esperimento rom – razzismo fifty fifty in un simpatico scherzo

ESPERIMENTO A TORINO

“abbracciami, sono un Rom”

Un ragazzo con i capelli rasati ai lati e il ciuffo lungo e nero. Come va di moda. Ha 18 anni e si chiama Yonut. Se ne sta in piedi in mezzo alla strada nel centro pedonale di Torino, via Garibaldi. Al collo ha appeso un cartello con su scritto: “Io sono Rom. Abbracciami!“. Sta lì a braccia aperte e aspetta, nel via vai dello shopping del sabato.

Da un balcone, una telecamera nascosta riprende tutto. I ragazzi che si avvicinano e lo abbracciano. La sua faccia allegra e un po’ guascona quando qualcuno si avvicina. Riprende anche il papà che allontana i figlioletti: “Venite via….”.

E’ stato un esperimento sociale ideato da Martina Steinwurzel della cooperativa sociale Babel, realtà che lavora con migranti e richiedenti asilo.

“Mi sono ispirata – racconta – all’esperienza fatta anni fa da un ragazzo che, in mezzo alla strada, si era messo al collo il cartello “Ho l’Hiv, ti azzarderesti a toccarmi?”. Per abbattere il pregiudizio servono anche azioni di questo tipo”. E così ha “arruolato” Yonut che, con la sua famiglia, vive in un Centro gestito dalla cooperativa a Settimo torinese. Un interessante esprimento di housing sociale, attento all’integrazione di migranti e Rom.

“Sui social la gente scrive di tutto – dice Martina –  non sembra responsabile di ciò che scrive. Ma in un contatto reale con un essere umano, devi essere davvero molto razzista per non guardarlo negli occhi e accorgerti che è uguale a te”.

Lui, Yonut, adesso è contento. Quando lo raggiungiamo al telefono sembra anche un po’ stupito che un giornalista gli voglia parlare. Fa un po’ il timido. Ma poi racconta di sé. E degli abbracci.

“Ho 18 anni, sono in Italia da quasi 11 anni. Ho studiato​ qua, ho una qualifica di meccanico professionale. Sono qui con la mia famiglia: i miei genitori e quattro fratelli”.

Allora, Yonut, raccontaci degli abbracci….

Avevo un po’ paura all’inizio, avevo paura che nessuno mi venisse ad abbracciare. Poi è andata bene.

Ma ti abbracciavano?

Sì, sì, soprattutto le ragazze giovani.

Sì vabbè, perché sei un bel ragazzo!

(ride) Forse, non lo so!

Cosa ti dicevano quando vedevano quella scritta sul cartello?

Alcuni la leggevano, si giravano e andavano via.  Altri invece dopo averla letta, ci pensavano un po’, poi tornavano e mi abbracciavano. Mi dicevano: “Vai così, bravo, un abbraccio ci sta!”.

Secondo te c’era qualcuno che quando vedeva la scritta “Sono Rom” se ne andava per quello?

Secondo me sì. A un certo punto dei bambini si sono avvicinati e hanno chiesto al papà di cosa si trattava. E il papà li ha tirati via, venite via, venite via… Due ragazzi invece si sono avvicinati è mi hanno detto: “Sì al razzismo”. Proprio così: “Sì al razzismo”.

A fine giornata quanti abbracci hai portato a casa?

Tanti, una quarantina. E’ stato bellissimo, non me lo aspettavo.

Cosa pensi quanto senti dire “I Rom rubano tutti”?

Ti senti male. Ti senti diverso.

Tu non hai mai rubato…

No! (ride)

Epure sei Rom…

Eh, sì!

Come va con il lavoro?

E’ un casino, sono due anni che lo cerco. Ma niente. Ho fatto dei colloqui ma è andata male.

Allora magari diciamo a qualcuno che ti ha dato un abbraccio che ti dia anche un lavoro!

Magari, sì! (ride) Sarebbe una gran bella cosa per me.

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la riflessione di L. Boff in occasione dei suoi 70 anni

NASCERE ANCORA A SETTANT’ANNI

Leonardo Boff 

da: Adista Contesti n° 2 del 03/01/2009

 

 

In questo mese di dicembre compio 70 anni. Secondo i parametri brasiliani, divento ufficialmente vecchio. Questo non significa che io sia prossimo alla morte, perché questa può sopravvenire nel primo istante di vita. Però è un’altra tappa della vita, l’ultima.

Possiede una dimensione biologica, perché si esaurisce inesorabilmente il capitale vitale, ci indeboliamo, perdiamo il vigore dei sensi e ci allontaniamo lentamente da tutto. Di fatto, siamo anche un po’ più dimenticati e, forse, diventiamo impazienti e sensibili ai gesti di bontà, che ci muovono facilmente alle lacrime.

Ma c’è un’altra cosa, più interessante. La vecchiaia è l’ultima tappa della crescita umana. Nasciamo interi, ma non completi. Dobbiamo completare la nostra nascita costruendo l’esistenza, aprendo cammini, superando difficoltà e modellando il nostro destino. Siamo sempre in genesi. Cominciamo a nascere e continuiamo a nascere in prestazioni lungo la vita fino a finire di nascere. Allora entriamo nel silenzio. E moriamo.

La vecchiaia è l’ultima opportunità che ci offre la vita per finire di crescere, di maturare, e per finire di nascere. In questo contesto è illuminante la parola di san Paolo: “Nella misura in cui l’uomo esteriore decade, ringiovanisce l’uomo interiore” (2Cor 4,16). La vecchiaia è un’esigenza della persona interiore. Cos’è la persona interiore? È il nostro io profondo, il nostro modo singolare di essere e di agire, il nostro marchio registrato, la nostra identità più radicale.

Questa identità dobbiamo guardarla in faccia direttamente. È personalissima e si nasconde dietro le molte maschere che la vita ci impone, perché la vita è un teatro nel quale ricopriamo vari ruoli. Io, per esempio, sono stato francescano, prete, ora laico, teologo, filosofo, professore, conferenziere, scrittore, editore, redattore di alcune riviste, sotto inchiesta delle autorità dottrinarie vaticane, costretto al “silenzio ossequioso”, ed altri ruoli ancora. Ma c’è un momento in cui tutto questo si relativizza e diventa paglia secca. Allora abbandoniamo la scena, ci togliamo le maschere e ci chiediamo: in fin dei conti, io chi sono? Quali sogni mi motivano? Quali angeli mi abitano? Quali demoni mi tormentano? Qual è il mio posto nel disegno del Mistero? Nella misura in cui proviamo, con timore e tremore, a rispondere a queste domande, viene alla luce l’uomo interiore. La risposta non è mai conclusiva; si perde fin dentro l’Ineffabile.

Questa è la sfida che ci pone la tappa della vecchiaia. Allora rendiamoci conto che avremmo bisogno di molti anni di vecchiaia per trovare la parola essenziale che ci definisce. Sorpresi, scopriamo che non viviamo semplicemente perché non moriamo, ma che viviamo per pensare, meditare, aprire nuovi orizzonti e creare sensi di vita. Specialmente per cercare di fare una sintesi finale, integrando le ombre, rialimentando i sogni che ci hanno sostenuto tutta una vita, riconciliandoci con i fallimenti e acquistando saggezza. È illusorio pensare che questa venga con la vecchiaia. La saggezza viene dallo spirito con il quale viviamo la vecchiaia come tappa finale della crescita e del nostro vero Natale.

Infine, è importante preparare il grande Incontro. La vita non è strutturata per finire con la morte, ma per trasfigurarsi attraverso la morte. Moriamo per vivere di più e meglio, per immergerci nell’eternità e incontrarci con la Realtà Ultima, fatta di amore e misericordia. Lì sapremo veramente chi siamo e qual è il nostro vero nome.

Condivido con il saggio dell’Antico Testamento lo stesso sentimento: “Contemplo i giorni passati e ho gli occhi rivolti all’eternità”.

Porto avanti due sogni, sogni di un giovane anziano: il primo è scrivere un libro solo per Dio, se è possibile con il mio proprio sangue; il secondo è impossibile, ma bene espresso da Herzer, bambina di strada e poeta: “Io vorrei solo rinascere di nuovo per insegnarmi a vivere”. Ma siccome questo è irrealizzabile, non mi rimane che apprendere alla scuola di Dio. Parafrasando Camões, concludo: “Vivrei di più se non fosse, per un sì grande ideale, tanto corta la vita”.

 

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