015, sono stati uccisi oltre 4mila civili in vari Paesi, tra cui Afghanistan, Egitto, Francia, Iraq, Libia, Mali, Nigeria, Siria e Somalia. Molte più persone sono state ferite e mutilate, o costrette a lasciare le loro case. In qualità di testimone delle atrocità della guerra, ho potuto vedere come la scelta della violenza abbia – nella maggior parte dei casi – portato con sé solo un incremento della violenza e delle sofferenze. La guerra è un atto di terrorismo e il terrorismo è un atto di guerra: il denominatore è comune, l’uso della violenza. Sessanta anni dopo, ci troviamo ancora davanti al dilemma posto nel 1955 dai più importanti scienziati del mondo nel cosiddetto Manifesto di Russel-Einstein: «Metteremo fine al genere umano o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?». È possibile un mondo senza guerra per garantire un futuro al genere umano? Molti potrebbero eccepire che le guerre sono sempre esistite. È vero, ma ciò non dimostra che il ricorso alla guerra sia inevitabile, né possiamo presumere che un mondo senza guerra sia un traguardo impossibile da raggiungere. Il fatto che la guerra abbia segnato il nostro passato non significa che debba essere parte anche del nostro futuro. Come le malattie, anche la guerra deve essere considerata un problema da risolvere e non un destino da abbracciare o apprezzare. Come medico, potrei paragonare la guerra al cancro. Il cancro opprime l’umanità e miete molte vittime: significa forse che tutti gli sforzi compiuti dalla medicina sono inutili? Al contrario, è proprio il persistere di questa devastante malattia che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per prevenirla e sconfiggerla.

gino-strada-3 Concepire un mondo senza guerra è il problema più stimolante al quale il genere umano debba far fronte. È anche il più urgente. Gli scienziati atomici, con il loro Orologio dell’apocalisse, stanno mettendo in guardia gli esseri umani: «L’orologio ora si trova ad appena tre minuti dalla mezzanotte perché i leader internazionali non stanno eseguendo il loro compito più importante: assicurare e preservare la salute e la vita della civiltà umana». L a maggiore sfida dei prossimi decenni consisterà nell’immaginare, progettare e implementare le condizioni che permettano di ridurre il ricorso alla forza e alla violenza di massa fino alla completa disapplicazione di questi metodi. La guerra, come le malattie letali, deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente. L’abolizione della guerra è il primo e indispensabile passo in questa direzione. Possiamo chiamarla ‘utopia’, visto che non è mai accaduto prima. Tuttavia, il termine utopia non indica qualcosa di assurdo, ma piuttosto una possibilità non ancora esplorata e portata a compimento. Molti anni fa anche l’abolizione della schiavitù sembrava ‘utopistica’. Nel XVII secolo, ‘possedere degli schiavi’ era ritenuto ‘normale’, fisiologico. Un movimento di massa, che negli anni, nei decenni e nei secoli ha raccolto il consenso di centinaia di migliaia di cittadini, ha cambiato la percezione della schiavitù: oggi l’idea di esseri umani incatenati e ridotti in schiavitù ci repelle.
Quell’utopia è divenuta realtà. Un mondo senza guerra è un’altra utopia che non possiamo attendere oltre a vedere trasformata in realtà. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolire la guerra è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Questo concetto deve penetrare in profondità nelle nostre coscienze, fino a che l’idea della guerra divenga un tabù e sia eliminata dalla storia dell’umanità. Ricevere il Premio Right Livelihood Award incoraggia me personalmente ed Emergency nel suo insieme a moltiplicare gli sforzi: prendersi cura delle vittime e promuovere un movimento culturale per l’abolizione della guerra. Approfitto di questa occasione per fare appello a voi tutti, alla comunità dei colleghi vincitori del Premio, affinché uniamo le forze a sostegno di questa iniziativa. Lavorare insieme per un mondo senza guerra è la miglior cosa che possiamo fare per le generazioni future.

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