esperimento rom – razzismo fifty fifty in un simpatico scherzo

ESPERIMENTO A TORINO

“abbracciami, sono un Rom”

Un ragazzo con i capelli rasati ai lati e il ciuffo lungo e nero. Come va di moda. Ha 18 anni e si chiama Yonut. Se ne sta in piedi in mezzo alla strada nel centro pedonale di Torino, via Garibaldi. Al collo ha appeso un cartello con su scritto: “Io sono Rom. Abbracciami!“. Sta lì a braccia aperte e aspetta, nel via vai dello shopping del sabato.

Da un balcone, una telecamera nascosta riprende tutto. I ragazzi che si avvicinano e lo abbracciano. La sua faccia allegra e un po’ guascona quando qualcuno si avvicina. Riprende anche il papà che allontana i figlioletti: “Venite via….”.

E’ stato un esperimento sociale ideato da Martina Steinwurzel della cooperativa sociale Babel, realtà che lavora con migranti e richiedenti asilo.

“Mi sono ispirata – racconta – all’esperienza fatta anni fa da un ragazzo che, in mezzo alla strada, si era messo al collo il cartello “Ho l’Hiv, ti azzarderesti a toccarmi?”. Per abbattere il pregiudizio servono anche azioni di questo tipo”. E così ha “arruolato” Yonut che, con la sua famiglia, vive in un Centro gestito dalla cooperativa a Settimo torinese. Un interessante esprimento di housing sociale, attento all’integrazione di migranti e Rom.

“Sui social la gente scrive di tutto – dice Martina –  non sembra responsabile di ciò che scrive. Ma in un contatto reale con un essere umano, devi essere davvero molto razzista per non guardarlo negli occhi e accorgerti che è uguale a te”.

Lui, Yonut, adesso è contento. Quando lo raggiungiamo al telefono sembra anche un po’ stupito che un giornalista gli voglia parlare. Fa un po’ il timido. Ma poi racconta di sé. E degli abbracci.

“Ho 18 anni, sono in Italia da quasi 11 anni. Ho studiato​ qua, ho una qualifica di meccanico professionale. Sono qui con la mia famiglia: i miei genitori e quattro fratelli”.

Allora, Yonut, raccontaci degli abbracci….

Avevo un po’ paura all’inizio, avevo paura che nessuno mi venisse ad abbracciare. Poi è andata bene.

Ma ti abbracciavano?

Sì, sì, soprattutto le ragazze giovani.

Sì vabbè, perché sei un bel ragazzo!

(ride) Forse, non lo so!

Cosa ti dicevano quando vedevano quella scritta sul cartello?

Alcuni la leggevano, si giravano e andavano via.  Altri invece dopo averla letta, ci pensavano un po’, poi tornavano e mi abbracciavano. Mi dicevano: “Vai così, bravo, un abbraccio ci sta!”.

Secondo te c’era qualcuno che quando vedeva la scritta “Sono Rom” se ne andava per quello?

Secondo me sì. A un certo punto dei bambini si sono avvicinati e hanno chiesto al papà di cosa si trattava. E il papà li ha tirati via, venite via, venite via… Due ragazzi invece si sono avvicinati è mi hanno detto: “Sì al razzismo”. Proprio così: “Sì al razzismo”.

A fine giornata quanti abbracci hai portato a casa?

Tanti, una quarantina. E’ stato bellissimo, non me lo aspettavo.

Cosa pensi quanto senti dire “I Rom rubano tutti”?

Ti senti male. Ti senti diverso.

Tu non hai mai rubato…

No! (ride)

Epure sei Rom…

Eh, sì!

Come va con il lavoro?

E’ un casino, sono due anni che lo cerco. Ma niente. Ho fatto dei colloqui ma è andata male.

Allora magari diciamo a qualcuno che ti ha dato un abbraccio che ti dia anche un lavoro!

Magari, sì! (ride) Sarebbe una gran bella cosa per me.

image_pdfimage_print

la riflessione di L. Boff in occasione dei suoi 70 anni

NASCERE ANCORA A SETTANT’ANNI

Leonardo Boff 

da: Adista Contesti n° 2 del 03/01/2009

 

 

In questo mese di dicembre compio 70 anni. Secondo i parametri brasiliani, divento ufficialmente vecchio. Questo non significa che io sia prossimo alla morte, perché questa può sopravvenire nel primo istante di vita. Però è un’altra tappa della vita, l’ultima.

Possiede una dimensione biologica, perché si esaurisce inesorabilmente il capitale vitale, ci indeboliamo, perdiamo il vigore dei sensi e ci allontaniamo lentamente da tutto. Di fatto, siamo anche un po’ più dimenticati e, forse, diventiamo impazienti e sensibili ai gesti di bontà, che ci muovono facilmente alle lacrime.

Ma c’è un’altra cosa, più interessante. La vecchiaia è l’ultima tappa della crescita umana. Nasciamo interi, ma non completi. Dobbiamo completare la nostra nascita costruendo l’esistenza, aprendo cammini, superando difficoltà e modellando il nostro destino. Siamo sempre in genesi. Cominciamo a nascere e continuiamo a nascere in prestazioni lungo la vita fino a finire di nascere. Allora entriamo nel silenzio. E moriamo.

La vecchiaia è l’ultima opportunità che ci offre la vita per finire di crescere, di maturare, e per finire di nascere. In questo contesto è illuminante la parola di san Paolo: “Nella misura in cui l’uomo esteriore decade, ringiovanisce l’uomo interiore” (2Cor 4,16). La vecchiaia è un’esigenza della persona interiore. Cos’è la persona interiore? È il nostro io profondo, il nostro modo singolare di essere e di agire, il nostro marchio registrato, la nostra identità più radicale.

Questa identità dobbiamo guardarla in faccia direttamente. È personalissima e si nasconde dietro le molte maschere che la vita ci impone, perché la vita è un teatro nel quale ricopriamo vari ruoli. Io, per esempio, sono stato francescano, prete, ora laico, teologo, filosofo, professore, conferenziere, scrittore, editore, redattore di alcune riviste, sotto inchiesta delle autorità dottrinarie vaticane, costretto al “silenzio ossequioso”, ed altri ruoli ancora. Ma c’è un momento in cui tutto questo si relativizza e diventa paglia secca. Allora abbandoniamo la scena, ci togliamo le maschere e ci chiediamo: in fin dei conti, io chi sono? Quali sogni mi motivano? Quali angeli mi abitano? Quali demoni mi tormentano? Qual è il mio posto nel disegno del Mistero? Nella misura in cui proviamo, con timore e tremore, a rispondere a queste domande, viene alla luce l’uomo interiore. La risposta non è mai conclusiva; si perde fin dentro l’Ineffabile.

Questa è la sfida che ci pone la tappa della vecchiaia. Allora rendiamoci conto che avremmo bisogno di molti anni di vecchiaia per trovare la parola essenziale che ci definisce. Sorpresi, scopriamo che non viviamo semplicemente perché non moriamo, ma che viviamo per pensare, meditare, aprire nuovi orizzonti e creare sensi di vita. Specialmente per cercare di fare una sintesi finale, integrando le ombre, rialimentando i sogni che ci hanno sostenuto tutta una vita, riconciliandoci con i fallimenti e acquistando saggezza. È illusorio pensare che questa venga con la vecchiaia. La saggezza viene dallo spirito con il quale viviamo la vecchiaia come tappa finale della crescita e del nostro vero Natale.

Infine, è importante preparare il grande Incontro. La vita non è strutturata per finire con la morte, ma per trasfigurarsi attraverso la morte. Moriamo per vivere di più e meglio, per immergerci nell’eternità e incontrarci con la Realtà Ultima, fatta di amore e misericordia. Lì sapremo veramente chi siamo e qual è il nostro vero nome.

Condivido con il saggio dell’Antico Testamento lo stesso sentimento: “Contemplo i giorni passati e ho gli occhi rivolti all’eternità”.

Porto avanti due sogni, sogni di un giovane anziano: il primo è scrivere un libro solo per Dio, se è possibile con il mio proprio sangue; il secondo è impossibile, ma bene espresso da Herzer, bambina di strada e poeta: “Io vorrei solo rinascere di nuovo per insegnarmi a vivere”. Ma siccome questo è irrealizzabile, non mi rimane che apprendere alla scuola di Dio. Parafrasando Camões, concludo: “Vivrei di più se non fosse, per un sì grande ideale, tanto corta la vita”.

 

image_pdfimage_print

Gaillot – un vescovo profetico

la testimonianza di un vescovo profetico

mons. Jacques Gaillot

dichiarazioni di Jacques Gaillot, raccolte a cura di Patrice Sauvage
in “www.baptises.fr” dell’8 marzo 2017 (traduzione: www.finesettimana.org)

estratti dell’intervento di Jacques Gaillot al gruppo di lavoro della CCBF “Ecclesia Nova” sul tema del ministero presbiterale. La sua testimonianza luminosa è infatti un insegnamento per ogni battezzato, chiamato alla fraternità con i poveri, e per tutta la chiesa, chiamata ad irradiare attorno a sé la diaconia

Una sera, prendendo la metropolitana all’ora di punta, ero in piedi, stretto da tutte le parti e senza la possibilità di aggrapparmi ad un sostegno. A seconda delle scosse del metrò, mi dovevo appoggiare agli uni o agli altri. Qualcuno mi aveva identificato e sorrideva della mia situazione precaria. Siccome siamo scesi alla stessa stazione, non ho potuto fare a meno di dirgli: “Vede che cosa tiene in piedi un vescovo? Le persone!” Partire dall’umano Mettendoci al seguito di Padre Foucault, siamo toccati dalla spiritualità di Nazareth; uno stile di vita semplice, povero, in mezzo alla gente e alla vita ordinaria. Gesù, l’uomo di Nazareth, ha vissuto tante esperienza con il suo lavoro, le ingiustizie della sua epoca, i suoi rapporti con i poveri, la sua presenza nelle famiglie, condividendo le loro gioie e i loro dolori, la sua preghiera al Padre nella solitudine. Il suo cuore, modellato da tutti questi incontri, bruciava del fuoco del suo amore per il suo popolo. Questa lenta maturazione lo preparava alla sua missione profetica che inaugurerà in maniera sorprendente nella sinagoga di Nazareth. La sua ora era venuta: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore (Lc 4,18-19). Tutta la vita pubblica di Gesù sarà la messa in atto di questa predicazione di Nazareth. Non è un discorso religioso che parla della legge: è un discorso che parla solo dell’essere umano.

Non è un discorso su Dio, è un discorso sull’Uomo. Non è un discorso di restaurazione, è un grande messaggio di liberazione che cambia la vita. Che discorso sorprendente! La spiritualità di Nazareth non può trascurare questa proclamazione. È quella che infonde una dimensione profetica al nostro ministero e alla nostra vita di preti. Mi capita, come capita a voi, di sentire persone che dicono: “Non sono più praticante” o “È da tanto tempo che non pratico più!”. Per queste persone, è evidente che si tratta della pratica religiosa. Ma la pratica fondamentale dell’evangelo, è quella della giustizia e dell’amore dovuti al prossimo. Non è la pratica religiosa! Al giudizio finale, non mi sarà chiesto quante messe ho celebrato, quanti matrimoni ho benedetto. Mi si dirà: “Che cosa ha fatto del tuo prossimo, che era straniero, prigioniero, malato, affamato…” La cosa essenziale è la “pratica del fratello”, la pratica della solidarietà. Nessuno ne è dispensato, neanche una volta andati in pensione. Come mai tanti cristiani non hanno scoperto l’importanza della pratica della giustizia e dell’amore dovuti al prossimo? Nella sinagoga di Nazareth, Gesù annuncia di essere venuto a portare la Buona Notizia ai poveri. Non dice ai ricchi, ai potenti… Fa la scelta dei poveri. Comincia da loro. Si pone a fianco degli oppressi e non degli oppressori. A fianco delle vittime e non dei potenti. A fianco degli umiliati e non di coloro che li sfruttano. Gesù è andato subito verso i rifiutati, i dimenticati. Facendo questa scelta di cominciare dai poveri, si apre a tutti. Non rifiuta nessuno. Come è raro, tanto nella società come nella nostra Chiesa, che si scelga di cominciare dai poveri! Sono tanto contento che papa Francesco abbia deciso di canonizzare Mons. Romero che è una figura profetica della lotta per la giustizia […]: “Non c’è alcun onore per la Chiesa nell’intrattenere buone relazioni con i potenti. L’onore della Chiesa, è che i poveri la sentano propria” (Salvador, omelia del 17 febbraio 1980).

Essere una speranza per i poveri
Una frase di Dom Helder Camara mi aveva colpito, un tempo: “Se non sono una speranza per i poveri, non sarò un prete di Gesù Cristo”. Oggi, lì dove vivo, che mantiene viva la speranza dei poveri? Alla mia partenza da Evreux nel 1995, in un ultimo sermone in cattedrale, mi sono rivolto alla folla: “Ogni cristiano, ogni comunità, ogni Chiesa che non sceglie, prima di tutto, il cammino della miseria degli uomini, non ha nessuna chance di essere ascoltato come portatore di una Buona Notizia. Ogni uomo, ogni comunità, ogni Chiesa che non diventa, prima di tutto, fraterna con ogni uomo, non potrà trovare il cammino del cuore, il luogo segreto dove può essere accolta la Buona Notizia”. Gesù è stato una grande speranza per i poveri. Si è avvicinato a loro con misericordia, senza escludere nessuno. I poveri si sono sentiti amati da Dio. I più diseredati hanno scoperto con meraviglia di essere i preferiti da Dio. Siamo precipitati in un mondo nuovo. Siamo testimoni della fine di un mondo. Testimoni anche della nascita di un altro mondo, di cui non si sa ancora che cosa sarà. Il nostro cammino svela nuovi orizzonti e apre alla novità. In Francia, quando con fedeltà ci riuniamo ogni mese in fraternità, è commovente vederci arrivare carichi di anni, handicappati, stanchi… Qualcuno ci crede già morti. Ma coloro che lo dicono, hanno dimenticato che eravamo semi… Semi di vita! Il domani è tutto da fare.

image_pdfimage_print

i primi quattro anni di papa Francesco …

quattro anni dopo. Il dono di un Papa “fallibile”

di Gianni Valente
in “La Stampa-Vatican Insider” del 13 marzo 2017

«Quattro anni di Bergoglio basterebbero per cambiare le cose…». Così, all’inizio di marzo di quattro anni fa, un anonimo cardinale confidava a un suo amico giornalista le sue speranze per l’imminente conclave. Quando Papa Francesco si affacciò per la prima volta sulla moltitudine raccolta in piazza San Pietro, bastarono meno di dieci minuti per accorgersi che tante cose erano già cambiate. le prime parole da lui pronunciate come «vescovo di Roma», il pensiero rivolto al «vescovo emerito» Benedetto, le preghiere recitate insieme – il Pater, l’Ave e il Gloria, quelle più semplici e più usate dai poveri – e anche la richiesta al popolo di invocare sul nuovo cammino da fare insieme la benedizione di Dio: a tanti, bastarono quei pochi cenni per rincuorarsi. Per riconoscere che il Signore voleva ancora bene alla sua Chiesa, Ecclesiam Suam. 

Leggende sul «conclave pilotato» L’elezione di Papa Bergoglio, per più di un aspetto, appartiene all’ordine del miracolo. Ostentano uno spietato disprezzo dell’intelligenza e della memoria altrui, i “cattivi maestri” che provano senza vergogna a avvelenare i pozzi con l’inganno del «conclave pilotato».

Prima delle dimissioni di Benedetto e dell’arrivo a Roma dei cardinali per le congregazioni generali pre-conclave, Bergoglio era per quasi tutti i suoi colleghi solo un anziano arcivescovo in procinto di lasciare il governo della diocesi di Buenos Aires. Da tempo si preparava a ritirarsi nella residenza diocesana per i sacerdoti anziani, liberando armadi e distribuendo tra amici e conoscenti le sue cose. Da anni i giornali dell’ultra-destra cattolica argentina facevano macabre allusioni alla sua voce «sempre più fievole», che presto avrebbe taciuto per sempre. I tentativi di tessere soluzioni “preconfezionate” al conclave, accelerato dalla rinunzia di Papa Ratzinger, se c’erano, guardavano certo in altre direzioni. E c’era certo chi operava credendo di poter far scivolare conclave su un piano inclinato, verso una scelta “naturale” e “obbligata”. Nei giorni prima dell’extra omnes, uno stratega ruiniano aggiornava ogni sera i vaticanisti su quanti voti “sicuri” si erano già raccolti intorno al candidato dato per vincente e tutti ricordano l’incidente del comunicato ufficiale pre-confezionato della Cei con l’intestazione sbagliata. Quella sera del marzo 2013 Il disorientamento degli apparati, la sera del 13 marzo, fu dissimulato nelle frasi fatte e si ritrasse presto nell’ombra, per provare da lì a prendere le misure al “marziano”.

Le fabbriche dei conformismi antibergoglisti e bergoglisti non erano ancora state attivate. Così, prima che si cristallizzassero le maschere e le definizioni, il Papa eletto sul crinale di un tempo finale disse nei primi passi del suo pontificato la cosa più importante: confessò alla Chiesa e al mondo che i miracoli non li fa lui, che lui era un poveretto, «un peccatore a cui Cristo ha guardato». Era, al massimo, come il dito che indica la luna. Uno coi suoi limiti, che non era andato a abitare nel Palazzo apostolico «per motivi psichiatrici». Uno che non voleva fare il Papa, perché «una persona che ha voglia di fare il Papa, non vuole bene a se stessa, e Dio non la benedice». Distese nelle pieghe del suo magistero, nelle immagini ripetitive dei suoi interventi, quello che aveva già suggerito nel breve intervento davanti ai cardinali, durante le congregazioni pre-conclave: che la Chiesa stessa, a partire dal Papa, non brilla di luce propria. Che la Chiesa rimane un corpo opaco e buio, con tutti i suoi apparati le sue prestazioni, le sue antichità gloriose e le sue scaltre modernità, se Cristo non la illumina con la sua luce. E che solo Cristo, perdonandola, può liberare/far uscire la Chiesa stessa dalla sua inerziale auto-referenzialità, dal ripiegamento su se stessa. Perché «se Dio non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe» (Angelus, 17 marzo 2013).  Le cose di sempre
Nei primi mesi di pontificato, Le parole e i gesti più propri e più intimi del dinamismo della fede e della vita cristiana, riportate ai loro tratti minimali, (grazia, misericordia, peccato, perdono, carità, salvezza, predilezione per i poveri), irrigavano copiosi le giornate e gli interventi pubblici di Papa Bergoglio. Erano le cose e le parole di sempre, eppure per molti suonavano insolite. Dissipavano la cortina delle obiezioni, accendevano le domande di tanti. E Francesco, per farle arrivare a tanti, si affidò fin dal principio allo strumento più ordinario e consueto, da sempre utilizzato nella vicenda della Chiesa: le omelie del mattino, a Santa Marta. Spezzare ogni giorno il pane del Vangelo, e nutrirsene, insieme ai fratelli. Erano quelle che già allora certi “esperti” di politica ecclesiastica chiamano «le predichette». Per non creare ostacoli, per facilitare, per rendere più facile il possibile incontro di ognuno e di ognuna con Cristo. Il sensus fidei del popolo di Dio Dopo tanto tempo, riapparve nell’orizzonte ecclesiale il popolo di Dio. Fragile e distratto, povero e mal curato, riconobbe subito la voce e l’odore del pastore. Riconobbe gli accenti sorprendenti e nello stesso tempo familiari, le fattezza di una promessa di umanità e felicità che accoglie ma allo stesso tempo sorprende, supera ogni attesa. Non i militanti delle sigle, gli attivisti della mobilitazione ecclesiale permanente, gli infervorati a tempo pieno delle “minoranze creative” e dei circoli culturali, ma i “dilettanti”, i battezzati “generici”, quelli che non hanno preparato il discorso. Quelli in cui si percepisce un bisogno quasi fisico di rimanere semplici. Perché essere e dirsi cristiani è già un miracolo, e non serve inventarsi altro. Loro avvertirono una consonanza istintiva con la Chiesa “elementare” proposta in maniera diretta da Bergoglio. La Chiesa di sempre, quella di Papa Benedetto e di tutti i Successori di Pietro. Non una Chiesa “nuova”, ma un nuovo inizio, sul cammino della fede degli apostoli. In una storia sempre punteggiata di ripartenze, affidata alle mani fragili di uomini e donne che annunciano il perdono e la misericordia di Dio, solo perché ne hanno fatto esperienza nella loro carne.

La curiosità degli “altri” Ma le parole e i gesti del nuovo vescovo di Roma accesero da subito di incuriosita e confidente simpatia anche tra le moltitudini che non conoscono o riconoscono più il nome di Cristo, nei tanti per cui il cristianesimo appare un passato che non li riguarda, e in quelli che hanno voltato le spalle alla Chiesa. Fu smascherato il falso dogma dei circoli ecclesiastici che negli ultimi anni quasi si compiacevano di apparire odiosi e insopportabili al mondo, spacciando quel disprezzo come una medaglia al merito, una attestazione della loro identità sbandierata senza sconti e “buonismi”, opportune et importune. Papa Francesco ricordò a tutti che il cristianesimo non funziona così. Che vince e avvince il mondo per delectatio, come diceva sant’Agostino; «per attrattiva», come anche lui ripete sempre, citando Papa Ratzinger. Che le moltitudini erano incuriosite e attirate non dalle invenzioni e dalle strategie dei preti ma da Cristo, che già all’inizio passava nel mondo facendo il bene a tutti, ai peccatori e alle donne, ai malfattori e a quelli che non appartenevano al popolo eletto. L’interesse dei poteri del mondo I gesti e le parole del Papa «preso quasi alla fine del mondo», e il respiro largo che essi sembravano ispirare nella Chiesa, furono avvertiti presto anche da quelli che hanno il potere. Il primo Papa americano prendeva congedo dalle linee di pensiero ecclesiastico che a partire dagli anni Ottanta, nel crollo delle ideologie secolarizzanti, avevano rilanciato le appartenenze religiose come fattori di identificazione politico-culturale, avevano puntato a riaffermare per via politica o geo-politica la centralità egemonica degli apparati religiosi nella vita collettiva. Nel contempo, la “conversione pastorale” da lui suggerita a tutta la Chiesa non era una ritirata in un mondo parallelo, il mondo “della Chiesa” separato dal mondo degli uomini. Mostrava tra i suoi tratti genetici anche la sollecitudine per l’intera famiglia umana, per i destini dei popoli e delle nazioni. Papa Francesco non era arrivato al soglio pontificio sulla base di un disegno geopolitico da implementare. Il suo Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, ha affermato che gli obiettivi della stessa diplomazia pontificia consistono nel «costruire ponti, promuovere il dialogo e il negoziato come mezzo di soluzione dei conflitti, diffondere la fraternità, lottare contro la povertà, edificare la pace. Non esistono altri “interessi” e “strategie” del Papa e dei suoi rappresentanti quando agiscono sulla scena internazionale».

Un’attitudine al servizio del bene comune “globale”, senza interessi propri o “assi preferenziali” da tutelare, che spiega almeno in parte l’attenzione e l’apertura di credito accese dal papato di Bergoglio tra i soggetti geo-politici più disparati. Finora, in attesa che si disveli fino in fondo l’incognita dei rapporti con Donald Trump, l’attenzione dei leader globali e nazionali per i gesti e le parole del vescovo di Roma è apparsa costante e trasversale. Da Vladimir Putin a Barack Obama, da Angela Merkel alla Regina Elisabetta, da Benjamin Netanyahu al re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa, tutti sono voluti passare per il Palazzo apostolico o per Santa Marta, per ascoltare il Papa «preso quasi alla fine del mondo», e farsi ascoltare da lui. Il partito dei devoti Oltre al popolo fedele, oltre alle moltitudini globali, distratte e affannate, oltre alle élite dei “decisori” e di chi ha il potere, fecero presto mente locale anche una parte delle élite ecclesialmediatiche che negli ultimi lustri, mentre avanzava in tutto l’Occidente la deforestazione della memoria cristiana, avevano lucrato posizioni di potere anche ecclesiali sulla base dell’affiliazione alla linea ideologica muscolare-identitaria e “teo-con”, quella “vincente” quella del riscoperto “orgoglio cattolico”. I settori che avevano elaborato una chiave di lettura “organica” da applicare agli ultimi due pontificati, di taglio sostanzialmente politico-ideologico, tutta costruita sulle dicotomie conservatore-progressista, liberal-ortodosso. E nel tempo, avevano affinato strumenti e reti globali in grado di imporre i propri slogan come unità di misura dell’ortodossia cattolica, criteri di conformità rispetto alla Tradizione della Chiesa. In quei settori cominciò presto a crescere il nervosismo. E anche le operazioni mediatico-clericali confezionate e poi messe in circolo attraverso canali e agenti “fidelizzati”, secondo i tipici cliché delle lotte di potere che avevano inflitto le precedenti stagioni ecclesiali: «Lamentarsi e inveire è il loro forte. Essi brontolano, mugugnano, rimbrottano. Sono di cattivo umore e, quel che è peggio, nutrono rancore» (Charles Péguy). 

  (I – Continua)

image_pdfimage_print

il vangelo della domenica commentato da p. Maggi

IL SUO VOLTO BRILLÒ COME IL SOLE

commento al vangelo della seconda domenica di quaresima (12 marzo 2017) di p. Alberto Maggi:

Mt 17,1-9

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. Ed ecco apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo. Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Nel vangelo di Matteo ci sono quattro monti, l’uno in una relazione con l’altro. Al monte delle beatitudini corrisponde il monte della resurrezione, cioè praticando il messaggio di Gesù, si fa l’esperienza del Cristo risorto e della vita indistruttibile; al monte delle tentazioni corrisponde il monte della trasfigurazione. La condizione divina, secondo l’evangelista, non si ottiene mediante l’adorazione del potere, ma attraverso il dono di se stesso. È  quello che l’evangelista esprime al capitolo 17 del suo vangelo. Leggiamo. “Sei giorni dopo”, la datazione è preziosa, è importante: il sesto giorno, nella tradizione biblica, è il giorno della creazione dell’uomo, ed è anche il giorno in cui Dio, il Signore, sul Sinai manifestò la sua gloria. In Gesù si manifesta la gloria di Dio, nella pienezza della sua creazione. “Gesù prese con sé”, prende con sé Gesù tre discepoli, i più difficili, quelli che poi avrà come compagni, anche al momento della sua passione. Il primo viene presentato con il suo soprannome negativo, che significa il testardo, Simone, che viene presentato col soprannome Pietro, “Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte”, questa è un’indicazione preziosa che ci dà l’evangelista: ogniqualvolta Matteo usa la formula “in disparte”, è per indicare incomprensione o ostilità, ottusità nei confronti di Gesù e del suo insegnamento, quindi sappiamo già  come va a finire il brano. “in disparte su un alto monte”, ecco questo monte è la risposta al monte altissimo, sul quale il diavolo portò Gesù, offrendogli tutti i regni del mondo, a condizione di adorare il potere, cioè la condizione divina si ottiene attraverso il potere. Gesù non è d’accordo, Gesù mostra al suo tentatore, e ricordiamo che è stato Pietro, in questo vangelo, a ricevere da Gesù l’epiteto satana, il suo diavolo tentatore, (che) la condizione divina non si ottiene attraverso il potere, ma attraverso il dono d’amore di sé. “E fu trasfigurato”, letteralmente ebbe una metamorfosi, “davanti a loro”, l’evangelista mostra qual è la condizione dell’uomo che passa attraverso la morte. Pietro, nel brano precedente, si era rivoltato contro Gesù, perché non accettava l’idea di un messia che andasse a morire. Ebbene Gesù mostra loro che la morte non è una fine, ma una pienezza di vita, la morte non distrugge la persona, ma la potenzia. “il suo volto brillò come il sole”, il sole è immagine della  pienezza della condizione divina, “e le sue vesti divennero candide come la luce”, è l’immagine nella condizione divina, come quando Gesù dirà  che i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre, e queste vesti candide sono quelle della resurrezione. Quindi Gesù mostra che, passando attraverso la morte, la sua figura non solo non è stata distrutta, ma addirittura potenziata. “Ed ecco apparvero loro Mosè”, Mosè è il grande legislatore, “e Elia”, Elia è il grande profeta che, attraverso l’uso della violenza, impose l’osservanza della legge divina, “che conversavano con lui”, è importante questa precisazione. Elia e Mosè, cioè quello che noi chiamiamo l’antico testamento, la legge ed i profeti, non hanno nulla a dire alla comunità  di Gesù, conversano con Gesù; come sono i personaggi che hanno conversato con Dio, ora conversano con Gesù. “Ed ecco”, ed ecco qui il colpo di scena, “Pietro”, presentato con il solo soprannome negativo “disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne”, è importante quello che Pietro ha intenzione di fare. Pietro, ancora una volta in questo vangelo, continua nell’azione di satana, di diavolo tentatore di Gesù, e qual è la tentazione? Il messia, secondo la tradizione, sarebbe apparso all’improvviso, durante la festa più importante d’Israele. Delle grandi feste d’Israele, ce n’era una, che era chiamata semplicemente la festa, non c’era bisogno di indicarla, di nominarla. Era la festa per eccellenza, era la festa delle capanne: tra settembre e ottobre, per una settimana, gli ebrei vivevano sotto delle capanne, in ricordo della liberazione dalla schiavitù egiziana. Durante questa festa che ricordava la liberazione, sarebbe apparso il nuovo liberatore. “farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”, al centro, per Pietro, non c’è Gesù. Quando ci sono tre personaggi, il più importante sta sempre al centro. Per Gesù non è, per Pietro non è Gesù il personaggio più importante, ma è Mosè. Qual è la tentazione che fa Pietro a Gesù? Ecco il messia che io voglio: un messia che osservi la legge di Mosè, con lo zelo profetico e violento del profeta Elia. “egli stava ancora parlando”, ma a quanto pare Dio non è d’accordo con quello che dice Pietro, “quando ecco una nube luminosa”, immagine che, nel libro dell’Esodo, indica la presenza liberatrice di Dio, “li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva”, naturalmente è la voce di Dio, “questi è il figlio mio”, figlio non s’intende soltanto colui che è nato, ma colui che assomiglia al padre nel comportamento, “l’amato”, cioè l’erede di tutto, “in lui ho posto il mio compiacimento”, le stesse parole che Dio ha espresso su Gesù, al momento del battesimo, e poi un verbo imperativo: ascoltatelo, esattamente “lui ascoltate”. Non dovete ascoltare né Mosè, né Elia, ma è in Gesù che c’è la pienezza della volontà  divina, della rivelazione divina, lui va ascoltato. “All’udire ciò, i discepoli”, questo intervento divino provoca sconforto e desolazione, e segno di sconfitta, “all’udire ciò i discepoli caddero con la faccia a terra”, è un’immagine che indica il senso della sconfitta, della distruzione, “e furono presi da grande timore”, perché? Il messia che stanno seguendo in Gesù, non è quello da loro sperato, il messia vittorioso, il messia che imporrà la legge, il messia violento, ma tutto un altro, e quindi è una sconfitta dei loro sogni di ambizione, dei desideri di supremazia. “Ma Gesù si avvicinò, li toccò”, Gesù li deve toccare esattamente come tocca gli ammalati, come tocca i morti, “e disse: alzatevi e non temete”. Ma la reazione dei discepoli ancora una volta è negativa: “alzando gli occhi non videro nessuno”, cercano ancora, cercano ancora i punti di riferimento della tradizione del passato, cercano ancora Mosè, la legge che dà sicurezza, cercano ancora Elia il profeta, che, col suo zelo, fa osservare questa legge, non c’è più nessuno. Non c’è né Mosè, né Elia, e, quasi a malincuore, l’evangelista scrive: “non videro nessuno, se non Gesù  solo”. Gesù solo non gli basta, loro vogliono Gesù, secondo la linea di Mosè e di Elia. “Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro”, quindi Gesù si impone, “«Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti»”. Loro hanno sperimentato qual è la condizione dell’uomo che passa attraverso la morte, ma non si facciano illusione, devono ancora vedere quale tipo di morte Gesù affronterà, la morte che la Bibbia
riservava ai maledetti da Dio, una morte infame, la morte della croce. Quindi, per evitare sentimenti d’entusiasmo fuori posto, non dite niente a nessuno, fino a che non sia risorto, cioè prima devo passare attraverso la morte, e di questo tipo di morte.

image_pdfimage_print

i diritti sono sacri tranne che per i bambini rom

prendo atto che ci sono persone che valgono meno

b2452f526f5bf62ab7e9cbeb8573c5fd

Non avevo mai avuto un alunno andato via perché con una ruspa gli hanno buttato giù il luogo in cui abitava, oggi è successo.

La cosa più dura da mandar giù è che è successo nel silenzio più totale, col plauso dei cittadini, il silenzio di chi, a mio avviso, ma io non conto nulla, avrebbe dovuto parlare, uno sgombero efficiente, rapido, inodore.

Oggi, a Cornigliano, dove hanno sgomberato un campo rom che, intendiamoci, avrebbe dovuto essere sgomberato da anni, mancavano le nobili associazioni che si occupano di diritti civili e libertà, che chiedono a gran voce legalità e rispetto della costituzione.

No, non volevo che difendessero i rom, io e i miei colleghi dell’Istituto comprensivo di Cornigliano, Genova, Italia, Europa, avremmo voluto che spendessero una parola per tutelare il diritto allo studio dei bambini che vivevano in quel campo e frequentavano la nostra scuola. Una parola per chiedere che i progetti avviati su quei bambini continuassero, che le ore di formazione fatte dagli insegnanti fuori dall’orario di lavoro per imparare come gestirli, come avviare un difficile processo di integrazione, per spiegargli che un’altra vita era possibile non andassero persi, come l’impegno di quello stesso comune che li ha sgomberati, che aveva avviato un progetto  che aveva dato frutti ed è stato annullato quest’anno.

Viene da pensare che difendere i rom, anche i bambini rom sia una scelta politicamente infelice, che spendere una parola per loro possa costare tessere, sovvenzioni, favore popolare, e allora è meglio tacere e far parlare solo insegnanti e maestre che, tanto, non contano niente, non danno fastidio e possono tenersi insulti e sopportare l’ironia greve sui forum dei giornali o sui social network.

Viene da pensarlo ma io non lo penso: credo che quelle associazioni, la società civile, siano nobili e necessarie, ma, forse, un po’ distratte.

E comunque il Comune ha offerto ai rom sfrattati tre giorni in albergo per quelli senza figli e una settimana per quelle con i figli, cosa chiedere di più?

E poi? Poi la notizia si stempererà, poi di quelli non importerà più nulla a nessuno, poi sarà silenzio.

Complimenti anche i redattori del giornale cittadino, che casualmente, guarda tu le coincidenze, il giorno prima dello sgombero pubblicano una notizia sull’arresto di Sinti milionari. Senza spiegare alla gente che i Sinti non sono Rom, naturalmente, ma facendo in modo che lo sgombero venga applaudito.

I Rom rubano, certo, anzi, alcuni rom rubano, per essere onesti, io credo, ma non sono nessuno e non capisco niente, che se gli togliamo la scuola, l’educazione, se non li integriamo, i rom continueranno a rubare e continueremo a sgomberare campi con piccoli rom che non saranno scolarizzati e integrati, che ruberanno e allora sgombereremo altri campi con.,..

Prendo atto

che i diritti sono sacri tranne che per i bambini rom,

che la Costituzione è sacra tranne che per i bambini Rom,

che possiamo sdegnarci per tutto, scandalizzarci di tutto, ma non per i bambini rom,

prendo atto che la legge è uguale per tutti ma non per i bambini rom

Non ne prendono atto, per fortuna, i miei alunni, turbati e sdegnati dalla notizia.

“E adesso cosa ne sarà di loro?” Mi chiedono confusi. perché loro sono consapevoli che “loro” sono compagni, bambini come loro che con loro giocavano, ridevano, scherzavano, lavoravano in gruppo, etc.

Un compagno che va via è sempre un dolore per una classe, se poi al compagno hanno buttato giù il posto dove abita con una ruspa ed è stato portato via con un pulmino, per una destinazione sconosciuta, al dolore si accompagna anche un turbamento profondo, la sensazione di assistere a una incomprensibile ingiustizia.

Non avevo mai avuto un alunno andato via perché con una ruspa gli hanno buttato giù il luogo in cui abitava, oggi è successo.

Io lavoro per lo Stato, uno Stato che offre opportunità, che dà la possibilità di migliorarsi, di imparare a decodificare il mondo, di interagire e solidarizzare con chi ti sta vicino.

Non per uno Stato che, con un atto violento, toglie a dei bambini la possibilità di tornare, domattina, a ridere e scherzare con i loro compagni.

Ma, probabilmente,ha ragione la società civile, le persone nobili sempre in prima fila per difendere diritti, legalità, etc.

Una piccola storia ignobile come lo sgombero di un campo rom non merita considerazione, sono io che, non contando niente, non capisco niente.

Allego un piccolo filmato, l’ho fatto vedere ai miei alunni: loro hanno capito:

http://www.raiplay.it/video/2016/10/Aisa-e-Zamira—quotNoi-ragazzine-romquot-ff4118c8-4605-46c0-ae48-47353547f7a3.html

image_pdfimage_print

Leonardo Boff fa una grande proposta a papa Francesco

dall’Argentina e da Leonardo Boff arriva una straordinaria proposta a papa Francesco

Nous observons dans le monde entier une accumulation étonnante de richesse, dans laquelle seulement 1% de l’Humanité parvient à contrôler presque la totalité des flux financiers. Ce mécanisme s’effectue au prix de la généralisation de deux injustices: une injustice sociale avec des millions et des millions de pauvres, et l’injustice écologique avec l’épuisement des biens et des services de la Nature, mettant en danger la durabilité de notre Maison commune et de la Terre Mère. Face à ce paysage dramatique, le pape Francisco a favorisé l’émergence d’une initiative, basée en Argentine et ouverte à tous les continents, pour réfléchir sur ces contradictions: l’Observatoire de la richesse Pedro Arrupe – vers un nouveau système financier et communicationnel mondial.

En Argentine, le groupe initial a réuni des personnes notables telles que Perez Esquivel, Raúl Zaffaroni et d’autres personnalités. Nous invitons à présent les intéressés à soutenir à tous les niveaux cette initiative qui sera accompagnée personnellement par l’évêque de Rome, le pape Francisco. Les personnes intéressées peuvent nous envoyer leur demande d’adhésion à l’adresse e-mail suivante : observatoriopadrearrupe@gmail.com

Leonardo Boff

 

lettre au Pape Francisco afin de proposer l’organisation d’une Assemblée universelle des Églises, des religieux et des écoles spirituelles pour un nouvel ordre éthique et spirituel au niveau planétaire

Cher Pape Francisco, Cher frère aîné,

Encouragés par vos déclarations, et en particulier par l’encyclique « Laudato Si – Pour la sauvegarde de la Maison commune », par votre touchant discours à l’ONU de l’année 2015, ainsi que par les trois messages adressés aux mouvements populaires mondiaux, nous nous permettons de vous écrire cette présente lettre pour vous faire part d’une suggestion mûrie au sein de différents groupes continentaux. Nous pensons qu’elle constituerait un pas en avant et un complément des documents que nous venons de mentionner.

Nous partons de la constatation, explicitée dans votre encyclique, que le système Terre et le système Vie sont sérieusement menacés. Comme le dit la Charte de la Terre, « soit nous allons vers un partenariat mondial pour prendre soin de la Terre et d’autrui, soit nous risquons notre propre destruction et celle de la diversité de la Vie » (Préambule).

Les églises, les religions et les écoles spirituelles, en particulier l’Eglise catholique, sont toutes porteuses de messages spirituels et éthiques. Elles disposent d’une responsabilité fondamentale dans le processus de prise de conscience de l’Humanité et des dirigeants politiques pour qu’ils réalisent les efforts nécessaires pour garantir un futur positif pour la Vie, la Terre Mère et notre civilisation dans son ensemble.

Nous savons, cher Pape Francisco, notre frère aîné, que vous partagez profondément ces préoccupations et que vous croyez au pouvoir de la créativité des êtres humains et, surtout, à la force vitale de l’Esprit Créateur, « amant souverain de la vie » (Livre de la Sagesse 11, 26). Pour toutes ces raisons, nous avançons cette proposition, car nous croyons que vous avez atteint une autorité spirituelle, morale, œcuménique et politique nécessaire pour initier ce processus au nom de toute l’humanité, comme vous l’avez initié auparavant avec l’encyclique Laudato Si.

Nous prions que l’Esprit vous éclaire afin d’organiser une Assemblée universelle des Églises, des religions et des écoles spirituelles et d’approfondir les questions concernant l’avenir de notre espèce, de la diversité de la Vie dans la seule Maison Commune dont nous jouissons. Nous imaginons cette initiative comme une concrétisation de vos inspirations et de vos illuminations.

Le thème général pourrait être formulé comme suit :

Un nouvel ordre éthique et spirituel dans l’économie, la politique, la société et pour chaque individu.

Nous vous proposons, à titre de suggestions, d’aborder les sujets suivants que nous considérons comme essentiels :

  • La spiritualité en tant que processus anthropologique qui a lieu dans chaque être humain.
  • L’eau comme un bien naturel, essentiel, commun et irremplaçable.
  • La durabilité de tous les êtres, en particulier de la nature et de la Vie.
  • La faim dans le monde et le droit à une alimentation saine et suffisante pour tous;
  • Les droits de la Terre Mère et de la Nature.
  • Les droits des Peuples à leur souveraineté et au respect de leurs cultures et leurs traditions.
  • Les droits humains individuels et sociaux.
  • La condamnation de toutes les guerres, notamment les guerres préventives, et l’élaboration de propositions pour la paix.
  • Le droit au plein épanouissement de la conscience
  • L’économie solidaire des biens communs de la Terre Mère et de l’Humanité.
  • L’urgence d’une gouvernance pluraliste de la planète Terre afin de mettre en œuvre ce qui a été dit à l’Académie pontificale des sciences dans le document : « Humanité durable, nature durable : notre responsabilité » : «une redistribution équitable des richesses est loin d’être irréalisable. Les bases technologiques et opérationnelles d’un développement durable existent et sont potentiellement accessibles ».Il est évident que chaque groupe invité tentera d’apporter ses équipes de spécialistes dûment informés sur les questions proposées. L’invitation pourrait également inclure d’autres personnalités expertes et de bonne foi, quelle que soit leur appartenance religieuse ou spirituelle.Nous accompagnons cette lettre de nos prières et de nos souhaits, en vous faisant part de notre admiration et du soutien inconditionnel à vos initiatives universelles, humanitaires, courageuses et évangéliques.Les adhésions doivent être envoyées à : observatoriopadrearrupe@gmail.com
  • Par l’Observatoire de la richesse pour un nouvel ordre financier et communicationnel Pedro Arrupe.
  • Cher Pape Francisco, ce n’est qu’après une mure réflexion et un temps conséquent de prière que nous avons décidé de vous faire parvenir cette proposition dont vous saurez sans aucun doute comprendre la valeur. Nous prions l’Esprit de vous éclairer et de vous inspirer afin de permettre que ce projet devienne une réalité à court terme, en songeant surtout aux sujets les plus vulnérables. L’Assemblée serait ouverte et sans date de finalisation.
  • Il ne s’agit que de premières suggestions.

image_pdfimage_print

il mio lungo viaggio con la voglia di costruire un futuro nuovo

minori stranieri non accompagnati

una storia di conquista, speranza, sofferenza e volontà

la storia di Jerreh Jaiteh

Leonardo Cavaliere

Jerreh Jaiteh dopo un anno in Italia si racconta:

La mia è una storia di conquista, speranza, sofferenza e volontà che inizia in Gambia, un piccolo stato tropicale nel quale sono cresciuto e ho vissuto con la mia grande famiglia e dal quale ho deciso di partire  per scoprire un’altra parte del mondo.

La mia storia inizia da uno zainetto con dentro l’essenziale: due paia di pantaloni,  due magliette e una cuffia di lana, pane secco e burro di arachidi; in tasca un cellulare vecchio modello e i soldi nascosti nelle mutande.

Tanta la paura di non farcela, consapevole che non avrei rivisto la mia famiglia per un lungo periodo; ma uno spirito intraprendente mi ha spinto a mettermi in gioco e rischiare. Rischiare di non sopravvivere, di non abbracciare più la mia famiglia, di vedere il mio futuro sfumare tra la polvere del deserto, le onde del mare e le strade dissestate.

Proprio da qui è iniziato il mio lungo viaggio con la voglia di costruire un futuro nuovo, un percorso di riscatto e di rinascita grazie alla volontà di scommettere su una vita migliore.

Non posso dire che sia stato facile, ma sono stato fortunato e ce l’ho fatta.

Il sogno e la realtà, però, sono cose molto diverse. Ho incontrato, nel mio viaggio, tanti ragazzi pieni di speranza che avevano il mio stesso desiderio: arrivare in Europa e, da lì, costruire una vita migliore per se stessi ma anche per la loro famiglia. Il pensiero che dava forza  era quello di poter aiutare chi era rimasto a casa. , sapevo che mi aspettavano nuove difficoltà da affrontare: un posto dove stare, un lavoro da cercare per guadagnarmi da vivere, una lingua sconosciuta da imparare.  Sono molte le persone che mi hanno dato una mano e a cui sono grato; grazie a loro sto realizzando il mio sogno: andare a scuola e lavorare. Penso di avere fatto anch’io la mia parte, perché nella vita non puoi soltanto pensare di ricevere, devi anche dare. Io ho messo tutta la mia volontà e determinazione, impegnandomi a frequentare un corso per imparare l’italiano, lavorando nello stesso tempo. Sono felice di quello che ho raggiunto, sono felice di non essermi perso in strade che all’inizio possono sembrare più facili e brevi ma che sono sbagliate. So di avere intrapreso una strada lunga ma giusta, ho fiducia in me stesso. La mia famiglia mi manca, ma so che un giorno, forse nemmeno troppo lontano, avrò la gioia di condividere con loro la mia esperienza.

Jerreh Jaiteh

image_pdfimage_print

‘buonista’ sarà lei …

la parola “buonismo“

La parola «buonismo» fu inventata dal professor Ernesto Galli Della Loggia in un editoriale intitolato «L’Ulivo di Prodi o Garibaldi» pubblicato il 1° maggio 1995 sulla prima pagina del Corriere della sera. Da allora ha avuto un’immensa fortuna, è stata ripetuta da chiunque, in qualunque circostanza e contesto, da esponenti politici, giornalisti famosi, in rete, nei bar, perché serve a ribaltare in insulto una qualità, la bontà che dovrebbe essere la più importante tra le virtù cristiane. L’antecedente storico e linguistico diretto, quasi letterale, è il termine «pietismo», utilizzato dopo il 1938 contro chi spendesse qualche parola in favore degli ebrei vessati dalle leggi razziali. Fu un termine diffuso, di uso comune nel discorso pubblico, con cui si impediva ogni pietà ed esitazione. Ancora nel 1948 nell’Enciclopedia Treccani alla voce «Fascismo» si legge: «È altresì noto come il “pietismo” filosemitico fosse anche nei ranghi del partito, e fin nelle sommità (Balbo, per esempio), largamente diffuso». Anche durante il fascismo, una virtù, la pietà, l’essere pietosi, fu distorta e ribaltata in un vizio e in una debolezza, in modo da assolversi preventivamente da ogni colpa, per esempio quella di rastrellare e mandare a morire gli ebrei italiani.

 

Si torna a parlare di «buonismo» dopo il caso delle due donne rom rinchiuse in una gabbia e filmate con i telefonini da due impiegati della catena di supermercati Lidl perché sorprese a frugare nell’area dove viene portata la merce fallata. Chiunque abbia protestato o si sia scandalizzato di fronte alle risate dei carnefici e alla grida delle vittime è stato liquidato come «buonista». In un articolo su Repubblica, Roberto Saviano ha proposto di abolire il termine, ormai diventato «una specie di scudo contro qualsiasi pensiero ragionevole, contro qualsiasi riflessione in grado di andare oltre il raglio della rabbia e la superficialità del commento». Ma abolire una parola è impossibile, e forse sbagliato, soprattutto se questa parola svolge una funzione sociale e politica importante, centrale nel discorso pubblico. Come ha scritto Michele Serra, il «buonismo» «è un alibi insostituibile», perché «serve a ridurre ogni moto di umanità o di gentilezza a un’impostura da ipocriti, e di conseguenza ad assolvere ogni moto di grettezza e di disumanità».

L’uso del termine «buonismo» è un classico esempio di marketing negativo, estremo perché basato su una doppia negazione. Come in pubblicità si possono esaltare le caratteristiche negative di un prodotto per aumentarne il desiderio, così in politica si possono svalutare quelle positive dell’avversario per apprezzare le proprie. La realtà è che nessuno, nemmeno Salvini, ha il coraggio di dire apertamente di avere liberamente scelto di essere cattivo e spietato, e può immaginare di avere consenso su questo. Così sceglie di svalutare chi sceglie l’opzione contraria, bollandola come sentimentale e ipocrita, quando è evidente che l’ipocrisia è tutta nella scelta di mascherarsi e nascondersi dietro la caricatura dell’altro. Per questo, il modo più efficace di rispondere all’accusa è ribaltare di nuovo il significato morale del termine.

La parola buonismo non va abolita, va rivendicata. È il tentativo – la scelta – di provare a essere buoni e pietosi, sempre, verso gli innocenti come verso i colpevoli, verso gli ebrei deportati e i clandestini sbarcati, verso le rom trattate come animali dannosi e gli impiegati della Lidl probabilmente esasperati dalle continue visite delle donne rom e sicuramente convinti, nella loro ignoranza bestiale, di fare solo uno scherzo da condividere in rete. Il buonismo e il pietismo definiscono l’atteggiamento di chi, comunque, si sforza di comprendere le ragioni degli altri e le circostanze che li spingono a comportarsi male. La pietà di noi buonisti deve valere per tutti, perfino per Salvini che sicuramente racconta a se stesso e a suo figlio di avere delle buone ragioni, anche se nasconde ipocritamente a se stesso e agli altri la propria interessata ipocrisia. È buonista chi scommette sul fatto che ci si possa capire, anche quando è difficile, quasi sovrumano. È buonista chi vuole distinguere sempre, perché rifiuta di sprofondare nell’ignorante pigrizia autoassolutoria della categorizzazione, è buonista chi respinge la logica amici/nemici e cerca di non cedere mai alla tentazione incivile di fare di tutta l’erba un fascio.

Un giudice buonista non condannerebbe gli impiegati della Lidl al licenziamento. Gli imporrebbe di trascorrere un mese in vacanza in un campo rom, con i bambini rom e le donne rom, per cercare di capire come vivono e perché rubano, a mangiare con loro, dormire con loro. Si farebbero un’idea più complessa, anche nel male. E un giudice veramente buonista, ma buonista buonista, buonista fino alla meravigliosa imbecillità dei buoni davvero, li spedirebbe a fare una vacanza di lusso, magari al Billionaire Malindi Resort di Briatore, insieme alle due donne rom che hanno rinchiuso in gabbia, ripagando queste ultime del sacrificio con ricchi buoni sconto alla Lidl e con la licenza a vita di frugare nell’area della merce fallata tutte le volte che vogliono.

Dopo un mese insieme probabilmente tutti e quattro sarebbero persone migliori. Il buonismo è concedere la buona fede agli altri, anche quando non c’è. È desiderare di fidarsi perché se finisce la volontà di comprendersi – ed è quello che sta succedendo anche in Italia – finisce la civiltà e non ha senso la democrazia.

Roberto Saviano e Michele Serra terminano i loro articoli citando il Maestro Yoda: «La paura è la via per il Lato Oscuro. La paura conduce all’ira, l’ira all’odio; l’odio conduce alla sofferenza». Le fasi della paura, dell’ira, dell’odio per molti sono passate. Siamo dentro la sofferenza, quindi bisogna ricominciare dalle parole: e se nessuno vuole concedere più la parola buoni a chi si sforza di esserlo, vada per buonisti, che in fondo è lo stesso.

image_pdfimage_print

ciao Fra’ detto il papa … i detenuti del carcere di San Vittore aspettando papa Francesco e gli scrivono

lettere al papa

di Paolo Foschini
in “Corriere della Sera” del 6 marzo 2017

Il sito della Curia ambrosiana lo sottolinea col rilievo che merita: il prossimo 25 marzo, con la visita di Francesco a Milano, sarà la prima volta che un Papa entra nel carcere di San Vittore. Vescovi ce n’è stati tanti, è vero. E pure pontefici in visita altrove, da Regina Coeli a Rebibbia dove Wojtyla incontrò anche il suo attentatore Ali Agca, allo stesso Francesco che di detenuti ne ha incontrati un mare e anche all’estero ha visto prigioni tremende, a cominciare da quelle argentine. Ma per San Vittore è la prima volta e Bergoglio ha chiesto anche in questo caso quel che ha chiesto sempre: che non sia una visita formale, che ci sia tempo per parlare, per stare «a tu per tu» col maggior numero di persone possibile. E infatti starà lì per due ore a partire dalle 11.30, pranzando con loro.

 

«Il Papa viene per i detenuti — ha ricordato la direttrice Gloria Manzelli — ma anche per chi lavora con impegno e dedizione nell’Istituto penitenziario. Lasceremo che le persone incontrino Francesco senza il filtro dell’organizzazione, perché possa essere un incontro di anime». Il cappellano don Marco Recalcati ha spiegato che «per quanto possibile abbiamo chiesto di non selezionare i detenuti ma che pur dietro le sbarre, da lontano o mentre passa in rotonda, tutti riescano a sentire le parole del Papa e a vederlo».

Nella rotonda centrale ne incontrerà un centinaio, altri cento saranno a tavola con lui al Terzo raggio. Molti stanno preparando doni da lasciargli. Alcuni, nel frattempo, hanno deciso di scrivergli.

le loro lettere qui di seguito

Mi chiamo Natalino, sono originario della Calabria e ho perso la mia famiglia in 30 lunghi anni di carcere. È la seconda volta che entro. Da dicembre porto in corpo il cuore di un donatore, spero riposi in pace. Al mio risveglio dopo il trapianto ho visto nella mia stanza due figure che piangevano. Erano i genitori di chi mi aveva dato il cuore. Da allora mi sono sempre vicini e ringrazio Dio di avermi dato la possibilità di una nuova famiglia. Sono felice di vivere di nuovo insieme a tutti. Un caro saluto. Natalino Vallone
Ciao Francesco scusa se non uso appellativi ma una volta che supererai i cancelli di San Vittore sarai un fratello anche per me, che qui mi trovo da un po’ di tempo e che non ho fede. Voglio solo dirti che ho peccato, ho rubato la serenità alla mia mamma e ho ucciso la fiducia di mio padre. Ma loro non mi hanno abbandonato. Così è in loro che ora rivolgo la mia ritrovata fede. Così ho capito che non è importante in cosa credi, l’importante è avere la fortuna di poter credere in qualcuno. Grazie per ogni singolo passo che farai in queste mura. Grazie di rappresentare l’amore e non necessariamente solo una religione. Massimo Scarpat
Se potessi parlare a papa Francesco qui a San Vittore gli chiederei di fare un miracolo: di perdonare tutti i miei sbagli e tutte quelle volte che ho fatto del male, di farmi tornare bambino con i ricordi vissuti e di non fare più quelle brutte azioni che mi hanno allontanato dalla mia famiglia e mi hanno portato dove sono ora. Vorrei davvero potere ricominciare tutto. Alfredo Giacoppo
Abbiamo fedi differenti. Ma tu caro Francesco quando preghi per i carcerati non fai distinzioni di sesso, di razza, soprattutto di religione. Così mi sento accolto anch’io nelle tue preghiere e se potessi chiederti qualcosa sarebbe un regalo bellissimo sentirti fare una preghiera al cielo per noi fratelli musulmani detenuti nelle carceri italiane, lontani da casa e dai nostri affetti. Tu anche a noi di religione diversa ispiri fiducia con bellissime parole che riuniscono in fratellanza tutte le religioni. Ti prego di continuare a trasmettere fede, perché la fede può aiutare anche quelli che come noi hanno sbagliato a trovare la forza per combattere e per uscire dalle nostre dipendenze distruttive. Grazie Francesco da un fratello musulmano. Mustapha Sekouri

Caro papa Francesco, con onestà non sono molto credente. Ma se lei di pura fede in Cristo ritiene opportuno regalare una preghiera per la mia famiglia, che sono di principi cattolici, darà a questa mia carcerazione un senso e un po’ di pace e serenità ad anime pure, quali i miei figli e la mia compagna. A me non resta che chiedere perdono a lei per tutti i miei sbagli. Grazie. Ivan Accordi
Francesco ciao. Nelle tue parole che da San Pietro arrivano anche a noi detenuti di San Vittore emerge una forte partecipazione emotiva alle sofferenze umane. Purtroppo ci arrivano anche immagini cariche di dolore, immigrati, terremotati, e le infinite situazioni di estrema povertà. Ma tutto questo viene mitigato dalla gioia trasmessa dal tuo sorriso che ci fa dimenticare anche solo per un momento angoscia e tristezza. Grazie di donare con la tua visita una briciola d’amore eterno a noi detenuti sospesi nel limbo tra il bene e il male. Fatjoni
Carissimo Papa, mi trovo detenuto nel reparto dei tossicodipendenti di San Vittore chiamato La Nave. Sono qui per pagare il mio debito con la giustizia, ma allo stesso modo per riuscire a curare la mia patologia della sostanza. Le chiedo di fare una preghiera per darmi la forza di portare a termine la mia situazione, per un benessere mio e di mia sorella che è in attesa della mia prima nipotina: vorrei godermela fuori da queste mura visto tutto il sacrificio che fa ogni settimana per venirmi a trovare. Anche se sono musulmano, una parte di me crede in lei. Moutabbid Abdelkbir
Mio caro Papa semplice. Chi se lo sarebbe aspettato, a volte la vita è proprio strana, di incontrarci in questo percorso carcerario. Sarà un’altra esperienza che chiuderò in me. La mia famiglia me lo diceva sempre: da un’esperienza negativa ne può derivare una positiva, e questa ne è la prova. Quel che ti chiedo è di farci cantare per te la benedetta canzone «Hay un amigo en mi» per condividere con te le nostre emozioni e la musica che cantiamo col nostro coro qui a San Vittore. Come dice Madre Teresa quello che facciamo è solo una goccia nell’oceano, ma se non ci fosse quella anche l’oceano mancherebbe. Te saludo mi querido Papa Simple. Angelo Longo
Sono un papà di religione musulmana, detenuto nella casa circondariale di San Vittore. Sto scontando la mia condanna per colpa della mia tossicodipendenza. Quel che non vedo giusto è che la giustizia colpisce purtroppo non solo chi ha sbagliato, come me, ma anche i suoi affetti familiari. Così per un mio errore i miei due bambini non possono più vedermi. Ti chiedo una preghiera per potere riavvicinarmi a loro. Mi affido a te perché sei il Papa del popolo e della famiglia unita.
Grazie. Ghanim Larbi
Tu che intercedi per tutti coloro che soffrono, per tutti quelli che sono svantaggiati, per tutti quelli che sbagliano: ti chiedo una preghiera, caro Francesco. Poche parole, ma che pronunciate da te hanno la forza e l’intensità per cambiare la mia situazione. Aiutami a diventare un cristiano e un uomo migliore. Paloka Melsed
Ciao Francesco, detto il Papa! Mi dicono che presto verrai a San Vittore. Non so cosa tu abbia combinato per finire qui con noi, ma sta di fatto che ti abbiamo già preparato un letto al quarto piano del terzo reparto: le lenzuola ci sono già, devi solo procurarti il pigiama. Se poi quando dormi russi dimmelo, che mi procuro i tappi per le orecchie. Per il resto c’è tutto: caffè, sigarette e un piatto di pasta non mancano mai. Mi dicono anche che usi vestirti di bianco. Ti consiglio colori più scuri: sai, qui c’è tanta polvere, la candeggina scarseggia, e i capi bianchi non durano molto. Per ora è tutto, ti aspettiamo. Ciao Fra! Fabrizio Saderi
image_pdfimage_print
image_pdfimage_print