la risposta alla grande violenza

l’ora della ragione e della mitezza

di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 18 novembre 2015

Gesualdi

caro direttore,

dalla Francia arrivano dolore e terrore.

Umanissimo dolore e quel terrore che genera rabbia, facile a trasformarsi in odio e vendetta. Quando il sangue che scorre è il tuo, sangue dei tuoi figli e dei tuoi fratelli, vengono fuori gli istinti più atavici. Affiora la voglia di punire, di infliggere una sofferenza più grande di quella subita, per intimorire e indurre l’aggressore a non riprovarci mai più. Peccato che tutti si comportino nella stessa maniera, per cui persino gli insulti più lievi possono trasformarsi in faide e guerre fra famiglie e comunità, costellate di stupri, incendi, assassini. In una spirale senza fine. È la storia dell’umanità, che però non ha mai portato a niente di buono. E che ci insegna in tutti i modi che la violenza genera violenza, e che l’unico modo per uscirne è mettere da parte l’istinto di vendetta facendo trionfare la ragione.

Che significa abbandonare se stessi e ‘trasferirsi nell’altro’ per capire le sue ragioni. Solo presentandoci all’altro disarmati, non per imporre la nostra visione, ma per chiedergli che cosa ha contro di noi, potremo avviare quel dialogo che può mettere a tacere le armi e metterci in condizione di fare capire anche all’altro le nostre ragioni e da lì partire per trovare delle soluzioni comuni. In altre parole la pace si fa accettando che la ragione non sta solo da una parte e che anche noi possiamo aver commesso degli errori per i quali chiedere scusa. Gesù ha detto: «Chi di spada ferisce, di spada perisce» e anche in questa circostanza l’esercizio che dobbiamo fare è chiederci se per caso abbiamo procurato ferite che oggi si ritorcono contro di noi. Chi evita di pararsi dietro a un dito, sa che le vere cause del terrorismo islamico vanno ricercate in quella polveriera che viene chiamata Medio Oriente, ‘abitata’ da realtà religiose e linguistiche che hanno difficoltà a stare ancora insieme perché ciascuna con un senso di sé così intenso da rivendicare totale autonomia. Equilibri difficili, che gli occidentali a più riprese hanno contribuito a incrinare. Come se ne esce? Trovare la soluzione a un’esasperazione costruita lungo decenni di violenze a parti alterne, umiliazioni e scorrerie straniere, è tutt’altro che semplice. Ma l’importante è cominciare a mandare segnali di distensione, smettendo innanzi tutto di inviare bombardieri per assicurarsi un posto al sole, da un punto di vista militare, politico, economico. Sul piano militare, poi, c’è qualcosa che va fatto: tagliare i rifornimenti di armi a tutte le parti in causa, affinché la guerra non possa più continuare per mancanza di strumenti. E poi bisognerà accettare di parlare con tutti, per conoscere le rivendicazioni di ciascuno, il grado di consenso popolare, le vie di attuazione. Non possiamo dire ‘con loro non parliamo perché seminano morte’. In guerra tutti uccidono, e se parlare è l’unico modo per uscirne, bisogna farlo. Questa è l’ora della ragione e della mitezza. Non mi illudo che una simile strada possa portare a soluzioni immediate, ma può contribuire ad arrestare gli attacchi terroristici all’Europa. Se l’Europa dimostrasse di non perseguire progetti imperialistici, ma di lavorare disinteressatamente per aiutare i Paesi mediorientali e nordafricani a ritrovare i propri equilibri, forse sarebbe vista con occhi diversi. Se poi fosse abbastanza intelligente da lavorare sul piano interno per garantire agli immigrati di seconda e terza generazione una situazione di piena inclusione sociale, smetterebbe di allevarsi serpi in seno che magari non vedono l’ora di dare sfogo alla propria frustrazione arruolandosi nelle file dell’islamismo radicale. Ma che fare come cittadini per spingere in questa direzione? Un primo passo è informarci in maniera autonoma per sfuggire al «pensiero unico» imposto da politici e mass media. Pensare con la nostra testa, farci la nostra idea e saperla sostenere anche se controcorrente, è indispensabile per attivare quel senso del dubbio, senza il quale nessun cambiamento può prendere forma

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anche un vescovo italiano invoca la morte di papa Francesco!

 il vescovo ciellino di Ferrara:

“papa Francesco deve fare la fine di papa Luciani”

Papa Francesco, il vescovo ciellino di Ferrara: “Bergoglio deve fare la fine dell’altro Pontefice”
 

monsignor Luigi Negri, intercettato il 28 novembre scorso sul Frecciarossa partito da Roma-Termini, si è sfogato con il suo collaboratore dopo l’assegnazione di due diocesi per anni in mano a Comunione e liberazione a due preti di strada: “E’ uno scandalo. Decisione avvenuta nel disprezzo delle regole. Speriamo che la Madonna faccia il miracolo”.

Raggiunto dal direttore della Nuova Ferrara non smentisce: “Qualcuno ha la registrazione?”

“Speriamo che con Bergoglio la Madonna faccia il miracolo come aveva fatto con l’altro”i

Il riferimento a papa Luciani è appena velato. La frase è dell’arcivescovo di Ferrara, Luigi Negri, alto prelato in profondo disaccordo con Francesco e punto di riferimento di Comunione e Liberazione.

Negri, allievo di don Giussani, è anche noto per aver contestato la magistratura quando incriminò Berlusconi per il caso Ruby. A chi allora gli fece notare che gran parte del mondo cattolico era indignato sulla vicenda delle Olgettine, rispose: “L’indignazione non è un atteggiamento cattolico”.

Contro la nomina dei preti di strada
Il motivo della sua contestazione: le recenti nomine di Papa Francesco a Bologna e Palermo, diocesi per anni in mano a Cl, dei vescovi Matteo Zuppi e Corrado Lorefice, due preti di strada. Monsignor Negri, il 28 ottobre, sul Frecciarossa partito da Roma-Termini (testimoni oculari hanno riferito l’accaduto), ha dato libero sfogo ai suoi pensieri a voce alta, come pare sia sua abitudine, incurante dei pochi presenti nella carrozza di prima classe, con il suo segretario, un giovane pretino dal look della curia che conta, doppio telefonino, pronto a filtrare le telefonate dell’arcivescovo. “Dopo le nomine di Bologna e Palermo – sbotta – posso diventare Papa anch’io. È uno scandalo. Incredibile, sono senza parole. Non ho mai visto nulla di simile”. L’alto prelato, lasciando sbigottiti i testimoni, non si rassegna deve parlare con qualcuno, chiede al segretario di chiamare al telefono un amico di vecchia data, anche lui di Cl, Renato Farina, noto come “agente Betulla”, rincarando la dose. Non ancora soddisfatto, continua con il giovane prete: “Sono nomine avvenute nel più assoluto disprezzo di tutte le regole, con un metodo che non rispetta niente e nessuno. La nomina a Bologna è incredibile. A Caffarra (il vescovo uscente per limiti d’età) ho promesso che farò vedere i sorci verdi a quello lì (Zuppi): a ogni incontro non gliene farò passare una. L’altra nomina, quella di Palermo, è ancora più grave. Questo (Lorefice) ha scritto un libro sui poveri – che ne sa lui dei poveri – e su Lercaro e Dossetti, suoi modelli, due che hanno distrutto la chiesa italiana”.

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La conferenza e la pancia della curia
Il Fatto ieri ha provato a contattare l’arcivescovo Negri per chiedere se volesse precisare le sue parole. “Sì, credo fosse su quel treno il 28 ottobre”, ha spiegato il suo portavoce don Massimo Manservigi ascoltando le frasi di Negri che gli avevamo ripetuto. “Ma adesso (ore 21:30, ndr) monsignore sta tenendo una conferenza all’università e non è possibile contattarlo”. Il Fatto resta a disposizione per ascoltare eventualmente le spiegazioni del prelato.

È comunque difficile credere che monsignor Negri parlasse a titolo personale e non rivelasse uno stato d’animo condiviso dalla casta vaticana. Bergoglio se vuole, come ha promesso, di portare a compimento i propositi di Giovanni XXIII – “Chiesa popolo di Dio” – prima di tutto deve allontanare i mercanti dal tempio.

La replica
Monsignor Negri, raggiunto dal direttore della Nuova Ferrara Stefano Scansani dopo la messa del 25 novembre, non ha smentito. L’arcivescovo ha detto che reagirà all’articolo nelle prossime ore e ha aggiunto: “Qualcuno ha registrato? Questo nuovo episodio spiega tutto l’odio teologico contro la Chiesa”.

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il pane da spezzare: un altro libro di E. Bianchi sul pane

«spezzare il pane. Gesù a tavola e la sapienza del vivere»

il nuovo libro di Enzo Bianchi

la rivoluzione cristiana comincia a mensa

«Gesù amava la tavola come luogo di incontro con gli uomini, come occasione di benedizione e ringraziamento a Dio… Tra le tante rivoluzioni fatte da Gesù, c’è anche quella di aver rivoluzionato il modo di concepire il cibo»

Enzo Bianchi, fondatore e priore di Bose, introduce così il suo nuovo libro «Spezzare il pane. Gesù a tavola e la sapienza del vivere», che esce oggi in libreria per Einaudi (pp. 106, euro 17)

«Non a caso proprio nel mangiare a tavola Gesù ha consegnato il segno grande della comunione tra sé e i discepoli, nel pane e nel vino ha voluto significare la sua vita spesa e donata per gli amici. Sí, c’è un magistero di Gesú a tavola che dobbiamo conoscere, per diventare piú umani, per scoprire o riscoprire la sapienza del vivere e del convivere».

La tavola, questo mobile sacro che un tempo regnava al centro delle grandi cucine, la tavola di legno massiccio capace di accogliere una decina di commensali (non un tavolino, confinato in un angolo di un cuocivivande!) era eloquente di ciò che si voleva vivere insieme come famiglia o come amici. La tavola, alla quale ‘passiamo’, non da soli ma con altri, va abitata. A tavola si dovrebbe convergere per mangiare da uomini, non da animali. Per questo la tavola e sempre stata percepita come l’emblema dell’umanizzazione, il luogo per eccellenza in cui ci si umanizza lungo tutta la vita, da quando da piccoli si e ammessi alla tavola ancora sul seggiolone, fino alla vecchiaia. 
 
Anche in queste due fasi estreme della vita stiamo a tavola, magari aiutati da altri, ma stiamo pur sempre a tavola. Il nostro stare a tavola dice la nostra libertà: libertà di figli in famiglia, libertà di amici che si invitano, libertà di chi serve e qualità «signoriale » di chi è servito. Ma a tavola si sperimenta anche l’uguaglianza, un’uguaglianza ordinata: tutti sono chiamati a mangiare con gli stessi diritti, vecchi e bambini, adulti e giovani; tutti possono prendere la parola, domandare e rispondere. A tavola si impara a parlare oltre che a mangiare, si impara ad ascoltare e a intervenire nella convivialità. 
 
La tavola ha un magistero decisivo per noi e per ogni essere umano che viene al mondo: ne siamo consapevoli? Sì, la tavola richiede a ciascuno di noi di esserci con tutta la propria persona, con il corpo ma anche con lo spirito. Sappiamo quanto sia spiacevole per i commensali qualcuno che sta fisicamente a tavola, ma in realtà è altrove. Appena ieri si stava a tavola con il giornale aperto accanto al piatto o la televisione accesa davanti a noi, oggi ciascuno guarda il proprio tablet o lo smartphone: come siamo imbarbariti… La tavola, luogo di comunione, del faccia a faccia, dello scambio della parola, in alcuni casi è diventata il luogo della massima estraneità. 
 
È vero che normalmente si mangia con gli stessi commensali; è vero che in una famiglia, oggi ridotta a due o al massimo a tre persone, sembra che non ci siano parole da scambiare: ma allora è meglio il silenzio che l’assordante televisione che cattura i nostri sguardi, la nostra attenzione, e a poco a poco ci rende non più desiderosi dell’ascolto di chi ci sta davanti. Stare a tavola, abitarla, è un’arte ma è innanzitutto il quotidiano volto contro volto dell’amato/a, del fratello/sorella, dell’amico/a, dell’altro/a che mangiando con me vive un’azione di comunione straordinaria. Si vive dello stesso cibo, ci si nutre nutrendo le relazioni. La condivisione del cibo è inerente alla nostra condizione di ospiti sulla terra. Omnia sunt communia: le cose e soprattutto i frutti della terra sono di tutti. 
 
E la tavola, luogo dove gli uomini e le donne non si pascono ma mangiano, non può che essere il luogo della condivisione. Certo, si tratta di dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati, perché questa è la responsabilità di ogni persona verso chi non ha né pane né acqua per vivere; ma si tratta anche di avere a tavola l’urgenza, il sentimento di «fare comunione » di ciò che si ha davanti. Qui si mostra l’ethos eucaristico di cui ciascuno è capace: basta infatti tendere la mano e prendere la mela più grande e bella, lasciando le meno belle agli altri, per dichiarare la propria non volontà di condivisione. 
 
Ognuno può consumare ciò che gli spetta, dopo aver condiviso ciò che vi è sulla tavola, altrimenti toglie agli altri, in qualità o quantità, ciò che è destinato a tutti. Non è un caso che i primi cristiani «spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (At 2,46). Solo se c’è condivisione, ci possono essere banchetto e festa; solo se la tavola non è chiusa ma aperta a chi bussa, allo straniero, al pellegrino, al povero, è una tavola veramente umana. Si può anche mangiare poco, anche solo pane e vino, ma se lo si condivide è grande festa, è vera comunione! Infine, proprio perché la tavola è fonte di piacere, il mangiare e il bere procurano gioia, allegria. 
Quando vogliamo rallegrarci, fare festa, sentiamo il bisogno di celebrare la vita con un pasto, invitando altri alla nostra tavola. Per la nascita di un figlio o di una figlia, per segnare le tappe del loro crescere, per festeggiare un traguardo da loro raggiunto, per celebrare l’amore, per rallegrarsi con un amico ritrovato, si imbandisce la tavola e si fa un banchetto. E più si vuole festeggiare, più il banchetto è abbondante. Anche Gesú, quando voleva consegnare un’immagine eloquente della vita del regno di Dio, dove non ci saranno più la morte né il lutto né il pianto, ricorreva all’immagine della tavola e del banchetto. 
 
Un tempo, per gente che pativa la fame, la tavola era un sogno; oggi, che si può mangiare con abbondanza, dentro di noi non vi è spazio per un’immagine più evocativa del banchetto, per esprimere una vita bella, buona, felice, una vita piena. La tavola è l’anticamera dell’amore, un luogo e un momento che non assomiglia a nessun altro, una realtà affettiva e simbolica antica come l’umanità, la possibilità di una comunicazione privilegiata e di una trasfigurazione del quotidiano. Certo, ci vuole sapienza per vivere la tavola, ma la tavola e il cibo hanno la capacità magisteriale di insegnarcela. Mettiamoci alla loro scuola. 
(fonte: Avvenire 24/11/2015)
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cos’è ‘salvezza’ in un mondo post-moderno?

la «buona notizia» in un mondo postmoderno

a proposito del nuovo libro di Joseph Moingt L’UMANESIMO EVANGELICO

Moingt

 

di Luca Miele
in “Avvenire” del 20 novembre 2015

È un pensiero “pro-vocante” quello del gesuita francese Joseph Moingt. Un pensiero che si appella alla «prassi umanizzata» che deve orientare come una stella la fede, che chiede di disfarsi coraggiosamente del “religioso” e di ridisegnare i confini e il senso stesso del sacro

«Si tratta – scrive Moingt – di riscoprire fino a che punto Gesù ha “umanizzato” Dio. Potremmo dire che la salvezza è nel cammino di umanizzazione dell’uomo, e che è Gesù ne ha dato l’impulso “umanizzando” Dio, insegnandoci a guardare a Dio come al Padre che abbiamo in comune, il Padre di tutti gli uomini, insegnandoci che si onora Dio non frequentando il tempio – Gesù non ha mai portato i discepoli al tempio, comunque non a cerimonie religiose, nel Vangelo non ce n’è traccia -, ma lo si onora rimettendo i debiti, amando i nemici»

Ma se è questa la portata “eversiva” dell’umanesimo evangelico, che ne è del sacro dinanzi alla sua carica dirompente? Fino a che punto esso spezza quel nesso – mortifero – tra sacro e violenza, tra il «linciaggio fondatore », l’ombra del capro espiatorio di cui parla Girard e la comunità religiosa che da esso trae origine? E ancora, fino a che punto l’umanesimo evangelico spinge a ripensare il tempio e la sua pretesa di ‘recintare’, di radicare in un luogo (e solidificare in una prassi) il sacro? Per il gesuita francese «Gesù per primo ha secolarizzato il sacro».

«È importante – scrive il teologo – comprendere che il rito cristiano attribuisce un carattere sacro innanzitutto alla relazione con gli altri perché lo spazio sacro non è quello del tempio materiale. Lo spazio sacro, lo leggiamo soprattutto in Paolo, è il nostro corpo come individui ed è il corpo sociale che formiamo gli uni con gli altri’. Lo spazio sacro è quello che Paolo chiama ‘corpo di Cristo’, cioè l’insieme dei cristiani che si uniscono tra di loro per irradiare la fraternità nel loro ambiente». La sfida dell’uscita dal religioso si fa più pressante (e rischiosa) nel tempo del disincanto, nell’orizzonte post-moderno «svuotato dalla speranza del regno di Dio».

Moingt la affronta in maniera diretta, dura: quale salvezza per la Chiesa? «L’avvenire può essere solo quello del Vangelo», esso «non consiste nell’assicurare innanzitutto la propria sopravvivenza in quanto istituzione religiosa, ma nel permettere al Vangelo di Gesù di passare al mondo attraverso di essa per annunciargli la salvezza, e adempierla». È insomma, sembra suggerire il teologo francese, il tempo del rischio: il rischio radicale del ritorno, della risalita nel tempo fino all’origine della Chiesa, una «nascita fuori luogo e fuori religione» sulle orme di Gesù «morto da bestemmiatore, in stato di esecrazione, fuori religione». «Tutta la predicazione di Gesù – scrive il teologo – è centrata sul regno di Dio di cui annuncia la prossima venuta e anzi la presenza già all’opera nel mondo, e la sua sola preoccupazione è insegnare ai suoi uditori, e innanzitutto agli apostoli che le trasmetteranno ad altri dopo di lui, le disposizioni interiori, le virtù e le opere di giustizia e di santità capaci di incamminarli verso questo Regno»

Joseph Moingt L’UMANESIMO EVANGELICO Qiqajon Pagine 144

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quale identità per l’Europa?

«la vera identità europea è quella del confronto, non dell’odio»

intervista a Massimo Borghesi

massimo

a cura di Andrea Tornielli
in “La Stampa-Vatican Insider” del 19 novembre 2015

«La vera identità europea, quella aperta al confronto, non quella dell’odio», è quella che si ritrova nella «splendida lettera che Antoine Leiris ha scritto ai terroristi, dopo la morte di sua moglie per opera degli attentatori di Parigi»

Lo afferma il filosofo Massimo Borghesi, autore del libro Critica della teologia politica, in questo dialogo con Vatican Insider a partire dai tragici eventi di Parigi, che interrogano l’Europa sulle sue radici, la sua identità e le sue scelte. I terribili attentati di Parigi hanno gettato nel panico l’Europa, soprattutto perché molti Jiadhisti sono nati in Francia, non sono venuti dall’estero. Che cosa significa questo? Com’è stato possibile che l’Europa stessa sia stata l’incubatrice del fondamentalismo? «Le cause per cui migliaia di jiadhisti, provenienti dall’Europa, vanno a combattere in Siria e in Iraq a favore dello Stato Islamico sono sostanzialmente tre. La prima è data dallo sradicamento dei giovani musulmani di seconda-terza generazione, come accade nelle banlieue parigine, rispetto alla società circostante. Come in Accattone di Pasolini, essi vedono la città dalla periferia, non conoscono il centro, se ne sentono respinti. Non sono veramente parte della nazione in cui sono nati. La loro condizione sociale, una scolarizzazione spesso fallita, favoriscono un senso di emarginazione e, quindi, di risentimento verso un mondo, quello europeo, che avvertono come estraneo e ostile. La seconda causa è data dal mondo occidentale odierno, il cosiddetto “mondo liquido” connotato da un individualismo profondo, da un’eclisse parimenti profonda di valori e di ideali, da promesse di vita non realizzabili. A un giovane, che avverte interiormente l’esigenza di valori in cui impegnarsi, l’Europa odierna è in grado di offrire divertissment ma non ideali che muovano verso la solidarietà. In Francia i valori della Republique risuonano, come La marsigliese, solo nell’ora del pericolo. Diversamente non sono in grado di unificare. La religione della Laicité indica un’identità formale che copre il valore polemico delle differenze senza risolverlo. Il terzo fattore che è alla genesi del jiadhismo europeo è l’Islam europeo, l’Islam incontrato in tante moschee europee. Al vuoto spirituale del vecchio continente, alla emarginazione sociale e culturale, il giovane di provenienza araba cresciuto in Europa oppone la scoperta di una fede radicale, totalizzante, mutuata da iman che esportano i dettami dell’Islam più integralista, quello wahabita promosso e finanziato dall’Arabia Saudita». Come definirebbe questo tipo di Islam? «È un Islam essenzialmente politico, teocratico, una religione politica che attrae molti giovani, sradicati e colmi di risentimento, proprio per il successo politico dell’Isis. Ciò che colpisce questi giovani è esattamente quello che provoca in noi orrore: il messaggio di potenza planetaria suscitato dalle immagini delle gole tagliate, dalle vittorie del califfato. L’Isis è il mito di una rivincita dell’Islam e del mondo arabo sull’Occidente, è il sogno di una rivincita che alberga nel risentimento. L’Islam jiadhista è una teologia politica – fenomeno di cui mi sono occupato nel mio volume Critica della teologia politica – che, come tutte le teologie politiche, vive e si nutre della vittoria del Dio degli eserciti. Solo una sconfitta può, in questo caso, provocare una crisi ideale. Le teologie politiche, per loro natura, muoiono nei campi di battaglia». «Siamo in guerra!». Questa è la reazione che sembra essere maggioritaria. La prima risposta è stata un’intensificazione dei bombardamenti sullo Stato islamico: è adeguata? «La risposta non può non essere anche militare con le avvertenze, però, richiamate dal capo della Chiesa siro-cattolica, Mar Ignace Youssif III Younan, e cioè che l’Isis non si sconfigge semplicemente con i raid e con bombardamenti indiscriminati. Il massacro di Parigi ha rappresentato per l’Isis, certamente, una sorta di autogoal. Ha costretto, infatti, gli Stati  fiancheggiatori del califfato, dalla Turchia di Erdogan, all’Arabia Saudita, allo stesso Occidente americano-europeo, a fermarsi. L’utilizzazione dell’Isis in funzione anti-Assad, anti-Iran, anti-Putin, non può più essere tollerata dall’opinione pubblica. L’eccidio parigino, come è stato detto, è l’11 settembre europeo. Solo il Qatar, uno degli Stati più ricchi e più integralisti del mondo, continua il suo sporco gioco finanziando fortemente Daesh. È chiaro che se non si prosciugano i finanziamenti, le importazioni di petrolio, le forniture cospicue di armi, un conflitto non avrà mai fine. Riguardo alla guerra essa va misurata con attenzione. Né Obama né gli europei sono disposti a impiegare truppe di terra, con il rischio di migliaia di morti. Inoltre l’Isis non esiterebbe un momento a prendere in ostaggio intere città, in primis Mosul, in modo tale che la battaglia dovrebbe svilupparsi casa per casa con moltissime vittime civili innocenti. La forma che il conflitto dovrà assumere – con buona pace di Salvini e di coloro che gridano alla guerra – non è quindi chiara. Ciò che è positivo, al momento, è l’accordo trovato tra l’occidente e Putin, dopo anni di contrasto duro. Ciò permette di individuare finalmente il nemico, l’“unico” nemico». Colpiscono le parole con le quali Claudio Magris, all’indomani degli attentati di Parigi, ha riconosciuto la lungimiranza di Giovanni Paolo II che invitava a non fare le guerre in Iraq. Quanto ciò che sta accadendo può essere legato alle scelte compiute nel recente passato dall’Occidente, con le guerre che ha mosso in Medio Oriente e con il finanziamento di gruppi ribelli che si sono poi trasformati nell’internazionale del terrore? «Il giudizio di Magris è prezioso. Molti di coloro che oggi inneggiano alla guerra dell’Occidente contro l’Islam, che utilizzano Giovanni Paolo II e Benedetto XVI contro Papa Francesco, accusato di essere troppo remissivo verso i musulmani, dimenticano che fu proprio Giovanni Paolo II a opporsi strenuamente contro la guerra in Iraq voluta da George Bush jr., a opporsi alla “guerra di civiltà” di chi voleva la crociata dell’Occidente “cristiano” contro l’Islam. Come scrive Magris: “Come era lungimirante l’opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq, opposizione che non nasceva certo da simpatia per il feroce despota iracheno né da astratto pacifismo, che gli era estraneo perché la sua esperienza storica gli aveva insegnato che la guerra, sempre orribile, è talora inevitabile. Ma il Papa polacco sapeva che sconvolgere l’equilibrio – precario e odioso, ma pur sempre equilibrio – di quella Babele mediorientale avrebbe creato un’atomizzazione incontrollabile della violenza. Come era più intelligente Reagan di quanto lo sarebbe stato anni dopo George Bush Jr, quando, per stroncare l’appoggio di Gheddafi al terrorismo, si decise per un’azione brutale ma rapida ed efficace e non pensò a inviare truppe americane a impantanarsi per chissà quanto tempo nel deserto libico, mentre l’invasione dell’Afghanistan voluta da Bush Jr. sta durando quasi tre volte la Seconda guerra mondiale, senza apprezzabili risultati”. E qui potremmo aggiungere: come era più intelligente Reagan rispetto ai Sarkozy e ai Cameron che hanno rovesciato certo un dittatore ma solo per gettare un paese, la Libia, nel caos più totale, vero brodo di coltura dell’estremismo più radicale». Da che cosa nasce l’estremismo fondamentalista? «In realtà il vero nodo è questo: l’estremismo islamico è il prodotto di due fattori. Il primo è dato da un problema che riguarda direttamente l’Islam contemporaneo, il suo rapporto con la modernità, le libertà civili e religiose. Ne ha parlato, con saggezza, il filosofo Abdennour Bidar nella sua Lettera aperta al mondo musulmano (http://www.gliscritti.it/blog/entry/2895). Non è certo l’unico, epperò nella sua Lettera è come se sintetizzasse tutti i problemi di un occidentale islamico. L’Isis è un mostro che non coincide con l’Islam, con la fede tranquilla di milioni di credenti. E, tuttavia, ha le sue radici in una possibile lettura dell’Islam, quella di matrice wahabita. Una lettura che richiede di essere affrontata “criticamente” se si vuol superare le aberrazioni di fondamentalisti criminali che giustificano il loro operato a partire dalla religione. Allo scopo le semplici dissociazioni o prese di distanza sono auspicabili ma non dirimenti. Così come non aiutano le posizioni di coloro che affermano non esservi alcuna connessione tra l’Islam e la politica. Il problema è più complesso e richiede una vera e propria rilettura della tradizione. Come ha affermato Hocine Drouiche, imam di Nîmes e vice-presidente del Consiglio degli imam di Francia: “Per secoli i musulmani hanno escluso la ragione e la razionalità dalla loro vita religiosa. Nel pensiero islamico moderno vi è una  vera crisi della ragione. Di conseguenza, i musulmani vivono in situazioni paradossali non solo nei confronti dei valori islamici, ma anche dei valori europei”. È questa chiusura, questa dissociazione tra fede e ragione, che genera il fondamentalismo, il fideismo chiuso che vede negli altri i “crociati”, i miscredenti, gli impuri. Il secondo fattore che nel corso degli ultimi 40 anni ha favorito la radicalizzazione dell’Islam è stato l’uso che ne ha fatto l’Occidente, gli Usa in primis, in funzione antisovietica prima, con i Talebeni sostenuti in Afghanistan contro Mosca, e con l’Isis poi in funzione anti-Assad alleato di Putin. Il mostro, come ha riconosciuto Hillary Clinton, è uscito dalle segrete stanze della Cia e del Pentagono, foraggiato dagli alleati arabi filo-americani e dalla Turchia, membro della Nato. Il bambino, cresciuto, è divenuto ora molesto e ingombrante, al punto che i loro artefici non sanno come disfarsene. Nel frattempo centinaia di migliaia di persone sono morte, milioni sono fuggiti, interi Stati sono sprofondati nella miseria e nella disperazione». Secondo lei è in atto uno scontro di civiltà? Che cosa significa per l’Europa, per i suoi valori e la sua cultura, questo confronto con l’Islam fondamentalista? «Certamente il rinnovato confronto con un islamismo aggressivo, che pareva un lontano ricordo del passato, obbliga il vecchio continente a un ripensamento. Dopo l’89 l’era della globalizzazione ha coinciso con un post-modernismo estetico-edonistico-individualistico. La “fine della storia”, profetizzata da Francis Fukuyama, sembrava offrire il panorama della nuova felix aetas, senza nemici né guerre, contrassegnata da affari e divertissement. Poi è venuto l’11 settembre e con esso è tornata la teologia politica (teocon e islamista), il nemico, la guerra. I risultati di quel conflitto li vediamo oggi con il Medio Oriente e il nord Africa allo sbando. Per questo l’Europa, dopo Parigi, non può ripensarsi alla luce di una nuova (o vecchia) teologia politica così come auspicano le destre. La soluzione, l’uscita dal nichilismo postmoderno, non sta nella costruzione di identità affermate in antitesi ad altre, identità dialettiche che ricopiano, nell’opposizione, quella dell’avversario. È questa la via dello “scontro di civiltà”, quella auspicata dal quotidiano “Libero” la cui testata non si è vergognata di titolare, in risposta agli eccidi parigini, “Bastardi islamici”. Una vera e propria incitazione all’odio. Né l’Europa può credere, d’altra parte, che il problema si risolva favorendo lo scioglimento delle differenze. Come nel caso di una gita scolastica annullata dalle autorità della scuola elementare «Matteotti» di Firenze perché prevedeva una visita artistica che includeva un Cristo dipinto da Chagall, nel timore che ciò potesse offendere gli allievi di religione musulmana. Un provvedimento demenziale che dimostra i limiti di un multiculturalismo che, alla prova dei fatti, dimostra di essere incapace di sostenere le diversità culturali. Chi viene o nasce in un Paese deve innanzitutto imparare a rispettarne le tradizioni, gli usi, i costumi, le leggi. È una legge non scritta dei popoli. Né può pensare, machiavellicamente, di simulare in attesa di essere maggioranza. Se non si gradiscono leggi e costumi è bene che si vada altrove. Il Paese che accoglie deve, d’altra parte, favorire le condizioni d’integrazione, in primis attraverso la scuola, il lavoro, l’università. Puntando particolarmente sui giovani. È nell’ambito scolastico, come dimostrano gli istituti cristiani nei paesi arabi che non fanno distinzione di religione, che sorgono amicizie, stima reciproca, rapporti duraturi tra persone di fedi diverse. Qui si costruisce il futuro. Certo, dovrebbero essere scuole mirate al lavoro, non parcheggi, né luoghi di déracinement». Come bisogna reagire, dunque? «Tanto il posmodernismo relativistico quanto l’identitarismo, le due ideologie con cui abbiamo risposto, finora, all’integralismo islamico, hanno mostrato abbondantemente i loro limiti. Abdennor Bidar, nella sua Lettera, afferma che il mondo islamico europeo ha, se lo vuole, le risorse per tirarsi fuori dalle secche a cui l’integralismo lo sta portando. Allo stesso modo, potremmo dire che la vecchia Europa, per quanto disincantata e violentata nelle sue tradizioni, ha le risorse per rispondere in modo non meramente reattivo. La splendida lettera che Antoine Leiris ha scritto ai terroristi, dopo la morte di sua moglie per opera degli attentatori di Parigi, ne è documento: “Venerdì sera avete rubato la vita di una persona eccezionale, l’amore della mia vita, la madre di mio figlio, eppure non avrete il mio odio. Non so chi siete e non voglio neanche saperlo. Voi siete anime
morte. Se questo Dio per il quale ciecamente uccidete ci ha fatti a sua immagine, ogni pallottola nel corpo di mia moglie sarà stata una ferita nel suo cuore. Perciò non vi farò il regalo di odiarvi”. Questa è la vera identità europea, quella aperta al confronto, non quella dell’odio. La civiltà dell’Europa, quella autentica, è dominata, come ha evidenziato Remi Brague nel suo bel libro Europe. La voie romaine, dalla “secondarietà”, dalla capacità della Roma antica di farsi “seconda” rispetto alla cultura ellenica e del cristianesimo di farsi “secondo” rispetto all’ebraismo. Per questo l’Europa è capace di “integrazione”, non ha bisogno di azzerare la tradizione, la fede, la cultura di coloro che calpestano il suo suolo. Non ha paura dell’altro. Ha il dovere di difendersi ma è anche sufficientemente forte per sopportare le differenze».

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la ‘chiesa in uscita’ sognata dai missionari italiani

per una Chiesa in permanente stato di missione
CONTRIBUTO dei MISSIONARI ITALIANI AL 5°CONVEGNO ECCLESIALE

FIRENZE 2015

Firenze

 

alla nostra chiesa italiana che ha inviato figlie e figli in ogni angolo della terra chiediamo, nonostante le fatiche di questo momento storico, di restare fedele al mandato missionario di Gesù. Sicuri che l’incontro e lo scambio tra chiese sorelle potrà aiutarla e sostenerla nella sua ricerca di un nuovo umanesimo e di vie nuove per annunciare il vangelo in questo nostro tempo.

questo contributo è frutto dell’impegno e della riflessione comune di una grande parte del mondo missionario italiano, convocato dalla Fondazione Missio. Desideriamo offrire alla Chiesa italiana il nostro punto di vista in occasione del 5°Convegno Ecclesiale Nazionale di Firenze. Proponiamo queste nostre riflessioni come figli e figlie della Chiesa italiana impegnati a nome di essa e con essa sui fronti dell’umanità

1. L’esperienza missionaria, realizzata quotidianamente dai CMD, dagli Istituti Missionari e Religiosi, dai Fidei Donum, dai Volontari internazionali e dal Laicato missionario, ha fatto di noi uomini e donne in uscita. Uscire da se stessi, uscire dai propri mondi, dalle proprie visioni, per incontrare l’altro è lo stile del discepolo missionario di Gesù. Uscire è pure il volto di un Dio che, amando l’umanità, esce da sé stesso per incontrarci. Uscire è l’essenza stessa della Chiesa. Noi discepoli e discepole di Gesù siamo chiamati ad uscire sulle strade del mondo per annunciare e testimoniare che siamo figli amati dello stesso Padre. Come ci ricorda spesso papa Francesco, una chiesa ripiegata su se stessa, è una chiesa asfittica, destinata a morire. Il mondo ha bisogno di una chiesa che esce per farsi vicina ad ogni uomo e ogni donna sotto ogni cielo.

2. Il cammino missionario ci ha messo sulle strade della vita e ci ha spinto ad andare alle periferie esistenziali, quelle abitate dagli ultimi, gli scartati dalla società e porli al centro della nostra vita, delle nostre scelte. Cerchiamo di abitare le frontiere, dove l’umano è messo alla prova, di immergerci e di stare nelle periferie. Vivere con gli ultimi e gli impoveriti ci ha permesso di guardare la realtà da un altro punto di vista, scoprendo ancora di più le ingiustizie e le diseguaglianze prodotte  da questa nostra società globalizzante e consumistica, al cui centro ci sono prevalentemente interessi e tornaconti economici. Allo stesso tempo ci ha permesso di sperimentare la potenza umanizzante e liberante del Vangelo di Gesù, che restituisce dignità, voglia di vivere, speranza ai piccoli e ai poveri che lo accolgono.

3. Abbiamo annunziato il Vangelo agli ultimi, ai poveri ed essi ce l’hanno restituito vivo nella buona vita che l’incontro con Gesù ha prodotto in loro, intorno a loro e grazie a loro. Il nostro costruire umanesimo parte dai poveri e si realizza con i poveri. Un nuovo umanesimo può costruirsi ascoltando e riconoscendo umanità sul volto di coloro che la cultura dominante esclude, non vuole vedere o ha paura di incontrare. Una Chiesa in missione è posta in quel nodo complesso tra ricchezza e povertà, ove si gioca il futuro dell’esistenza. Viviamo un mondo da una parte spinto verso il post umano e l’ultra umano e dall’altra un mondo sempre più colmo di disumanità. Per questo non si può non partire dai poveri. Siamo convocati a rivivere il grande sogno di alcuni dei padri conciliari: una Chiesa povera e dei poveri! Una Chiesa che fa della sua missione un dialogo profetico con il mondo, capace sia di ascoltare e denunciare il grido dei poveri sia di incontrare tutti per annunciare la gioia del Vangelo.

4. Il vivere le periferie in Africa, in Asia e in America Latina ci ha fatto sperimentare modi diversi di essere chiesa. Siamo testimoni di novità e del sorgere di nuovi volti della chiesa:
• Una chiesa che si riconosce ‘piccola’, che immersa in questo grande mondo in cambiamento ha più domande che risposte. Una chiesa diaconale che veste il grembiule del servizio, l’abito del suo Maestro. • Una chiesa che apre le sue porte, spalanca le sue finestre e offre la testimonianza di comunità che diventano spazio di accoglienza, ma anche di partenza per l’ascolto, per il servizio, per creare reti di comunione e lavorare insieme. • Una chiesa laboratorio di fraternità ed umanità,  scuola di comunione, capace di creare esperienze di interculturalità e di incontro fra popoli e religioni diverse. • Una chiesa capace di trasformare le secolari parrocchie in Comunità di piccole comunità cristiane, comunità ecclesiali di base, incarnate dentro la realtà, spazio ove si ‘abita’, in cui la fede quotidianamente si trasforma in carità e solidarietà. • Una chiesa ove la grazia che ci è donata e ci trasfigura viene vissuta e sperimentata in celebrazioni vive e partecipate,  anche con l’apporto dei vari ministeri laicali. Celebrazione che sempre diventa festa dell’incontro, del vivere la propria fede e del trovare forza nelle difficoltà, nella persecuzione e anche nel martirio. • Una chiesa di dialogo, che vive l’ecumenismo e il dialogo interreligioso a partire dalla vita, sperimentando la fatica e la gioia di incontrare esperienze religiose diverse e condividendo con loro le lotte per trasformare il mondo affinché tutti e tutto abbiano “vita e vita in abbondanza” (Cfr. Gv 10,10).

5. Nel proporre un nuovo umanesimo sentiamo l’impellente necessità di tornare all’uomo Gesù, alla sua vita, ai suoi gesti, al suo progetto. Rimettendo al centro della vita delle nostre comunità la Parola di Dio, incontriamo Gesù di Nazareth, il Figlio dell’Uomo, il Cristo nuovo Adam, nuova umanità che realizza pienamente il sogno di Dio sognato il mattino della Creazione. La Parola letta insieme, nelle case, in piccoli gruppi, è capace di scaldarci il cuore e di farci compiere i gesti del Regno: condivisione, solidarietà, difesa di chi ha meno, di chi ha solo il diritto di non avere diritti. Una chiesa in uscita è una chiesa discepola, seduta ai piedi di Gesù in ascolto della Parola, che si impregna del Suo annuncio del Regno, progetto di vita piena per tutti.

 

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inno da brividi! … ma anche i nostri non brillano per gentilezza!

l’inno dell’Isis con sottotitoli in italiano
“da te verremo con scempio e morte”

 


la bandiera dello stato islamico

la bandiera dello stato islamico

è all’attenzione dell’intelligence un video con un “inno” dell’Isis sottotitolato in italiano, in cui si minacciano sgozzamenti e “punizioni” varie, che circola sui canali web frequentati dagli estremisti islamici. “Presto, presto” è il titolo della canzone, scovata su internet dal sito Wikilao, che inizia con: “Presto… presto rimarrete sorpresi, come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”. Altre frasi cantate recitano: “Mi hai dichiarato guerra con l’alleanza della miscredenza, goditi dunque la mia punizione”; “più a lungo persisterai a combattere, più soffrirai”. Il brano prosegue poi con un’escalation di minacce: “Da te verremo con scempio e morte”, “noi di sangue le ampie strade ricopriamo grazie ai coltelli affilati che tranciano le gole ai cani in raduno quando si ammassano”.

A diffondere la canzone è il Centro Ajnad, che fa riferimento al sedicente Stato islamico.

Isis, l’inno tradotto in italiano: “Più combatterai, più soffrirai”

isis

L’ultimo contenuto pubblicato in internet dall’Isis è un video che in realtà contiene una canzone che inneggia alla violenza di massa nei piani futuri del gruppo terroristico. la scoperta è stata fatta dal sito Wikilao, che ha diffuso immediatamente la notizia ed il video è passato alle mani dell’intelligence e dell’antiterrorismo italiani. Le immagini sono accompagnate da frasi altrettanto forti e di grande carattere minatorio, rivolte agli internauti più sensibili a questo tipo d’intimidazioni. “Presto… presto rimarrete sorpresi! Come un fulmine a ciel sereno vedrete le battaglie sorgere sulle vostre terre”: così canta l’esordio dell’inno, auspicando sventura e morte ai nemici del Califfato autoproclamato. Poi, un’invocazione alla guerra ed ai propositi che ne sostengono le gesta:”Affidiamo ai coltelli il compito di sventrare e sgozzare”, si legge, “che magnifico farlo attraverso un coltello assetato di vendetta!” Tra i bersagli del messaggio, anche i soggetti maggiormente suscettibili al terrorismo mediatico, che si basa proprio sul panico che semplici informazioni (per quanto ipotetiche) possono scatenare e diffondere in tutta la popolazione a partire dalle preoccupazioni di un sono individuo. Si tratta, peraltro, di minacce che l’Isis ha rivolto ad altri bersagli, ma che possono incutere negli internauti lo stesso terrore che i nostri stessi media hanno già in parte diffuso.

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giovani rom immaginano un’Italia migliore

 
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l’Italia immaginata e pensata dai giovani rom e sinti, nel loro manifesto politico

L’IMPEGNO DEI GIOVANI ROM PER IL NOSTRO PAESE

L’Italia di domani pensata, immaginata, raccontata dai giovani. Giovani rom e sinti, ma non solo.
Dal 19 al 21 settembre scorso, ragazze e ragazzi provenienti da differenti parti d’Italia (25 Rom e Sinti, 5 non Rom) si sono ritrovati a Roma per la convention PrimaveraRomanì, una tre giorni di studio e riflessione promossa dall’Associazione 21 luglio nell’intento di incoraggiare la partecipazione attiva delle comunità rom e sinte nel nostro Paese, per far sentire la propria voce contro ogni forma di discriminazione e in favore dei diritti umani

I giovani sono giunti da Roma, Lucca, Torino, Oristano, Vicenza, Cagliari, Mazara del Vallo e Terni. Nel corso della convention, inoltre, i giovani hanno avuto la possibilità di ascoltare le testimonianze dirette di attivisti rom impegnati in altri Paesi europei.
Nei primi due giorni della convention hanno lavorato in gruppi e a seconda delle loro competenze e dei loro ambiti d’interesse hanno partecipato a uno dei quattro tavoli tematici di discussione: casa, giovani, lavoro e scuola. Al termine dei lavori e delle riflessioni, è stato redatto un documento comune, un Manifesto politico, in cui hanno raccontato il Paese che, insieme, vorrebbero contribuire a costruire e che vorrebbe diventare strumento utile per indicare le migliori pratiche necessarie all’inclusione di Rom e Sinti.
Ne abbiamo parlato con Serena Raggi, attivista per l’Associazione 21 luglio e presidente di una piccola associazione che si chiama Famiglia Malaussène.

primaveraCome è andata la convention?
«Sono stati tre giorni di lavoro molto intensi, a cui hanno partecipato rappresentanti delle comunità rom, sinti e anche non rom. Alcuni di origine straniera ed altri italiani. Abbiamo avuto, e ci tendo a sottolinearlo, il sostegno del capo dello Stato, che ci ha mandato una lettera augurandoci di fare un buon lavoro e grazie a questo abbiamo iniziato la convention con uno spirito molto propositivo. Adesso la cosa più difficile è quella di diffondere questo manifesto e far sapere alla gente che abbiamo lavorato per contribuire a combattere tutti quegli stereotipi negativi che circondano l’universo rom. Si sa come vengono trattati questi temi dal mondo dell’informazione: si preferisce insistere sugli aspetti negativi, piuttosto che su quelli in grado di dare un contributo positivo alla società».

Perché avete deciso di realizzare un manifesto politico?
«Abbiamo scelto di realizzare questo manifesto in quanto si tratta di qualcosa di ufficiale, che abbiamo avuto poi la possibilità di portare in una sede istituzionale importantissima quale il Senato. Questa è stata una occasione fondamentale, perché tutte le decisioni importanti vengono prese nell’ambito delle istituzioni, così come quelle che riguardano le comunità rom e sinti».

Di cosa c’è bisogno?
«Ci vogliono dei rappresentati delle comunità rom che partecipino ai tavoli e che siano presenti quando vengono prese delle decisioni che li riguardano direttamente. Il problema fondamentale sta nella conoscenza reciproca e nel fatto che si formulano leggi che si basano più sugli stereotipi che non sulla conoscenza diretta delle persone e delle situazioni. La tristissima vicenda di “Mafia Capitale” è un esempio eclatante. Abbiamo visto quanto si è speculato sul mondo rom. Io mi auguro che al di là di un riscontro politico, che tutti desideriamo profondamente, anche il cittadino comune possa leggere questo documento e venire a sapere che ci sono giovani che vogliono impegnarsi per migliorare questa situazione, perché quello che manca è la conoscenza reciproca. E questo riguarda, ovviamente, anche le comunità rom che, a volte, sono molto sospettose nei confronti della società maggioritaria».

Cosa ti auguri per il futuro?
«Mi auguro che si inizi a parlare dell’universo rom in un modo diverso. Ci sono tanti giovani che lottano per abbattere i molti pregiudizi che circondano le comunità rom Il mondo dell’informazione ha una grossa responsabilità in tal senso. Quando si parla di un italiano che commette un crimine, lo si fa facendo nome e cognome; quando si tratta di un rom, si parla subito dello zingaro. Si arriva in tal modo ad una spersonalizzazione dell’individuo e questo provoca un danno incredibile, al punto che molte persone non vogliono dichiarare di essere rom. Ed è questo il circolo vizioso attraverso il quale si arriva a discreditare tutta una comunità. Nessuno nega che all’interno della comunità rom ci siano tante zone d’ombra; spesso, però, quando si parla dell’universo rom lo si fa basandosi su un immaginario che è ancorato al passato e che non ha più alcun riscontro con l’oggi. Inoltre, nella maggior parte dei casi accade che proprio coloro che parlano male dei rom non hanno mai avuto modo di conoscerne uno. La conoscenza reciproca è fondamentale. Sarebbe importane organizzare tanti eventi al fine di raggiungere una vera condivisione in grado di dare al resto della società una immagine della comunità rom inedita e sconosciuta. A volte basta poco».

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non se ne può più! … un grido contro ogni ‘missionario’ o ‘civilizzatore’

 

contro chi porta la “civiltà”

a proposito del modo ignorante e ‘violento’ con cui in genere guardiamo ai Rom e ai ‘campi’ in cui molti di loro abitano: una bella riflessione di Marcello Palagi, all’insegna della tesi ragionata che:

si può davvero incontrare l’ ‘altro da sè’ solo come ‘traditori’ della propria parte

Marcello

Non se ne può più. dei sedicenti esperti e del volontariato beneficente, delle onlus a pagamento, degli amministratori democratici e fascisti e  dei ministri che  per far la concorrenza alla Lega sgomberano rom e immigrati, ma soprattutto  di  tutti quelli che sanno  come si dovrebbero risolvere i problemi dei rom e dei sinti, che poi sono i problemi che abbiamo noi nei loro confronti. Lasciamoli perdere gli “zingari”, non occupiamocene e non preoccupiamocene più. Più ci si occupa e preoccupa di loro e più i loro problemi crescono e  più diventano difficili i rapporti con loro. Più ne neghiamo la cultura e l’identità e vogliamo assimilarli e più siamo portati a perseguitarli, escluderli, respingerli ai margini più bassi della nostra società.  Quanto più ci dedichiamo al loro “bene”, a igienizzarli, a sedentarizzarli,  a edilizzarli, a residentarizzarli,  a domiciliarli, ad alfabetizzarli, a scolarizzarli, storiografarli, fotografarli, documentarizzarli, reportarizzarli, narrarli., onestizzarli, moralizzarli,  tanto più facciamo danni.
Esperti improvvisati

Uno va in un campo di “zingari” un paio di volte e, se non ci scrive subito un libro o gira un documentario per ammannirci la sue scoperte “antropologiche”, si sente autorizzato a far proposte e progetti su come tutelare la loro cultura e risolvere i “loro” problemi: insegnargli a vivere come si deve, a “educare” i figli,  a diventare simili a noi, a lavorare come noi, ad abitare come noi, a fare meno figli, ad abitare nelle case popolari.

La moda dello smantellamento

Oggi, l’ultima moda è quella di dire che i campi rom sono uno scandalo, che vanno aboliti con le ruspe per dare a chi li abita una casa popolare. Ma mentre gli sgomberi sono già iniziati, manu militari,  e si chiudono sempre più aree di sosta, le case agli sgomberati non gliele dà nessuno, sono una merce così rara che difficilmente può capitare a una famiglia  rom e se gli capita, si assiste regolarmente alla sollevazione dei coinquilini che non vogliono convivere con loro. L’abolizione dei campi è quindi solo propaganda politica. Il fine vero di tanti discorsi, compresi quelli del ministro Alfano, non è quello di dar loro una casa, ma solo di controllarli e abolire i loro modi di vivere e tra questi, il nomadismo che continua a riguardare, in Italia, almeno un 40% di loro, è al primo posto. Perché il nomadismo – si dice –  è un modo di vivere storicamente superato e indegno  e  non avrebbe neanche mai fatto parte della cultura rom, che avrebbero nomadizzato solo perché costretti dai sedentari. Naturalmente mentre si predica la necessità di stanzializzarli, il programma delle ruspe, diventato universale, da destra a sinistra, si traduce nella distruzione dei loro pur precari e indegni baraccamenti, per cacciarli in mezzo alla strada dove le condizioni di vita sono ancor più precarie, indegne e antiigieniche.

Giustizia feroce

E per chi insiste nel voler restare nomade   si predispongono feroci provvedimenti e discriminazioni: l’esclusione dall’assistenza sociale e sanitaria, la perdita della patria potestà e l’inserimento dei figli in strutture “protette” in attesa di adozione, pratiche queste diventate tristemente abituali grazie all’assistenza sociale e i tribunali dei minori. I rapporti della giustizia e dell’assistenza sociale con i rom sono infatti quasi sempre sbrigativi e feroci. Perchè c’è la convinzione che i rom, siano quasi tutti dediti alla microcriminalità, per cui, anche a sparare nel mucchio, si farebbe sempre centro, Per i rom non scatta mai la prescrizione, venendo regolarmente processati per direttissima e se devono andare in galera ci vanno e stanno, altro che arresti domiciliari a 4 ore settimanali di “assistenza” a vecchi non autosufficienti!

Civilizzatori a progetto

Intorno ai rom e ai sinti  si muovono, a parte l’assistenza sociale per lo più ostile, quasi esclusivamente improvvisatori buonisti del volontariato che fanno più danni che la grandine, perchè sono  appunto  convinti di sapere, loro, cos’è il bene per gli “zingari” e vogliono redimerli, salvarli, inserirli, liberarli dalla loro arretratezza, devianza e incapacità di autoregolarsi e anche farsi pagare per questo. Inutile nasconderselo, il volontariato  c’è andato a nozze con i rom e ci ha guadagnato, con le migliori intenzioni e per il bene dei rom, naturalmente : un progettino oggi e uno domani e il gioco è fatto. Incompetenti totali sono andati nei campi ad alfabetizzare, a insegnare mestieri fuori mercato dei rom, ai rom, come la battitura del rame o il cucito alle donne,  a intrattenere  i bambini con giochi e metodi disciplinari che niente hanno a che fare con i loro modi di vivere ed educare le nuove generazioni. E’anche probabile che, da qualche parte, i gruppi di volontari siano stati inconsapevolmente manovrati da cattivisti mafiosi che
si aggiudicano appalti e finanziamenti e li subappaltano, a prezzi scontatissimi, agli ingenui buonisti. I  più furbi dei volontari, però, capito il gioco,  hanno stabilizzato il loro interventismo, mettendo in piedi onlus che organizzano convegni, si autopatentano esperti e accedono ai finanziamenti pubblici con cui inviano inutilissimi e dannosi operatori nei campi,  elevano proteste in nome dei diritti dei rom e contro gli sgomberi e predicano la necessità che ai rom vengano dati appartamenti in case popolari, perchè, anche loro credono che i rom siano diventati nomadi per costrizione, pregiudizi e persecuzioni. 

La scienza dell’omologazione

Anche  gli antropologi accademici, che hanno a che fare, come consulenti, con gli enti pubblici e i loro emolumenti, sono tra i sostenitori dell’accasamento dei rom e pontificano sulla loro testa: ormai il nomadismo è finito, si tratta di una fase storica superata, sono i rom che vogliono avere una casa popolare, sono pochi quelli che ancora si muovono, eliminiamo perciò i campi degradati e degradanti. Portatori di civiltà e progresso umanitari, anche loro sanno a memoria quale sia il bene per i rom che non è, evidentemente, quello di poter decidere per se stessi, se andare ad abitare in case o se stanzializzarsi e  vivere nei campi o continuare a nomadizzare.  E’ devastante questa crescita esponenziale dell’interesse buonista e assistenziale per i rom. Si preparano tempi sempre più bui per i rom  con tanta gente che li studia, classifica e vuole fargli cambiare vita. Fascisti e nazisti cominciarono ad “occuparsi” dei rom, sulla base degli studi di eminenti scienziati e antropologi dell’epoca che con le loro schedature ed elucubrazioni teoriche giustificarono concentramento e sterminio.

I progetti non funzionano

Ma i motivi per cui credo non si debbano fare progetti sui rom e per i rom e, neanche, formalmente, con i rom, sono anche altri: perchè non hanno mai funzionato (campi, scolarizzazione, corsi di formazione professionale,  inserimento lavorativi, inserimenti in case popolari, ecc.) essendo solo progetti nostri, per controllarli, assimilarli, renderli “normali” e non per favorire le loro scelte in autonomia.La cosa peggiore che si possa fare è quella di decidere per gli altri e sugli altri, per “portargli la democrazia e la civiltà”.

Andare dai rom: come e perché?

Ci si va in tanti modi dai rom. Come le forze dell’ordine, a far le perquisizioni alle 5 del mattino,  a  sgomberarli con le ruspe, a buttarli in mezzo alla strada.  Come i “benefattori” che vanno a far loro del bene, gli  portano vestiti dismessi e un pacco di pasta o una bottiglia d’olio o le scatolette di carne  confezionate dalla Comunità Europea per “gli indigenti” coi surplus delle sue produzioni.  Come gli studiosi per conoscerne la cultura e scrivere su di loro libri e saggi e per dire alle istituzioni come “integrarli”. Come gli assistenti sociali che vogliono scolarizzarli, igienizzarli, vaccinarli e inquadrarli. Come quelli che vanno a fare il doposcuola nei campi per alfabetizzarli. Come i sindaci che oggi si illudono di “normalizzarli” con i patti di legalità e convivenza, ecc. Vanno, passano il confine, entrano in territorio rom, un territorio antropologico, ma anche fisico, provvedono ai propri interessi, dettano le loro regole e tornano indietro. Hanno sempre fatto così i neocolonizzatori, anche quelli che vogliono essere comprensivi e disponibili, scientifici e rispettosi delle culture altre, finiscono per farne le mappe e per indicare le strade per ulteriori invasioni, conquiste, sottomissioni, reclusioni, esclusioni, colonizzazioni, stermini, genocidi, assimilazioni, marginalizzazioni. Anche se i rom continuano a opporre resistenza ai provvedimenti istituzionali e beneficenti a loro “favore” e a vanificarli sistematicamente, deludendone i promotori che si meravigliano e scandalizzano, altrettanto sistematicamente, di tanta  irriconoscenza nei confronti di quanti si danno tanto da fare per il loro bene. Ma quante sono le sofferenze che devono affrontare i rom per far fronte a tutte queste attenzioni beneficenti?

Varcare il confine del territorio dei rom

Penso che condizione preliminare per poter frequentare e capire rom e sinti è fare una scelta di campo, una scelta di carattere politico; bisogna “tradire” la propria parte (i gagé), fare un “buon uso del tradimento”, scegliendo di passare al nemico, armi e bagagli, senza progetti di “conquista” e senza la presunzione di appartenere a una civiltà superiore, tagliandosi tutti i possibili ponti alle spalle. Perchè stare dalla parte dei rom e dei sinti, significa scegliere di essere contro la nostra società, la sua cultura, le istituzioni dominanti, non collaborare e sapere che fino a quando questa società avrà il dominio, non ci sarà rispetto e pace per le minoranze, per i più deboli, per i marginali.

Il mondo dalla parte dei rom

La visione del mondo che si può avere, in un campo rom o a un semaforo a lavar vetri e a chiedere l’elemosina, o, oggi, su una barca di clandestini, non ha niente a che spartire con quella di chi si “occupa” di risolvere i loro problemi  istituzionalmente o volontaristicamente. Sono diverse, opposte, conflittuali, non pacificabili. E allora, per tentare di capire e stabilire rapporti con i rom e i sinti, bisogna varcare il confine ed entrare nel loro territorio, culturale e fisico, in modo diverso, opposto rispetto a sindaci, istituzioni, studiosi, progettatori del bene altrui.  Bisogna entrarci da “traditori” della propria parte, per consegnarsi all’altra parte, senza riserve, per scelta di campo e non per farci escursioni istituzionali e di studio. Bisogna imparare concretamente, sulla propria pelle, la rinuncia a convinzioni e valori secolari e radicati, alla mentalità che dà per scontato che l’Occidente e i suoi “valori” siano il metro di misura di ogni cultura, civiltà, società, democrazia, stato, modello di sviluppo, ecc., per poter guardare il mondo con altri occhi e altri valori e prospettive anche pratiche, per acquisire altre mentalità, per conoscere, pensare, progettare, se dovesse essere, con l’altra parte, al suo seguito, sempre un passo indietro e non al suo posto e mai per guidare e fare i salvatori. Se ci vai  da “traditore”, tra i rom, stabilisci uno scambio ineguale, in perdita; ti ci insedi come  infima minoranza immigrata ed esule, in una società remota da quella di origine. E  realizzi  un rapporto rovesciato rispetto a quello che i rom hanno con la società gagì; sei tu l’ospite, l’immigrato, lo straniero, il nomade di passaggio, l’irregolare, dai costumi diversi e strani, quello che non ha la loro lingua e da cui non ci si può attendere molto, perché precario ed estraneo alla loro cultura, anche se vieni accolto e trattato con gentilezza e rispetto. Sei tu il  barbaro. Bisogna andarci liberi, senza progetti di nessun tipo per e sui rom. Ma non devi neanche diventare il loro gagiò.  E il rapporto con loro deve restare gratuito e senza secondi fini che vadano oltre il rapporto stesso. In altre parole chi “tradisce”  non deve “occuparsi” dei rom. E neppure preoccuparsene. C’è già troppa gente, oltretutto, che lo fa e che cerca di redimerli, salvarli, civilizzarli. 

Non sono il Paradiso Terrestre

Non vado in cerca del paradiso terrestre né di un’umanità speciale. I rom donne e uomini come tutti; hanno solo stili di vita diversi da quelli diffusi tra noi, ma in questi giochi sulle loro teste e contro di loro, ci mettono anche del loro: i loro errori, opportunismi, calcoli sbagliati, egoismi,  rivalità e divisioni al loro interno, paure e frustrazioni, pregiudizi, che contribuiscono a far crescere le diffidenze e il clima di ostilità intorno a loro, tra pregiudizi positivi e negativi. Sarebbe un errore idealizzare a vita dei rom. Sono donne e uomini come tutti. E ci sono  molte sofferenze, molte forme di oppressione, molta ingiustizia e violenza nella realtà quotidiana di rom e sinti, subite e fatte subire. Ci sono disuguaglianze insopportabili, forme di prepotenza e di soggezione gravi (e non mi riferisco ai bambini che vanno a chiedere l’elemosina). In poche parole è molto faticoso vivere da rom e non ci sono per loro maggiori garanzie di una vita disinteressata, altruistica, solidale di quante non ce ne siano per noi e lo stereotipo del rom fiero, generoso e libero non ha molto a che fare con la realtà. Non ci sono insomma molti zingari felici.

Una visione minoritarie e originale del mondo

Eppure, al di là di tutto, hanno elaborato per tutti, anche per noi, senza volerlo, una visione minoritaria, originale, del mondo; strategie e modi per sopravvivere e salvarsi che non hanno bisogno, prescindono della potenza e dal potere istituzionalizzati. Fondamentale, la loro dimensione conviviale, se così si può dire, dell’esistenza, che diventa profetica e critica del presente, la sola che possa permetterci di “possedere la terra” e di salvarla, e anche la loro “deconnessione”, cioè il loro rifiuto di accogliere la nostra civiltà e i suoi modelli di vita all’interno della loro, senza riadattarseli, modificandoli  e stravolgendoli, sottraendosi cioè ai modelli di produzione, di lavoro, di consumo e di rapporti con gli uomini e l’ambiente propri delle società stanziali industriali e postindustriali. In altre parole: i loro stili di vita, totalmente altri rispetto ai nostri e con caratteristiche non esportabili facilmente in altre situazioni, attestano però che l’uomo può organizzare in positivo, la sua esistenza, nella società occidentale dei consumi (ma non solo in questa, anche se è rispetto a questa che i loro modelli ci interessano), in modo “deconnesso” (Samir Amin),  senza farsi fagocitare da essa. Anche se potrebbe darsi che, alla fine, i rom  decidano o siano costretti ad aderire senza riserve ai nostri modelli di vita, così invasivi e forti; è già successo – delle 12 tribù di Israele, ne tornarono solo due da Babilonia -, ma per ora non sembra.
Abituati a resistere Rom e sinti, non devono essere civilizzati e salvati da niente, hanno solo bisogno di essere rispettati in amicizia, riconosciuti come umanità a pieno titolo che, come il resto degli uomini, ha un suo patrimonio culturale, spirituale e di esperienze da poter scambiare alla pari. Sono loro, semmai,  che ti stanno salvando, nel momento stesso in cui, con grande presunzione, pensi di aver qualcosa da insegnargli. Sono loro che ti insegnano qualcosa, senza saperlo e senza intenzione, a relativizzarti, non perché siano portatori di chissà quale saggezza antica e segreta o di qualche autenticità e spontaneità ancestrali, ma, perché rifiutano di diventare come noi, i nostri modelli e progetti, non opponendosi esplicitamente e direttamente, ma vanificandoli rendendoli impraticabili, per il solo fatto di restare se stessi. Sono abituati a resistere.

 
Cosa vado a farci? Niente

Ecco perchè a chi mi domanda cosa vado a fare tra i rom e i sinti e cosa faccio per loro, rispondo. – “Niente”. Non faccio niente e non voglio fare niente. Mi piace frequentarli, prendere il caffè con loro, partecipare a qualche festa, chiacchierare di tutto e niente, stare ad ascoltarli, scoprire come loro vedono il mondo, prendere coscienza della diversità e della marginalità che riguardano anche me, senza scandalizzarmi, senza pretendere di insegnargli niente, senza volerli redimere, senza volerli alfabetizzare, senza volergli imporre la mia morale. Solo se c’è da difendere dei diritti… Certo dietro tutto questo c’è anche la mia storia
personale, che forse mi ha aiutato a fare queste scelte. Quando vado in un campo, sono ospite e in casa d’altri, e devo avere ben chiaro questo. Devo rispettare chi mi ospita, la sua casa, i suoi modi di vivere, i suoi segreti. Quello che vedo, sento, capisco deve restare tra me e me, per rispetto; non devo  divulgarlo, non devo comunicarlo ad altri. Come quando si va in casa di amici, se vedo qualcosa che non mi piace, non per questo lo vado a dire in giro e mi permetto di criticare i miei ospiti. Sono io che devo adattarmi a loro, per amicizia, altrimenti posso decidere di non andarci più. Quando vado da loro, so di restare gagiò, diverso, ma scelgo di essere solidale con loro, con i loro diritti fondamentali, il loro diritto alla libertà e all’autodeterminazione, come con degli amici. Non faccio progetti su di loro e comunque sia, anche un eventuale fare, lo può insegnare solo la frequentazione. M. P.

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la saggezza umana ed evangelica di p. E. Bianchi

“sui gay la Chiesa è meglio che taccia”

p. Enzo Bianchi

 

 enzo bianchi il priore della comunità monastica interconfessionale di Bose già in passato si era espresso contro “l’ipocrisia religiosa di una chiesa complice con la xenofobia“: questa volta alla sua Chiesa suggerisce, non proprio pacatamente, di “tacere” su questioni delicatissime come l’omosessualità

intervenendo all’Assemblea pastorale diocesana di Bolzano, Enzo Bianchi ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto scalpore: come riferisce l’Adige, parlando dei divorziati risposati il religioso ha spiegato che

“se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto”

non solo:

“in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere”

durissime le parole riservate alla Chiesa sulla questione dell’omosessualità:

“Se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile – ha chiosato Bianchi – nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere”.

 

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