G. Ferrara non ne può più di papa Francesco e gli grida che cosa deve dire e fare

un Ferrara cagnesco, sbrana Papa Francesco

il suo (durissimo) attacco

Giuliano Ferrara e Papa Francesco

Ci volevano cani e gatti per scatenare (anche) Giuliano Ferrara contro Papa Francesco, il Pontefice interventista (già, interviene su tutto. Anche su cani e gatti, appunto). La polemica sorge dopo le dichiarazioni del Pontefice di sabato, quando ha invitato i fedeli ad amare di più i propri vicini in difficoltà piuttosto che gli animali domestici. E l’Elefantino, su Il Foglio del lunedì, azzanna: “A Ratzinger piacciono i gatti, a Francesco no, cani e gatti entrano come esseri disdicevoli nelle sue parabole del buon vicinato”, premette.

Dunque Ferrara spiega: “Non nutro sentimenti di ostilità preconcetta contro questo Papa, nemmeno contro gli aspetti più convenzionali e banali della sua predicazione, e non ho il sacro fuoco dei suoi fedeli nemici”. Poi, però, la critica da ironica si fa pungente: “Adesso, devo dire la verità, mi aspetto da lui di tutto, quindi niente”. E ancora: “Lasci stare per cortesia gli animali di compagnia e di lavoro, ultimi umanisti civilizzati in un paesaggio di rovine al centro del quale egli desidera insediare la chiesa, bussando importuno alle porte del vicino”.

Dunque l’Elefantino chiude il suo commento con un appello, durissimo: “Ci lasci la nostra privacy di amore e solitudine, il nostro gaudio di conversazione e abbaio, e se proprio vuole fare crociate si occupi dell’aborto, della società neutra di genere, e delle altre mille follie soggettiviste che devastano il senso comune tomista dell’ essere e della realtà. Al rapporto con i vicini di casa ci pensiamo noi: non avranno il nostro odio, ma nemmeno una pelosa e troppo tenera finzione d’amore. Spesso fanno chiasso e non salutano, giustamente, se li incontri per le scale”, conclude.

il vescovo che parla come Salvini: “Putin sì che ha le palle”!

un giornalista di ‘la nuova Ferrara’ così commenta la sorpresa e lo scandalo per le parole e la posizione guerrafondaia del vescovo di Ferrara:

“santità, la Chiesa è un casino”

 

il vescovo Luigi Negri nell’intervista a Panorama conferma la linea apocalittica

il commento più brusco e mattiniero che ieri è atterrato in redazione è stato questo: «Ma chi è che ispira all’arcivescovo di Ferrara tali concetti? Filippo Maria Manvüller?». Quest’ultimo signore è l’addetto stampa del gruppo regionale della Lega Nord e quindi dell’amministrazione di Bondeno. Ma nulla c’entra. È tutta farina del sacco di sua eccellenza, com’è la frase che presa di peso dall’intervista data a Stefano Lorenzetto di Panorama, pari pari: «Nel panorama di silenzio connivente e di iniziative inconcludenti, l’unico che ha gli attributi, devo ammetterlo con profonda vergogna, è Vladimir Putin».

Capito? Con “profonda vergogna”, perché lui è un consacrato cattolico di rito ambrosiano (milanese) e Putin è nazionalista, zarista, ex comunista, ex Kgb, ortodosso e facile alle maniere forti. Il concetto del presule si far ancor più anatomico quando immagina «un’operazione vigorosa e mirata contro il Califfato… Ma per promuoverla servono testa e palle». Questa si chiama chiarezza virile.

Monsignor Luigi Negri se la prende con l’Occidente molle e incerto sul che fare contro l’Is. Ha lo stesso punto di vista che fu del Berlusconi in sella e del Salvini galoppante. Letta l’intervista, ho telefonato all’arcivescovo mentre il campanile rosa e bianco di Ferrara annunciava il mezzogiorno. Gli ho chiesto se, considerata la sua età (gli manca un anno alle dimissioni canoniche) e alla piega che ha preso Santa Romana Chiesa col pontificato di Bergoglio, non abbia deciso di prendersi ogni libertà. E sparare sullo sparabile. La risposta è come sempre pronta e affilata: «Ma che dice? Si tratta di libertà. E la libertà è una dimensione strutturale, non nasce e nemmeno cresce. Io sono sempre stato libero».

E si sente. Si legge, quando nell’intervista accende tutte le spie rosse possibili: dal fondamentalismo islamico fino alle quattro logge massoniche, più una femminile, attive nella piccola Ferrara. E poi dalla sua elencazione dei nemici del mondo e quindi del cristianesimo in purezza: la massoneria mondiale, l’economia anglo-cinese-nipponica e il fondamentalismo islamico. L’elenco di Negri ha qualche consonanza con la sentenza mussoliniana contro il jazz: “musica degenerata”.

Perché Negri neanche in quest’ultima intervista contraddice il suo essere un “implacabile propugnatore dell’ortodossia”. E confessa che se non avesse fatto il prete gli sarebbe piaciuto diventare un generale.

Ecco, Negri è un gendarme. E utilizza un linguaggio che non sarebbe consonante con quello che tutti, o quasi, definiamo clericalmente corretto. Addirittura a tu per tu col suo amatissimo Benedetto XVI negli anni dell’episcopato di San Marino-Montefeltro, Negri non ha esitato a dipingere i tempi difficili della Chiesa contemporanea come “un casino”. Negri – attenti bene – è finissimo. Usò il termine casino come parola contrapposta a ordine. E infatti la Chiesa dovrebbe essere un “ordo”, un ordine intellettuale, morale, esistenziale, sociale. Testuale: «Lo ricordai a Benedetto XVI. “È vero”, annuì. E io aggiunsi: ma la Chiesa oggi non è un “ordo”, è un casino».

E, neanche farlo apposta, il botta e risposta di Negri con Lorenzetto fa sfavillare quell’altro rapporto che l’arcivescovo ha-non-ha con Papa Bergoglio. Conferma di avergli parlato per pochi secondi, due volte, a margine di assemblee generali della Cei. Il giornalista lo incalza e lo provoca. Gli ricorda che eppure Francesco ha trovato il tempo per telefonare a Pannella e alla Bonino e di ricevere in udienza un trans spagnolo accompagnato dalla fidanzata. La libertà di Negri è incommensurabile e sottile: «Chi sono io per giudicare il Papa?».

Nell’intervista non mancano le botte a destra e a manca dentro il teatro politico, le critiche garbate a Renzi, e poi al mondo. È dentro questa trincea universale che Negri puntualmente sfodera la sua cultura e i suoi timori (nella città che fu di Savonarola e in un palazzo dov’è stretto fra le lapidi che fanno memoria di Copernico studente ferrarese e di Ferrara liberata dal giogo papalino).

Indubbiamenti l’arcivescovo è apocalittico. Fa un riferimento circostanziato al testo di Benson, anno 1907: «Lì dentro c’è tutto. La confederazione mondiale retta dall’Anticristo, il consenso entusiasta dei sudditi, l’edonismo sfrenato, il pacifismo, il relativismo, l’eutanasia, perfino i cibi artificiali… fino al bombardamento del Vaticano per annientare l’ultimo bastione in grado di fermare il nuovo padrone».

Non invento l’acqua calda e nemmeno santa, se in questa concezione l’arcivescovo Negri proietta anche la sua missio pastorale in terra ferrarese-comacchiese, partendo dalla sua persuasione che la società tutta «è contraria alla Chiesa, c’è poco da fare».

Da questa atmosfera da assedio e in forza del suo carattere da pugile di Dio ogni tanto – cioè ogni sempre – Negri sferra pugni localnazionali. A partire dalla suo primo match mai esaurito contro la movida e il “bordello a cielo aperto” sotto le sue finestre, sino alle recentissime due lettere in un sol giorno e in un sol colpo. Materiale documentale fresco, solo del 26 ottobre scorso. Una diffida preti e fedeli da credere o voler applicare i temi del Sinodo sulla Famiglia, ovvero comunione ai divorziati, perché Francesco non ha mai decretato al riguardo. La seconda è sull’attività di alcune sette sataniche nel Ferrarese. Territorio e gente che in diverse circostanze Negri ha tentato e tenta di mettere alle corde, scuotere dal tradizionalismo in nome del quale niente e nulla si può cambiare: abbiamo sempre fatto così… E sentirlo dire da sua eccellenza – che nel corridoio del suo appartamento ostenta una riproduzione dell’entrata dell’imperatore Carlo V e papa Clemente VII a Bologna – ha dell’incredibile.

Probabilmente Negri ha anche la capacità di schivare i colpi, anche quelli bassi. Il primo che mi viene in mente è quello dell’addio dell’arcivescovo Caffarra alla sede cardinalizia (lo sarà ancora?) di Bologna. Una sponda conservatrice fondamentale per Negri. Arriva Zuppi, che conservatore davvero non è, anzi è il contrario di Caffarra. Nell’intervista viene chiesto a Negri se pensando a che cosa sta mutando a Bologna gli fischino le orecchie, risponde: «A me no. Spero che non fischino a monsignor Zuppi».

Non si lascia mettere all’angolo nemmeno quando gli viene posta davanti la centrale di tanti guai: la riforma della banca vaticana, lo Ior. Non si scompone utilizzando il meglio di una componente esemplare del modello ecclesiastico. Si chiama dissimulazione. Eccola qua: «Della riforma della banca non m’importa un accidenti. Io devo spiegare tutti i giorni alla mia gente perché vale ancora la pena di essere cristiani». E lo fa con i guantoni. Una domanda gliela facciamo noi: perché non scende n piazza, la sera, dentro la bolgia, a mani nude?

G. Ferrara fa la ramanzina a papa Francesco e gli insegna a fare il papa

 il Papa e i faraoni della Curia

Francesco critica i vescovi che spendono

“ma un trattamento grillino della chiesa è una cattiva idea. Il denaro non serve solo a fare l’elemosina, e il diavolo spesso usa mezzi pauperistici per farsi sentire”

di seguito la ramanzina che con piglio deciso e spavaldo, e con posa tanto più spavalda quanto più si accorge che dalla penna gli escono parole e giudizi e valutazioni cui egli stesso deve faticare per credere sensati, e ciò appunto per superare dentro di sé illogicità, assurdità e contraddizioni rispetto alla semplice e inequivoca proposta evangelica … 

di Giuliano Ferrara

Ferrara

Non mi rassegno all’idea che un Papa possa sbagliare. Sono irrazionale? Sì, lo sono. Non m’importa che la celebre pierre sia stata nominata con un chirografo, atto solenne di mano del Pontefice. Me ne infischio se nell’Opus Dei, prelatura personale del Papa secondo san Giovanni Paolo II, si poteva pescare di meglio che non monsignor Vallejo Balda. Lascio volentieri ai laicisti di pensare che un’istituzione mezzo umana e mezzo divina meriti l’orgia del pettegolezzo, i cardinali che si mordono gli uni gli altri (come disse Benedetto citando un padre della chiesa), polemiche da buggigattolo sanpietrino, che disonorano una grande e fatale tomba, o da Curia castale e lebbrosa. Considero gesti commerciali e malizie editoriali i libri fondati sul trafugamento proditorio di carte riservate e sul loro montaggio scandaloso all’insegna di Mafia Vaticana. Secondo me un cardinale alto uno e novanta, di centotrenta chili, tra i settanta e gli ottanta, posto che lavori bene e sia uomo di Dio, può benissimo viaggiare in business class, via. Credo alla metà della metà, come per il sesso i soldi e la santità, a tutte queste dicerie bellettristiche e fasulle

Però e perciò scongiuro umilmente Francesco, dalla mia cattedra di non credente, a quanto pare l’unica tipologia accademica rimasta in piedi nella chiesa post teologica e pastorale, di non fare sparate contro i preti che vivono come faraoni, di non considerare il denaro come sterco del demonio (lo è, in parte, ma il demonio ha molti altri mezzi, anche superbamente pauperistici, per farsi sentire), di non portare all’incandescenza profetica o apocalittica, decidete voi, la sua crociata francescana per una chiesa povera e dei poveri. Eliminare i lussi dalla vita del clero romano e di altri settori altrettanto sbrilluccicanti in tutto il mondo, è buona cosa.

Pastoralizzare la chiesa, come si pastorizza il latte per disinfettarlo e metterlo in sicurezza esponendolo ad alte temperature, va bene. Ma un trattamento grillino della chiesa, dopo quello scalfariano della dottrina, è una cattiva idea.

Intanto Francesco, l’alter Christus, agiva dal basso di un mondo infinitamente diverso da quello moderno. Francesco, il Papa che a lui si ispira secondo modelli ignaziani, sa meglio di chiunque altro che tra il poverello e noi c’è di mezzo il Cinquecento, la Riforma, la nascita del mondo moderno, grazie anche ai gesuiti. I poverelli scalzi e in saio possono ricostruire la chiesa con la testimonianza, salvo approfondimenti spirituali e storici della faccenda, ma i Papi la chiesa devono governarla. E se il suo santo programma pontificale è letteralmente “rimettere la chiesa all’onor del mondo”, seguendo la via di un individualismo mistico, di uno svuotamento al cospetto di un Dio misericordioso che perdona attraverso il sacrificio del suo unico Figlio, programma sacro in sé, i mezzi impiegati per realizzarlo non possono confondersi con le falsità dissacranti del pauperismo, dello scandalismo, dell’importazione nella madre e maestra dei credenti dei metodi facilisti dell’antipolitica laica, che oggi è una religione dell’irreligione pronta a divorare la riforma o rivoluzione di Francesco con il suo spiritaccio canaille e anticristico.

Sono papista, non curiale. Me ne sono sempre straimpipato delle cordate, delle lobby, degli umani troppo umani di quell’istituzione così fatalmente romana. Ma non posso sopportare un linguaggio scadente, la convergenza con la linguacciuta e delatoria tendenza a vedere mali mondani anche dove non ci sono. Se un giornale romano divenuto giornale di riferimento della rivoluzione di Francesco, come Repubblica, insiste sul fatto che Bertone vive come un faraone, ride dei bambini malati del Bambin Gesù, insomma il male assoluto, e poi porta come prove quattro fregnacce imprecise e calunniatrici, il capo della Santa Sede, autorità civile e morale oltre che spirituale, deve reagire con severità. Faccia una telefonata a Mauro, per una volta salti il colloquio di conversione con il grande spinoziano. A me Bertone non è mai piaciuto nonostante fosse stato scelto da un Papa che amavo incondizionatamente per il suo pensiero teologico; me lo ricordo da Vespa che insieme al vecchio Andreotti attribuiva ai trafficanti di droga, invece che a Yuri Andropov e al suo pistolero inabile, il destino del Papa Giovanni Paolo sotto attentato; mi ricordo quanto leccaculismo lo circondava, tra una cenetta e l’altra, tra un incarico e l’altro, tra quelli, e non faccio i nomi per carità di patria ecclesiastica, che ora si affollano sotto i patiboli mediatici tollerati da Francesco. Ma non si sgozzano i cardinali sulla pubblica piazza, se si voglia un po’ di bene alla chiesa com’è, com’è stata e come sarà sempre.

Il denaro non serve solo a fare l’elemosina, questa è un’utopia regressiva. Il denaro è un mezzo decisivo di comunicazione tra gli umani, da sempre, e non c’è bisogno di tornare a una chiesa costantiniana e al regime di cristianità per capire che il denaro serve a garantire l’indipendenza dell’istituzione, la libertas ecclesiae, oltre che il funzionamento delle opere misericordiose che costituiscono il grosso delle spese e degli investimenti della casa madre in tutto il mondo. La chiesa certo è spossessamento, in ogni senso, certe cose non devono essere tollerate dalla gerarchia e dal suo custode, ma il denaro come facoltà e facoltosità ha commissionato le grandi opere di Michelangelo e tutto il resto, cose che Francesco per primo riconosce come patrimonio non della sola chiesa ma dell’umanità. La storia non deve essere semplificata e compressa in interviste da teologia del popolo che possono compiacere un’immaginetta che il mondo è pronto a idolatrare, il santino così poco laico di una chiesa spoglia di influenza e di potere se non spirituali. Questo potere e questa influenza c’è chi se li andrà a cercare negli interstizi e negli spazi lasciati vuoti dalla cultura di impianto cristiano e occidentale. Lo spirito va e viene dove vuole, anche nella cassetta delle indulgenze e nelle opere costose della misericordia o nella creazione di un mondo divino parallelo, quello delle immagini e delle opere d’arte. La chiesa è padrona di niente, è operaia dello spirito, è evangelica, d’accordo, ovvio, ma la sua dignità povera e per i poveri non sopporta gli ipocriti arabeschi, questi sì farisaici nel senso peggiore del termine, dei populismi d’accatto e delle guerre intestine all’insegna della logica anti istituzionale. Magari mi sbaglio, ma per me è così.

questo papa!

Francesco papa

papa Francesco nell’occhio del ciclone osservato da angoli visuali opposti: per esempio, piace molto a ‘la Repubblica’, specie, comprensibilmente al suo fondatore e al suo direttore, non piace affatto al ‘Foglio’ di Ferrara, che pur ‘devoto’, ancorché ‘ateo’,
non riesce proprio a digerirlo

di seguito un’esemplificazione di questa polarizzazione attraverso l’articolo odierno del direttore di Repubblica, E. Mauro (che presenta ufficialmente la corrispondenza tra papa Francesco , Scalfari e la Repubblica) e un articolo comparso sul Foglio di ieri dal titolo significativo: ‘questo papa non ci piace’ a firma di A. Gnocchi e M. Palmaro che accusano addirittura il papa di considerare Cristo come “un’opzione tra le altre”, oltre che di relativismo proprio là dove Mauro vede un’autentica testimonianza evangelica come “vero atto di fede nell’uomo”

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Papa Francesco-Eugenio Scalfari: il dialogo tra chi crede e chi non crede

di Ezio Mauro
in “la Repubblica” del 10 ottobre 2013

L’interesse per l’uomo è il cuore del lungo dialogo tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari. Più ancora ne è la ragione, l’inquietudine. Il non credente legge l’enciclica e pone un interrogativo di fondo al nuovo pontefice: chi non ha fede sarà perdonato alla fine dei tempi? Se ricerca verità relative, non credendo nell’assoluto, ciò sarà considerato un errore o un peccato? Qual è dunque lo status del non credente per il Papa di Roma, che ruolo assegna al libero pensiero, alla sua ricerca autonoma e indipendente, e in quale misura si sente interpellato da tutto questo? La decisione di rispondere da parte di Jorge Bergoglio è già in sé una manifestazione di interesse e di attenzione senza precedenti. Non c’era mai stata una lettera di un Papa a un giornale. Scegliendo di scriverla, Francesco sceglie anche di interloquire con una platea più vasta ed anomala rispetto all’uditorio costituito dei fedeli: è come se decidesse di passare dal popolo cristiano alla pubblica opinione, un soggetto distinto, autonomo, moderno, soggetto attivo e protagonista delle democrazie occidentali. La decisione di dialogare, dunque, è un messaggio in sé, è portatrice di significato, fa il giro del mondo. Scalfari è scelto dal nuovo Papa come il rappresentante di un universo esterno alla Chiesa, ma un universo che lo interessa, che lo raggiunge, di cui si sente in qualche modo responsabile. E qui c’è la seconda sorpresa, che è il secondo messaggio. Perché il Papa sceglie la strada del dialogo, dichiara subito che intende avviare un percorso di confronto per tentativi, tappe, incontri. Qualcosa di impegnativo, fuori dai canoni, dall’ufficialità, dalla meccanica curiale. Il Papa si sente investito dalle domande, dall’interlocutore, dall’occasione. Pensa che insieme si possa andare avanti a cercare, a scambiare porzioni di verità, forse a capire. Insieme. E qui, si arriva al contenuto, che è il terzo messaggio ed è ancora una sorpresa. Leggendo la lettera, quel pomeriggio in cui è arrivata a Scalfari, ho avuto la sensazione che il Papa fosse pervaso da un fortissimo interesse spirituale ma soprattutto intellettuale per la discussione che si stava avviando, quasi spinto dall’urgenza degli argomenti da mettere in campo, guidato dal desiderio autentico di quella ricerca comune. Il centro del suo discorso, l’urgenza che lo domina, è Gesù Cristo, Dio fatto uomo e poi risorto. Ma di fronte al non credente — e quasi insieme con lui — il Papa ripete la domanda del Vangelo quando Gesù ha calmato il mare fermando i venti e la tempesta: «Chi è costui?» E la risposta di Francesco spiega da sola le ragioni del dialogo. Perché l’autorità di Gesù non vuole esercitare un potere sugli altri, ma vuole servirli, dice il Papa, e dare loro libertà e pienezza di vita. Chi sono questi altri? Sono forse i credenti soltanto? Con ogni evidenza sono gli uomini, con i loro limiti e i loro errori, la loro incompiutezza e la tensione verso la bellezza, con la loro speciale (diversa per ognuno, ma intima e autentica) concezione del bene e del male, insomma con la loro speciale “umanità”. Ecco perché il Papa dà non soltanto ascolto, ma pari dignità al non credente e alla sua ricerca di significato per il mondo che ognuno di noi attraversa durante la sua esistenza. È il riconoscimento implicito che anche senza il legame con il trascendente — che per Francesco è ovviamente centrale e domina la sua vita — l’esperienza terrena può trovare un suo senso e la sua dignità più alta, quella appunto che sta nei limiti e nell’eccezionalità dell’“umano”. Il Papa compie qui quello che a me sembra un vero atto di fede nell’uomo. Dice infatti a Scalfari, sciogliendo il nodo di fondo di questo dialogo, che la vera questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza, perché il peccato, anche per chi non ha fede, si compie quando si va contro la coscienza. La coscienza può dunque essere la guida dell’uomo e la sua misura, la risorsa e il riferimento. È un riconoscimento senza precedenti, da parte di un Papa, della possibilità di autonomia morale e spirituale del libero pensiero laico, che troppi relegano in una posizione di minorità sostenendo che senza il legame col trascendente non sarebbe in grado di garantire i presupposti che afferma. Nell’intervista che prosegue e sistematizza il confronto, il Papa si muoverà invece ancora su questa nuova strada, ricordando che non esiste un Dio cattolico, esiste Dio, e «tutta la luce sarà in tutte le anime». E aggiunge che la grazia non fa parte della coscienza ma la precede,
perché non è sapienza o ragione, ma «la quantità di luce che abbiamo nell’anima ». Tutti, compresi i non credenti. Il dialogo che raccogliamo qui, nello scambio di lettere, nel testo dell’intervista, nei commenti di intellettuali laici, uomini di Chiesa, teologi — è avviato, partendo da posizioni distinte, che restano ferme e nette. Ma dopo questa testimonianza di fiducia nell’uomo da parte di Francesco si può camminare insieme

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Questo Papa non ci piace

Le sue interviste e i suoi gesti sono un campionario di relativismo morale e religioso, l’attenzione del circuito mediatico-ecclesiale va alla persona di Bergoglio e non a Pietro. Il passato è rovesciato

Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione, viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo. Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.

Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani si vedrà.

Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso. Ma, anche questa, sarebbe stata ben povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista a Civiltà Cattolica.

Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le stesse verità insegnate dai predecessori.

Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”. “Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero, “l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”, ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

A Vaticano II già concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”. Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.

Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice sempre e ovunque quello che pensa l’Osservatore Romano, tira in ballo il contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna, certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il contesto. Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto. Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus Dei Filius” in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel. Nel 1864, Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di proposizioni erronee. Nel 1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis” 65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al “Denzinger” non farebbe male.

Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio, l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio, Papa Francesco dice a Scalfari che “il proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane. Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al cattolicesimo.

Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto nell’intervista alla Civiltà Cattolica. “Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo Maria Martini.

Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a Civiltà Cattolica dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro mestiere. “Penso anche alla situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli. L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”. Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non c’era, ma per averlo inventato.

L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e non peccare più”. Non le dice: “Va, e sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale nella tua vita personale”.

Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea.

Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente alla loro interpretazione.

Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle anadiplosi”. L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla sostanza” diceva “inducono l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a dimenticare la parte sostanziale”.

Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto. La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv, siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.

Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera: perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e pensano che questi porti lustro al Papato.

Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come inattaccabili e incriticabili.

Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale, dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia informe ha avuto il sopravvento sulla forma. Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi della tv. Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain: “Gli ambienti dell’informazione elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico, un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.

Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le tante. Almeno per il suo vicario.

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro

(Giornalista e studioso di letteratura il primo, canonista e docente di Bioetica il secondo, gli autori sono espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico).

a Ferrara non piace papa Francesco

A Ferrara non piace Bergoglio: “Papa infedele, in adulterio con il mondo”

L’attacco di Giuliano Ferrara a Papa Francesco, considerato in adulterio con il mondo.

A Ferrara non piace Bergoglio: "Papa infedele, in adulterio con il mondo"

 Intervistato dalla testata Civiltà Cattolica, Papa Francesco aveva utilizzato un’immagine, per la Chiesa, che non è andata a genio al direttore de Il Foglio, Ferrara

Bergoglio, dopo aver aperto ai gay e ai divorziati, aveva infatti paragonato l’istituzione ecclesiastica ad un “ospedale da campo dopo una battaglia”. “E’ inutile chiedere a un ferito grave se ha il colesterolo e gli zuccheri alti: si devono curare le sue ferite, poi potremo parlare di tutto il resto”, aveva specificato, aggiungendo che dunque, “le riforme organizzative e strutturali sono secondarie, cioè vengono dopo”, in quanto “la prima riforma deve essere quella dell’atteggiamento”.

E proprio a questo risponde l’elefantino, attraverso un articolo comparso sul suo giornale, dal titolo “La sposa infedele”: “Francesco in flagrante adulterio con il mondo”, esordisce Ferrara. “L’esercito angelico di Wojtyla e la cattedra razionale di Ratzinger sono solo un ricordo. L’ospedale da campo gesuita ha una sua bellezza, ma non mi riguarda.”

“Il suo problema non è il Concilio Vaticano II e nemmeno il dopo Concilio”, prosegue il giornalista. “Queste cose le sbriga in due parole. L’ospedale di Francesco è un’altra costruzione ancora. E’ una cosa viva, è una risposta politica, è un tentativo lodevole, scandaloso ma ammirevole, di sopravvivenza. Per questo l’infedeltà di Francesco a me piace, in un certo senso.”

“Io però sono un laico”, specifica, “a me interessa una ragione completa del suo mistero, non il vangelo come santa e sublime filastrocca; e finalmente vediamo all’opera gli atei devoti veri, quelli che la chiesa va bene se amministra la fede, concede ai sentimenti politicamente corretti e lascia in pace la ragione più o meno illuminata.”

“E’ anche una bella soddisfazione”, si legge ancora. “Quest’uomo energico e scaltro libera la coscienza inquieta dei peccatori, perché è furbo come egli stesso afferma, ma al tempo stesso ributta il diavolo tra le gambe dei contemporanei, perché l’ingenuità non gli manca”

“Spero che il gesuita sappia regolarsi come una volta i confessori dei re e i casuisti e i grandi missionari”, conclude Ferrara, “spero si ricordi del fatto che la chiesa perdona, il mondo no.”

 
 
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