il vescovo che parla come Salvini: “Putin sì che ha le palle”!

un giornalista di ‘la nuova Ferrara’ così commenta la sorpresa e lo scandalo per le parole e la posizione guerrafondaia del vescovo di Ferrara:

“santità, la Chiesa è un casino”

 

il vescovo Luigi Negri nell’intervista a Panorama conferma la linea apocalittica

il commento più brusco e mattiniero che ieri è atterrato in redazione è stato questo: «Ma chi è che ispira all’arcivescovo di Ferrara tali concetti? Filippo Maria Manvüller?». Quest’ultimo signore è l’addetto stampa del gruppo regionale della Lega Nord e quindi dell’amministrazione di Bondeno. Ma nulla c’entra. È tutta farina del sacco di sua eccellenza, com’è la frase che presa di peso dall’intervista data a Stefano Lorenzetto di Panorama, pari pari: «Nel panorama di silenzio connivente e di iniziative inconcludenti, l’unico che ha gli attributi, devo ammetterlo con profonda vergogna, è Vladimir Putin».

Capito? Con “profonda vergogna”, perché lui è un consacrato cattolico di rito ambrosiano (milanese) e Putin è nazionalista, zarista, ex comunista, ex Kgb, ortodosso e facile alle maniere forti. Il concetto del presule si far ancor più anatomico quando immagina «un’operazione vigorosa e mirata contro il Califfato… Ma per promuoverla servono testa e palle». Questa si chiama chiarezza virile.

Monsignor Luigi Negri se la prende con l’Occidente molle e incerto sul che fare contro l’Is. Ha lo stesso punto di vista che fu del Berlusconi in sella e del Salvini galoppante. Letta l’intervista, ho telefonato all’arcivescovo mentre il campanile rosa e bianco di Ferrara annunciava il mezzogiorno. Gli ho chiesto se, considerata la sua età (gli manca un anno alle dimissioni canoniche) e alla piega che ha preso Santa Romana Chiesa col pontificato di Bergoglio, non abbia deciso di prendersi ogni libertà. E sparare sullo sparabile. La risposta è come sempre pronta e affilata: «Ma che dice? Si tratta di libertà. E la libertà è una dimensione strutturale, non nasce e nemmeno cresce. Io sono sempre stato libero».

E si sente. Si legge, quando nell’intervista accende tutte le spie rosse possibili: dal fondamentalismo islamico fino alle quattro logge massoniche, più una femminile, attive nella piccola Ferrara. E poi dalla sua elencazione dei nemici del mondo e quindi del cristianesimo in purezza: la massoneria mondiale, l’economia anglo-cinese-nipponica e il fondamentalismo islamico. L’elenco di Negri ha qualche consonanza con la sentenza mussoliniana contro il jazz: “musica degenerata”.

Perché Negri neanche in quest’ultima intervista contraddice il suo essere un “implacabile propugnatore dell’ortodossia”. E confessa che se non avesse fatto il prete gli sarebbe piaciuto diventare un generale.

Ecco, Negri è un gendarme. E utilizza un linguaggio che non sarebbe consonante con quello che tutti, o quasi, definiamo clericalmente corretto. Addirittura a tu per tu col suo amatissimo Benedetto XVI negli anni dell’episcopato di San Marino-Montefeltro, Negri non ha esitato a dipingere i tempi difficili della Chiesa contemporanea come “un casino”. Negri – attenti bene – è finissimo. Usò il termine casino come parola contrapposta a ordine. E infatti la Chiesa dovrebbe essere un “ordo”, un ordine intellettuale, morale, esistenziale, sociale. Testuale: «Lo ricordai a Benedetto XVI. “È vero”, annuì. E io aggiunsi: ma la Chiesa oggi non è un “ordo”, è un casino».

E, neanche farlo apposta, il botta e risposta di Negri con Lorenzetto fa sfavillare quell’altro rapporto che l’arcivescovo ha-non-ha con Papa Bergoglio. Conferma di avergli parlato per pochi secondi, due volte, a margine di assemblee generali della Cei. Il giornalista lo incalza e lo provoca. Gli ricorda che eppure Francesco ha trovato il tempo per telefonare a Pannella e alla Bonino e di ricevere in udienza un trans spagnolo accompagnato dalla fidanzata. La libertà di Negri è incommensurabile e sottile: «Chi sono io per giudicare il Papa?».

Nell’intervista non mancano le botte a destra e a manca dentro il teatro politico, le critiche garbate a Renzi, e poi al mondo. È dentro questa trincea universale che Negri puntualmente sfodera la sua cultura e i suoi timori (nella città che fu di Savonarola e in un palazzo dov’è stretto fra le lapidi che fanno memoria di Copernico studente ferrarese e di Ferrara liberata dal giogo papalino).

Indubbiamenti l’arcivescovo è apocalittico. Fa un riferimento circostanziato al testo di Benson, anno 1907: «Lì dentro c’è tutto. La confederazione mondiale retta dall’Anticristo, il consenso entusiasta dei sudditi, l’edonismo sfrenato, il pacifismo, il relativismo, l’eutanasia, perfino i cibi artificiali… fino al bombardamento del Vaticano per annientare l’ultimo bastione in grado di fermare il nuovo padrone».

Non invento l’acqua calda e nemmeno santa, se in questa concezione l’arcivescovo Negri proietta anche la sua missio pastorale in terra ferrarese-comacchiese, partendo dalla sua persuasione che la società tutta «è contraria alla Chiesa, c’è poco da fare».

Da questa atmosfera da assedio e in forza del suo carattere da pugile di Dio ogni tanto – cioè ogni sempre – Negri sferra pugni localnazionali. A partire dalla suo primo match mai esaurito contro la movida e il “bordello a cielo aperto” sotto le sue finestre, sino alle recentissime due lettere in un sol giorno e in un sol colpo. Materiale documentale fresco, solo del 26 ottobre scorso. Una diffida preti e fedeli da credere o voler applicare i temi del Sinodo sulla Famiglia, ovvero comunione ai divorziati, perché Francesco non ha mai decretato al riguardo. La seconda è sull’attività di alcune sette sataniche nel Ferrarese. Territorio e gente che in diverse circostanze Negri ha tentato e tenta di mettere alle corde, scuotere dal tradizionalismo in nome del quale niente e nulla si può cambiare: abbiamo sempre fatto così… E sentirlo dire da sua eccellenza – che nel corridoio del suo appartamento ostenta una riproduzione dell’entrata dell’imperatore Carlo V e papa Clemente VII a Bologna – ha dell’incredibile.

Probabilmente Negri ha anche la capacità di schivare i colpi, anche quelli bassi. Il primo che mi viene in mente è quello dell’addio dell’arcivescovo Caffarra alla sede cardinalizia (lo sarà ancora?) di Bologna. Una sponda conservatrice fondamentale per Negri. Arriva Zuppi, che conservatore davvero non è, anzi è il contrario di Caffarra. Nell’intervista viene chiesto a Negri se pensando a che cosa sta mutando a Bologna gli fischino le orecchie, risponde: «A me no. Spero che non fischino a monsignor Zuppi».

Non si lascia mettere all’angolo nemmeno quando gli viene posta davanti la centrale di tanti guai: la riforma della banca vaticana, lo Ior. Non si scompone utilizzando il meglio di una componente esemplare del modello ecclesiastico. Si chiama dissimulazione. Eccola qua: «Della riforma della banca non m’importa un accidenti. Io devo spiegare tutti i giorni alla mia gente perché vale ancora la pena di essere cristiani». E lo fa con i guantoni. Una domanda gliela facciamo noi: perché non scende n piazza, la sera, dentro la bolgia, a mani nude?

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il ‘patto delle catacombe’ compie 50 anni

Patto delle Catacombe. Chiesa povera e dei poveri

‘il patto delle catacombe’ 

chiesa povera e dei poveri

in occasione del suo 50° anniversario (che cade il 16 novembre)  riproponiamo il testo del ‘Patto delle Catacombe’

in calce i nomi dei firmatari

 Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue.

– Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.

– Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cfr. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento.

– Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cfr. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.

– Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.

– Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cfr. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.

– Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.

– Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.

– Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi e i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cfr. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1 Cor 4,12 e 9,1-27.

– Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cfr. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.

– Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cfr. At 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.

– Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere; a richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.

– Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro;  formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito, che capi secondo il mondo; cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…; saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cfr. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.

Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai nostri fedeli la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.

Aiutaci Dio ad essere fedeli

patto delle catacombe

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lo jihadista si racconta

“io jihadista, vi racconto la mia  guerra santa contro gli infedeli”

il tunisino Abu Rahman si è arruolato con Al Qaeda prima in Iraq e ora in Siria:

“Uccido nel nome di Dio per dovere e non per scelta. Così aiuto i fratelli musulmani”

un gruppo di miliziani jihadisti a Idlib, Siria

di DOMENICO QUIRICO
(inviato a Tunisi)

Abu Rahman è un jihadista, un professionista della guerra santa. Sono gli uomini che nella violenza stanno scardinando un mondo, e che noi non conosciamo, riempiono i giornali le televisioni la Rete, e non li conosciamo. Ci prepariamo a combatterli, forse, e non li conosciamo. Abu Rahman mi ha portato la notizia della morte di un combattente che ho incontrato, Adel Ben Mabrouk, guardia del corpo di Bin Laden, otto anni a Guantanamo, ucciso accanto a lui in Siria. Non lo sentivo da due anni. La morte è un destino che non perdona questi uomini. Abu Rahman si nasconde, rischia la prigione nel Paese dove è tornato. Ha un solo amore, il suo dio inflessibile sottratto ad ogni dubbio, che gli offre trasparenza e semplicità, molti odi, gli sciiti prima di tutto, gli eretici e poi gli americani. Vive in una memoria ossessiva dove predomina una guerra di tutto contro tutti, e il tradimento. È il ritratto più vero della Siria di oggi che io abbia mai ascoltato: Bashar, i russi, l’America, il califfato, gli altri gruppi islamisti, nessuno è alleato con qualcuno, tutti sono nemici oggi o domani. Ecco il racconto della sua vita

«Sai, la sura dice: “recita, nel nome del tuo Signore, che ha creato, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue”. Un grumo di sangue: hai capito? E allora perché avrei dovuto provar paura quando sono partito per la Siria? Bisogna andare ad aiutare i fratelli musulmani, la religione del vero, che patiscono di fronte a quei cani di sciiti infedeli… E poi avevo già combattuto in Iraq contro gli americani, le armi le so maneggiare. Dicono che noi guerrieri di dio siamo degli affamati, gente che cerca denaro e belle case… Beh, io sono commerciante, ho soldi, quando non tornerò più dalla guerra santa la mia famiglia, mia moglie e due figli piccoli, avrà di che vivere. Rimarrà di me un buon figlio che invocherà la misericordia per suo padre. Di che altro c’è bisogno?

Andarci… Non è difficile andare, ho preso l’aereo, Istanbul, poi Antalya, eravamo in tre o quattro, tunisini come me. Tutto è pronto sulla via che porta a Dio. C’era già il passeur, per entrare in Siria. Ma i poliziotti turchi ci hanno fermato. Dodici ore poi ci hanno lasciato andare, con tante scuse e sorrisi. Vedi? È Dio… All’inizio ero con un reggimento del gruppo Al Mouhajiroun, gli immigrati, turchi e arabi. Ci hanno dato le armi, ci hanno portato a combattere nella città di Selma, sulle montagne sopra Latakia. È un punto strategico quello, i soldati di Bashar non mollavano, stavano a duecento metri, non di più, da noi, ci si ammazzava guardandosi negli occhi. È un posto dove sunniti e alawiti vivevano insieme. Vivevano… Già. adesso non ci sono più alawiti, conoscevamo ad una ad una le case: qui un sunnita, qui un cane.. Qualcuno è scappato, gli altri…

IL RICORDO DEL PRIMO UOMO UCCISO

Che cosa provo ad uccidere? Vuoi sapere se ricordo chi ho ucciso per primo? In Iraq ho ammazzato il mio primo uomo, al tempo degli americani. Ho detto: grazie Dio, ti ringrazio perché hai guidato la mia mano. Continuo a ripeterlo.

Dopo quattro mesi in Siria sono passato alle “katibe” di jabhat Al Nusra, gli uomini di Al Qaeda. Perchè? Che domanda stupida! Quelli sono veri combattenti, i loro emiri sono grandi uomini, ecco perché! Guerrieri puri, i migliori, e dotti nell’Islam. In Siria è pieno di gruppi di banditi, gente che dice di essere musulmano e in realtà cerca denaro e traffici. Non ci sono pensieri impuri in quelli di Al Nusra.

DA MANGIARE SOLO ERBA

La jihad: è dura la jihad! Non c’era nulla da mangiare, spesso per giorni, eravamo assediati lì, abbiamo mangiato l’erba come le bestie e i frutti verdi degli alberi. Uno di noi era un contadino, ha piantato un piccolo orto. Per bere raccoglievamo l’acqua piovana. Fa freddo su quelle montagne, le montagne dei curdi dannati, freddo da morire e non avevamo vestiti pesanti. C’era una televisione in tutto il villaggio e quando non cadevano bombe si andava a vedere Al Jazeera. E i mortai… Come erano grandi i mortai dei soldati: bestie da 120 millimetri, sparavano tutto il giorno, ci facevano vedere la morte e noi non avevamo nulla da opporgli, una mitragliera da 23 millimetri che si inceppava sempre! E poi gli elicotteri e gli aerei che sganciavano i bidoni pieni di esplosivo…

IL TRADIMENTO CHE UCCIDE

Ma questo è niente, resistevamo. Quello che è terribile è il tradimento. I nostri emiri si riunivano in una casa, dopo pochi minuti arrivava una bomba precisa precisa! Si usciva di notte per una operazione, i soldati erano già lì che ci aspettavano! Tra noi c’erano spie, gente che i servizi di sicurezza, i Mukhabarat, del regime avevano lasciato prima di ritirarsi o infiltrato come falsi combattenti.

La zona di al Karrata… Lì sapevi che non potevi uscire vivo. Bombe bombe bombe. Quanti dei miei compagni sono morti! Nel loro cuore portavano una moschea splendente di Dio. Ali il Magrebino… lo amavano tutti, una granata gli ha portato via una gamba, così, di netto, mentre sparava stando in piedi, dritto, e il dolore gli ha spento il grido Allah akbar sulle labbra. È morto dissanguato, non avevamo garze, bende, nulla per tamponare la ferita. Usavamo erbe e rimedi tradizionali perché non c’erano medicine. 

E lì che è morto Adel Ben Mabrouk, il sopravvissuto di Guantanamo, accanto a me, a Durin, un villaggio che ci è costato tanti, troppi martiri, un posto maledetto, un pugno di case. Per niente, adesso l’hanno ripreso i soldati. Adel, lui che aveva baciato la mano allo sceicco Osama sulle montagne afgane, che aveva resistito otto anni a Guantanamo alle torture degli americani, lo ha preso un cecchino, in testa, in prima linea. Aveva appena annunciato che stava per sposarsi con una donna siriana, come molti di noi… Era felice. 

Seppellivamo i morti di notte a Durin, per sfuggire alle bombe, non potevamo nemmeno recitare la “fatiha’’ sulle tombe, sì la puoi recitare ovunque, lo so, ma sulle tombe assume un significato particolare… Abbiamo chiesto aiuto a quelli del gruppo di Ahrar el Cham, tutti siriani quelli, e hanno armi moderne, non vecchi kalashnikov. Ci hanno risposto no, ci hanno lasciato crepare, noi che siamo loro fratelli. Grazie a Dio ci siamo salvati.… Io so bene cosa è il tradimento… Quando sono andato in Iraq per battermi contro gli americani c’era ancora Saddam che comandava, volevano mettermi in una brigata che si chiamava «i martiri di Saddam». Noi sunniti siamo stati spediti a sud, a Karbala; gli americani avanzavano non c’era acqua né cibo, per Saddam dovevamo controllare gli sciti di cui non si fidava… quando tutto è crollato, in piccoli gruppi otto, dieci siamo scappati a Baghdad, ci hanno messi in un albergo, l’hotel Cedir, non si fidavano, tutto attorno crollava, ma attraverso le zone sunnite, Ramadi, Samara, Mosul, siamo riusciti ad arrivare in Siria. Chi vuole restare è libero, hanno detto i siriani e invece ci hanno spedito in Tunisia dove ci hanno arrestati. Mi ha liberato la rivoluzione contro Ben Ali.

 

LA JIHAD PRIMA DEI FIGLI

La jihad, la jihad sai per me è un dovere, non c’è scelta: la terra musulmana è in mano ai senza Dio, agli sciiti infami, la jihad viene prima dei figli del mangiare della casa del paese, devi combatterli con la parola i soldi le armi le leggi. Morire vivere… Parole, ci sono mujaheddin che combattono da 30 anni e sono ancora vivi altri che sono morti dopo un’ora… Decide Dio. Quello che voi occidentali non potete capire: avete perso la voglia di combattere per la fede, la religione per voi funziona come per me il commercio, ma quello che è importante per me, per noi, è essere puri nel momento in cui ci si separa da questo mondo, avere una fine felice. Tu saresti capace di avere una fine felice, rispondi? Io non sono sempre stato così pronto a Dio, ogni tanto la mia fede mi lascia, ma poi torna. E allora mi sento vivo e non più schiavo dell’occidente. Si combatte si uccide si muore. Voi occidentali siete più forti: per il denaro, i mezzi, le armi che avete. Ma proprio per questo avete paura di morire e volete vivere a tutti i costi. Noi no. Vedi la saggezza di Dio? Attraverso la debolezza lui ci rende più forti di voi. 

Nel giorno della resurrezione l’Onnipotente mi chiamerà a se: “Abu, hai assolto i tuoi doveri?”. “Mio dio, mi sono impegnato – gli risponderò – ho accettato di morire per te: tu sarai clemente allora…”.

Perché sono venuto via, perché non sono rimasto là a morire come Adel e gli altri? Perché è arrivato Isis. Ed è entrato l’odio tra noi. I loro capi non sono veri musulmani come noi, sono ex funzionari del Baath iracheno, ex ufficiali dell’esercito di Saddam. Non vogliono concorrenti, è impossibile cambiare idea, lasciarli: ti uccidono. Vicino ad Aleppo noi di Al Nusra abbiamo ceduto loro ventun villaggi che controllavamo: loro li hanno lasciati a Bashar. I loro emiri non sanno nulla del Corano, sono ignoranti e anche i combattenti sono giovani ignoranti affascinati dalla loro propaganda. Abbiamo litigato con loro, poi abbiamo anche combattuto. Ecco perché sono venuto via dalla Siria, non posso stare in un posto, morire, dove i sunniti, la gente di Dio, combatte non contro gli sciiti e gli americani ma tra di loro. Non so se tornerò, forse da un’altra parte. Voglio combattere perché nasca un governo islamico in Siria e dopo andremo a liberare la Palestina dai giudei. Nascono nuovi gruppi, si uniranno a noi, Jaich al Fatah, per esempio, si battono bene, c’è speranza, ma occorre essere uniti. I russi dici? Bombardano? Che importa. Noi combattiamo per una fede, loro no, perderanno»

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il commento al vangelo della domenica

 

IL FIGLIO DELL’UOMO RADUNERA’ I SUOI ELETTI DAI QUATTRO VENTI

commento al vangel odella domenica trentatreesima del tempo ordinario (15 novembre 2015) di p. Alberto Maggi: 

p. Maggi

Mc 13, 24-32

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione, il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo. Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte. In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».

Il capitolo 13 del Vangelo di Marco è estremamente complesso. L’evangelista ne è consapevole al punto che al versetto 14 dice “chi legge”, cioè il lettore, “capisca”. Vediamo allora di capire quello che l’evangelista ci trasmette. In quei giorni, dopo quella tribolazione… la tribolazione è stata la distruzione del tempio e di Gerusalemme, che Gesù ha annunziato. E qui Gesù, rifacendosi ai testi dei profeti, in particolare il profeta Isaia, usa il linguaggio profetico della caduta dei regimi oppressori. E dice Gesù: “Il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce”. Il sole e la luna in quella cultura erano divinità adorate dai popoli pagani. Quindi le divinità pagane perdono il loro splendore. Perché? Gesù prima aveva detto: “E’ necessario che il vangelo, la buona notizia, sia proclamata a tutti quanti”. Allora il 1 processo di liberazione che è iniziato con la caduta di Gerusalemme, comincia a dare effetti. L’annuncio della buona notizia con la luce, lo splendore del vero Dio, mette in ombra tutte le false divinità. Ecco gli effetti: “E le stelle cadranno dal cielo”. Cosa si intende per “stelle”? A quell’epoca tutti coloro che detenevano un potere, il re, l’imperatore, il faraone, si consideravano di condizione divina, per cui stavano metaforicamente nei cieli, considerati come stelle. Allora Gesù, attraverso l’evangelista, ci dice che tutti quei regimi, quei potenti, che basano il loro potere su false divinità, dal momento che c’è l’annuncio del vangelo di Gesù, queste false divinità perdono il loro splendore e queste stelle incominciano a cadere una dopo l’altra. Qui il riferimento di Gesù è all’oracolo contro Babilonia del profeta Isaia, dove il profeta contro il re di Babilonia dice: “Come mai sei caduto dal cielo, astro del mattino, figlio dell’aurora? Volevi dire ‘salirò nel cielo’ e invece sarai sprofondato negli inferi”. Quindi l’effetto positivo dell’annunzio della buona notizia di Gesù è che tutte le strutture di potere, ogni regime basato sul potere, cadrà per la liberazione dell’uomo. “E le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte”. Nei cieli, secondo l’evangelista, c’è il Padre, il figlio dell’Uomo e gli angeli. Le potenze sono poteri che usurpano la condizione divina, e incominciano ad essere sconvolte. Quindi Gesù assicura: “Allora vedranno”. Gesù non dice “vedrete”, ma “vedranno”. Chi è che vedrà? I potenti che cadono dal loro trono. “Il figlio dell’Uomo venire sulle nubi”. Le nubi indicano la condizione divina. “Con grande potenza e gloria”. Nel momento in cui le potenze sono sconvolte, le stelle incominciano a cadere, si manifesta la potenza e la gloria nel Figlio dell’Uomo. E Gesù aggiunge che “Egli manderà gli angeli”, cioè quanti lo hanno aiutato a realizzare la sua opera, “e radunerà i suoi eletti”. La caduta dei persecutori sarà il trionfo dei perseguitati. “Dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.” Tutto questo per un nuovo inizio. E poi Gesù continua: “Dalla pianta di fico”… Il fico già è apparso in questo vangelo come immagine del tempio, dell’istituzione religiosa che era tutto splendore ma niente frutto, tutto foglie e niente frutto. “Imparate la parabola”. E’ una parabola particolare, potremmo tradurre con “quella parabola”. Ma qual è la parabola? E’ quella che Gesù ha pronunziato contro l’istituzione religiosa, i sommi sacerdoti, è la parabola dei vignaiuoli omicidi ai quali Dio toglierà la vigna. “Quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi”… quindi Gesù si rivolge alla sua comunità … “quando vedrete accadere queste cose, sappiate che è vicino, è alle porte”. Che cosa è vicino? Che cosa è alle porte? Il regno di Dio. Nel momento che cade Gerusalemme e cade il tempio, questo grande ostacolo per andare a predicare la buona notizia anche ai pagani; dal momento che con l’annunzio della buona notizia tutti i poteri che si basano sul dominio, sullo sfruttamento dell’uomo incominciano a cadere, ecco che si inaugura il regno di Dio.  E Gesù rassicura: “In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga”. Sappiamo che la distruzione di Gerusalemme sarà nell’anno 70. La rovina di Gerusalemme permetterà l’entrata dei pagani nel regno di Dio. “Il cielo e la terra passeranno”, cioè tutto passerà, “ma le mie parole non passeranno”. Quindi la certezza assoluta che se la comunità annunzia e vive la buona notizia di Gesù, ogni sistema ingiusto, ogni sistema oppressore cadrà perché tutti i potenti, tutti i regimi hanno i piedi d’argilla e prima o poi sono destinati a cadere. E poi questo brano finisce con un’immagine di grande fiducia. “Quanto però a quel giorno”, è il giorno della morte di Gesù, “o a quell’ora”, l’ora della persecuzione e morte dei suoi discepoli, “nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre”. Cosa ci vuol dire Gesù? Non è importante conoscere il momento, ma sapere che è nelle mani del Padre. Quindi questa pagina si chiude con un invito a fidarsi pienamente dell’azione del Padre. Quindi è una pagina pienamente positiva, certamente non una pagina che tende a mettere paura alle persone, quanto a liberarle e soprattutto è una pagina che incoraggia la piccola comunità dei credenti che si trova impotente di fronte ai grandi regimi che governano il mondo.

 

 

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discorso di papa Francesco alla chiesa italiana

INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI  DEL V CONVEGNO NAZIONALE DELLA CHIESA ITALIANA

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cattedrale di Santa Maria del Fiore, Firenze Martedì, 10 novembre 2015

[Multimedia]

Firenze

Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù

Cari fratelli e sorelle,

nella cupola di questa bellissima Cattedrale è rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce. L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i segni della passione, perché Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1 Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Nella luce di questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo. Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Guardando il suo volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte (cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come diceva sant’Anselmo, o il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno parole che risuonano a vuoto.

Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di prendere decisioni.

Quali sono questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.

Il primo sentimento è l’umiltà. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti l’Apostolo parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come Dio (Fil 2,6). Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre.

Un altro sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).

Il nostro dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende sé stessa, che arriva ad essere feconda.

Un ulteriore sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine. Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina. Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà. Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una grandezza umile.

Le beatitudini che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo, sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere «beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa, fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (Sal 34,9)!

Umiltà, disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.

Una Chiesa che presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti» (Evangelii gaudium, 49).

Però sappiamo che le tentazioni esistono; le tentazioni da affrontare sono tante. Ve ne presento almeno due. Non spaventatevi, questo non sarà un elenco di tentazioni! Come quelle quindici che ho detto alla Curia!

La prima di esse è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.

La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.

La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo.Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94). Lo gnosticismo non può trascendere.

La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.

La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.

Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?

Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù che qui è rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?

Possiamo immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,34-36). Mi viene in mente il prete che ha accolto questo giovanissimo prete che ha dato testimonianza.

Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).

Le beatitudini e le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma pratiche. Due pilastri: le beatitudini e le parole del giudizio finale. Che il Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21); gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta (cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e semplicità di cuore» (At 2,46-47).

Ai vescovi chiedo di essere pastori. Niente di più: pastori. Sia questa la vostra gioia: “Sono pastore”. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi un vescovo, è la sua gente.

Che niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo, morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo, popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale nella esortazione apostolica Evangelii gaudium (cfr nn. 111-134).

A tutta la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione: l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune.

L’opzione per i poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà» (Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi). I poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).

Che Dio protegga la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.

Siamo qui a Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a servizio della carità! Penso allo Spedale degli Innocenti, ad esempio. Una delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco, dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi abbiamo l’altra metà. Perché la Chiesa madre ha in Italia metà della medaglia di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. E questo da sempre è una delle vostre virtù, perché ben sapete che il Signore ha versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti.

Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» (Evangelii gaudium, 227).

Ma dobbiamo sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. Noi sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del celebre homo homini lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e, pagando di persona, salva.

La società italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella politica, quella dei media… La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro, di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.

Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.

E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. È fratello.

Ma la Chiesa sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose.

Faccio appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», diceva l’Apostolo Giovanni (1 Gv 1,14). Giovani, superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr 1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro per una Italia migliore. Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.

Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma piazze e ospedali da campo.

* * *

Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.

Sebbene non tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.

Vi affido a Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”. Nell’affresco che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –, l’angelo tace e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci siamo tutti noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria. Grazie.

 

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la rivoluzione di papa Francesco

La rivoluzione di un papa fallibile

 «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca»

Papa Francesco esorta la chiesa a innovare con libertà

il vescovo di Roma è il papa della Chiesa cattolica, certo, ma non è superman. E questo, oltre a rendermelo personalmente simpatico, mette al riparo i cattolici dal farne un idolo onnipotente e aiuta gli altri cristiani a liberarsi dalla tentazione di dipingerlo come un pericoloso e impersonale moloch, un nemico astratto da combattere. Il papa è una persona, non un simbolo. Ha pregi e limiti. E in questo si realizza la sua potente umanità. L’importante è vivere i problemi come sfide e non come ostacoli

Nei giorni scorsi, un’amica mi ha benevolmente sollecitato, dicendomi: «Perché non scrivi dell’appello di quei 12 preti cattolici irlandesi che chiedono al Vaticano di aprire le porte all’ordinazione sacerdotale delle donne?». Avevo visto quell’appello e – come dire – non c’è dubbio che il tema del ruolo delle donne nella Chiesa cattolica sia una grande questione aperta, un nodo gordiano su cui la Chiesa di Roma ha ancora un lungo cammino da compiere. L’universo femminile, come è noto, rappresenta ben più della metà del popolo fedele che frequenta le chiese. Ma non è solo questione di statistica o di marketing, ovviamente. E’ questione di giustizia, di sensibilità culturale, di libertà. E’ anche un tema estremamente sensibile dal punto di vista ecumenico. C’erano, dunque, tutti gli ingredienti per trattarne in questo rubrica. Eppure ho deciso di non scrivere di questo, e poi vi spiego perché.

Ho pensato invece di tornare (ebbene sì) su papa Francesco. In particolare sul suo discorso ai delegati al convegno della Chiesa italiana che si sta svolgendo in questi giorni a Firenze. In un intervento che qualche mio collega vaticanista ha definito “maestoso”, il vescovo di Roma  Bergoglio ha tratteggiato una immagine di Chiesa che i cattolici italiani avevano quasi dimenticato, sommersi per trent’anni da parole d’ordine episcopali tanto più autoritarie quanto più piccole spiritualmente.

Francesco, con la sua apparente semplicità, ha ridato sapore e gusto al nostro definirci cristiani: «Il nostro dovere», ha detto, «è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare. La nostra fede è rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende se stessa, che arriva ad essere feconda». Sarebbe potuto essere Martin Luther King. Oppure, in un altro passaggio, Dietrich Bonhoeffer: «Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo».

Bergoglio non ha citato né il reverendo King né il teologo Bonhoeffer, ma non ce n’è stato bisogno. Il suo discorso ha una fortissima rilevanza ecumenica non perché è stato attento a pesare le citazioni interconfessionali, ma perché è stato radicalmente “evangelico”. Ha ricordato che la Chiesa è “semper reformanda”. Si è rivolto ai delegati al convegno con una domanda provocatoria: «Ma allora che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa? Spetta a voi decidere: popolo e pastori insieme». Contemporaneamente, ha chiesto ai vescovi di non essere dittatori o predicatori di complesse dottrine, ma «pastori. Niente di più: pastori».

Poi il papa ha fatto una esplicita richiesta a tutti i cattolici italiani: «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria fetta della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti… Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà. E senza paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur autentiche certezze. È fratello». Infine, a un mondo cattolico oramai disabituato a prendere la parola e a partecipare attivamente alle faccenda di Chiesa, Bergoglio ha raccomandato di mettere in moto a tutti i livelli – dalle parrocchie, alle associazioni ecclesiali, alle diocesi – dei meccanismi di confronto “sinodale”: «Innovate con libertà», ha specificato.

All’inizio di questa articolessa, però, vi avevo promesso una spiegazione sul perché non ho affrontato il tema delle donne. E allora, come direbbe Camilleri, ora vengo e mi spiego. In un altro passaggio del suo discorso, Francesco ha ammesso: «Si può dire che oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono persino difficili da comprendere». Ma, ha aggiunto il papa, «questo nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli».

Forse (e dico forse perché non si sa mai), il tema del femminile/maschile, del gender e l’eventuale ricaduta ecclesiale di tali acquisizioni culturali è, per il prete gesuita argentino Jorge Mario Bergoglio, una di queste sfide “persino difficili da comprendere”. Il vescovo di Roma è il papa della Chiesa cattolica, certo, ma non è superman. E questo, oltre a rendermelo personalmente simpatico, mette al riparo i cattolici dal farne un idolo onnipotente e aiuta gli altri cristiani a liberarsi dalla tentazione di dipingerlo come un pericoloso e impersonale moloch, un nemico astratto da combattere. Il papa è una persona, non un simbolo. Ha pregi e limiti. E in questo si realizza la sua potente umanità. L’importante è vivere i problemi come sfide e non come ostacoli. In altre parole: l’importante non è avere tutte le risposte, ma innescare dei processi di cambiamento. In ascolto dello Spirito.

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il sogno dei ‘giovani rom’ in un manifesto

oltre i pregiudizi

il coraggio dei giovani rom e sinti

Bade, Ivana, Miguel, Manuel, Matteo, Serena, Nedzad, Florin, Jemina, Ahmet, Dolores, Rubino, Remi, Annachiara, Denisa, Valentina

Sono giovani rom, sinti e non rom, italiani e stranieri, provenienti da varie città italiane: da Roma a Mazara del Vallo, da Lecce a Vicenza, da Torino a Lucca, da Bergamo a Bologna e Cagliari. Hanno deciso di unire le forze e di impegnarsi in prima persona per contribuire a costruire un’Italia più giusta, senza odio e discriminazioni. Un’Italia libera, che abbracci le differenze, che rispetti i diritti. Di tutti. Non solo dei rom e dei sinti.

Hanno racchiuso la loro voce all’interno di un Manifesto, in cui ragionano su come, secondo loro, dovrebbero cambiare le politiche, nel nostro Paese, sui temi della scuola, del lavoro, dei giovani e del diritto alla casa. Ci hanno messo la faccia e vogliono che questo sia solo il primo di tanti passi.

Pensiamo  a tutti quei pregiudizi e a quegli stereotipi che la gente ha nei confronti dei rom. E a come le opinioni di queste persone – che sovente sui social media e sul web si tramutano in vere proprie invettive di odio e intolleranza, senza che, nella stragrande maggioranza dei casi, si è mai incontrato, conosciuto o interloquito con un solo rom – cambierebbero se solo potessero scambiare qualche chiacchiera con questi giovani. Se solo potessero comprendere che non è vero che i rom non vogliono integrarsi, ma che sono le politiche discriminatorie ad aver costretto una parte di essi a vivere nei ghetti, nei campi rom, a ad averli esclusi da quel tessuto sociale in cui noi tutti viviamo. Che non è vero che non vogliono lavorare o vivere in abitazioni convenzionali, perché 4 rom su 5 in Italia lavorano, studiano e vivono come ogni altro cittadino. Che i rom che delinquono non possono rappresentare una giustificazione per condannare tutti i rom d’Italia, così come non ci permetteremmo di farlo per gli italiani, per i non rom, che commettono reati

che affermare che “se ne devono tornare al loro Paese” è sbagliato alla radice, perché questo è anche il loro Paese, in cui sono nati e cresciuti, e perché oltre la metà dei rom in Italia sono cittadini italiani.

«Non accettiamo più che i nostri figli vivano in un paese di ghetti, separazioni, disuguaglianze, povertà, odio e razzismo, né oggi, né domani. La memoria di ciò che è stato, e la consapevolezza di ciò che è, sono per noi la spinta verso la costruzione di una storia diversa. Sogniamo per l’Italia un risveglio di umanità. Vogliamo essere un esempio di società unita e libera, come l’Italia dovrebbe essere. Un paese orgoglioso dei suoi valori, aperto verso i deboli, che consenta a ciascuno di essere apprezzato, amato e riconosciuto per le proprie passioni e qualità. Un’Italia che abbracci le differenze e si consideri fortunata per la ricchezza di tutte le culture che la compongono. Un’Italia serena».

Nelle parole di Bade, Ivana, Miguel, Manuel, Matteo, Serena, Nedzad, Florin, Jemina, Ahmet, Dolores, Rubino, Remi, Annachiara, Denisa, Valentina è racchiusa la speranza per un futuro diverso. Per andare oltre i luoghi comuni, oltre l’ignoranza, attraverso l’incontro, il dialogo e la conoscenza.

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i ‘giovani rom’ delineano l’Italia che desiderano

il manifesto dei giovani Rom

‘primavera romanì’

«questa è l’Italia che vogliamo»

di Paola Grechi

Immaginare insieme l’Italia che si vorrebbe. Dove sia possibile costruire rispetto e diritti, per tutti. Sono i sogni molto concreti di venti giovani attivisti rom e sinti di diverse città italiane, da nord a sud. Alle spalle hanno ognuno una storia diversa, alcuni risiedono nei “campi”, altri in casa, ma hanno in comune un obiettivo: contribuire a rendere l’Italia un paese in cui le discriminazioni e l’intolleranza cedano il posto al dialogo e all’inclusione. Hanno raccolto le loro idee in un manifesto lanciato dopo la due giorni di discussione “Primavera Romanì. I giovani rom e l’Italia di domani”, promossa dall’Associazione 21 luglio. Si sono suddivisi in quattro gruppi e con altri ragazzi italiani hanno ragionato su come dovrebbero cambiare le politiche sulla casa, i giovani, il lavoro e la scuola.

I venti protagonisti dell’incontro, il primo in Italia interamente dedicato alla voce dei giovani rom e sinti, provengono da Vicenza, Torino, Lucca, Roma, Oristano, Cagliari e Mazara del Vallo. E per spiegare chi sono hanno utilizzato il mezzo migliore, ci hanno messo la faccia. 

«Molti di noi vengono da una storia di disagio, soprusi ed esclusione, ma non ci siamo fermati e non ci fermeremo. Nella storia dei nostri nonni, dei nostri padri e delle nostre madri ci sono state persecuzioni, deportazioni, crimini contro l’umanità. Anche oggi molti di noi vivono la fuga dalle guerre, la ghettizzazione e il dolore del rifiuto, e ci sembra che quella storia non finisca mai. Questo non ci impedisce di essere qui e di scrivere insieme una nuova pagina per la nostra Italia, perché vogliamo andare oltre ed essere attori di un cambiamento di cui tutti possano giovare».

 

E continuano:

«Non accettiamo più che i nostri figli vivano in un paese di ghetti, separazioni, disuguaglianze, povertà, odio e razzismo, né oggi, né domani. La memoria di ciò che è stato, e la consapevolezza di ciò che è, sono per noi la spinta verso la costruzione di una storia diversa. Sogniamo per l’Italia un risveglio di umanità. Vogliamo essere un esempio di società unita e libera, come l’Italia dovrebbe essere. Un paese orgoglioso dei suoi valori, aperto verso i deboli, che consenta a ciascuno di essere apprezzato, amato e riconosciuto per le proprie passioni e qualità. Un’Italia che abbracci le differenze e si consideri fortunata per la ricchezza di tutte le culture che la compongono. Un’Italia serena».

 

@CorriereSociale

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a Firenze papa Francesco boccia trent’anni di ‘ruinismo’

il papa a Firenze rottama la Cei

“no all’ossessione del potere”

“preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso”

 

Firenze

di Carlo Tecce
in “il Fatto Quotidiano” 

Per quasi una giornata, mattina a Prato e poi pranzo e messa a Firenze, anche l’argentino Jorge Mario Bergoglio è toscano, italiano. A modo suo. Ha citato Peppone e don Camillo, il sacerdote che parla con la gente. Ha pranzato con i poveri, la tipica ribollita toscana. Ha condannato la corruzione, le condizioni disumane degli operai e ricordato i sette cinesi morti (aggiunta a braccio). Ha evitato i salamelecchi dei politici, soltanto incontri formali, da protocollo. Ha omaggiato i vescovi riuniti per un convegno della Conferenza episcopale, e poi ha stroncato la Chiesa italiana con un discorso molto duro, il “papagno”di papa Francesco, nella cattedrale di Santa Maria in Fiore: “Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non dobbiamo essere ossessionati dal potere, anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si disorienta, perde il senso”.

mangia coi poveri

Ormai non è più un segreto la distanza fra la Cei guidata dal cardinale Angelo Bagnasco e il pontificato di papa Francesco. Non è una questione di simpatia, ma di metodo, che lo stesso Francesco rievoca in un passaggio dell’intervento: “Dialogare non è negoziare, per cercare di ricavare la propria fetta della torta comune. Dialogare è cercare il bene comune, per tutti; è discutere insieme e pensare alle soluzioni migliori per tutti”. Appena eletto in Conclave, l’argentino ha sostituto il segretario Cei, ma ha rinviato – per non provocare traumi alla Chiesa – l’indicazione del successore di Bagnasco. Il candidato, da un paio di anni, è il cardinale Gualtiero Bassetti (Arcivescovo di Perugia). Il mandato di Bagnasco, che fu nominato durante l’epopea di Tarcisio Bertone in Vaticano, scade nel 2017: forse in Vaticano aspettavano le dimissioni, invece il porporato lombardo intende resistere. Anche il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze legato all’epoca di Camillo Ruini, ha ricoperto incarichi di vertici in Cei.

stadio

Oltre ai 55.000 pellegrini al “Franchi”, di questa visita in Toscana resterà la simbolica rottura fra la Chiesa pastorale (concetto più volte ripetuto) di Francesco e la Chiesa anche di relazioni degli italiani Ruini-Bertone. A parte l’accoglienza davanti all’elicottero del sindaco di Firenze e del governatore della Toscana, Francesco non ha ricevuto o salutato politici. Non c’era Matteo Renzi, che pure ha tentato nelle scorse settimane di presenziare all’evento. Ma per il Vaticano non era opportuno: un appuntamento pastorale non va confuso con un incontro di Stato. In tribuna c’erano la moglie Agnese Renzi con i figli e il sottosegretario Luca Lotti. “Sono qui da mamma”, ha precisato Agnese. “Sono qui da fiorentino”, ha commentato Lotti. Dopo la commedia Ignazio Marino negli Stati Uniti, in Vaticano non accettano più intrusioni.

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per ‘il Foglio’ papa Francesco vuole addirittura distruggere la chiesa

‘il Foglio’ contro Papa Francesco

“Bergoglio sta distruggendo la Chiesa”

PAPA

 

 il Foglio contro Papa Francesco, dapprima in modo un po’ più incerto, ora nel modo più deciso e radicale

Il quotidiano diretto da Claudio Cerasa rilancia un articolo scritto da Damian Thompson sul settimanale britannico The Spectator – che alla guerra del “Papa contro la Chiesa” ha dedicato la copertina del suo ultimo numero – e titola in prima pagina “Il Papa sta distruggendo la Chiesa”.

“Sono passati due anni e mezzo dall’inizio del pontificato, ma è solo nell’ultimo mese che i semplici cattolici conservatori, e non i tradizionalisti più irriducibili, hanno cominciato a sostenere che papa Francesco è fuori controllo”.

The Spectator chiarisce che Bergoglio è “fuori controllo”, nel senso che “non sta perdendo il controllo”.

“Nessun Pontefice a memoria d’uomo ha lasciato spazio alla paura che ora sta avvolgendo la chiesa: che il magistero conferito a Pietro da Gesù non è sicuro nelle sue mani. I media non cattolici non hanno ancora colto il pericolo mortale insito nella sfida che si trova ad affrontare il papa argentino. Dal modo rilassato e audace con cui si comporta in pubblico e dai suoi commenti improvvisati, concludono che si è di fronte a un papa liberale (sempre secondo gli standard papali) attorno alle tematiche più sensibili, relative alla morale sessuale, e invece guardano ai vescovi conservatori dal cuore duro come a degli ipocriti”.

Non c’è leggerezza, secondo il settimanale, nel modo in cui Francesco esercita il suo potere.

“Francesco esercita il potere con una sicurezza di sé degna di san Giovanni Paolo II, il Papa polacco la cui guerra santa contro il comunismo si concluse con il crollo del blocco sovietico. Ma è qui che finiscono le somiglianze. Giovanni Paolo non ha mai nascosto la natura della sua missione. Era deciso a chiarire e consolidare gli insegnamenti della chiesa. Francesco, al contrario, vuole muoversi verso una chiesa più compassionevole, meno legata alle regole. Ma si rifiuta di dire fino a che punto è disposto ad andare. A volte sembra un automobilista che guida a tutta velocità senza una mappa o uno specchietto retrovisore. E quando si impantana, come accaduto al Sinodo di ottobre sulla famiglia, si mette a colpire il cofano con un bastone”.

Il timore sollevato da The Spectator è che la Chiesa possa non riprendersi dalla gestione di Papa Francesco.

“I cattolici fedeli credono che l’ufficio di Pietro sopravviverà a prescindere da chi lo detiene. Gesù l’ha promesso. Ma dopo il caos dell’ultimo mese, la loro fede è messa alla prova fino al punto di rottura. Jorge Bergoglio sembra rivelarsi l’uomo che ha ereditato il papato e l’ha distrutto”.

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