la colpa dei bambini rom

“Bambini che hanno colpa di essere rom”

Moni Ovadia a fianco del popolo rom

Ovadia

 

 

 

 

 

Moni Ovadia , in occasione della sua presenza all’Internet Festival di Pisa, dove ha presentato in collaborazione con I Sacchi di Sabbia  lo spettacolo “Karl Marx reloaded”ha voluto dare un suo contributo per il blog in difesa dei diritti dei bambini e delle bambine della Bigattiera.
“Una volta di più si dimostra che nel paese della mamma i bambini non sono tutti uguali. Ci sono bambini la cui colpa è quella di esistere per quello che sono, cioè rom. E magari hanno anche la colpa di essere in sopra numero. Quindi a loro sono negati servizi di trasporto per la scuola, acqua potabile ed elettricità. Questo accade alla Bigattiera campo “nomadi” a Pisa, città che vanta tradizioni di civiltà e di sapere particolarmente sentite e malgrado un Odg, approvato all’unanimità dal Consiglio Comunale che prevedeva l’erogazione dei servizi mancanti.
Perché questa violazione dei più elementari diritti dei bambini? Perché questa patente violazione dei nostri principi costituzionali? Questa logica umilia prima di tutto la nostra dignità di italiani.”
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la festa di Dio “per i cattivi e per i buoni”

Dio preparatore di feste

piace così, a p. Agostino Rota Martir, leggere il vangelo: non da una canonica ma da un ‘villaggio’ rom, e guardare a Dio e definirlo come ‘preparatore di feste’, non, moralisticamente, solo per buoni, ma per tutti i suoi figli, ‘per i cattivi e per i buoni’, così come ci dice Gesù nel vangelo di questa domenica, scartando solo chi si mette fuori contesto da solo perché incapace di aprirsi alla gioia della festa

 

p. agostino

qui di seguito il suo commento al vangelo della domani:

 

 

Dalla vigna al Banchetto di nozze.

Dal lavoro alla festa.

Dai campi ben allineati di una vigna ai crocicchi delle strade.

 

Noi preti in genere, ci troviamo più a nostro agio con l’invito al lavoro nella vigna, un po’ meno con quello della festa. Purtroppo, lo riconosco vero anche in me!

Ci affascina di più una fede “operosa” e dinamica rispetto a quella che emerge da questa parabola: un re che invita tutti alle nozze del Figlio, ma proprio tutti.

Noi abbiamo la tendenza a catalogare: buoni e cattivi, giusti e colpevoli, credenti e atei.. possibilmente gli uni da una parte, gli altri dall’altra, in posti ben separati come al teatro o allo stadio, giusto per non alimentare confusione.

Insomma una fede lineare, con un’identità forte e chiara, quasi granitica sempre pronta a dare risposte sicure ad ogni domanda.

 

Ecco, ci va un pochino stretto quel Dio che scombussola il tavolo delle nostre regole, che cambia facilmente le carte in tavola e che perde tempo ad organizzare feste e banchetti ad ogni occasione.

 

La festa invita a ridere con i poveri, a cantare con gli emarginati, a giocare con i delinquenti..chi non ha compreso che invitare alla tavola della festa è più importante che dar da mangiare, chi non ha recepito che il tempo delle condivisioni, della gratitudine del sorriso è più importante che il dono di beni di consumo, allora si, ciò è molto triste.“ (Claude Dumas, sacerdote Sinto Francese)

 

“Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?” Appunto senza la gioia, il sorriso della festa, la festosità dello stare insieme..

 

Perché, me lo chiedo spesso, noi siamo più solleciti a organizzare pranzi e cene per i poveri, per i senza tetto, per i barboni.. ma spesso disertiamo le feste preparate dai poveri?

Diamo la priorità ad altri impegni, forse più importanti (preparare corsi di formazione per operatori pastorali..) O forse, per timore di essere trovati senza l’abito nuziale?

 

Di certo Dio sorriderà di noi e della nostra convinzione di stare a lavorare per il suo regno, mentre Lui partecipa alla festa, mangiando e danzando la gioia di stare insieme ai suoi prediletti.

 

 

 

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il commento al vangelo della domenica

TUTTI QUELLI CHE TROVERETE CHIAMATELI ALLE NOZZE 

Commento al Vangelo della domenica ventottesima del tempo ordinario (12 ottobre) di p. Alberto Maggip. Maggi

Mt 22,1-14

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: «Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

La parabola dei vignaioli assassini ha scatenato l’ira dei sacerdoti e dei farisei che, scrive l’evangelista, capirono che parlava di loro. Nessun segno di pentimento, né di conversione, ma cercano di catturarlo per eliminarlo. Ebbene di fronte a questa minaccia Gesù, non solo non indietreggia, ma rincara la dose con al terza e ultima parabola con la quale Gesù polemizza con le autorità giudaiche. Queste tre parabole sviluppano progressivamente il tema di fondo, la denuncia contro le massime autorità religiose che si mostrano refrattarie e ostili al disegno di Dio. In questa parabola Gesù dice il perché, qual è il motivo di questa ostilità: la convenienze, l’interesse.

Sentiamo allora il vangelo di Matteo, cap. 22 versetti 1-14. Gesù riprese a parlare loro, ai sommi sacerdoti, agli anziani e anche ai farisei, con parabole. “Il regno dei cieli”, è importante che Gesù parli di un regno dei cieli, non di un regno nei cieli, non sta parlando dell’aldilà ma della nuova società alternativa che Dio vuole inaugurare su questa terra. “E’ simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio”. Ancora una volta tornano un padre e un figlio e questa volta Gesù paragona il regno dei cieli, cioè il regno di Dio, questa nuova alternativa che lui è venuto a proporre, con la festa più bella e gioiosa che c’è nella vita degli individui, una festa di nozze. “Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire”. Ebbene il re non si scoraggia, manda altri servi e ora comprendiamo il motivo di questo rifiuto. E’ strano che si rifiuti di partecipare a una festa bella e gioiosa. “Dite agli invitati: ‘Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!’” Cerca di attirarli con l’aspetto più attraente della festa, cioè una grande mangiata. In tempi di grande fame, in tempi di grande miseria, si aspettavano le nozze per abbuffarsi. Ma Gesù dice: “Quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari”. Rifiutano la proposta de regno per il proprio interesse. Gesù smaschera l’atteggiamento dei capi dell’istituzione religiosa che tutto quello che fanno è per la propria convenienza. Partecipare a un pranzo di nozze non è produttivo, non conviene, e, a una proposta di vita, rispondono con una di morte. “Altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero”. E’ la sorte dei profeti inviati dal Signore. Quindi a una proposta di pienezza di vita, come le nozze, rispondono con una di pienezza di morte. “Allora il re si indignò: mandò le sue truppe”, e qui Gesù usa il linguaggio dei profeti, un linguaggio colorito e sta annunziando quella che sarà la sorte di Gerusalemme, che uccide i profeti, che ha seminato violenza e sarà travolta dalla violenza. “Fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città”. E’ la sorte che capiterà a Gerusalemme. Ma ecco la parte positiva. “Poi disse ai suoi servi: ‘La festa di era pronta, ma gli invitati non ne erano degni; ora andate …’” e qui è importante la traduzione, trovo scritto “i crocicchi delle strade”, ma non si tratta di crocicchi. Il termine greco indica il punto finale di un territorio, là dove le strade romane terminavano e iniziavano i sentieri di campagna. Era il punto finale del territorio, ma l’inizio di altri territori. Allora Gesù in questa parabola mette in bocca al re queste parole, di andare alle periferie, di questo si tratta. Le periferie è dove vivono gli esclusi, gli emarginati. E’ un’indicazione che l’evangelista da ai missionari per sapere dove orientare la loro predicazione. Andare nelle periferie, dato che ci sono le persone emarginate, i lontani, i rifiutati. “’E tutti quelli che troverete chiamateli alle nozze’”, tutti, non c’è più un popolo eletto, ma c’è una chiamata universale. “Usciti per le strade i servi radunarono tutti quelli che trovarono”, è interessante che Gesù parli prima di cattivi e poi di buoni, non c’è un giudizio, l’amore di Dio è offerto a tutti. L’amore di Dio non è concesso come un premio per i meriti delle persone, ma come un regalo per i loro bisogni. “Cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.  “Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale”. La veste nel Nuovo Testamento e nel libro dell’Apocalisse, indica le opere buone delle persone, e il re rimprovera questa persona che non ha l’abito, di cui vedremo ora il significato. “Gli disse: ‘Amico, come mai sei entrato qui senza abito nuziale?’ Quello ammutolì”. Qual è il significato? Non basta entrare nella sala del banchetto. L’invito è aperto a tutti, ma una volta entrati occorre cambiare. Gesù ha messo la conversione come condizione per appartenere al regno di Dio. A una società basata sui valori dell’avere, del salire, del comandare, Gesù offre una possibilità alternativa di una società diversa dove ci sia la condivisione, lo scendere e il servire. Questo è l’abito, quindi non basta entrare, ma bisogna cambiare. “Allora il re ordinò ai servi: ‘Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”’. Adoperando le immagini tipiche e il linguaggio colorito dei profeti della scrittura, Gesù parla della frustrazione per la perdita di un’occasione unica nella propria vita. La conclusione: “Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”. Per molti si intende tutti. L’amore di Dio è rivolto a tutti, ma purtroppo ci sono poche persone che l’accolgono in pienezza.

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il principio ‘misericordia’ per una chiesa davvero evangelica

 

Sobrinouna bella riflessione del teologo latinoamericano J. Sobrino:

La Chiesa samaritana e il Principio- Misericordia

Jon SOBRINO

San Salvador

Il tema di “altre” caratteristiche della Chiesa, presenta qualcosa d’impattante e molto necessario. L’impatto consiste nel parlare di “altre” caratteristiche, come se quelle di “ una santa cattolica e apostolica” non bastassero per denotare la vera Chiesa di Gesù. Quello che è necessario è che queste “altre caratteristiche” ci introducono – in modo diverso – in quello che è fondamentale: una Chiesa vera è, innanzi tutto, una Chiesa che “somiglia a Gesù”, e tutti intuiamo che senza questa somiglianza con Lui non saremmo la sua Chiesa né questa si farà notare come Chiesa di Gesù. Com’è, allora, una Chiesa che assomiglia a Gesù? Assomigliare a Gesù è riprodurre la struttura della sua vita. Secondo i vangeli, questo significa incarnarsi cioé farsi carne reale nella storia reale. Significa portare a termine una missione, annunciare la buona notizia del Regno di Dio, iniziarlo con segni di ogni tipo e denunciare la spaventosa realtà dell’ anti-regno. Significa opporsi al peccato del mondo, senza rimanere a guardarlo solamente da fuori – peccato, che continua manifestando la sua forza maggiore nel fatto che produce morte a milioni di esseri umani. Significa, per ultimo, risorgere, avendo e trasmettendo agli altri vita, speranza e gioia. Ció che dà coerenza alla struttura della vita di Gesù è qualcosa che può essere pensato in diverse forme: la sua fedeltà, la sua speranza, il suo servizio… Ovviamente nessuna di queste realtà è escludente delle altre, ma tutte sono fra loro complementari, e ciascuna di esse potrebbe servire per unificare la vita di Gesù. Vogliamo proporre in questo articolo il principio che ci sembra più strutturante della vita di Gesù: la misericordia; principio che deve essere anche della Chiesa.

1. Il Principio-Misericordia

Il temine “misericordia” bisogna comprenderlo bene, perché può connotare cose vere e buone, però anche cose insufficienti e pericolose: sentimento di compassione (con il pericolo che non sia accompagnato da una prassi), “opere di misericordia” (con il pericolo di non analizzare le cause della sofferenza), sollievo delle necessità individuali (con il pericolo di trascurare la trasformazione delle strutture), atteggiamenti paternalisti ( con il pericolo del paternalismo)… Per evitare limitazioni al concetto “misericordia” e i malintesi a cui si presta, non parliamo semplicenente di “misericordia”, ma del “Principio- misericordia” allo stesso modo che Ernest Bloch non parla semplicemente di “speranza”, come una fra le molte realtà categoriali, ma del “Pricipio- Speranza”. Diciamo che per “Principio- Misericordia” intendiamo qui uno specifico amore che è all’origine di un processo, che peró rimane presente e attivo in tutto il processo, gli conferisce una determianta direzione e ne configura i diversi elementi. Questo “Principio- Misericordia” – crediamo – è il principio fondamentale dell’azione di Dio e di Gesù, e deve esserlo della Chiesa.

“In principio era la misericordia”

Si sa che all’origine del processo salvifico è presente un’azione amorosa di Dio:” Ho visto l’ oppressione del mio popolo in Egitto, ho ascoltato il suo grido contro gli oppressori, conosco le sue sofferenze e sono sceso per liberarlo” (Es3,7s). È fino a un certo punto secondario stabilire in che termine dovrei descrivere questa azione di Dio, quantunque sia più adeguato denominarla “liberazione”. Ció che in questo momento ci interessa sottolineare è la struttura del movimento liberatore: Dio ascolta i clamori di un popolo sofferente e, per tale ragione, si decide a intrapendere l’azione liberatrice. 

E’ questa azione di amore così strutturata che chiamiamo “misericordia”. Di essa c’è da dire :

a) che è una azione o, più esattamete, una re-azione davanti alla sofferenza di altri ed altre che facciamo nostra facendola arrivare fino alle nostre viscere e cuore (sofferenza, in questo caso, di tutto un popolo, oppresso ingiustamente e ai livelli minimi dell’ esistenza);

b) che questa azione è motivata solo da questa sofferenza. La sofferenza altrui interiorizzata è, allora, principio della reazione di misericordia, però questa, a sua volta, si trasforma in principio che configura tutta l’azione di Dio, perché

a) non solo è all’origine, ma rimane come costante fondamentale di tutto l’A.T (la parzialità di Dio verso le vittime per il solo fatto di essere tali, l’attiva difesa che fa di loro e il suo disegno liberatore a loro favore);

b) da essa procede la logica interna della storicizzazione dell’esigenza della giustizia come la denuncia di chi produce l’ingiusta sofferenza;

c) tramite questa azione – non solo in occasione di essa – e di successive azioni di misericordia si rivela Dio stesso;

e d) l’esigenza fondamentale per l’ essere umano e, specificamente, per il suo popolo è che abbia la stessa misericordia di Dio con gli altri e, in tal modo, si renda affine a Dio. Parafrasando la Scritura, possiamo dire che, se nel principio absoluto-divino «è la Parola» (Gv 1,1) e tramite essa sorse la Creazione (Gen 1,1), nel principio assoluto storico- salvifico sta la Misericordia, e che questa si mantiene costante nel processo salvifico di Dio.

La misericordia secondo Gesù

Questa azione fondante e di principio che é la misericordia di Dio è quella che appare storicizzata nella pratica e nel messaggio di Gesù. Il misereor super turbas non è solo un atteggiamento “locale” di Gesú, ma quello che configura la sua vita e la sua missione e segna il suo destino. E’ anche quello che configura la sua visione di Dio e dell’essere umano.

a ) Quando Gesù vuole mostrare chi è un vero e autentico essere umano, racconta la parabola del buon samaritano. È un momento solenne nei vangeli che va oltre la curiosità di sapere qual è il comandamento più grande. Si tratta, in tale parabola, di dirci in una parola ció che è l’essere umano: l’essere umano vero e autentico è quello che vede un ferito lungo il cammino, reagisce e lo aiuta facendo tutto quello che gli è possibile. Non ci dice la parabola ciò che disse il samaritano nè con che finalità ultima stava agendo. L’ unica cosa che ci dice è che fece ció “ mosso dalla misericordia”. L’essere umano vero e autentico è, allora, chi interiorizza nelle sue viscere la sofferenza altrui – nel caso della parabola, la sofferenza ingiustamnte inflitta – in modo tale che questa sofferenza interiorizzata diventa parte della stessa persona e si converte in principo interiore, primo e ultimo di azione. La misericordia – come re-azione – diventa azione fondamentale dell’umanitá vera e autentica. Questa misericordia non è, allora, una fra le molte altre realtà umane, ma quella che definisce direttamente l’essere umano. Anche se non basta per definirlo, giacché l’essere umano è anche un essere del sapere, dello sperare e del celebrare; però, è assolutamente necessaria. Essere umani è, per Gesù, reagire con misericordia; altrimenti, l’essenza dell’umanità, rimane viziata alla radice come accadde con il sacerdote e il levita, che “passarono di lato”. Questa misericordia è anche la realtà con la quale nei vangeli si definisce Gesù, il quale con frequenza cura dopo la supplica : “abbi misericordia”, e agisce perchè sente compassione della gente. Con questa misericordia si descrive anche Dio nella parabola del figlio prodigo, quando, lo vede – mosso dalla misericordia – reagisce, lo abbraccia e organizza la festa.

b) Se con la misericordia si descrive l’essere umano, Gesú Cristo e Dio, siamo, senza dubbio, davanti a qualcosa di realmente fondamentale. È l’amore, potremmo dire con tutta la tradizione cristiana; però c’è da aggiungere che è una specifica forma di amore: l’amore prassi che sorge davanti alla sofferenza di altri ingiustamente inflitta  per sradicarla, per nessuna altra ragione se non l’esistenza stessa della sofferenza e senza che esista nessuna scusa per non farlo. Elevare come principio fondante questa misericordia può sembrare poca cosa; però, secondo Gesù, senza questo Principio-Misericordia non puó esserci né umanità né divinità e, come tutti i minimi, è un vero massimo. L’importante è che questo minimomassimo è il primo e l’ultimo: non esiste niente precedente alla misericordia per motivarla, né esiste niente oltre per relativizzarla o allontanarla.

In modo semplice, si può valutare ciò nel fatto che il samaritano sia presentato da Gesù come esempio di chi compie il comandamento dell’amore al prossimo; però nel racconto della parabola non appare per niente che il samaritano soccorra il ferito per compiere un comandamento, per eccelso che sia, ma, semplicemente, “mosso dalla misericordia”.

Di Gesù si dice che cura, e a volte lo si presenta rattristato perché i guariti non lo ringraziano; però in nessun momento appare che Gesù realizzi le cure per ricevere ringraziamento (nè perché pensino alla sua peculiare realtà o al suo potere divino), ma “mosso dalla misericordia”.

Del Padre celeste si dice che accolse il figlio prodigo; però non si insinua che quella fosse una sottile tattica per ottenere quello che presumibilmente gli interessava ( che il figlio confessasse i suoi peccati e, in tal modo, ponesse ordine alla sua vita), ma che agisce semplicemete “mosso dalla misericordia”. Misericordia è allora, il primo e l’ultimo, non è semplicemente l’esercizio categoriale della chiamata “opera di misericordia”, quantunque possa e debba manifestarsi anche in questa. È qualcosa molto più radicale: è un atteggiamento fondamentale davanti alla sofferenza altrui, in virtù della quale si reagisce per estirparla, per la unica ragione che esiste tale sofferenza e nella convinzione che, in questa reazione davanti all’ essere della sofferenza altrui, si gioca, senza scappatoie possibili il proprio essere.

c) Nella parabola si esemplifica come la realtà storica sia attraversata dalla mancanza di misericordia – manifestata nel sacerdote e nel levita – il che è già spaventoso per Gesù; però, inoltre gli evangelisti ci mostrano che la realtà storica è configurata dall’’antimisericordia attiva, che ferisce e dà morte agli esseri umani, e minaccia e uccide anche chi si basa sul “Principio- Misericordia”. Per il fatto di essere misericordioso –e non per essere un “liberale” – Gesù antepone la cura dell’uomo dalla mano secca all’ osservanza del sabato. La sua argomentazione è ovvia e inattaccabile:” é lecito fare di sabato il bene al posto del male, salvare una vita al posto di perderla?” (Mc 3,4). Tuttavia i suoi avversari, descritti, certamente, con termini antitetici a Gesù “ la durezza del cuore”(v 5)”- non solo non si convincono, ma sono contro Gesù, e così il racconto conclude in modo tremendo:” e quando uscirono, i farisei confabulavano con gli erodiani contro di lui per vedere come ucciderlo” (v 6). Sia o no anacronistica la cronologia di questo passaggio, fondamentale è che mostra l’esistenza della misericordia e dell’anti-misericordia. Quando la prima si riduce a sentimenti o a opere di misericordia, l’anti-misericordia la tollera; però quando la misericordia è elevata a Principio e subordina il sabato allo sradicamento della sofferenza, allora l’anti-misericordia reagisce. Anche se queste parole ci possono sembrare tragiche, é sempre importante ricordarci che Gesú é morto ammazzato per aver esercitato la misericordia fino alla fine. La misericordia è, allora, misericordia che si realizza nonostante e contro l’anti-misericordia.

d) Nonostante l’ antimisericordia, Gesù proclama: ”Beati i misericordiosi”. La ragione per cui Gesù nel vangelo di Matteo usi la beatitudine della misericordia sembra andare nella linea della ricompensa “otterranno misericordia”. Però la ragione è più profonda e intrinseca. Chi vive secondo il “Principio-Misericordia” realizza il più profondo dell’essere umano, diventa affine a Gesù – “ l’ homo verus” del dogma – e al Padre celestiale.

In questo consiste, possiamo dire, la felicità che offre Gesù: “Fortunati, benedetti voi, quelli che esercitate la misericordia, quelli dagli occhi limpidi, quelli che lavorano per la pace, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i perseguitati per causa di essa, i poveri…”. Scandalose però illuminanti queste parole. Gesù vuole che gli esseri umani siano felici, e il simbolo di questa felicità consiste nello stare assieme gli uni con gli altri, nella tavola condivisa. Però fino a che non si realizza nella storia la grande tavola fraterna del Regno di Dio, bisogna praticare la misericordia, e questo – dice Gesù – produce allegria, gioia, felicità…

Il “Principio-Misericordia”

Queste brevi riflessioni sulla misericordia possono aiutare a comprendere quello che intendiamo per “Principio-Misericordia”. La misericordia non è l’unico principio che esercita Gesù, però è quello che sta nella sua origine e configura tutta la sua vita, la sua missione e il suo destino. A volte appare esplicitamente la parola “misericordia”, e a volte no. Però, indipendentente da ciò, sempre appare come base dell’agire di Gesù la sofferenza della maggioranza, dei poveri, dei deboli, dei privati della dignità, davanti ai quali si commuove piùprofond intimo del corpo di Gesú. E queste viscere commosse sono quelle che configurano tutto ció che lui è: il suo sapere, il suo sperare, il suo agire e il suo celebrare. Così, la sua speranza è quella dei poveri che non hanno speranza e ai quali annuncia il Regno di Dio. La sua prassi è in favore dei piccoli e degli oppressi ( miracoli di guarigione, espulsione dei demoni, accoglienza dei peccatori…). La sua “teoria sociale” è guidata dal principio che c’è da sradicare la sofferenza massiva e ingiusta. La sua allegria è giubilo quando i piccoli capiscono, e la sua celebrazione è sedersi alla tavola degli emarginati. La sua visione di Dio, infine, è quella di un Dio difensore dei piccoli e misericordioso con i poveri. Nell’orazione per antonomasia, il Padre Nostro, è loro che invita a chiamare Dio con il nome di Padre. Non c’è spazio adesso per dilungarsi in questo. Solo lo accenniamo per comprendere bene quello che vogliamo dire con il “Principio- Misericordia” che informa tutte le dimensioni dell’essere umano: quella della conoscenza, della speranza, della celebrazione e , ovviamente, della prassi. Ognuna di esse ha la sua autonomia, però tutte possono e devono essere configurate e guidate da un principio fondamentale. In Gesù – come nel suo Dio – pensiamo che questo principio sia quello della misericordia. Per Gesù, la misericordia è all’origine del divino e dell’umano. Secondo questo principio si regge Dio e deve reggersi l’ umanitá, e a questo principio si soggettano tutti gli altri principi. Mi sembra importante affermare che questo principio non é pura ricostruzione speculativa e si vede chiaramente nel decisivo passaggio di Mt 25: chi esercita la misericordia – sia qual fosse l’esercizio delle altre dimensioni della sua realtà umana – “ si è salvato”, ha raggiunto per sempre l’essere umano vero e autentico. Il giudice e i giudicati sono davanti alla Misericordia, e solo davanti ad essa. Bisogna aggiungere che il criterio con cui si impiega il giudizio non è arbitrario: lo stesso Dio si è manifestato come chi reagisce con misericordia al clamore degli oppressi, e per questo la vita degli esseri umani si decide in virtù della risposta a tale clamore.

2.La Chiesa della misericordia

Questo “Principio- Misericordia” deve attuarsi nella Chiesa di Gesù; e il pathos della misericordia è quello che deve informarla e configurarla. Questo vuol dire che anche la Chiesa, in quanto Chiesa, deve rileggere la parabola del buon samaritano con la stessa aspettativa, con lo stesso timore e tremore con la quale l’ascoltarono gli uditori di Gesù: questo è fondamentale su questo si giudica tutto. Molte altre cose deve essere la Chiesa; però se non si passa per la misericordia della parabola, se non è, prima di tutto, buona samaritana, tutte le altre cose saranno irrilevanti e potranno anche essere pericolose se si fanno passare per il suo principio fondamentale.

Vediamo ora in alcuni punti significativi come il “Principio-Misericordia” forma e configura la Chiesa.

Una Chiesa de-centrata dalla misericordia

E’ un problema fondamentale per la Chiesa determinare qual è il suo luogo. La risposta formale è conosciuta: il suo luogo è il mondo, una realtà logicamente esteriore ad essa. Bene, l’esercizio della misericordia pone la Chiesa fuori di se stessa e in un luogo preciso: lì dove accade la sofferenza umana, lì dove si ascoltano i clamori dell’umanità (“Were you there when they crucified my Lord?”, come dice il canto dei neri oppressi degli Stati Uniti che vale più di molte pagine di ecclesiología). Il luogo della Chiesa è il ferito nel cammino – coincida o no questo ferito, con il mondo interecclesiale – il luogo della Chiesa è “l’altro”, è nell’alterità della sofferenza altrui, particolarmente quella di massa, crudele ed ingiusta. Collocarsi in questo luogo non è per niente facile per la cosí detta “Chiesa istituzionale” però neanche per la chiamata “Chiesa progressista” nè per i puramente progressisti in essa. Per fare un esempio attuale: è urgente, giusto e necessario esigere il rispetto dei diritti umani e la libertà nella Chiesa, anzittutto per ragioni etiche, perché sono segni di fraternità – segni, pertanto, del Regno di Dio – e perché senza di loro la Chiesa non si rende credibile nel mondo di oggi. Però non bisogna dimenticare che con ciò restiamo, logicamente, all’interno della  Chiesa. Con priorità logica, c’è da chiedersi come vanno i diritti della vita e della libertà nel mondo. Questo secondo aspetto è retto dal “Principio-Misericordia” e cristianizza il primo, però non necessariamente è il contrario. Il cristianesimo “misericordioso” può essere progressista, però il chiamato “cristianesimo progressista”, delle volte, non è misericordioso. Spero che si sia compreso bene quello che vogliamo dire con questo esempio: è urgente l’umanizzazione della Chiesa nel suo interno, però è basilare che la Chiesa si pensi a partire dall’esterno, dal “cammino” nel quale si incontra il ferito. È urgente che il cristiano, il sacerdote e il teologo, per esempio, reclamino la loro legittima libertà nella Chiesa, oggi oppressa, però è più urgente reclamare la libertà di milioni di esseri umani che non hanno semplicemente la libertá di sopravvivere davanti alla povertà, di vivere resistendo alla repressione, e neanche di dichiedere giustizia o una semplice inchiesta per i crimini dei quali sono vittime. Quando la Chiesa esce da se stessa per entrare nel cammino nel quale si incontrano i feriti, allora si decentra realmente e, così, assomiglia realmente a Gesù, il quale non predicò se stesso, ma offrì ai poveri la speranza del Regno di Dio. Riassumendo: il ferito nel cammino è quello che de-centra la Chiesa, la Chiesa che si converte all’altro ( e al radicalmente altro) . La reazione della misericordia é ció che verifica se la Chiesa si é de-centrata e in che misura lo ha fatto.

La storicizzazione dei clamori e della misericordia

Sempre e in ogni ogni parte ci sono molti tipi di ferite, fisiche e spirituali. La loro grandezza e profondità varia per definizione, e la misericordia deve mettersi nel cammino spirituale della re-azione (come risposta profetica all’ azione dell’ antimisericordia) per sanarle tutte. Nonostante ció la Chiesa, non dovrebbe cadere nella universalizzazione delle ferite, come se tutte manifestassero gli stessi clamori, né dovrebbe invocare detta universalizzazione dicendo che la Chiesa stessa ha sempre propiziato le opere di misericoria, il che è certo. Ogni sofferenza umana merita assoluto rispetto ed esige risposta, però non significa che non si debba dare una priorità differente alle differenti forme delle ferite del mondo di oggi. Indubbiamente, in ogni Chiesa locale ci sono ferite specifiche tanto fisiche come spirituali, e tutte devono essere guarite e fasciate. Però, già che la Chiesa è una e cattolica – come si dice della vera Chiesa – c’è da vedere, prima di tutto, come va questo ferito che è il mondo nella sua totalità. Quantitavamente, la maggior sofferenza, è causata dall’ impoverimento, che porta alla morte e alla mancanza di dignitá che ne è la conseguenza; questa continua a essere la maggiore ferita. E questa grande ferita appare con più radicalità nel terzo mondo piú che nel primo. Quantunque sia teoricamente conosciuto, bisogna ripeterlo: per il semplice fatto di nascere in Salvador, o a Haiti, o in Bangladesh, o in Chad – come diceva Ellacuria – gli umani hanno moltissima meno dignità che quelli nati negli Stati Uniti, in Germania o in Spagna. Questa è oggi la ferita fondamentale; e questo significa – in linguaggio cristiano – che ció che è ferita è la stessa creazione di Dio. Questa grande ferita è la maggiore ferita per qualsiasi chiesa locale, non solo per la grandezza del fatto in se stesso, ma anche per la corresponsabilità in essa di qualsiasi istanza locale (governo, partiti, sindacati, esercito, università… e anche le chiese). Se una Chiesa locale non bada a questa ferita mondiale, non potrà dire che è retta dal “Principio – Misericordia”.

La Misericordia conseguente fino alla fine

Alla Chiesa, come ad ogni istituzione, costa reagire con misericordia, e le costa molto più rimanere in essa. In termini teorici, le costa mantenere la supremazia del Regno di Dio sopra se stessa, quantunque giustifichi questa non inversione di valori affermando che mantenere l’esistenza stessa della Chiesa è già un grande bene, perché – alla lunga – la Chiesa sempre renderá piú umano il mondo e propizierà il Regno di Dio. In termini semplici, diciamo che costa mantenere la supremazia della Misericordia sull’egocentrismo, che inevitabilmente finisce in egoismo. Ecco allora la tentazione di passare al largo del sacerdote e del levita. Però costa mantenere la Misericordia, soprattutto, quando, per difendere il ferito, ci si scontra con gli abitualmente dimenticati della parabola, gli “assalitori”, e quando questi reagiscono. In questo mondo si applaudono o si tollerano “opere di misericordia”, però non si tollera una Chiesa configurata dal “Principio – Misericordia” che la porti a denunciare gli assalitori che producono vittime, a smascherare la menzogna con la quale si coprono le oppressioni e ad incoraggiare le vittime a liberarsi di coloro che assalgono, ammazzano ed opprimono. In altre parole: gli assalitori del mondo anti- misericordioso tollerano che si curino le ferite, però non che si guarisca veramente il ferito né che si lotti perché questi non ritorni a cadere nelle loro mani. Quando questo succede, la Chiesa – come qualsiasi istituzione – è minacciata, attaccata e perseguitata, per cui, a sua volta, il martirio e la persecuzione verificano che la Chiesa sia retta dal “Principio – Misericordia” e non sia ridotta semplicemente alle “opere di misericordia”. E l’ assenza di tali minacce, attacchi e persecuzioni verifica, a sua volta, che la Chiesa avrà realizzato “opere di misericordia” però non è retta sul “Principio – Misericordia”. In America Latina, le due cose appaiono con tutta chiarezza. C’è una Chiesa che pratica le “opere di misericordia” però non accetta di agire con il “Principio – Misericordia”. E c’è un’altra Chiesa configurata da tale principio, la quale porta a propiziare quelle opere, ovviamente, però anche porta se stessa – in una profonda esperienza di amore che la rende assomigliante a Dio e a Gesù – oltre esse. Allora, praticare la misericordia è anche toccare gli idoli “gli dei dimenticati”- come adeguatamente li chiama J.L.Sucre – il che non significa che siano già superati, giacché continuano ben presenti, anche se nascosti. Sappiamo quando come Chiesa siamo retti dal Principio Misericordia, quando si fa esistenzialmente inevitabile la scelta di mantenere la misericordia come il primo e l’ultimo valore: se si corrono o no rischi, quali e quanti. Non serve essere ingenui, c’è da accettare con realismo il principio di sussistenza che configura la Chiesa, come qualsiasi istituzione. Però alcune volte c’è da manifestare la misericordia come condizione ultima e inderogabile, e ciò solo lo si fa contro tutto ció che agisce in anti-misericordia. Così lo ha fatto Mons. Romero. Non fu facile per lui cominciare con la misericordia, e meno facile fu rimanere in essa. Ciò gli valse dolorosi conflitti inter ecclesiali e rischiare il suo anteriore prestigio ecclesiale, la sua fama, l’incarico di arcivescovo e fino la propria vita. Dovette rischiare qualcosa di ancora più difficile e infrequente da rischiare: l’istituzione. Per mantenere la misericordia, vide distrutti gli strumenti istituzionali della Chiesa (la radio e la stampa dell’arcivescovado) e come veniva decimata la Chiesa istituzionale con catture, espulsioni e uccisioni dei suoi membri più importanti: sacerdoti, religiose, catechisti, delegati della parola… Nonostante ciò, Mons. Romero rimase fermo nel “Principio – Misericordia” e, in presenza degli attacchi all’istituzione, aggiunse queste parole, solo comprensibili nelle labbra di chi si regge sul “Principio – Misericordia” : “Se distruggono la radio e assassinano i sacerdoti, sappiano che niente di male ci hanno fatto”. Se si prende sul serio la misericordia come il primo e l’ultimo dell’ agire, allora la stessa Misericordia diviene conflittiva. In realtá nessuna persona é messa in prigione o è perseguitata semplicemente per fare “opere di misericordia”, e neanche lo avrebbero fatto con Gesù se la sua misericordia non fosse stata, il suo primo e l’ultimo. Quando lo è, infatti sovverte i valori ultimi della società e questa reagisce contro.

Diciamo, per ultimo, che porre come riferimento “ultimo” la misericordia suppone la disponibilità di essere chiamato “samaritano”. Oggi la parola suona bene, precisamente perché cosi Gesù chiamò l’uomo misericordioso; però ricordiamo che allora suonava molto male, e precisamente per quello la usò Gesù, per enfatizzare la supremazia della misericordia sulla concezione religiosa e per attaccare i religiosi senza misericordia. Tutto ciò continua ad accadere anche oggi. Coloro che esercitano misericordia non desiderarata dagli “assalitori”, vengono chiamati con tutti i titoli possibili e immaginabili. In America latina li chiamano – lo siano o no – “sovversivi”, “comunisti”, “liberazionisti”… e per questo continunano ad essere uccisi. La Chiesa della misericordia deve, allora, essere disponibile a perdere la fama nel mondo dell’antimisericordia; deve rendersi disponibile a essere “buona”, anche se la chiamano “samaritana”.

La Chiesa della misericordia si fa notare come la vera Chiesa di Gesù Molte altre cose possono e devono essere dette di una Chiesa retta dal “Principio – Misericordia”. La sua fede, anzittutto, sarà una fede nel Dio dei feriti nel cammino, Dio delle vittime. La sua liturgia celebrerà la vita dei senza-vita, la risurrezione di un crocifisso. La sua teologia sarà intellectus misericordiae (iustitiae, liberationis), e non altra cosa è la Teologia della Liberazione. La sua dottrina e la sua pratica saranno un denudarsi, teorico e pratico, per offrire e percorrere cammini efficaci di giustizia . Il suo ecumenismo sorgerà e prospererà – e la storia dimostra che così succede – attorno ai feriti nel cammino, dei popoli crocefissi, i quali, come il Crocefisso, li attrae tutti a sé. È necessario – crediamo – che la Chiesa si lasci reggere dal “Principio – Misericordia”; crediamo che ciò sia possibile, perché da questo Principio – e nella nostra opinione, di forma più cristiana –si può organizzare tutto l’ecclesiale. Diciamo brevemente, per terminare, tre cose. La prima è che ciò che ho detto finora non è altro che riaffermare, in altre parole, l’opzione per i poveri che deve fare la Chiesa, secondo le dichiarazioni della Chiesa istituzionale. Tutto ciò non è nuovo, anche se può aiutare a comprendere la radicalità, il primato e il riferimento ultimo di tale opzione. La Chiesa della misericordia è chiamata oggi in America Latina “La Chiesa dei poveri”. La seconda è che la misericordia è anche una beatitudine; e, per questo, una Chiesa della misericordia – se lo è veramente – è una Chiesa che sente gioia, e lo mostra. In questo modo, cosa molto dimenticata, la Chiesa può comunicare in actu che il suo annuncio, di parola e di opera, è eu-aggelion, buona notizia che non è solo verità, ma che produce gioia. Una Chiesa che non trasmette gioia non è la Chiesa del vangelo; adesso bene, non si deve trasmettere qualsiasi gioia, ma quella dichiarata nella “carta magna” delle beatitudini, la gioia della misericordia. La terza e ultima cosa è che una Chiesa della misericordia “si fa notare” nel mondo di oggi. E si fa notare, in modo specifico, con credibilità. La credibilità della Chiesa dipende da diversi fattori, e nel mondo democratico culturalmente sviluppato, per esempio, l’esercizio della libertà al suo interno e l’esposizione ragionevole del messaggio, le conferiscono rispettabilità. Però crediamo che nella totalità del mondo – che include i paesi del primo – la massima credibilità proviene dalla misericordia, precisamente perchè questa è la più assente nel mondo di oggi. Una Chiesa della misericordia coerente è credibile; e se non è misericordiosamente coerente, inutilmente cercherà credibilità attraverso altri mezzi. Fra gli annoiati della fede, gli agnostici e gli increduli, questa Chiesa renderá almeno rispettabile il nome di Dio, e questi non sarà bestemmiato per quello che fa la Chiesa. Fra i poveri di questo mondo, questa Chiesa susciterà accettazione e ringraziamento. Una Chiesa della misericordia coerente è quella che si fa notare nel mondo di oggi, e si fa notare “come Dio comanda”. Per questo la misericordia coerente è la “caratteristica” della vera Chiesa di Gesù.

***

Note:

[1] Nel libro della Teología della liberazione. Risposta al cardenale Ratzinger (Madrid, 1985, pp. 61ss.), J. L. SEGUNDO mostra in dettaglio che la finalità dell’ Esodo è simplicemente, la liberazione di un popolo sofferente, contrariamente alla prima Istruzione vaticana sulla teología della liberazione, secondo la quale la finalità dell’ ésodo sarebbe la fondazione del popolo di Dio e il culto dell’Alleanza del Sinaí.

[2] La misericordia deve rivolgersianche verso le sofferenze”naturali”, per la sua essenza última -crediamo- si manifesti nell’attenzione ai sofferenti perché “víttime”. Queste, a sua volta, possono essere generate da mali naturali o storici, però nella generalità della Scrittura si da molta più importanza alle víttime storiche che a quelle naturali.

[3] Detto senza acredine e con fraterna semplicità, sorprende che negli ultimi dieci anni di laboriosa e densa vita storica (e ecclesiale) nel Salvador, practicamente nessun vescovo spagnolo sia venuto a visitare il paese e la sua Chiesa, con l’eccezzione del vescovo incaricato delle missioni e di Alberto Iniesta, che venne al funerale di Mons. Romero animato e accompagnato dai suoi fedeli di Vallecas.

[4] Per me è molto chiaro che Ignacio Ellacuría si lasciò guidare dal “Principio- Misericordia” in tuttta la sua attività, e specíficamente nella sua attività intellettuale, teologica, filosofica e di analisi política. Questo lo ricordiamo per ricalcare che la misericordia è molto più che puro sentimento o puro attivismo misericordioso: è principio che configurare anche l’esercizio dell’intelligenza

 

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il sinodo: un test decisivo per un nuovo modo di essere chiesa

 

La prima resa dei conti per il guastatore Francesco

di Marco Politi
in “il Fatto Quotidiano” del 7 ottobre 2014

 

papa-francesco

È molto più di un’assemblea sui problemi della famiglia, il Sinodo dei vescovi iniziato ieri in Vaticano. È il primo test della linea di papa Francesco di porre la Chiesa di fronte al mondo contemporaneo come “ospedale da campo” per sanare le ferite esistenziali degli uomini e delle donne dell’epoca attuale, al di là dei confini strettamente confessionali. L’opposto di una Chiesa, che condanna in nome di un’astratta dottrina

A un anno e mezzo dalla sua elezione Bergoglio si trova confrontato con i presidenti delle 193 conferenze episcopali del mondo, i 23 rappresentanti delle Chiese orientali, i 25 capi dei dicasteri della Curia romana.
I loro interventi, i loro silenzi, le loro sfumature daranno la misura del consenso intorno al pontefice argentino. Un guastatore militante come il ciellino Antonio Socci ha lanciato – giusto alla vigilia della riunione – il finto scoop di presunte irregolarità commesse al conclave. Una palla. Perché era a tutti noto che una votazione, in cui risultava una scheda in più, era stata immediatamente annullata e si era passati alla seguente. Ma l’obiettivo era di alimentare la campagna di delegittimazione ai danni di Francesco in corso da mesi. Riferisce Andrea Riccardi, leader della Comunità di Sant’Egidio, che un cardinale ha commentato tempo fa: “Francesco ha riempito le piazze e le chiese. Ha svolto la sua funzione. Ora può anche andare prima di rovinare la Chiesa”. Il clima in certi settori del Vaticano e della Chiesa universale è questo. Nelle prossime due settimane potremo vedere se la strategia di Francesco si affermerà oppure se un coacervo di resistenze e di paure tenterà di frenarla. L’assemblea parte con una brutta innovazione, in controtendenza alle aperture e alla trasparenza di questo pontificato. Non saranno distribuite – come da oltre quarant’anni – le sintesi degli interventi in aula. Conferenze stampa quotidiane daranno il senso di ciò che avviene, ma senza nomi e cognomi. Su un altro piano sarà un Sinodo completamente diverso dagli altri. Francesco vuole trasformare l’assemblea in un corpo autenticamente consultivo, che si affianchi in nome della “collegialità” (principio sancito dal concilio Vaticano II) all’azione di governo del pontefice. Perciò il Papa ha chiesto interventi scritti preliminari, incentrati sui singoli punti del documento preparatorio (divorzio, contraccezione, aborto, convivenze, unioni di fatto, coppe omosessuali, bambini all’interno di unioni omosessuali, poligamia, ruolo ecclesiale e sociale della famiglia, eventualità di concedere la comunione ai risposati) e discorsi in aula finalizzati a redigere un documento-base in vista di una seconda assemblea di vescovi sulla famiglia, convocata fine 2015. E’ la mossa politica di Francesco. Creare un clima di dibattito vivace come al tempo del Concilio. Lasciare un altro anno di tempo perché tutte le articolazioni ecclesiali possano mobilitarsi partecipando alla discussone – sulla scia del sondaggio universale lanciato dal Papa l’anno scorso – e dare infine a vescovi la facoltà di presentare nel 2015 una serie di proposte pastorali concrete su tutti i temi scottanti. Le polemiche della vigilia sono state accolte positivamente da Francesco proprio in nome della sua intenzione di favorire un clima simile al concilio Vaticano II e al proposito di “aggiornamento” di Giovanni XXIII. Cinque cardinali, guidati dal prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede Mueller – a cui si è aggiunto il ministro delle Finanze vaticane Pell – hanno contestato duramente l’ipotesi di concedere la comunione ai divorziati risposati. Bene così, ha commentato in privato il Papa. Ieri ha scandito in aula: “Parlate chiaro. Nessuno dica: questo non si può dire… si penserà di me così o così”. Francesco ha raccontato un episodio. Dopo l’ultimo concistoro di febbraio (in cui il cardinale Kasper ha posto l’ipotesi della comunione anche ai divorziati risposati dopo un percorso di pentimento) “un cardinale mi ha scritto dicendo: peccato che alcuni cardinali non hanno avuto il coraggio di dire alcune cose per rispetto al Papa…”.
Questo non va bene, ha sottolineato Francesco. Parlare “senza pavidità e ascoltare con umiltà” è stata la sua esortazione. Due segnali importanti sono venuti alla vigilia. Il cardinale Tettamanzi (ex arcivescovo di Milano, indicato nel 2006 in un sondaggio segreto come candidato preferito alla presidenza della Cei) si è pronunciato a favore della somministrazione dei sacramenti ai divorziati risposati come “segni delle misericordie di Dio”. Mentre il cardinale Kasper ha sottolineato sull’ “Avvenire” che la Chiesa rispetta le convivenze gay “stabili e responsabili”. Sono due delle novità, che potrebbero emergere alla fine del percorso snodale. Lo stesso cardinale Erdo, relatore al Sinodo, ha detto ieri che i divorziati risposati fanno parte della Chiesa e si può studiare la prassi delle Chiese ortodosse (che ammettono seconde unioni). Erdo ha anche riproposto un ruolo maggiore per le donne.

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a proposito del sinodo appena aperto

Il compimento del Concilio

Papa Francesco celebra la messa nella Basilica di San PietroLa posta in gioco del Sinodo è molto grande: riguarda la Chiesa in se stessa, in quanto verificherà l’effettiva leadership di cui gode papa Francesco presso i vescovi e i cardinali, e riguarda ancor più la capacità del cattolicesimo di tornare a parlare alla coscienza contemporanea

 Per quanto concerne il primo aspetto occorre considerare che questo pontificato, a un anno e mezzo dal suo inizio, si trova per la prima volta di fronte a una prova decisiva: quella di vedere o no confermato dall’assise sinodale lo stile completamente nuovo da esso impresso all’azione della Chiesa, e quindi inevitabilmente anche alla sua identità. Con papa Francesco infatti si è passati da un papato dal profilo sostanzialmente dottrinario (secondo cui il papa è colui che spiega, insegna, corregge, e così governa) a un papato dal profilo esistenziale e spirituale (il papa è colui che capisce, condivide, soffre e gioisce con, e così governa), ma non è per nulla chiaro se questa trasformazione radicale sia apprezzata e voluta dai vescovi e dai cardinali. Al di là della retorica delle dichiarazioni ufficiali, quanti di essi sono disposti a seguire fino in fondo Francesco passando da una Chiesa in cattedra a una Chiesa “ospedale da campo”, a lasciare i privilegi del potere e a prendere “lo stesso odore delle pecore”? Se si dovesse tenere oggi il Conclave, quanti cardinali elettori rivoterebbero Bergoglio? …

Che vi sia una dura opposizione al rinnovamento papale da parte dell’ala intransigente della Chiesa cattolica è sotto gli occhi di tutti: ne fanno parte cardinali importanti tra cui il Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gerhard Müller, vescovi, teologi, responsabili di movimenti ecclesiali, opinionisti come l’ateo devoto Giuliano Ferrara, il saggista Antonio Socci che è giunto a mettere in dubbio la legittimità dell’elezione di Bergoglio. Si tratta di posizioni isolate oppure della punta di un grosso iceberg che costringerà la caravella papale a una mutazione di rotta? Probabilmente dopo questo Sinodo si avranno le idee più chiare su quanto pesano tra le gerarchie cattoliche gli oppositori di papa Francesco.

C’è però un aspetto ancora più importante in gioco nel Sinodo. In esso infatti non ne va solo del destino di un singolo papato, ma del cattolicesimo in quanto tale nella sua capacità di comunicare con profitto alla coscienza contemporanea secondo quel processo di rinnovamento iniziato da papa Giovanni XXIII con il Vaticano II (1962-1965) e purtroppo rimasto incompiuto. Il VaticanoII rinnovò l’autocomprensione della Chiesa in ambiti importanti come la libertà di coscienza, l’ecumenismo, il dialogo interreligioso, la liturgia, la morale sociale, in genere il rapporto della Chiesa con la storia e la cultura. Non riuscì però a estendere tale rinnovamento anche all’ambito della morale individuale e familiare perché Paolo VI (subentrato nel 1963 a Giovanni XXIII) sottrasse all’assise conciliare la possibilità di dibattere sulle questioni sessuali avocando a sé l’intera materia e pubblicando nel 1968, a tre anni dalla chiusura del Concilio, la famigerata enciclica Humanae vitae. Con essa, sia nel contenuto sia nel metodo, la Chiesa ritornò al preconcilio.

Ne è sorta una Chiesa a due velocità: perfettamente in grado di coinvolgere la parte migliore della coscienza contemporanea quando si tratta di questioni sociali ed economiche, del tutto destinata all’isolamento quando si tratta di questioni sessuali e bioetiche. A questo proposito nella sua ultima intervista il cardinal Martini affermò: “Dobbiamo chiederci se le gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale: la Chiesa in questo campo è ancora un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?” (Corriere della Sera, 1 settembre 2012), domanda a cui Martini aveva risposto con le dure critiche all’Humanae vitae nel suo libro Conversazioni notturne a Gerusalemme.

I padri sinodali sono chiamati a prendere atto del fatto che la morale ufficiale della Chiesa cattolica in ambito sessuale e familiare è ormai una “caricatura”, lo è anche per la gran parte dei cattolici praticanti (come ha mostrato il sondaggio pre Sinodo voluto dal Papa). Si può ancora continuare a sostenerla per amore di tradizione, ma si deve essere consapevoli che ciò significa collocarsi fuori dal mondo, e quindi rendersi incapaci di esercitare l’azione fecondatrice di cui il mondo ha tanto bisogno. Tale estraneità al mondo infatti non è certo riconducibile alla posizione profetica di chi si pone fuori dal mondo per capirlo meglio e operare su di esso con più efficace misericordia; coincide piuttosto con ciò che veicola il senso ordinario dell’espressione: essere fuori dal mondo = non capire nulla della realtà. Chi oggi sostiene ancora il no ai sacramenti per i divorziati risposati, il no alla contraccezione, il no ai rapporti prematrimoniali, il no alla benedizione delle coppie gay, è fuori dal mondo nel senso che non ne capisce l’evoluzione. E con ciò si priva della possibilità dell’azione peculiare che il Vangelo chiede a chi vi aderisce, cioè l’amore.

Vito Mancuso, la Repubblica 6 ottobre 2014

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a quattr’occhi col papa

Potere, politica e riforme: a quattr’occhi con Francesco

intervista a papa Francesco

a cura di Joaquin Morales Solá 
in “www.lanacion.com.ar” del 5 ottobre 2014

papa Franc
La Casa Santa Marta è molto diversa da come ci si potrebbe immaginare una corte papale. È un luogo diafano e austero. Le pareti sono bianche; anche le tende. Non ci sono grandi quadri né enormi tappezzerie. La sala dove il papa riceve è piccola, con sei poltrone uguali. Nessuna è diversa o riservata a lui. Francesco non è cambiato per niente. Continua ad essere l’uomo affettuoso e vicino di quando era a capo dell’arcivescovado di Buenos Aires. A volte gli sfugge, come un raggio fugace, un certo gesto di fatica. “Rimpiango di non poter andare a camminare, ma non ho tempo per questo”, dice. Lavora sette giorni su sette, senza riposo. Non ha intenzione di cambiare questa forma di vita. È arrivato al soglio di Pietro non per riposare, sembra dire, ma per dare alla Chiesa un nuovo impulso, una ventata d’aria fresca rispetto ai vecchi conflitti del passato.
Si entusiasma sul sinodo dei vescovi che sta per inaugurare e che affronterà i temi della famiglia. Se si accenna ai conflitti del mondo (“La terza guerra mondiale”, li chiama lui) la conversazione si accalora. “Il mondo mi ha accolto bene, però è un mondo difficile e complesso”, riassume. Mantiene una notevole prudenza nel parlare del suo paese. Non dimentica di essere un capo di Stato che potrebbe esprimere opinioni su un altro Stato. Dell’Argentina, ha solo parole di encomio per Omar Abboud, dirigente della comunità musulmana argentina; per il rabbino Abraham Skorka e per Julio Schlosser, presidente della DAIA [Delegazione associazioni israelitiche argentine].
L’Argentina è invece al centro delle conversazioni dei vescovi argentini che arriveranno a Roma per assistere al Sinodo. Dovranno riferire al papa ciò che si dice e che li preoccupa: l’insistenza dei politici argentini per portarsi via da Roma una foto con il pontefice. A quale scopo? A scopi politici ed elettorali, certamente! Si sono accorti perfino che uno di quei politici (non dicono il nome) ha pubblicato una foto di un’udienza pubblica con il pontefice in modo che apparisse come un incontro privato.
La conseguenza è stata che il papa ha chiuso le porte ad incontri con politici del suo paese. Non riceverà mai dirigenti politici argentini. I funzionari argentini che riceve li ha tolti da Santa Marta e li aspetta, quando li aspetta, nel Palazzo Apostolico dove vige il rigido protocollo vaticano. Adesso a Santa Marta si fanno solo gli incontri che il papa chiama “familiari”, dice un vescovo.
L’uso (e, soprattutto, l’abuso) che i politici fanno di un incontro con il papa irrita i vescovi. Questi ultimi dicono di aver sentito Francesco salvare solo due politici argentini, Daniel Scioli e José Manuel de la Sota, che lo hanno visto in incontri privati e non hanno poi cercato di trarne profitto. “Scioli ha fatto solo un vago riferimento a quell’incontro e De la Sota neppure ha dato notizia dell’incontro”, affermano. Però sono eccezioni; la regola è che molti fanno di tutto per vederlo, mentre non l’avevano mai visto prima, per pavoneggiarsi con una foto di quell’occasione.
La recente visita di Cristina Kirchner in Vaticano ha provocato molti commenti tra i vescovi. Il primo e più pesante è che si è trattato di un invito personale. “Appariva molto chiaro sulla lettera manoscritta del papa. La decisione di quante persone sarebbero andate o con chi sarebbe andata, è stata esclusivamente della presidente”, sottolinea un vescovo spesso in contatto con il pontefice. Il secondo commento sta nell’evidenziare che il viaggio a Roma è stata una richiesta espressa da Cristina Kirchner. “Chi può pensare che il papa avrebbe fissato un giorno e un’ora precisa per un incontro con un capo di Stato se non avesse saputo che quella persona poteva esserci o che l’incontro le interessava?, chiede un vescovo. La risposta è ovvia.
Che cosa sanno i vescovi del contenuto della conversazione tra i due capi di Stato? “Quello che sappiamo è che la presidente gli ha chiesto quali suggerimenti le poteva dare per il suo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite. Il papa le ha risposto che il suo messaggio sta scritto nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium. Nient’altro, assicurano. Cristina ha preso da quel testo un paragrafo critico del pontefice sulle speculazioni finanziarie e sulle disuguaglianze nel mondo. “Quel paragrafo c’è, però ha dimenticato di commentare i numerosi riferimenti che il papa ha anche fatto nella sua esortazione alla pace, al dialogo e al consenso”, sottolinea un altro vescovo.
Si sentono poche cose nuove nei discorsi a Roma. “Francesco continua nella ricca tradizione dei papi nel denunciare gli eccessi del capitalismo e l’esclusione sociale”, precisa un vescovo argentino. I precedenti esistono. Dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, nel 1891, fino alla Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, nel 1991, passando per la Populorum Progressio di Paolo VI, nel 1967, tutti hanno messo l’accento sul diritto dei popoli al benessere e sulla denuncia delle disuguaglianze tra paesi o tra settori sociali.
Alla Chiesa interessano tre problemi istituzionali cruciali dell’Argentina per i prossimi mesi e anni. Il primo: che esista un rispetto coerente e durevole della dirigenza politica verso le istituzioni del paese. Il secondo: che l’attuale processo politico si concluda normalmente nel dicembre del prossimo anni, come stabilisce la Costituzione. L’ultimo: che il prossimo governo non erediti una situazione ingestibile, un obiettivo che dovrebbe dare impulso a decisioni politiche fin da adesso.
Che cosa si aspetta il papa dal sinodo che si sta aprendo? Si deve ricordare, prima di tutto, che il sinodo è una riunione di vescovi provenienti da tutto il mondo, a carattere consultivo e che il suo principale compito è consigliare il papa su un tema determinato.
Ci sono adesso a Roma circa 200 cardinali e vescovi di tutte le parti del mondo per affrontare il tema della famiglia. “Non mi aspetto una definizione la settimana prossima”, mi dice il papa, ironicamente. “Questo sarà un sinodo lungo, che durerà probabilmente un anno. Io gli do ora soltanto la spinta iniziale”, aggiunge.
La preoccupa il libro critico verso le sue posizioni che è uscito da poco firmato da cinque cardinali, uno particolarmente distinto? “No”, risponde. “Tutti hanno un loro contributo da dare. A me piace discutere con i vescovi molto conservatori, ma intellettualmente ben preparati”.
Il papa ha lasciato libertà al sinodo. “Sono stato relatore al sinodo del 2001, c’era un cardinale che ci diceva che cosa dovevamo trattare e che cosa non trattare. Questo non succederà adesso. Ho dato ai vescovi perfino la facoltà che mi compete di eleggere i presidenti delle commissioni. Li eleggeranno loro, come eleggeranno i segretari e i relatori”.
“Chiaramente”, nota, “questa è la pratica sinodale che piace a me. Che tutti possano dire le loro opinioni in totale libertà. La libertà è sempre molto importante. Il governo della Chiesa è una cosa diversa. Quello sta nelle mie mani, dopo le opportune consultazioni”, sottolinea. Francesco è un papa buono, ma non un papa che si farà governare da altri. Questo risulta molto chiaro nella sua idea di conduzione politica e religiosa.
Questo atteggiamento si nota anche nel suo rapporto con la Chiesa argentina. Le ha dato assoluta libertà per fissare le sue posizioni sulle questioni pubbliche. Tuttavia, si riserva senza tante cerimonie la designazione dei vescovi. La Conferenza episcopale e la Nunziatura erano solite inviare le terne di candidati per la designazione di nuovi vescovi. Il papa deve sceglierne uno da quella terna di candidati. Il papa ha già mandato indietro alcune terne. Non gli piaceva nessun candidato.
Che cosa vorrebbe ottenere dal sinodo? “La famiglia è un argomento così importante per la società e per la Chiesa!”, dice, e aggiunge: “Si è posto molta enfasi sul tema dei divorziati. Un aspetto che, senza dubbio, sarà dibattuto. Però, a mio avviso, un problema altrettanto importante sono le nuove abitudini attuali dei giovani. I giovani non si sposano. È la cultura dell’epoca. Moltissimi giovani preferiscono convivere senza sposarsi. Cosa deve fare la Chiesa? Escluderli? Oppure, invece, avvicinarsi a loro, trattenerli e portare loro la parola di Dio? Io sono a favore di quest’ultima posizione”, puntualizza.
“Il mondo è cambiato e la Chiesa non può rinchiudersi in supposte interpretazioni del dogma. Dobbiamo avvicinarci ai conflitti sociali, a quelli nuovi e a quelli vecchi, e cercare di dar una mano di consolazione, non di stigmatizzazione e neanche solo di contestazione”, segnala.
il mondo Elenca: “Io dico che c’è una terza guerra mondiale, a pezzi. L’Europa è in guerra. Come definirebbe altrimenti quello che succede per il controllo dell’Ucraina? Africa: Qui ci sono più conflitti di quelli che si conoscono, oltre alle gravi tragedie sociali. E il Medio Oriente. E c’è altro da aggiungere alle diverse guerre che avvengono in questa regione del mondo? Tento di far giungere in ogni luogo un messaggio di dialogo, di contenimento, di spirito di negoziato. Conosco i limiti di tutti, compresi i miei. Però non mi perdonerei mai di non aver fatto nulla solo perché non ho l’esito assicurato. In ognuno di questi posti sono in gioco la vita e la morte”.
Papa Francesco ha cambiato l’agenda della Chiesa. Quando è giunto al soglio di Pietro, un anno e mezzo fa, le notizie del Vaticano si limitavano quasi esclusivamente a tre problemi. I sospetti sui turpi maneggi dello IOR, la banca vaticana; gli intrighi della corte papale, che portarono al processo del maggiordomo personale di Benedetto XVI, e i casi irrisolti di preti pedofili. Il dibattito interno era tanto intenso che papa Benedetto arrivò ad esclamare: “Sembra che Dio dorma”.
Francesco riuscì in poco tempo a modificare radicalmente l’asse del dibattito. Adesso si discute sulle sue riforme, mettendo di fronte, a volte, conservatori e riformisti. È chiaro che ha conseguito quei risultati non trascurando i conflitti che ha trovato arrivando a Roma.
Ha ridotto le dimensioni della banca vaticana a quelle di una succursale di qualsiasi banca importante (ora ha poco più di 100 impiegati e amministra solo circa 13.000 conti). Ha combattuto la pedofilia, negato il perdono agli autori di quei delitti e ha appena imprigionato proprio in Vaticano un ex nunzio accusato di abusi sessuali su minori.
Gli intrighi sono terminati. Ci possono essere dissensi su posizioni opinabili della Chiesa, ma non permetterà le devastanti dispute per il potere. I cardinali e i vescovi sanno che dietro al simpatico e cordiale sorriso del papa si nasconde la forte volontà dell’antico gesuita. Il potere della burocrazia vaticana non si discute sotto il suo naso.
Così sta, quindi, il papa che ha abbandonato gli splendidi palazzi vaticani per governare la Chiesa da una pensione per preti e vescovi. Questi piccoli gesti, che esprimono la sua vocazione a entrare in contatto con la gente comune, lo hanno trasformato in uno dei leader più popolari al mondo.
È un dato che si percepisce in Piazza San Pietro, ora sempre affollata. Succede solo a Roma? No. Barack Obama ha appena firmato, in un libro sulle principali personalità del mondo, il capitolo dedicato al papa argentino.

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il vangelo della domenica

commento al vangelo della XXVII domenica del TEMPO ORDINARIO – 5 ottobre 2014

Mt 21,33-43

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:  «Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.  Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

DARA’ LA VIGNA IN AFFITTO AD ALTRI CONTADINI 

  commento al Vangelo di p. Alberto Maggi 

Dopo aver detto alle massime autorità religiose, ai sommi sacerdoti, agli anziani, che le categorie da loro ritenute escluse dall’azione divina, quali erano pubblicani e prostitute, avrebbero preso il loro posto nel regno di Dio, Gesù si rivolge alle massime autorità, sommi sacerdoti e anziani, dicendo: “Ascoltate”.
Non è un invito, ma un imperativo, un ordine. “Ascoltate un’altra parabola”. E’ la terza parabola che Gesù fa e che ha come protagonista la vigna. La vigna era l’immagine del popolo di Israele secondo la figura che si trova nel libro del profeta Isaia al capitolo 5.
Infatti è proprio una vigna la protagonista di questa parabola. C’era un uomo che possedeva un terreno, vi piantò una vigna e qui l’evangelista, con una serie di termini, indica la grande premura di questo signore per la vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e vi costruì una torre. Quindi indica la grande premura del padrone per questa vigna.
La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. Quando arrivò il tempo dei frutti … i termine adoperato per esprimere il “tempo” significa “il tempo propizio”, il tempo opportuno, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare i suoi frutti.
L’evangelista insiste sul fatto che i frutti sono del padrone. Ma i contadini presero i servi, uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. E’ la sorte dei profeti. Continuamente Dio ha mandato profeti nel suo popolo e continuamente questi profeti sono stati rifiutati, perseguitati e spesso sono stati uccisi. Perché? I profeti da sempre invitano a un cambiamento, ma coloro che sono installati nel potere non desiderano cambiare, ma mantenere il loro privilegio, la loro posizione di prestigio.
Mandò di nuovo altri servi più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. Sa ultimo mandò loro il proprio figlio. L’espressione indica l’unico figlio, che è quello che rappresenta il padre, che eredita tutto. Dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio”.
Che illusione! Le autorità religiose hanno rispetto soltanto per se stesse, ma non rispettano gli altri, perché tutto quello che loro fanno, come adesso Gesù denuncerà, è basato sulla loro convenienza e non sul bene degli altri.
Ma i contadini, visto il figlio, e il termine figlio appare per la terza volta, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!” Gesù smaschera il fatto che il vero Dio del tempio si chiama interesse, si chiama convenienza. Gesù non è morto perché questa fosse la volontà di Dio, ma è morto per l’interesse della casta sacerdotale al potere.
Quindi il calcolo che fanno questi contadini, che poi vedremo sono le autorità religiose, è basato soltanto sulla loro convenienza. Mentre Gesù, per il bene degli uomini, ha sacrificato la propria convenienza, le autorità per la propria convenienza, sacrificano il bene degli uomini e non esitano addirittura ad assassinare il figlio di Dio.
Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. Essere cacciati fuori significa, secondo il libro del Levitico, capitolo 24, versetto 14, la condanna che era riservata ai bestemmiatori. Le massime autorità religiose del popolo, ritengono Gesù, il figlio di Dio, un nemico di Dio, un bestemmiatore. E come tale va eliminato.

“Quando verrà dunque il padrone della vigna, cosa farà ai contadini?”  E i sommi sacerdoti e gli anziani, ai quali Gesù ha rivolto la parabola, emettono la propria sentenza. “Quei malvagi li farà morire miseramente”. Per rendere meglio il testo greco bisognerebbe tradurre con “farà miserabilmente perire questi miserabili” oppure “quei malvagi malamente li distruggerà”.
Quindi si danno loro stessi la sentenza. “E darà in affitto la vigna ad altri contadini”, ai popoli pagani, “che gli consegneranno i frutti a suo tempo”.
E Gesù con profonda ironia, teniamo presente che si rivolge a persone pie, i sommi sacerdoti e gli anziani che conoscono la scrittura, come se fossero ignoranti, dice, citando il Salmo 118: “Non avete mai letto nelle Scritture: ‘la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo’”, la pietra che è stata scartata era in realtà la pietra più importante.
“Questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”. Ed ecco la sentenza di Gesù: “Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio”. Già Gesù lo aveva detto che le categorie ritenute dalla religione le più lontane, quali erano le prostitute e i pubblicani, sono passate avanti, non nel senso di precedere, ma di prendere il posto, adesso Gesù lo dice chiaramente “sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo”, si intende un popolo pagano, “ che ne produca i frutti”.
E’ una pena che nella versione liturgica sia stato tolto il versetto 45 che è quello che fa comprendere a chi è rivolta questa parabola. “Udite le sue parabole, i sommi sacerdoti e i farisei capirono che parlavano di loro e cercavano di catturarlo, ma avevano paura della folla che lo considerava un profeta”.
Le parole di Gesù non suscitano un desiderio di pentimento, le autorità non si pentono mai, ma soltanto l’eliminazione di chi le ha smascherate.Il nemico di Dio non è il peccato. Il peccatore che accoglie l’amore del Signore si può convertire. Il nemico di Dio nei vangeli si chiama convenienza. La convenienza rende refrattari e ostili all’azione divina. E’ quello che leggiamo nel vangelo di Matteo, capitolo 21, versetti 33-43
croce

CRISI RELIGIOSA

il commento di p. Pagola:

La parabola dei “vignaioli omicidi” è un racconto nel quale Gesù va scoprendo con accenti allegorici la storia di Dio con il suo popolo eletto. È una storia triste. Dio lo aveva curato dall’inizio con tutto l’affetto. Era la sua “vigna prediletta”. Sperava di fare di loro un popolo esemplare per la sua giustizia e la sua fedeltà. Sarebbero stati una “grande luce” per tutti i popoli.Tuttavia quel popolo andò rifiutando e uccidendo uno dopo l’altro i profeti che Dio gli inviava per raccogliere i frutti di una vita più giusta. Per ultimo in un gesto incredibile d’amore inviò loro il suo proprio Figlio. Ma i capi di quel popolo lo uccisero. Cosa può fare Dio con un popolo che delude in una maniera così cieca e ostinata le sue aspettative?I capi religiosi che stanno ascoltando attentamente il racconto rispondono spontaneamente negli stessi termini della parabola: il padrone della vigna non può far altro che uccidere quei lavoratori e dare la sua vigna in mano ad altri. Gesù tira rapidamente una conclusione che non aspettano: Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.Esegeti e predicatori hanno interpretato frequentemente la parabola di Gesù come la riaffermazione della Chiesa cristianacome “il nuovo Israele” dopo il popolo giudeo che, in seguito alla distruzione di Gerusalemme l’anno settanta, si è disperso in tutto il mondo.Tuttavia, la parabola sta parlando anche di noi. Una lettura onesta del testo ci obbliga a porci gravi domande: stiamo producendo nei nostri tempi “i frutti” che Dio attende dal suo popolo: giustizia per gli esclusi, solidarietà, compassione verso chi soffre, perdono…?Perché Dio dovrebbe benedire un cristianesimo sterile dal quale non riceve i frutti che attende? Perché dovrebbe identificarsi con la nostra mediocrità, le nostre incoerenze, le deviazioni e la poca fedeltà? Se non rispondiamo alle sue aspettative, Dio continuerà ad aprire vie nuove al suo progetto di salvezza con altri che producano frutti di giustizia.Noi parliamo di “crisi religiosa”, “scristianizzazione”, “abbandono della pratica religiosa”… Non starà Dio preparando la via che renda possibile la nascita di una Chiesa più fedele al progetto del regno di Dio? Non è necessaria questa crisi perché nasca una Chiesa meno potente ma più evangelica, meno numerosa ma più impegnata a fare un mondo più umano? Non verranno nuove generazioni più fedeli a Dio?José Antonio Pagola.

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ancora lo stereotipo dello ‘zingaro ruba bambini’

bimba bionda

Se lo zingaro diventa un capro espiatorio

un bell’articolo di Chiara Saraceno comparso ieri su ‘la Repubblica’ in riferimento all’ennesimo episodio di colpevolizzazione del popolo rom ogni qualvolta ci si trova di fronte allo smarrimento (più o meno colpevole, come è successo in questi giorni) di un bambino:

Gli zingari che rubano i bambini. Uno stereotipo tanto radicato e diffuso quanto privo di ogni fondamento, di ogni evidenza empirica e persino di ogni plausibile spiegazione. Perché mai gli zingari dovrebbero rubare i bambini, infatti, come se non ne avessero abbastanza dei loro? Eppure, sembra essere la prima cosa che viene in mente, che viene ritenuta plausibile, non solo quando un bambino, effettivamente, sparisce, ma anche quando un bambino della comunità zingara è troppo biondo e chiaro di pelle “per essere davvero figlio loro”, scatenando ipotesi fantasiose di rapimento. E avvenuto tempo fa in Grecia quando una bambina, appunto, “troppo bionda per essere zingara”, venne individuata in un insediamento rom, scatenando accuse di rapimento e ricerche dei “genitori veri”, salvo scoprire che questi erano effettivamente diversi da quelli che avevano la custodia della piccola, ma, zingari anch’essi, la avevano ceduta in una sorta di affido famigliare informale, perché non erano in grado di provvedere per lei. Da segnalare che tutte le sollecite preoccupazioni per il benessere della bambina spari- rono quando si scoprì che, dopo tutto, era solo una rom. Un caso molto simile scoppiò nello stesso periodo in Irlanda, s alvo scoprire che gli zingari “rapitori” erano i genitori a tutti gli effetti, biologici e legali. Non stupisce allora che uno stereotipo tanto radicato possa essere utilizzato come una copertura plausibile da un adulto che cerca di coprire le proprie responsabilità. Come ha fatto il padre che qualche giorno fa, per nascondere di aver perso di vista il proprio figlioletto di tre anni e il suo amico ad una fiera di paese nel torinese, di- chiarò di averlo salvato dalle grinfie di uno zingaro che lo aveva rapito. Dimostrando la stessa incoscienza e irresponsabilità della quindicenne che, qualche anno prima, per nascondere di aver fatto l’amore con il proprio ragazzo, denunciò per stupro un giova- ne rom, scatenando una rappresaglia feroce e incivile contro il campo nomadi. Fortunatamente, questa volta  la polizia ha provveduto a smascherare la bugia prima che le pulsioni antizingare si organizzassero.

La spiegazione della diffusione dello stereotipo dello zingaro come quintessenza del- la brutalità malvagia non va ricercata in qualche esperienza effettiva in un passato più o meno lont ano, e neppure, forse, nellaso- cietà contadina. Mito letterario costruito dai commediografi italiani e spagnoli tra cinque e seicento, nel periodo di prima formazione degli stati moderni, con le loro esigenze di controllo sia del territorio sia della popolazione, essoè assimilabile ad altristereotipidicui sono stateesono oggetto altre minoranze: gli ebrei che rubavano i bambini (cristiani) per nutrirsidellorosangue, imendicanticheliru- bavano per mandarli ad elemosinare. Gli zingari sembrano condensare in sé tutte le caratteristiche di una minoranza designabile insieme come altro da sé e come capro espiatorio: sono (o meglio erano) nomadi, di una etnia diversa da quella prevalente nei luoghi in cui transitano o abitano; sonopoverie chiedono l’elemosina; hanno abitudini e comportamenti spesso molto diversi da quelli prevalenti. Lo stereotipo è talmente forte, per altro, che mentre si accetta seni a b attere ciglio che vivano in condizioni spesso spaventose (tanto sono “come animali’, “sub-umani”), purché i loro insediamenti siano a debita di- stanza da quelli dei “civilizzati”, si considera una pretesa fuori luogo che chiedano invece di poter vivere in condizioni civili. Così come si ignora che molti rom e sinti, non solo non sono più nomadi, ma sono insediati accanto a noi, in abitazioni simili alle nostre, manda- no i figli a scuola, hanno, o vorrebbero avere, una occupazione regolare e non vorrebbero essere costretti avergognarsi, a nascondere, di essere rom. Gli stereotipi condannano i rom alla propria diversità, alla immagine ne- gativa che la accompagna e che li rende in- sieme vulnerabili e scarsamente legittimati a ricevere sostegno. Una diversità, per altro, oggi resa più complicata dalfatto che i campi rom sano sempre più affollati da migr anti dei paesi dell’Est, non sempre rom essi stessi, che solo in questi luoghi spesso di estremo de- grado trovano una qualche, per quanto fragile e rischiosa, accoglienza.

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la grande attesa del sinodo

Il sinodo sulla famiglia sta per aprirsi tra forti aspettative e dubbi sullo svolgimento

di Dennis Coday
(in “ncronline.org” del 26 settembre 2014)

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La prima importante iniziativa del pontificato di papa Francesco si aprirà il 5 ottobre a Roma, quando Francesco riunirà il Sinodo dei vescovi per discutere sulla vita familiare nella società contemporanea. Il tema è “le sfide pastorali della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”, e i membri del sinodo saranno interrogati sulle nuove vie da trovare per migliorare l’applicazione pastorale degli insegnamenti della chiesa, i modi di spiegarlo, e i modi per aiutare i cattolici a viverlo. Il Sinodo proseguirà fino al 15 ottobre. L’interesse e le aspettative per questo sinodo sono state molto forti, in parte a causa dell’inchiesta basata sul questionario di 39 domande inviato l’anno scorso dal Vaticano ai vescovi di tutto il mondo e alle loro conferenze episcopali. Una lettera dal segretariato del sinodo chiedeva ai vescovi di consultare “immediatamente” e “il più ampiamente possibile” i fedeli nelle loro diocesi e parrocchie su temi come la contraccezione, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, il divorzio e altri argomenti riguardanti la vita familiare. L’intenzione era quella di ottenere una consultazione importante a livello locale. Lo svolgimento molto differenziato della consultazione causò grande stupore tra molti laici cattolici, cosa per cui molti si chiesero se il sinodo sarebbe stato un mero laboratorio di discussione tra vescovi. Gli osservatori vaticani mettono in risalto tre aspetti che potrebbero rendere questo sinodo diverso da quelli precedenti. Innanzitutto, ci si aspetta che Francesco partecipi attivamente come presidente del sinodo. L’argomento è stato scelto esplicitamente da Francesco. Lo ha promosso fin dal primo incontro con il segretariato del sinodo tre mesi dopo la sua elezione e ne ha fatto un punto chiave della sua esortazione apostolica Evangelii Gaudium (“La gioia del vangelo”) lo scorso novembre. La necessità di un aiuto misericordioso alle famiglie in difficili circostanze è un tema frequente delle sue omelie e dei suoi interventi. Quando Giovanni Paolo II era presente alle assemblee sinodali, leggeva e pregava col suo breviario. Papa Benedetto XVI era un osservatore silenzioso. Francesco, invece, agli incontri è solito rivolgersi agli oratori con domande, battute e commenti. In secondo luogo, il segretariato del sinodo sta cercando di strutturare gli interventi in maniera da incoraggiare la discussione. Gli interventi formali devono essere presentati per iscritto prima dell’inizio del sinodo. Per la prima metà del sinodo, i partecipanti devono limitarsi ad interventi di quattro minuti e sono invitati a toccare un solo punto. Sono inoltre invitati a rispondere ad altri interventi. Questi brevi discorsi sono pensati per stimolare la discussione nelle sessioni in piccoli gruppi che costituiscono la seconda metà del sinodo e dovranno essere il cuore dell’incontro. Lo stile dell’incontro dei vescovi segue il modello che Francesco era solito proporre fin dal tempo in cui era membro della Conferenza episcopale latinoamericana, specialmente quando diresse un’assemblea generale ad Aparecida, in Brasile, nel 2007. Infine, il sinodo non deve portare a conclusioni né a fare proposte. Deve discutere sulle esperienze delle famiglie attuali. Invece di un’esortazione, ci si aspetta che il sinodo produca un resoconto delle discussioni che sarà inviato alle diocesi in tutto il mondo in preparazione di un altro sinodo il prossimo anno. Qualsiasi cambiamento nelle pratiche della Chiesa su matrimonio e vita familiare non sarà introdotto ora, ma nel prossimo anno. Il Vaticano ha pubblicato la lista dei partecipanti al sinodo il 9 settembre. La lista comprende 250 persone, compresi i membri votanti e gli esperti e gli uditori non votanti. I membri votanti comprendono 114 rappresentanze delle conferenze episcopali nazionali, 13 capi delle chiese cattoliche orientali e 25 capi delle congregazioni e dei consigli vaticani.

Udienza Generale del mercoledì di Papa Francesco

Il papa ha  nominato 26 padri sinodali. Quasi tutti sono europei, 14 sono cardinali. Tra gli esperti e gli uditori non votanti vi sono 14 coppie sposate, la maggior parte delle quali svolgono incarichi all’interno della Chiesa, nei ministeri della vita familiare o come canonisti o esperti di teologia morale. Una suora irlandese è l’unica donna religiosa invitata al sinodo. Le regole del sinodo permettono all’Unione dei Superiori Generali, il gruppo che rappresenta la leadership delle congregazioni religiose maschili in tutto il mondo, di inviare tre delegati, mentre il corrispettivo femminile, l’Unione internazionale delle Superiore Generali, non è rappresentata. Annunciando la lista dei partecipanti in Vaticano, il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo dei vescovi nominato da Francesco, affermava che “l’aggiornamento della istituzione del sinodo” rientrava nella “dinamica di rinnovamento della Chiesa ordinato da Francesco”. “Questo progetto… sviluppa un modo nuovo e rinnovato, con azioni concrete”, disse Baldisseri. Data la lista dei partecipanti, tuttavia, alcuni sono stati in difficoltà nel trovare “un modo nuovo e rinnovato”. Il gruppo riformatore irlandese di Noi Siamo Chiesa si è dichiarato “estremamente deluso” della lista dei partecipanti. “È spettacolare e vergognoso che non sia presente neppure una persona cattolica irlandese sposata per parlare delle esperienze vissute in famiglia e per consigliare il sinodo che è incaricato specificamente di offrire soluzioni alle gravi sfide che si trovano ad affrontare le famiglie nel nostro mondo contemporaneo”, ha detto il portavoce del gruppo, Brendan Butler, in una dichiarazione il 16 settembre. Nell’aprile scorso, Noi Siamo Chiesa irlandese aveva scritto all’ufficio di Baldisseri suggerendo Mary McAleese, ex presidente irlandese, e la teologa laica Gina Menzies “come qualificate e idonee rappresentanti irlandesi al sinodo”. Butler ha dichiarato che l’ufficio del sinodo non ha risposto alla loro richiesta. Sul sito online di NCR, il giorno successivo all’annuncio di Baldisseri, il gesuita Thomas Reese aveva definito la lista dei partecipanti “una delusione per coloro che speravano nella riforma della Curia e per coloro che speravano che i laici sarebbero stati ascoltati al sinodo”. L’attuale legge canonica riguardante i sinodi stabilisce che “vi partecipano anche i capi degli uffici della Curia romana”, ma Reese nota che tale legge permette al papa di nominare ulteriori vescovi e osservatori laici e presbiteri. “La partecipazione al sinodo di membri della curia rischia di non far percepire che essi dovrebbero essere lì a servizio, non come persone che definiscono la linea”, scriveva Reese. “Potrebbero partecipare al sinodo come “staff”, ma non come membri con diritto di voto. In massima parte, dovrebbero essere osservatori e non persone con diritto di parola. Hanno tutto il resto dell’anno per consigliare il papa. Questo è il momento in cui spetta ai vescovi provenienti dal resto del mondo esprimere le loro opinioni. Se Francesco e il Consiglio dei cardinali non intendono cambiare la composizione del Sinodo dei vescovi, è difficile credere che vogliano realmente “sistemare” la Curia romana. Reese si poneva domande anche sulle nomine dei 38 uditori. “Molti osservatori sono dipendenti della Chiesa cattolica o capi di organizzazioni cattoliche…  è difficile sostenere che rappresentino tutti i cattolici. Certamente non li rappresentano alcuni che pensano che la pianificazione familiare naturale sia il grande regalo della Chiesa ai laici. E coloro che sono dipendenti della Chiesa potrebbero temere di perdere il posto di lavoro se dicessero la verità”. Mentre la lista dei partecipanti è densa di membri della curia e di altre persone riluttanti ad allontanarsi dall’insegnamento tradizionale della chiesa sulla famiglia, Robert Mickens, da lungo tempo osservatore vaticano, fa notare che Francesco ha anche nominato degli alleati per un approccio nuovo, in particolare l’arcivescovo Victor Emanuel Fernandez, rettore della Pontificia Università Cattolica d’Argentina, e il cardinale tedesco Walter Kasper. Francesco ha nominato vescovo il teologo Fernandez, cinquantaduenne, in uno dei suoi primi atti da papa. “È ben noto che Fernandez è stato il principale estensore dell’esortazione apostolica del papa”, dice Mickens. Il documento era un invito ad un approccio misericordioso verso le persone
che vivono situazioni matrimoniali irregolari, come altre che vengono considerate al di fuori delle regole previste dagli insegnamenti morali della Chiesa. “Il vescovo argentino dovrebbe essere un alleato chiave per il papa nel suo sforzo di introdurre una risposta e una prassi di misericordia per i divorziati risposati cattolici”, ha detto Mickens. Nel frattempo, Kasper viene visto come il teologo di Francesco. Francesco lo designò a pronunciare il discorso di apertura al concistoro dello scorso febbraio, e Kasper sfruttò l’opportunità per argomentare a favore di una maggiore apertura verso i divorziati risposati cattolici. Da allora, Kasper ha compiuto effettivamente un “tour di promozione” della sua idea in tutto il mondo. L’idea di Kasper è stata ben accolta da molti vescovi. Padri sinodali dalla Germania, dall’Austria e dal Belgio sono disposti a puntare ad una maggiore apertura verso le famiglie in situazioni “irregolari”. Ma Kasper ha anche incontrato un’agguerrita resistenza. Proprio a pochi giorni dall’inizio del sinodo, cinque cardinali – compreso Gerhard Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e Raymond Burke, prefetto della Segnatura Apostolica – hanno insieme scritto un libro in cui difendono la dottrina della Chiesa su divorzio e successivo matrimonio. Permanere nella verità di Cristo: matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica” sarà pubblicato negli USA da Ignatius Press. Questi cardinali saranno al sinodo. “Questo dovrebbe rendere più dinamica l’atmosfera dell’incontro”, ha detto Mickens. Se Francesco può dominare queste discussioni lo dobbiamo ancora vedere. Mickens spera che la gente non si precipiti a dare giudizi. Francesco ha detto più di una volta che vuole sviluppare il Sinodo dei vescovi come una delle componenti importanti della governance della chiesa universale. Ma si tratta in gran parte di “un lavoro in corso d’opera, ancora alle prime battute”, ha detto Mickens.

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