riformulare l’evento cristiano oltre il linguaggio mitico

 

oltre il mito

per una nuova interpretazione del messaggio cristiano

una riflessione di

Andrés Torres Queiruga 

 
da: Adista Documenti n° 12 del 25/03/2017
 
 Non è sicuramente un problema nuovo quello legato alla necessità di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio che possa ancora risultare comprensibile all’uomo e alla donna contemporanei: già nel 1948, infatti, il grande esegeta cristiano Rudolf Bultmann richiamava  l’attenzione sull’urgenza di avviare quella che egli chiamava la «demitizzazione» della fede cristiana, evidenziando come il linguaggio mitico dei Vangeli risultasse ormai anacronistico nel mondo moderno.

Una questione che oggi, in piena età postmoderna, si è fatta ancor più pressante, come emerge, in particolare, dalla ricerca di teologi come il vescovo episcopaliano John Shelby Spong, con la sua rilettura post-teista del cristianesimo (oltre, cioè, il concetto di Dio come un essere onnipotente che dimora al di fuori e al di sopra di questo mondo e che da “lassù” interviene nelle questioni umane) o come il gesuita belga Roger Lenaers, con la sua proposta di riformulazione della fede nel linguaggio della modernità, o come il teologo clarettiano José María Vigil, con la sua riflessione sulla necessità di elaborare, a fronte delle rivoluzionarie trasformazioni epistemologiche in atto, nuovi paradigmi teologici (da quello pluralista a quello ecologico, da quello post-religionale a quello archeologico-biblico).

Ma è del resto una parte sempre più rilevante del mondo teologico (e non solo) ad avvertire la serietà della sfida, sottolineando l’importanza di una revisione di ogni aspetto del catechismo cattolico (a cominciare dalla liturgia; v. Adista Documenti n. 8/2017) sulla base di nuove idee e di nuove parole. Una sfida assai presente, per esempio, nella ricerca teologica dello spagnolo André Torres Queiruga –  già autore di importanti studi sulla necessità di ripensare la santità (v. Adista Documenti n. 33/2013), la Provvidenza (v. Adista Documenti n. 35/2013) e la Teodicea (v. Adista Documenti n. 31/2016) -, il quale proprio sul tema della demitizzazione del linguaggio religioso come conseguenza della profonda mutazione culturale in atto si sofferma in un articolo apparso in gallego sul numero 198 della rivista Encrucillada (maggio-giugno 2016) e in castigliano sul portale teologico latinoamericano Koinonía (febbraio 2017).

di seguito, in  traduzione dal castigliano, ampi stralci del suo articolo:

il linguaggio religioso

demitizzazione e cambiamento culturale

 
da: Adista Documenti n° 12 del 25/03/2017

 

1. L’ALLARME DELLA “DEMITIZZAZIONE”

1.1 La necessità del cambiamento

«Non si può usare la luce elettrica e l’apparecchiatura radio, o ricorrere ai moderni mezzi clinici e medici in caso di malattia, e allo stesso tempo credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli del Nuovo Testamento» (Rudolf Bultmann, Neues Testament und Mythologie).

Questa frase, che impressiona per la sua efficacia, non è stata scritta ieri da un esponente del nuovo ateismo, ma ormai parecchi anni fa, nel 1948, da uno dei grandi esegeti cristiani, il tedesco Rudolf Bultmann. E non la scrisse per attaccare la fede cristiana, ma per difenderne la validità, benché, questo sì, invocando una necessaria e urgente attualizzazione nel modo di comprenderla e di annunciarla. Che è quello che egli chiamò il problema della “demitizzazione”. Non è importante essere d’accordo su tutto ciò che dice Bultmann, troppo condizionato da un forte radicalismo esegetico e da un chiaro riduzionismo teologico (…), per  comprendere la serietà della sfida e la correttezza della sua messa in guardia.

Nell’acuto e profondo prologo alla traduzione francese del piccolo e influente libro di Bultmann su Gesù, Paul Ricoeur ne evidenziò assai bene i limiti, ma anche i meriti irrinunciabili, operando una distinzione, tanto ovvia quanto fondamentale, tra due livelli. Quando la lettura invade i dominii della scienza, conferendo valore di soluzione scientifica alla cosmologia primitiva della cultura biblica – la «concezione di un mondo stratificato su tre piani, cielo, terra, inferno, popolato da poteri soprannaturali che discendono qui in basso da lassù» –, il mito deve essere «puramente e semplicemente eliminato» (“Préface à Bultmann”, in Le conflit des interprétations, Parigi, 1969). Ma il mito è «qualcosa di diverso da una spiegazione del mondo, della storia e del destino; esprime, in termini di mondo, o piuttosto di ultra-mondo o secondo mondo, la comprensione che l’essere umano ha di se stesso in relazione al fondamento e al limite della sua esistenza». Per questo, dinanzi al mito, ciò di cui veramente deve trattarsi è di interpretarne l’intenzione genuina, eliminando le spiegazioni oggettivanti e guardando invece a cosa esso rivela riguardo al significato ultimo dell’esistenza.

Di fronte allora al rivestimento mitico con cui a volte viene presentato il messaggio del Nuovo Testamento, è necessario prendere in seria considerazione la necessità di una traduzione che vada al fondo di ciò che lì ci viene rivelato. Nulla sarebbe più lontano da questo di una banalizzazione che, senza uno studio serio né una meditazione profonda, si fermasse a un livello superficiale, non importa se disprezzando tutto e gettando il bambino con l’acqua sporca, o con un accomodamento puramente formale, fino al limite espresso da un aneddoto che ho già avuto occasione di raccontare: una volta ho ascoltato per caso un conduttore radiofonico che, allo scopo di “modernizzare” il messaggio dell’Ascensione, ha avuto la brillante idea di descrivere Cristo come “il divino astronauta”.

1.2 La serietà della sfida

Dinanzi a espressioni come questa, allorché si cade in una certa e irrimediabile sensazione di ridicolo, sorge subito il sospetto che si stia di fronte a un problema molto grave. L’esempio dimostra, in effetti, come l’urgenza della reinterpretazione nella comprensione e nell’espressione della fede sia legata all’enorme cambiamento culturale che, a partire dall’avvento della Modernità, ha scosso le radici più profonde del pensiero e dell’espressione dell’esperienza cristiana.

Perché risulta evidente che la descrizione neotestamentaria non si adatta alla nuova visione di un mondo che non ha un sopra né un sotto, che non presenta una dimensione terrena (imperfetta, mutevole e  corrotta) opposta a una dimensione sovralunare o celestiale (incontaminata, circolare, perfetta e divina). Per questo, tentare, come nell’aneddoto, di forzare l’adattamento mediante una superficiale rivisitazione linguistica appare un’assurdità; e, quel che è peggio, conferma l’accusa, così estesa, di chi ritiene che la religione appartenga irrimediabilmente a una mitologia passata.

E, una volta messi in guardia, basta un semplice sguardo per comprendere che non si tratta di un caso isolato, ma che il problema investe profondamente il quadro stesso delle formulazioni in cui trovano espressione le grandi verità della nostra fede. Chi è che, di fronte ai dati offerti dalla storia umana e dall’evoluzione biologica, potrebbe oggi pensare all’origine dell’umanità a partire da una coppia perfetta, in un paradiso senza belve feroci e senza fame, senza malattie e senza morte? Più grave ancora: chi è che, non essendo in grado, come qualsiasi persona normale, di colpire un bambino per punire l’offesa di suo padre, potrebbe credere in un “dio” capace di castigare per millenni miliardi di uomini e donne solo perché i  loro “primi antenati” non hanno obbedito al suo ordine mangiando il frutto proibito?

Potrebbe sembrare una caricatura, e in realtà lo è; ma tutti sappiamo che fantasmi uguali o simili popolano in maniera assai efficace l’immaginario religioso della nostra cultura. E l’enumerazione potrebbe continuare rispetto a questioni anche più gravi. Così, per esempio, si continua a parlare con troppa facilità di un “dio” che punirebbe per tutta l’eternità e con tormenti infiniti colpe di esseri tanto piccoli e fragili, come, in definitiva, siamo tutti noi esseri umani. O che ha preteso la morte di suo Figlio per concedere il perdono dei nostri peccati; un tema a proposito del quale grandi teologi, da Karl Barth a Jürgen Moltmann e Hans Urs von Balthasar, non esitano a pronunciare affermazioni che ricordano eccessivamente quelle teologie e quella predicazione che parlavano della croce come del castigo con cui Dio ha scaricato su Gesù la sua “ira” verso di noi…

Sappiamo bene che sotto queste espressioni palpita una profonda esperienza religiosa e anche che, con sforzo e buona volontà, risulta possibile arrivare a intenderle in maniera più o meno corretta. Però sarebbe pastoralmente e teologicamente suicida chiudere gli occhi sul fatto che il messaggio che arriva veramente alla gente normale è quello suggerito dal significato diretto di queste espressioni, considerando che le parole assumono il loro significato all’interno del contesto culturale in cui vengono pronunciate e ricevute.

D’altro canto, il rischio è di incorrere in quello che giustamente qualcuno ha definito “tradimento semantico” (P. Fernández Castelao), finendo per rendere inutile e anche contraddittorio il ricorso a procedimenti ermeneutici, artifici oratori o raffinatezze teologiche per ottenere una significatività attuale, pretendendo allo stesso tempo di conservare parole ed espressioni che sono debitrici del contesto precedente. Come per quelle dighe la cui struttura ha ceduto ormai alla pressione della piena, i muri di contenimento e i rimedi provvisori sono incapaci di arrestare l’emorragia di senso provocata dalle numerose e crescenti rotture del contesto tradizionale. Per cui o si rinnova la struttura, o il risultato potrà essere solamente lo straripamento e la catastrofe.

Come già evidenziato, sarebbe un peccato che, per colpa di certe esagerazioni da parte di Bultmann e di certi lambiccamenti teologici di molti critici, si ignorasse il suo grido di allarme. Teniamo presente che, per quanto il libro di Giosuè possa ripeterlo, nessuno di noi può oggi credere che il sole si muova intorno alla terra e, se accanto a noi qualcuno cadesse per terra per un attacco epilettico, non potremmo credere che la causa sia stato un demonio, per quanto così si pensasse al tempo di Gesù, o, addirittura, per quanto così lo dicesse, dal punto di vista culturale, naturalmente, lo stesso Gesù.

Affermare questo non implica in nessun modo negare il contenuto religioso né il valore simbolico (Bultmann parlava di “significato esistenziale”) di queste narrazioni. Quello che si mette in discussione non è il significato, ma l’adeguatezza di quelle espressioni per veicolarlo nel nuovo contesto.

Diciamolo con un esempio concreto: la creazione dell’essere umano nel secondo capitolo della Genesi continua a conservare tutto il suo valore religioso e tutta la sua forza esistenziale per una lettura che cerchi di cogliervi la relazione unica, intima e amorevole di Dio con l’uomo e con la donna, diversa da quella mantenuta con le altre creature. Ma, per farlo, risulta indispensabile andare oltre la lettera di quelle espressioni. Al contrario, se insistiamo a voler leggere in quei testi, di evidente carattere mitico, una spiegazione scientifica del funzionamento reale del processo evolutivo della vita, tutto si traduce in uno sproposito. Di fatto, sappiamo molto bene che, per quasi un secolo, in questo caso concreto, la fedeltà alla lettera è diventata una terribile fabbrica di ateismo, trasformando in realtà l’avvertimento paolino che «la lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2 Cor 3,6).

2. LA MODERNITÀ COME CAMBIAMENTO  DI PARADIGMA CULTURALE

Ridurre tuttavia il problema alla demitizzazione significherebbe minimizzarlo, in quanto tale questione si inscrive nel processo più ampio e profondo di cambiamento di paradigma culturale, che, investendo l’insieme della cultura, modifica profondamente la funzione del linguaggio. Risulta ovvio che ciò porta con sé l’urgenza di un rimodellamento e di una ri-traduzione dell’insieme di concetti ed espressioni in cui culturalmente si incarna la fede.

2.1 La profondità e la trascendenza della mutazione culturale

L’affermazione precedente è grave e impegnativa. Non è possibile ignorare il fatto che prenderla sul serio implica per il cristianesimo una riconfigurazione profonda – molte volte scomoda e persino dolorosa – delle abitudini mentali, degli usi linguistici e dei modelli di devozione. Basti pensare a un dato semplice ed evidente: l’immensa maggioranza dei concetti e buona parte delle espressioni in cui è stata verbalizzata la fede – nella devozione e nella liturgia, nella predicazione e nella teologia – appartengono al contesto culturale precedente all’Illuminismo. Affondano pertanto le loro radici vitali nel mondo biblico, sono stati riconfigurati culturalmente durante i primi cinque o sei secoli della nostra era e hanno ricevuto la loro formulazione più stabile nel corso del Medioevo. Successivamente ci sono state, certamente, delle attualizzazioni, ma – soprattutto nel cattolicesimo, a causa del maggiore controllo magisteriale – hanno avuto in generale un marcato carattere restaurazionista (la neo-scolastica del Barocco e del XIX secolo, il neo-tomismo e la reazione antimodernista).

La situazione si è ulteriormente aggravata per il fatto che il cambiamento moderno non si è prodotto nell’evoluzione pacifica data da un avanzamento lineare, bensì come una transizione violenta. La caduta della cosmovisione antica ha generato in molti la sensazione di essere stati ingannati, la convinzione che fosse necessario ricostruire tutto di nuovo. Le reazioni sono state molte volte senza dubbio eccessive, ma hanno indicato un compito ineludibile: la cultura, e per ciò stesso la religione, nella misura in cui era solidale con essa, non potevano continuare a parlare lo stesso linguaggio. Non era possibile andare avanti né con la lettura letteralista della Bibbia né con la concezione astorica del dogma.

Per la teologia, il compito appariva così immenso che non possono sorprendere le reazioni difensive e lo stile maggioritariamente restaurazionista. Il risultato è stato un chiaro ritardo storico, che rende più grave la situazione. Per fortuna, il Vaticano II, proclamando l’urgenza dell’aggiornamento, ha riconosciuto la necessità di un rinnovamento e aperto ufficialmente le porte per metterlo in pratica. Ciononostante, il peso delle difficoltà si è fatto sentire, e la paura del nuovo ha frenato molte iniziative. Fortunatamente, benché a breve o medio termine non ci si possano ancora attendere soluzioni sufficientemente soddisfacenti, il nuovo pontificato di Francesco riprende con vigore evangelico la feconda semina del Concilio. Se fino ad allora poco si parlava di inverno ecclesiale, tutto indica che, come per il fico del Vangelo, si annuncia una nuova primavera.

2.2 La possibilità di cambiamento

Per questo oggi apparirebbe fuori luogo un atteggiamento rassegnato e pessimista. Quando da una certa prospettiva si pensa ai profondi cambiamenti avvenuti soprattutto a partire dal Concilio, se si fa attenzione ai processi di fondo che si vanno delineando nella vita ecclesiale e si tocca con mano l’accoglienza cordiale e colma di speranza suscitata dal nuovo papa, non risulta difficile cogliere passi avanti di grande rilevanza. Resta molto da fare, certamente, ma la percezione profonda di questa mutazione fondamentale e la necessità di portarla avanti rappresentano già un elemento forte nell’ambiente generale.

Le resistenze sono notevoli, anche da parte di personalità ecclesiastiche, che invece dovrebbero essere le prime a puntare al rinnovamento. Ma lo stesso sconcerto che produce la loro mancanza di coerenza – considerando la loro rigida fedeltà al magistero papale quando tutto sembrava scorrere in sintonia con la loro ideologia religiosa – e, d’altro lato, la mobilitazione ecclesiale che si sta generando negli ambienti più sani del cristianesimo indicano come tali resistenze abbiano perso protagonismo e remino contro il vento dello Spirito. Anche in questo caso si realizza il principio enunciato da Hölderlin secondo cui «dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza». Per due ragioni fondamentali: perché la percezione di uno scompenso obbliga alla chiarezza e perché la nuova situazione porta con sé possibilità specifiche che solo a partire da essa diventano percepibili e realizzabili.

L’entità del cambiamento, in effetti, consente di vedere meglio la struttura del problema: è esattamente la stessa mutazione culturale che ci impedisce di prendere alla lettera il racconto dell’Ascensione quella che ci consente di liberare dalla sua schiavitù letterale il significato permanente dato dal suo senso profondo. L’impossibilità di leggere il racconto come un’ascensione materiale ci lascia liberi di ricercare il suo intento autenticamente religioso.

Operazione non facile né semplice, certamente, dal momento che tra la forma e il contenuto non esiste una relazione estrinseca, neppure come quella che si dà tra il corpo e il vestito. Il significato non esiste mai nudo, “in uno stato puro”, ma è sempre tradotto in una forma concreta: non vedere l’Ascensione come una salita al cielo significa necessariamente leggerla già nel quadro di un’altra interpretazione. Ciononostante, la distinzione risulta possibile, ed è molto importante comprenderla e affermarla, in quanto è unicamente da qui che nasce la legittimità del cambiamento e la libertà per intraprenderlo.

Vale la pena chiarirlo con un esempio, prendendo come riferimento l’acqua e la sua figura (non la sua formula), al posto del corpo e del suo vestito. Non esiste mai la possibilità di avere la figura dell’acqua “allo stato puro”: avrà sempre la forma del recipiente – bicchiere o bottiglia, brocca o catino – che la contiene. Se non ci piace una figura, possiamo cambiarla, ma solo a condizione di sostituirla con un’altra: quella imposta dal nuovo recipiente. Tuttavia, distinguiamo con facilità l’acqua dalle sue figure; e comprendiamo che si può cambiare recipiente senza che con ciò si debba cambiare l’identità dell’acqua. Certamente, in ogni travaso esiste sempre il rischio di perdite e di fuoriuscite, ma, se non vogliamo che l’acqua ristagni e si rovini, l’alternativa non è quella di conservarla sempre nello stesso posto, ma di fare attenzione che il travaso avvenga senza perdere nulla del contenuto del recipiente.

Con le limitazioni proprie di ogni esempio, qualcosa di simile succede con la fede e con le sue espressioni. La fede non esiste mai allo stato puro, ma sempre all’interno di un’interpretazione determinata. Tuttavia, se deve vivere nella storia, non può ristagnare in un tempo determinato, ma deve attraversarli tutti, adattandosi alle loro necessità e approfittando delle loro possibilità. Il che implica al tempo stesso libertà e modestia. Modestia, perché appare chiaro che nessuna epoca può pretendere che la propria interpretazione sia unica o definitiva, e neppure la migliore: le nostre attualizzazioni sono sempre provvisorie. Ma anche libertà, perché, proprio per questo, ogni epoca ha il diritto alla propria interpretazione. Esattamente perché la fede vuole essere “acqua viva”, la migliore maniera di conservarla non è richiuderla in un deposito morto, bensì costruire – con affetto e rispetto, perché nulla si perda, ma anche con coraggio e creatività, perché non ristagni e non si corrompa – canali sempre nuovi attraverso cui possa scorrere, fecondando i tempi e le culture.

2.3 I cammini del cambiamento

La questione è così seria da rompere di per sé la sacralizzazione di qualunque configurazione della fede, compresa quella iniziale, per non parlare di quella medievale. Neppure nella Scrittura possiamo incontrare l’esperienza cristiana allo stato puro, bensì la vediamo già tradotta negli schemi culturali del suo tempo e nelle “teologie” dei diversi autori o comunità: lo stesso Gesù parlava e pensava all’interno del suo quadro temporale, che non è né può essere il nostro. In effetti, l’inevitabilità di questo fatto si è fatta notare, in maniera francamente impressionante, già nelle stesse origini. Perché, quando ci si ferma un po’ a riflettere, non risulta difficile comprendere l’entità della trasformazione che ha comportato la traduzione non solo nella lingua, ma anche nella cultura greca, carica di intellettualismo filosofico, del messaggio evangelico, formulato in aramaico e sorto all’interno di una mentalità simbolica e decisamente funzionale.

Nell’attualità, la rivoluzione esegetica, superando la prigione fondamentalista del letteralismo biblico e il rinnovamento patristico, mostrando la storicità del dogma e gli ampi margini di legittimo pluralismo teologico, ha rivelato in maniera irreversibile l’apertura intrinseca della comprensione della fede. Quel che è certo è che, malgrado le profonde resistenze restaurazioniste, si sono aperte grandi possibilità non soltanto per la rottura di schemi obsoleti, ma anche per la ricerca di nuove formule ed espressioni. La fioritura della teologia che è seguita al Concilio, imprevedibile e quasi inimmaginabile appena poco tempo prima, indica come la fecondità della Parola resti viva e in grado di fecondare il futuro.

Inizialmente, il cambiamento richiesto dalla nuova cultura non è risultato, né poteva risultare, facile. Di fatto, ha provocato una delle crisi più gravi nella storia del cristianesimo. Affrontarla ha comportato, malgrado resistenze, fastidi e repressioni, un coraggio di tale portata da indurre Paul Tillich, sulla scia di Albert Schweitzer, ad affermare che «forse nel corso della storia umana nessun’altra religione ha avuto la stessa audacia né ha assunto simili rischi». Per questo, non celebreremo mai abbastanza l’aria fresca entrata grazie al Concilio nella Chiesa. E non c’è nessun ringraziamento migliore che quello di portare avanti l’impresa, cercando di condurla alla sua piena realizzazione. Quello che in definitiva ci viene chiesto, per stretta fedeltà al dinamismo della fede, è lavorare alla ricerca di un’interpretazione e del suo relativo linguaggio che, rompendo modelli culturali che non sono più i nostri, rendano trasparente il significato originario per gli uomini e le donne di oggi.

La nuova situazione non si limita a fare luce sul problema, ma offre anche nuove possibilità per affrontarlo. La stessa coscienza della necessità del cambiamento presuppone già un enorme passo avanti, in quanto invoca l’utilizzo di tutte le risorse dell’ermeneutica moderna. Non per niente ci troviamo nell’“età ermeneutica” della teologia (cfr J. Greisch, L’âge herméneutique de la raison, Parigi, 1985; C. Geffré, El cristianismo ante el riesgo de la interpretación. Ensayos de hermenéutica teológica, Madrid, 1984) e non come risorsa occasionale, bensì per profonda convinzione, considerando che l’esperienza religiosa, proprio per la difficoltà che offre la trascendenza dei suoi riferimenti, chiede di approfondire al massimo l’esercizio dell’interpretazione. (…).

La nuova cultura non offre soltanto lo strumento formale dell’ermeneutica, come mezzo per l’interpretazione rinnovata di quanto è stato ricevuto. Offre ugualmente qualcosa di forse ancora più importante: aprendo campi inediti alla comprensione umana, amplia lo spazio dell’intellectus fidei (la comprensione della fede) e aumenta le risorse per esprimerlo e per renderlo accessibile alla sensibilità attuale.

Pensiamo, per esempio, alle brecce aperte da teologie come quelle della speranza, della politica e della liberazione, grazie al fatto che hanno saputo approfittare dei mezzi offerti dall’analisi sociale. E, in un altro senso, vale la pena valorizzare anche il contributo derivante dalla scienza psicologica: il fatto che molte volte il suo ingresso risulti conflittuale, come nel caso di Jacques Pohier o di Eugen Drewermann, non toglie validità alla constatazione, ma piuttosto la conferma, in quanto mostra di toccare punti sensibili e decisamente reali. È a partire da qui che può ricevere aiuti fecondi e purificatori un campo così sensibile e importante come quello della morale, che, sempre più cosciente della sua autonomia, ha davanti a sé l’urgente e delicato compito di chiarire la sua vera relazione con la teologia e, in definitiva, con la religione.

In generale, è importante imparare a valorizzare sempre più il fatto che l’autentico progresso culturale, lungi dal costituire una minaccia per la fede, rappresenti un forte arricchimento. Di fatto, la storia recente mostra chiaramente come un’alleanza critica con quella parte della cultura impegnata a perseguire l’autenticamente umano (e per ciò stesso “divino”) sia sempre stata benefica per le Chiese: si pensi, per esempio, alla tolleranza, alla democrazia o alla giustizia sociale.

In una parola, se dinanzi alla questione strutturale del linguaggio religioso bisogna perseguirne il rinnovamento attingendo soprattutto alle profonde risorse della tradizione biblica, del dialogo delle religioni e dell’esperienza religiosa e anche mistica, per quel che riguarda la sfida culturale è principalmente delle scienze umane che bisogna approfittare. E non c’è dubbio che un’apertura generosa e un utilizzo al tempo stesso critico e coraggioso offrano ricche possibilità per affrontare il difficile ma irrinunciabile compito di una ri-traduzione del cristianesimo come quella che richiede la nostra situazione culturale.

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necessità di silenzio – la nostra tragica assenza di silenzio

l’incapacità di stare in silenzio nel tempo del caos e del rumore

di Fabrizio D’Esposito
in “il Fatto Quotidiano” del 20 marzo 2017

Il 17 marzo scorso, terzo venerdì di Quaresima, cioè del periodo cristiano che precede la Pasqua di Resurrezione, papa Bergoglio si è confessato come un comune credente durante la tradizionale liturgia penitenziale nella basilica di San Pietro, intitolata “Ventiquattro ore per il Signore”. Come ha però notato Vatican Insider, il sito “vaticanista” della Stampa, il pontefice ha rinunciato a pronunciare un’omelia, rispetto alle passate Quaresime. Francesco è rimasto volutamente in silenzio “in un momento di tanti e continui rumori”. Un silenzio per Dio, un silenzio spirituale nel segno della Misericordia. Già, il silenzio. Non solo in chiave religiosa. Viene in mente la battuta finale del felliniano La voce della luna, tratto dal Poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni, protagonisti Roberto Benigni e Paolo Villaggio. È quando Benigni alias Ivo Salvini dice: “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”. In questi giorni, per Einaudi, è uscito Il silenzio di Erling Kagge (112 pagine, 12), venduto in venti Paesi. Norvegese di Oslo, Kagge è un esploratore solitario che ha cercato il silenzio in tre posti remotissimi: il Polo Sud, il Polo Nord, una cima dell’Everest. Kagge descrive la sua esperienza di silenzio laico: “Il silenzio arricchisce di suo. Possiede questa qualità intrinseca, esclusiva e preziosissima. È una chiave che ci consente di accedere a nuovi modi di pensare. Per me il silenzio non è un abbandono, non è qualcosa di spirituale, bensì uno strumento pratico per arricchire la vita”. Solo che viviamo un tempo di caos, di rumore senza sosta, soprattutto a causa dell’innovazione tecnologica. Qui, Kagge, declina la celebre frase di Blaise Pascal: “La disgrazia degli uomini proviene dal non saper starsene tranquilli in una camera”. È l’incapacità non solo di stare in solitudine ma di non riuscire a sopportare il silenzio. L’esploratore scandinavo cita i risultati di un’inquietante ricerca universitaria della Virginia e di Harvard: in pochissimi, tra i 18 e i 77 anni, sono stati capaci di rimanere chiusi in una camera dai 6 ai 15 minuti, senza aver accesso a uno smartphone. È la tragica assenza del silenzio.

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un’altra narrazione di Francesco d’Assisi

“Francesco d’Assisi la storia negata”

recensione di Aldo Pintor

Ringraziamo la Casa Editrice Laterza perchè in questi giorni ha fatto uscire il prezioso lavoro della storica
Chiara Mercuri “Francesco D’Assisi la storia negata” (pp. 216, € 16,99)
che con una ricostruzione storica accurata ricostruisce le testimonianze dei primi compagni di Francesco d’Assisi circa questo Santo. Testimonianze che furono trascurate se non nascoste per secoli da cui esce un ritratto potente del Santo che contiene tutta l’originalità di questo grande uomo nel praticare il Vangelo. 
E dopo aver letto il libro l’immagine che avremo di Francesco sarà molto diversa da quella agiografica e sdolcinata che troppo spesso ci è stata proposta. E’ noto il legame che i primi compagni che lo seguirono ebbero con l’Assisiate. Essi stessi si definivano in latino Nos qui con ei fumus (noi che siamo stati con lui). Eppure la vicenda di San Francesco così come quella degli ordini religiosi da lui scaturiti ha subito nel tempo una mole notevolissima di interpretazioni e ricostruzioni completamente differenti tra loro. Il paziente lavoro di Chiara Mercuri ricostruisce il ritratto di questo Santo che ha fatto sognare anche persone molto distanti dalla Chiesa. Da buona storica l’autrice ci racconta anche la città che lo ha visto nascere crescere e ardere di inconsapevolezza. Dopo la morte di Francesco Bonaventura da Bagnoregio ha ordinato la distruzione di documenti dei suoi primi compagni e Chiara Mercuri in questo libro ce li mette a disposizione. I giovani che udirono il suo richiamo e lo raggiunsero alla Porziuncola e a Rivotorto, la gente di Assisi la mole del Subasio che sovrasta Assisi, i fiori della splendida primavera umbra compaiono nelle pagine della nostra storica per resituirci un’immagine di un uomo di carne e di sangue e il contesto in cui Francesco ha vissuto e operato. Certo che tanta risolutezza nel seguire il Vangelo alla lettera è sempre stata scomoda per farisei e sommi sacerdoti di tutti i tempi. La radicalità di Francesco venne combattuta nei secoli successivi creandone un’immagine che falsava la realtà. Bellissimo il ritratto di Chiara d’Assisi che troviamo in queste pagine che fu talmente risoluta nella sua scelta evangelica di seguire Francesco che pur di “condividere il privilegio della povertà” si oppose perfino al papa che le aveva imposto la clausura. E leggendo il libro apprendiamo come negli ordini religiosi medioevali, nonostante quanto si creda si differente le donne erano molto più rispettate che non nella società civile. Infatti il numero di sante appartenenti a questo periodo è piuttosto elevato. Questo libro scritto con il rigore dello storico ma con la passione per quanto ci narra ci fa quasi rivivere nelle strade e nelle piazze di Assisi per incrociare Francesco coi suoi compagni che amando e amandosi con gaiezza ci fanno battere forte il cuore in petto come accadde ai discepoli di Emmaus quando incontrarono Gesù. Da questa lettura riusciamo a scorgere una società più equa tra noi e maggiormente in armonia col Creato. E questo incontro ci apre al richiamo per l’Infinito
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le parole convincenti per farlo papa

 

 ecco il discorso di Bergoglio che convinse i cardinali ad eleggerlo
“la chiesa deve uscire da se stessa”
Ecco il discorso di Bergoglio che convinse i cardinali ad eleggerlo: "Chiesa deve uscire da se stessa"

reso pubblico dal cardinal Ortega

fu pronunciato alla congregazione generale, alla vigilia del conclave che elesse Francesco

di PAOLO RODARI

Il cardinale cubano Jaime Ortega, dopo che i contenuti erano già stati resi noti in passato, ha chiesto a Francesco una copia del testo originale ricevendo anche l’ok per la pubblicazione. Diramati in queste ore, a quattro anni di distanza dall’elezione, gli appunti ridestano stupore. In particolare, come scrive “Il sismografo”, il quarto punto. Bergoglio dice la sua sul futuro Papa, un uomo che, attraverso la contemplazione di Gesù e l’adorazione di Gesù, aiuti la Chiesa “a uscire da se stessa verso le periferie esistenziali, che la aiuti a essere la madre feconda che vive della dolce e confortante gioia dell’evangelizzare”.

Ecco il discorso di Bergoglio che convinse i cardinali ad eleggerlo: "Chiesa deve uscire da se stessa"

Francesco spiega cosa significa evangelizzare. Implica “zelo apostolico” e “presuppone nella Chiesa la ‘parresìa’ di uscire da se stessi”, per andare “verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’assenza di fede, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria”.

Bergoglio ricorda anche i mali che affliggono la Chiesa, in particolare l’autoreferenzialità, il “narcisismo teologico”. Il futuro Papa ricorda l’Apocalisse, dove è scritto che Gesù sta sulla soglia e chiama.

Evidentemente il testo si riferisce al fatto che “Lui sta fuori dalla porta e bussa per entrare…”. Però a volte “penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire”.

E ancora: “La Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il ‘mysterium lunae’ e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale (secondo De Lubac, il male peggiore in cui può incorrere la Chiesa): quel vivere per darsi gloria gli uni con gli altri. Semplificando, ci sono due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa; quella del ‘Dei Verbum religiose audiens et fidenter proclamans’ – La Chiesa che religiosamente ascolta e fedelmente proclama la Parola di Dio -, o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé. Questo deve illuminare i possibili cambiamenti e riforme da realizzare per la salvezza delle anime”.

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la battaglia contro il populismo si vince solo ripartendo dagli ultimi

Jürgen Habermas

“il populismo? si vince tornando vicino agli ultimi”

Il filosofo tedesco intervistato su “MicroMega” invita la sinistra europea a ripartire riscoprendo le battaglie delle origini

 

Dopo il 1989 si è parlato di una “fine della storia” nella democrazia e nell’economia di mercato, oggi assistiamo a un nuovo fenomeno: l’emergere – da Putin ed Erdogan fino a Donald Trump – di forme di leadership populiste e autoritarie. È ormai evidente che una nuova “internazionale autoritaria” riesce a determinare sempre di più il discorso pubblico.

Aveva ragione allora il suo coetaneo Ralf Dahrendorf quando prevedeva un XXI secolo sotto il segno dell’autoritarismo? Si può o si deve già parlare di una svolta dei tempi?

“Quando, dopo la svolta dell’89-90, Fukuyama riprese lo slogan della “po – Dst-storia” – che originariamente era legato a un feroce conservatorismo – questa sua reinterpretazione del concetto dava espressione al miope trionfalismo di élite occidentali che si affidavano alla fede liberale nell’armonia prestabilita tra democrazia ed economia di mercato. Questi due elementi plasmano la dinamica della modernizzazione sociale, ma sono connessi a imperativi funzionali che tendono continuamente a entrare in conflitto. Solo grazie a uno Stato democratico degno di questo nome è stato possibile conseguire un equilibrio tra crescita capitalistica e partecipazione della popolazione alla crescita media di economie altamente produttive: una partecipazione, questa, che veniva accettata, anche se solo in parte, in quanto socialmente equa. Storicamente, tuttavia, questo bilanciamento, che solo può giustificare il nome di “democrazia capitalistica”, è stato più l’eccezione che la regola. Già solo per questo si capisce come l’idea che il “sogno americano” si potesse consolidare su scala globale non fosse che un’illusione. Oggi destano preoccupazione il nuovo disordine mondiale e l’impotenza degli Stati Uniti e dell’Europa di fronte ai crescenti conflitti internazionali, e logorano i nostri nervi la catastrofe umanitaria in Siria o nel Sudan del Sud e gli atti terroristici di matrice islamista. E tuttavia, nella costellazione evocata nella domanda, non riesco a scorgere una tendenza unitaria diretta verso un nuovo autoritarismo: solo diverse cause strutturali e molte casualità. L’elemento unificante è il nazionalismo, che nel frattempo però abbiamo anche a casa nostra. Anche prima di Putin ed Erdogan, la Russia e la Turchia non erano certo “democrazie ineccepibili”. Con una politica occidentale solo un po’ più accorta forse avremmo potuto impostare relazioni diverse con questi paesi: saremmo forse riusciti a rafforzare anche le forze liberali presenti nelle popolazioni di questi paesi”.

Non si sopravvalutano così retrospettivamente le possibilità che erano in mano all’Occidente?

“Chiaramente per l’Occidente, già solo a causa dei suoi interessi divergenti, non era facile confrontarsi, in modo razionale e nel momento opportuno, con le pretese geopolitiche della retrocessa superpotenza russa oppure con le aspettative di politica europea dell’irascibile governo turco. Molto diversa è invece la situazione per quanto riguarda l’egomane Trump, un caso significativo per l’intero Occidente. Con la sua disastrosa campagna elettorale Trump ha portato alle estreme conseguenze una polarizzazione che i repubblicani, a tavolino e in modo sempre più sfacciato, hanno alimentato fin dagli anni Novanta; lo ha fatto però in una forma tale da far sì che questo stesso movimento alla fine sfuggisse totalmente di mano al Grand Old Party, che è pur sempre il partito di Abraham Lincoln. Questa mobilitazione del risentimento ha espresso anche le tensioni sociali che attraversano una superpotenza politicamente ed economicamente in declino. Ciò che trovo inquietante, quindi, non è tanto il nuovo modello di un’internazionale autoritaria, a cui si faceva riferimento nella domanda, quanto la destabilizzazione politica in tutti i nostri paesi occidentali. Nel valutare il passo indietro degli Stati Uniti dal ruolo di gendarmi globali sempre pronti a intervenire, non dobbiamo perdere di vista qual è il contesto strutturale in cui ciò avviene, contesto che concerne anche l’Europa. La globalizzazione economica, messa in moto negli anni Settanta da Washington con la sua agenda politica neoliberista, ha avuto come conseguenza un declino relativo dell’Occidente su scala globale rispetto alla Cina e agli altri paesi Brics in ascesa. Le nostre società devono elaborare la percezione di questo declino globale e insieme a ciò la complessi- tà sempre più esplosiva della nostra vita quotidiana, connessa agli sviluppi tecnologici. Le reazioni nazionalistiche si rafforzano negli strati sociali che non traggono alcun beneficio – o non ne traggono abbastanza – dall’aumento del benessere medio delle nostre economie”.

Stiamo assistendo a una sorta di processo di irrazionalizzazione politica dell’Occidente? C’è una parte della sinistra che ormai si professa a favore di un populismo di sinistra come reazione al populismo di destra.

“Prima di reagire in modo puramente tattico bisogna sciogliere un enigma: come è stato possibile giungere a una situazione nella quale il populismo di destra sottrae alla sinistra i suoi stessi temi?”.

Quale dovrebbe essere allora la risposta di sinistra alla sfida della destra?

“Ci si deve chiedere perché i partiti di sinistra non vogliono porsi alla guida di una lotta decisa contro la disuguaglianza sociale, che faccia leva su forme di coordinamento internazionale capaci di addomesticare i mercati non regolati. A mio avviso, infatti, l’unica alternativa ragionevole tanto allo status quo del capitalismo finanziario selvaggio quanto al programma del recupero di una presunta sovranità dello Stato nazionale, che in realtà è già erosa da tempo, è una cooperazione sovranazionale capace di dare una forma politica socialmente accettabile alla globalizzazione economica. L’Unione europea una volta mirava a questo – l’Unione politica europea potrebbe ancora esserlo”.

Oggi tuttavia sembra essere persino peggio del populismo di destra in sé il “pericolo di contagio” del populismo nel sistema dei partiti tradizionali, in tutta Europa.

“L’errore dei vecchi partiti consiste nel riconoscere il fronte che definisce il populismo di destra: ossia “Noi” contro il sistema. Solo una marginalizzazione tematica potrebbe togliere l’acqua al mulino del populismo di destra. Si dovrebbero quindi rendere di nuovo riconoscibili le opposizioni politiche, nonché la contrapposizione tra il cosmopolitismo di sinistra – “liberale” in senso culturale e politico – e il tanfo etnonazionalistico della critica di destra alla globalizzazione. In breve: la polarizzazione politica dovrebbe cristallizzarsi di nuovo tra i vecchi partiti attorno a opposizioni reali. I partiti che riservano attenzione al populismo di destra, piuttosto che disprezzarlo,  non possono aspettarsi poi che sia la società civile a mettere al bando slogan e violenze di destra”.

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il panzer-cardinale bugiardo sbugiardato dalla signora Marie Collins

l’incoerenza e la memoria corta del card. Müller

Marie Collins attacca il prefetto della Cdf

Ludovica Eugenio 

da: Adista Notizie n° 12 del 25/03/2017

 

«Ci sono alcune cose che Lei afferma alle quali sento il bisogno di rispondere»

con un tono solo apparentemente pacato Marie Collins, la vittima di abusi e attivista irlandese recentemente dimessasi da membro della Pontificia Commissione per la Tutela dei minori per contestare il boicottaggio della Commissione stessa in particolare da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede (v. Adista Notizie n. 10/17), ha replicato al tono vagamente sprezzante e liquidatorio usato nei suoi confronti dal card. Gerhard Müller, prefetto della Congregazione. Müller, in un’intervista al Corriere della Sera del 5 marzo scorso, aveva rispedito al mittente tutte le obiezioni della Collins, mettendone in dubbio la veridicità (v. Adista Notizie n. 11/17). E così l’irlandese ha preso metaforicamente carta e penna e ha ribattuto attaccando e smentendo con grande forza, frase per frase, a tratti con sarcasmo, le affermazioni del cardinale in una lunga lettera aperta pubblicata in esclusiva dal settimanale statunitense National Catholic Reporter (14/3).

Ma quale collaborazione?

«Non posso capire che si parli di mancanza di collaborazione», aveva affermato Müller. «Forse un esempio può essere d’aiuto», ribatte pronta la Collins. «Nel 2015, alcuni gruppi di lavoro della Commissione invitarono la sua Congregazione a far partecipare un suo rappresentante agli incontri in programma a Roma per discutere questioni di comune interesse. Ma l’invito venne declinato, e i membri vennero informati dal Segretario della Commissione, mons. Robert Oliver, che tali incontri non sarebbero stati possibili e che non era possibile altra comunicazione se non per iscritto. Certo, le cose poi sono cambiate, ma c’è voluto più di un anno. Era settembre 2016 quando un rappresentante della Cdf ha partecipato agli incontri del gruppo di lavoro della Commissione».

A sentire Müller, poi, negli ultimi anni «c’è stato un contatto permanente» tra Cdf e Commissione: «Non so che forma abbia assunto questo contatto permanente», replica la Collins. «Tutto ciò che posso dire è che i membri della Commissione non hanno ricevuto resoconti formali né vi è stato alcun risultato positivo generato da tale contatto».

«Uno dei nostri collaboratori fa parte» della Commissione, insisteva il cardinale: certo, ne faceva parte, «ma è sorprendente, dato che lei afferma di essere sempre stato in contatto con la commissione – nota sarcastica la Collins – che non sapesse che questo membro, Claudio Papale, ha concluso il suo coinvolgimento attivo nella Commissione nel 2015 (anche se i membri lo hanno saputo solo a maggio 2016)».

Il tribunale per i vescovi negligenti è stato silurato

Riguardo poi al nuovo tribunale per i vescovi negligenti nella gestione dei casi di pedofilia, Müller, nell’intervista con il Corriere, aveva parlato di un «dialogo intenso fra vari Dicasteri coinvolti nella lotta contro la pedofilia nel clero» che avrebbe avuto luogo, e che tale tribunale sarebbe stato solo un «progetto»: «Era solo un progetto, dice?», attacca l’irlandese. «A rileggere l’annuncio pubblico del 10 giugno 2015, sembra molto di più. Azioni molto precise erano già state approvate e dotate di risorse dal Santo Padre», come la creazione di una nuova sezione giudiziaria nella Cdf, la nomina di personale per il Tribunale e la nomina di un segretario per i rapporti tra prefetto e tribunale. «Nonostante la stretta collaborazione con la Commissione di cui lei parla, questa non si estendeva alla discussione tra dicasteri vaticani».

Ma il tribunale, secondo il prefetto, non era necessario, dal momento che qualsiasi negligenza poteva essere trattata con «la competenza», «gli strumenti» e i «mezzi giuridici» già in opera nella Congregazione per i vescovi; e se in qualche “caso speciale” ciò non fosse stato sufficiente, il papa avrebbe sempre potuto affidarlo, sosteneva Müller, alla Cdf. «Quindi non era necessario alcun cambiamento e non venne realizzato nulla. La ringrazio, Cardinale, per aver confermato, con le sue parole, che quello che avevo detto sul tribunale era vero», incalza la Collins. «La Commissione lo aveva raccomandato, il Consiglio dei cardinali e il papa lo avevano approvato, e poi è stato rigettato dalla sua congregazione». Ma se è vero che sono stati messi in opera tutti i mezzi necessari per trattare il caso di un vescovo negligente, perché allora «nessun vescovo è stato ufficialmente e pubblicamente sanzionato o rimosso per la sua negligenza? Se non è per mancanza di leggi, allora si tratta di mancanza di volontà? Sono certa, cardinale, che molte vittime, me compresa, sono interessate alla risposta a questa domanda».

Incoerenza e freddezza burocratica

La Collins prosegue con l’affermazione di Müller di non sapere nulla dei due “incidenti” – per non dire boicottaggi – da lei citati: il rifiuto della Cdf di collaborare sul fronte delle linee guida per la tutela dei minori e di rispondere alla corrispondenza inviata dalle vittime: «Se ha dubbi sulla natura di questi “incidenti” – afferma incastrandolo – può rinfrescarsi la memoria guardando la lettera formale di risposta inviata dalla sua Congregazione alla Commissione il 15 dicembre 2016. Nel primissimo paragrafo, la lettera cita esplicitamente le due richieste». Per quanto riguarda la seconda, ossia la richiesta a tutti i dicasteri di rispondere sempre alle lettere inviate dalle vittime, essa era già stata approvata dal papa e il rappresentante ufficiale della Cdf si era detto d’accordo, in un incontro del settembre 2016: «Invece, due mesi dopo, nella risposta formale della sua Congregazione, è stata rifiutata». «È difficile lavorare con un organismo – conclude la Collins – incoerente nel suo approccio, che non si sa dove si colloca in ogni momento specifico». Il cardinale aveva motivato questo rifiuto con il rispetto della sussidiarietà, ma ciò indica che «nella Chiesa il rispetto del sistema gerarchico ha ancora la meglio sul rispetto per l’individuo. Mi hanno insegnato che nella Chiesa tutti sono uguali, ma qui sembra che nella sua Congregazione non sia così, quando si tratta di un vescovo e di una vittima. Sembra che per lei la preoccupazione che il vescovo possa sentirsi scavalcato superi quella di non rispettare il sopravvissuto», e si tratta di considerazioni «anacronistiche, burocratiche, riguardanti la gerarchia». E se il punto è che la Cdf non vuole ingerenze di esperti “esterni” in un campo che ritiene di propria competenza, se ne può discutere. O no?

Penultimo punto affrontato dalla Collins: Müller afferma che vi sarebbe un fraintendimento sul ruolo della Cdf: «Come ex membro della Commissione, conosco molto bene la funzione della Cdf», ribatte; d’altronde, la Cdf avrebbe dovuto solo fare lo sforzo di confermare l’avvenuta recezione della lettera, trasmettendo così allo scrivente il messaggio che la sua storia non veniva ignorata, che sarebbe stata affrontata.

Mancanza di memoria o disfunzione? 

Infine, la Collins contesta l’affermazione di Müller che la riguarda: «Non ho mai avuto l’occasione di incontrarla», aveva affermato sul Corriere il prelato. «Cardinale, sembra che lei abbia scordato la serata trascorsa insieme, seduti a cena a Dublino dopo la mia nomina alla Commissione», attacca. «Durante la cena abbiamo discusso della nuova Commissione, della mia nomina e in generale dell’abuso nella Chiesa. Erano presenti altri rappresentanti della Cdf, tra cui mons. John Kennedy e l’allora p. Robert Oliver, che prima della nomina alla Commissione era promotore di giustizia alla Cdf».

La Collins chiude con una considerazione colma di amarezza: «Con tutto il rispetto, cardinale, non capisco il motivo delle difficoltà opposte alla Commissione. Tutto ciò che vuole è proteggere maggiormente minori e adulti vulnerabili là dove la Chiesa cattolica è presente. Se vi sono dei problemi, non si guadagna nulla a far finta che tutto vada bene. Vorrei che, quando viene espressa una critica come la mia, invece di ricadere nella posizione tipica della Chiesa di negazione e offuscamento – continua – si desse al popolo della Chiesa la risposta che merita di avere. Abbiamo diritto a trasparenza, onesta e chiarezza. La disfunzione non può più essere nascosta dietro porte chiuse istituzionali. Ciò accade soltanto quando chi conosce la verità vuole restare zitto».

*immagine di Presse.Nordelbien, tratta da Flickr, licenza e immagine originale.

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il commento di p. Maggi al vangelo della domenica

SORGENTE DI ACQUA CHE ZAMPILLA PER LA VITA ETERNA

commento al vangelo della terza domenica di quaresima (19 marzo 2017) di p. Alberto Maggi:

Gv 4,5-42

In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui. Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i  campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica». Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».

Il capitolo quarto del vangelo di Giovanni contiene l’episodio dell’incontro di Gesù con la samaritana, episodio esclusivo di questo evangelista. Il brano è molto lungo, ma vediamo almeno gli aspetti principali. L’evangelista ambienta questo incontro in una città  della Samarìa, la Samarìa era la regione che stava al centro, tra la Giudea, la regione santa, ed il nord della Galilea, ed era una regione che era stata colonizzata da popolazioni straniere, e quindi il popolo era meticcio, e per questo era disprezzato. “…vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c’era un”, ed è importante qui la terminologia che l’evangelista usa in maniera molto accurata, non è un “pozzo”, ma è la sorgente “di Giacobbe”. Poi l’evangelista dirà che Gesù ha faticato per il viaggio, “sedeva” non presso il pozzo, ma sedeva “sul pozzo”, è un’espressione inusuale, ma per dire che Gesù si impossessa, possiede questa sorgente. Perché è importante questa terminologia ? Perché l’evangelista si rifa al lamento di Dio, contenuto nel profeta Geremia al capitolo 2, quando il Signore dice: “hanno abbandonato me, sorgente d’acqua viva”, è lo stesso termine sorgente, “per scavarsi cisterne screpolate che non contengono l’acqua”. Quindi l’evangelista ambienta Gesù come la vera sorgente, che offre l’acqua, l’acqua dello Spirito. Sottolinea Giovanni l’ora, “era circa mezzogiorno”, e dice che c’è una donna samaritana, che va ad attingere acqua. Non è possibile quell’ora, al pozzo si andava o al mattino presto, all’alba, o alla sera al tramonto. non era mezzogiorno l’ora adatta. Perché l’evangelista ci mette questo dato? Perché mezzogiorno è l’ora, in questo vangelo, della condanna a morte di Gesù. L’evangelista vuol far vedere i frutti della morte, della resurrezione di Gesù. La donna è samaritana, e, come vedremo, è una donna adultera, è anonima, e rappresenta la Samarìa, e qui l’evangelista ci presenta Gesù come lo sposo, che va a riconquistare la sposa adultera, e non la riconquista attraverso minacce, attraverso castighi, ma attraverso un’offerta di un amore ancora  più grande. E infatti Gesù, a questa donna, che rappresenta la Samarìa, le dice: “se tu conoscessi il dono di Dio”, lei è andata ad attingere l’acqua, conosce lo sforzo per attingere l’acqua al pozzo, e Gesù invece le vuole offrire qualcosa di diverso, una relazione con Dio che non è più basata sullo sforzo umano, sulle virtù umane, ma sull’accoglienza del suo amore. Dice Gesù: “se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva”, ecco la differenza tra la sorgente, dove c’è l’acqua viva, e l’acqua del pozzo. E la replica della donna, gli dice la donna, che già lo chiama “Signore”, quindi c’è già un progresso, “non hai un secchio e il pozzo è profondo”, ecco il contrasto tra la sorgente e il pozzo, “da dove prendi dunque questa acqua viva?”. Ed ecco l’espressione di Gesù: “chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete”, un rapporto con Dio basato sull’osservanza della legge, il pozzo, nella simbolica ebraica, rappresentava la legge divina, un rapporto con Dio, basato sull’osservanza della legge, è sempre un rapporto che lascia l’uomo insoddisfatto, perché non sa mai se ha osservato abbastanza, se ha compiuto le regole, se è a  posto o no con Dio. Gesù viene a proporre una nuova relazione con il Padre, e le dice: “ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna»”. L’accoglienza, da parte dell’uomo, dell’amore di Dio, si trasforma nell’individuo in una sorgente zampillante, quindi l’uomo non deve andare più a procurarsi col proprio sforzo l’acqua, quella che dà la vita, ma quest’acqua è interiore, è l’esperienza di un amore comunicato e un amore ricevuto. Quando la persona fa l’esperienza di sentirsi amato generosamente, scopre dentro di sé la forza, l’energia di amare generosamente. La donna si dichiara disponibile ad accogliere quest’acqua, e qui Gesù le chiede di andare a chiamare il marito. Lei replica che non ha marito e Gesù, e qui non è che Gesù fa il moralista, è qualcosa di diverso quello che l’evangelista ci sta presentando, dice: “Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito”. Gesù si rifa alla storia della Samarìa: abbiamo detto che i Samaritani erano una popolazione meticcia, erano stati dei coloni importati dagli Assiri, si erano mescolati con la popolazione presente, per cui adoravano il Dio d’Israele sul monte Garizim, ma poi, su altri cinque monti o colli, avevano eretto cinque templi ad altre divinità. Ecco chi sono questi mariti, il termine marito e signore nella lingua ebraica, aramaica, è identico. Quindi Gesù, a questa donna che si dichiara disposta ad accogliere quest’acqua, le fa presente che però questo non è possibile, se lei rimane nell’idolatria. E gli replica la donna: “Signore vedo che tu sei un profeta”, prima l’ha visto come un giudeo, poi come il signore, come un profeta, e lei si rifa alla tradizione, “i nostri padri hanno adorato su questo monte”, il monte Garizìm, “voi invece dite che è Gerusalemme”, nel luogo del tempio, “il luogo in cui bisogna adorare”, ed ecco l’importante rivelazione di Gesù: è finita l’epoca dei tempi. Il Dio di Gesù non sta più in un tempio, dove gli uomini devono andare, ma l’uomo diventa questo tempio, in cui Dio manifesta la sua santità. E dice Gesù: “credimi”, e la chiama “donna”, che significa sposa. Gesù si è riferito, con questo termine, alla madre, ora si rivolge alla samaritana. La madre rappresenta la sposa fedele, quella alla quale mai è mancato il vino dell’amore; la samaritana è la sposa adultera, che lo sposo riconquista con un’offerta d’amore ancora più grande. “«Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte”, quindi né sul Garizìm, “né a Gerusalemme adorerete il Padre”. Lei si è rifatta ai padri, alla tradizione, Gesù parla di Padre: mentre Dio ha bisogno di un tempio e dei fedeli, il Padre ha bisogno di figli, che lo imitino nel suo amore. E poi continua Gesù: “viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità”, spirito e verità è un’espressione che indica l’amore che è fedele, “infatti il padre vuole che siano”, letteralmente l’evangelista traduce: il padre cerca tali adoratori, “Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. Il vero culto, che Gesù propone, non è un culto che parte dall’uomo verso Dio, in cui l’uomo deve privarsi di quello che ha per offrirlo a Dio, ma il nuovo culto è quello che parte da Dio verso l’uomo, una comunicazione d’amore che l’uomo accoglie, e il nuovo culto che Gesù richiede, è il prolungamento dell’azione creatrice del Padre. Mentre l’antico culto diminuisce l’uomo, il nuovo culto lo potenza, anzi più manifesta questo amore e più si rende assomigliante al Padre. Quindi adorare in spirito e verità, significa collaborare all’azione creatrice del Padre. Ebbene la donna si dichiara ancora una volta in sintonia, ed è a lei, ad una donna adultera, una donna considerata impura, che, per la prima volta, Gesù si manifesta nella sua condizione divina e come il messia. Le dice Gesù: “io sono”, io sono è la rivendicazione del nome divino. La conclusione di questo lungo episodio, è che poi la donna va a chiamare, lascia la brocca, ha capito che quest’acqua, questa brocca non le serve più, perché non c’è più il pozzo dove deve attingere l’acqua, ma c’ha questa sorgente, che Dio, attraverso Gesù, le ha offerto dentro di lei, va a divulgare la notizia al popolo, ed ecco il finale, i samaritani che dicono alla donna: “non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente”, ed ecco la rivelazione, “il salvatore del mondo”. Mentre gli ebrei aspettavano in  salvatore d’Israele, gli eretici, i meticci, gli impuri samaritani hanno compreso la vera identità di Gesù, il salvatore del mondo.

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internet ci toglie il senso critico

Lucca

lo studio rivela:

“addio pensiero critico, su Internet cerchiamo solo ciò che ci piace”

l’analisi condotta su 376 milioni di utenti Facebook:

“si rafforzano le proprie opinioni, senza mai metterle in discussione”

 

Quello che appare “sempre più chiaro è che su internet e sulle bacheche dei nostri profili social cerchiamo e troviamo solo le notizie che ci aspettiamo, ottenendo (quasi) esclusivamente conferme della nostra posizione, senza alcuna possibilità di confronto e scambio di opinioni”.

Lo sostiene uno studio condotto alla Scuola IMT Alti Studi di Lucca, dal laboratorio di Computational Social Science guidato da Walter Quattrociocchi. È di questi giorni la pubblicazione di un’importante ricerca su Pnas (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America), una delle testate scientifiche più note a livello internazionale.

“Per la prima volta, attraverso l’analisi di 920 agenzie di stampa e 376 milioni di utenti, abbiamo esplorato l’anatomia del consumo di notizie su Facebook su scala globale – spiega Quattrociocchi – Questi numeri ci hanno dimostrato che gli utenti tendono a focalizzare la loro attenzione su un numero limitato di pagine, andando a selezionare un gruppo ristretto di media da cui attingere informazioni e rafforzando così le proprie opinioni, senza mai metterle in discussione. Di fatto, si chiudono nella loro bolla”.

Alla radice di questo fenomeno, secondo gli autori, sta la rottura della struttura del sistema informativo. Oggi sono le testate giornalistiche che in un certo senso “inseguono” i social e l’informazione. Come conseguenza, l’informazione viene prodotta o almeno grandemente influenzata dai processi di massa e questo accade indistintamente con ogni tipo di contenuto, che si tratti di cronaca, di scienza o di cultura.

Lo studio condotto da Quattrociocchi, insieme a Ana Lucía Schmidt, Fabiana Zollo, Michela Del Vicario, Alessandro Bessi, Antonio Scala, Guido Caldarelli e Eugene Stanley, dimostra come la ricerca di una specifica linea di informazione e l’arroccamento su di essa siano ormai una tendenza globale.

“La soluzione? – conclude Quattrociocchi -. Sviluppare l’abitudine al pensiero critico, partendo dagli studenti per arrivare agli adulti, e rifondare il sistema informativo, in modo che sia il più possibile libero dalla polarizzazione che oggi lo attanaglia”.

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per una migliore convivenza sul pianeta – una riflessione di Ivone Gebara sulla ‘laudato sì’ di papa Francesco

  

una teologia non ancora al passo con la scienza

una lettura critica della ‘laudato sì’

introduzione di Claudia Fanti 
 da: Adista Documenti n° 10 del 11/03/2017

 

Non è solo la prima enciclica interamente dedicata alla questione ambientale, ma è anche, probabilmente, quella più letta, commentata e venduta nella storia della Chiesa: la Laudato si’, definita da Leonardo Boff la carta magna dell’ecologia integrale, continua a provocare interesse e ad alimentare riflessioni, fornendo un imperdibile punto di riferimento per tutti coloro che sono impegnati nella difesa della casa comune (e, naturalmente, suscitando il fastidio delle forze conservatrici, delle lobby del petrolio, dei negazionisti del cambiamento climatico e di tutti coloro che perseguono interessi contrari a quelli espressi dal documento papale). A fronte del profondo e praticamente unanime entusiasmo del campo progressista in tutte le sue varianti, alcune ecoteologhe hanno però voluto esprimere qualche accento più critico, ritenendo l’enciclica di papa Francesco ancora troppo ancorata, rispetto al rapporto tra essere umano e natura, alla visione tradizionale della Chiesa ripresa dalla Genesi, che pone l’essere umano al centro del mondo naturale. Una lettura, questa, che – da quando, nel 1967, Lynn White, studioso statunitense di storia medievale, definì il cristianesimo come la religione più antropocentrica del mondo – si è spesso attirata l’accusa di cadere in un eccessivo antropocentrismo, presentando l’essere umano, l’unico “a immagine e somiglianza di Dio”, come padrone della creazione, ponendo al suo completo servizio una natura ridotta a una materialità inerte, senza alcuna rilevanza salvifica.

Così, se la religiosa francescana Ilia Delio (v. Adista Documenti n. 22 e 26/15), ha sottolineato come «i principi di base cui si richiama il papa per risolvere la crisi ambientale, specialmente quello dell’essere umano fatto a immagine di Dio», siano «gli stessi principi che, in un certo senso, hanno provocato la crisi», e come sia profondo il rapporto «tra antiche preghiere, credenze e rituali religiosi e la nostra sconnessione ecologica» («Siamo programmati per il cielo sopra di noi e non per una Terra in evoluzione»), un’altra ecoteologa, la brasiliana Ivone Gebara, traccia, per la rivista Iglesia Viva (n. 267/2016), una lettura mirata ad articolare la percezione femminista con quella ecologica, evidenziando nell’enciclica di papa Francesco questioni che «possono, forse, confondere o rivelare visioni ambigue e contraddittorie della realtà ecologica e sociale». In particolare, l’accento è posto dalla teologa sulla distanza tra un accurato discorso scientifico – in linea con le più recenti acquisizioni della scienza relativamente alla distruzione del pianeta e al cambiamento climatico – e una visione teologica ancora estranea agli apporti del pensiero teologico critico contemporaneo, legata com’è a un «modo di parlare del tipo “Dio ha fatto, Dio ha detto, Dio riconosce, Dio minaccia, Dio condanna, Dio decide, Dio domanda, Dio ordina”». Mentre, sul piano delle denunce, sarebbe decisamente auspicabile, secondo Gebara, un riferimento più  esplicito «alla responsabilità non solo dei cosiddetti Paesi ricchi», ma anche, più specificamente, degli artefici diretti delle «politiche di distruzione della fauna, della flora e delle popolazioni escluse», a cominciare da «chi è a capo delle grandi industrie di armamenti, di quelle produttrici di veleni chimici, di quelle farmaceutiche che, nel nome del profitto, sacrificano vite umane e ambiente».

Una missione, questa, che non è solo del papa, «ma di tutti noi», perché, «in un modo o nell’altro, abbracciando la cura del nostro pianeta, dovremmo sollevarci come giudici del mondo capitalista consumista e denunciare il saccheggio della terra che si esprime nelle differenti forme di spolizione praticate dai poteri normativi del nostro mondo». Senza trascurare neppure di «analizzare il nefasto inquinamento» che la teologia tradizionale ha «prodotto sul corpo della terra e, particolarmente, sui corpi delle donne».

Di seguito, in  traduzione dallo spagnolo, ampi stralci dell’articolo di Ivone Gebara pubblicato sul numero di Iglesia Viva dedicato al tema della “cura della casa comune”.

riflessione di Ivone Gebara

 

 

Introduzione

(…). Il mio proposito è quello di articolare la percezione femminista con quella ecologica in relazione alla Laudato si’. Intendo, soprattutto, affrontare alcune questioni presenti nel testo che possono, forse, confondere o rivelare visioni ambigue e contraddittorie della realtà ecologica e sociale.

La mia sarà la riflessione (…) di chi pensa al ruolo degli esseri umani e della loro esperienza religiosa, teologica, in relazione non solamente al testo del papa ma, soprattutto, alla complessa realtà che ci circonda e ci avvolge. Penso, inoltre, a questa realtà in qualità di donna formatasi nella tradizione cattolica, aderente alla teologia della liberazione, al femminismo e all’ecofemminismo, nella complessità di tutte queste piccole ma significative produzioni culturali del nostro tempo. A partire da qui osservo la vita della Chiesa segnata da discorsi contraddittori e da pratiche anacronistiche, espressione dei conflitti di potere esistenti a cui, per quanto non sempre lo si ammetta, partecipiamo. Basta constatare quanto i mezzi di comunicazione hanno divulgato ultimamente rispetto alle reazioni di vescovi e cardinali alle posizioni di papa Francesco. E anche a quelle di gruppi di laici profondamente infastiditi dalla vicinanza del papa agli esclusi del mondo. (…).

L’ambiguità ecologica della teologia della Laudato si’

Una delle questioni che ha più richiamato la mia attenzione nella lettura del testo papale è la distanza esistente tra le evidenze economiche, sociali e scientifiche intorno alla distruzione del pianeta e al cambiamento climatico e la teologia presente nel testo. (…). Per quanto il volto del nostro mondo di oggi si presenti avvolto in una enorme complessità, distruttiva e costruttiva allo stesso tempo, la teologia del papa ripete lo stesso metodo deduttivo e lo stesso modo di parlare del tipo “Dio ha fatto, Dio ha detto, Dio riconosce, Dio minaccia, Dio condanna, Dio decide, Dio domanda, Dio ordina”. Possiamo riscontrare molte altre affermazioni simili presenti nel testo. C’è un “uso di Dio” a indicare il possesso della sua volontà e del suo agire nel mondo che finisce con l’indebolire le rivendicazioni ecologiche di Francesco. Se da un lato si è munito di molte informazioni scientifiche, non ha fatto altrettanto con le informazioni del pensiero teologico critico contemporaneo. Esiste un’inadeguatezza criticamente visibile tra un discorso e l’altro. In tal modo, forse senza rendersene conto, Francesco fa della teologia un discorso estraneo rispetto alle molte affermazioni e informazioni scientifiche offerte.

Francesco utilizza Dio, la Bibbia e la tradizione dei papi precedenti per giustificare e rafforzare i propri argomenti. Così facendo, forse non intenzionalmente (…), si erige a interprete della volontà divina e si presenta come chi parla non, per lo più, a nome proprio ma a nome di Dio o come suo rappresentante. Ma che Dio sarebbe questo? In un mondo tanto plurale, e non rivolgendosi, inoltre, necessariamente ai cristiani, la sua teologia potrebbe essere più attenta a far uso della parola “Dio” e delle parole su Dio o a impiegare la Bibbia nel discernimento rispetto alle situazioni del mondo contemporaneo. E, a parte questo, la sua teologia non esprime la necessaria coerenza richiesta dalle nuove scoperte scientifiche da lui stesso indicate nel corso del testo. E lui l’assume quasi come soluzione a molti problemi anziché come un problema ulteriore. Sì, la teologia insegnata dalla Chiesa è anch’essa un problema nell’“attuale stato” di degradazione e distruzione del pianeta!

(…). Le vecchie spiegazioni teiste a partire da una specie di amorosa volontà divina non reggono più in un universo sempre più complesso che si impone a noi attraverso la vita quotidiana e la conoscenza. È una specie di timore e di cocciutaggine, senza dubbio legata a forme di comportamento culturale e di esercizio del potere religioso, a impedire che sorga all’interno delle mura della Chiesa un’altra configurazione mentale e affettiva della trascendenza che ci circonda e ci avvolge. Il modello gerarchico patriarcale presente nella teologia contraddice molte volte in maniera flagrante gli sforzi per vivere in una prospettiva di interdipendenze e interrelazioni necessarie all’equilibrio di molti degli ecosistemi che ci costituiscono. Non ci rendiamo conto del fatto che un modello ecologico sostenibile di società esige, ugualmente, un modello sostenibile di teologia e di esercizio del potere religioso, includendo la diversità e la complessità di molti gruppi che vivono problemi e sfide differenti.

Alcune affermazioni di Francesco devono essere riprese e dibattute criticamente dalla comunità cristiana. (…).

«Per questo, fra i poveri più abbandonati e maltrattati, c’è la nostra oppressa e devastata terra, che “geme e soffre le doglie del parto” (Rm 8,22). Dimentichiamo che noi stessi siamo terra» (Laudato si’, 2). L’impressione, per quanto forse non sia questa l’intenzione del papa, è ancora quella di percepire il pianeta Terra come un oggetto tra altri o come un povero tra i poveri del mondo, nonostante si affermi che «noi stessi siamo terra».

Non risulta chiara nel testo l’idea che Terra siamo anche noi stessi. Siamo anche noi, tra i diversi esseri, a emergere da questo pianeta in una specie di genealogia e di evoluzione complessa della materia che ci costituisce. C’è ancora una specie di lontananza tra la terra e noi che irrompe in molti punti del testo, benché sia comprensibile impiegare una distinzione cognitiva o metodologica. Noi individui facciamo, di fatto, molte distinzioni, ma questo è inaccettabile dal punto di vista della sopravvivenza umana sul pianeta e del pianeta stesso. La permanenza di un linguaggio tradizionale mescolato con alcune innovazioni scientifiche denota quanto l’urgente problema della salute del nostro pianeta sia lungi dal toccare la teologia istituzionale.

Afferma Francesco: «Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta» (Laudato si’, 14). Tale invito è realmente urgente, ma è altrettanto urgente ripensare le nostre categorie teologiche, in quanto le nostre azioni e i nostri pensieri non possono trovarsi in contraddizione se abbracciamo una prospettiva di ricerca dell’equilibrio ecologico o della cura reale della nostra casa comune.

In questo invito, quale sarebbe il ruolo delle Chiese in ciò che hanno di più caratteristico? Quale sarebbe il ruolo delle teologie? Non abbiamo risposte che indichino una riflessione diversa da quella abituale.

Quando ci atteniamo ai testi più teologici della Laudato si’, abbiamo l’impressione che il papa si richiami a un modo di vivere e di intendere il cristianesimo cattolico romano all’interno di alcuni parametri fino a un certo punto assunti come inamovibili. (…). È come se tutto ciò che viviamo, facciamo, pensiamo all’interno del cristianesimo fosse protetto da un ampio ombrello a noi concesso o “rivelato” in anticipo da un essere superiore. Possiamo muoverci, ma sempre sotto di esso e assicurandogli la nostra obbedienza.

I parametri inamovibili danno forma e sostengono, in un certo senso, il pensiero di Francesco, per quanto molte volte le sue azioni sembrino sfuggire loro. Tali parametri segnano anche la sua antropologia o il suo modo di intendere gli esseri umani e la loro relazione con Dio. Per mostrare tale mescolanza di parametri antropologici mutevoli e immutabili, mi richiamerò, sempre a titolo di esempio, alla fine del paragrafo 61 della Laudato si’.

Il papa utilizza una frase che non è sua, ma che impiega per esplicitare ciò che ha in mente e che giustifica la sua citazione: «Se lo sguardo percorre le regioni del nostro pianeta, ci si accorge subito che l’umanità ha deluso l’attesa divina». Che vuol dire che l’umanità ha frustrato le aspettative divine? Esiste un’aspettativa divina pre-determinata? Chi la conosce? Oserei dire che questa frase rivela una visione nella quale Dio, in una certa misura antropomorfizzato, avrebbe un piano pre-stabilito per l’umanità che sarebbe stato frustrato dagli esseri umani. Sarebbe una specie di tradimento umano al piano divino, come se sapessimo quale sia questo piano (…). Non è difficile indovinare che si tratta di un piano che esige relazioni di giustizia, di sostenibilità e di rispetto per tutti gli esseri viventi nel pianeta. Un piano che esige la realizzazione di una specie di ordine positivo che è inamovibile dai suoi inizi. Neppure è difficile intravedere come in questa frase appaia tra le righe il peccato originale, il peccato della disobbedienza e della rottura di un’armonia primitiva. Tale rottura comporta, per essere sanata, la venuta di Gesù, il Figlio di Dio, che ci offre il cammino per la redenzione e per il ritorno all’armonia del principio.

Potremmo insistere a commentare queste idee già ben note, ma credo che ciò sia sufficiente a cogliere cosa significa un parametro immutabile con le sue conseguenze attuali. Detto altrimenti, è come se ci fosse qualcosa non soggetto alle trasformazioni e ai movimenti inerenti alla vita e questo qualcosa includesse o significasse un piano di Dio pre-determinato al quale dobbiamo obbedire.

Tale posizione contraddice la prospettiva scientifica dell’origine del pianeta, della mutevole condizione umana e della complessità evolutiva della vita. Credere e vivere in base a questa credenza immutevole dà fondamento al  potere di governo della Chiesa. Ma è possibile che da più di duemila anni, o anche dalla presunta creazione, si stiano tradendo i piani divini? Non c’è forse nella reiterazione di questa teologia, nella ripetizione degli stessi testi, delle stesse spiegazioni, della stessa esegesi una specie di diminuzione della stessa forza creativa della Terra nella sua energia creativa e continuamente in trasformazione? (…) Non c’è forse in questo immobilismo di principi teologici una intenzione di dominio e di controllo? (…).

L’ambiguità antropologica nella Laudato si’

Nel riferirci all’ambiguità antropologica nella Laudato si’ consideriamo appena alcune difficoltà presenti nei diversi comportamenti e ruoli umani che l’enciclica sembra ignorare. Probabilmente molte persone diranno che le ambiguità sono inevitabili. E di fatto lo sono, ma alcune rappresentano qualcosa di più di normali ambiguità, nella misura in cui rafforzano relazioni di ingiustizia sociale ed ecologica. (…). Manca all’enciclica la prospettiva della dinamica della vita, che è sempre più grande delle leggi stabilite e dei dogmi della religione. Tale prospettiva si fonda sul fatto che i differenti disastri ecologici sono vissuti ed esplicitati in maniere diverse da uomini e donne a partire da una asimmetria di genere che non è stata considerata nel documento del papa. L’enciclica privilegia, quasi esclusivamente, le informazioni provenienti da soggetti maschili. In parole semplici, possiamo dire che, dal disastro di Chernobyl, per fare solo un esempio, sono state le donne, a partire dalla necessità urgente di cercare alimenti per i propri figli e figlie, a denunciare esplicitamente la costruzione delle centrali nucleari. Non solo questo: esse hanno denunciato anche la distruzione dell’agricoltura familiare, la mancanza di alimenti sicuri, la proliferazione di malattie sconosciute, l’insicurezza emozionale in cui hanno vissuto a causa di progetti di sviluppo pensati senza i dovuti criteri di prevenzione e di salvaguardia delle molte forme di vita. Le donne hanno trasgredito in molte occasioni gli “ordini maschili” di distruzione delle foreste o di sostituzione delle coltivazioni di fagioli e verdure con piantagioni di eucalipto. Basta fare riferimento agli annali dei movimenti di donne in differenti Paesi per cogliere il contenuto di molte delle loro lotte. Molte sono state assassinate, altre sono state imprigionate per il loro impegno a favore di molte vite e della vita del pianeta. Nulla di tutto ciò appare nel testo.

(…). Non si esprime in maniera chiara la portata di una considerazione plurale dei ruoli che si registrano nella distruzione degli ecosistemi e delle diverse iniziative nei processi di salvaguardia della vita. Si pone maggiormente l’accento sulle teorie globali scientifiche senza affrontare le pratiche di sopravvivenza inerenti alla preservazione della vita quotidiana.

In questo senso, nel corso della storia della teologia e delle differenti Chiese, sono stati principalmente i corpi maschili quelli che hanno esplicitato i problemi della società, gli orientamenti per risolverli e i contenuti di fede che avrebbero dovuto essere assunti dai fedeli. E non sono stati uomini qualunque a svolgere tale funzione… Erano soprattutto gli uomini che facevano parte del clero quelli che credevano non solamente di rappresentare storicamente Dio, ma di costituire quegli esseri “privilegiati” o “eletti” in grado di amministrare la grazia divina. Le donne hanno sempre dovuto sottomettersi alla dottrina insegnata e neppure hanno potuto ambire a far parte del magistero ecclesiastico o ad avere funzioni di rappresentanza nelle proprie comunità. Le loro voci erano assai poco ascoltate da coloro che detenevano il potere nella vita pubblica ed ecclesiale. Il limite biologico imposto ai loro corpi per il fatto di non essere uomini le ha private, e ancora le priva in molti luoghi, dell’accesso a molte conoscenze teologiche e della rappresentazione simbolica del divino.

Per quanto tale situazione sussista all’interno delle Chiese ufficiali e particolarmente della Chiesa cattolica romana, si assiste nel XXI secolo a un cambiamento significativo in relazione a questa forma di razionalità e alla sua espressione nelle diverse credenze religiose. Di fatto, papa Francesco ha iniziato a cogliere qualcosa in questa linea, aiutato dalle tante pressioni ricevute da gruppi di donne. Tuttavia, la sua posizione verso di noi, verso noi donne, continua a essere ancora molto limitata, arrivando a volte a essere infantile e ingenua. Malgrado alcune iniziative, il fatto è che le questioni relative ai diritti delle donne quasi non avanzano all’interno della Chiesa cattolica romana.

Molti gruppi di donne hanno colto, nel corso del secolo scorso e dell’attuale, la complicità delle Chiese cristiane nei confronti di molte forme di esclusione, rispetto non solo alle funzioni all’interno delle Chiese, ma anche ai diritti sociali inerenti alle donne e agli obblighi relativi alla nostra casa comune. Le innumerevoli sofferenze di molte di noi e la coscienza del fatto che parte della dottrina cristiana trasmessa a partire da una logica gerarchica e patriarcale giustificava la nostra sottomissione, ha portato all’elaborazione delle molte teologie femministe. E qui, nel riferirmi al femminismo e nell’aderire a questa corrente di pensiero, commetto forse un peccato, in base alla prospettiva di papa Francesco, il quale, in diversi momenti, ha condannato il femminismo, la maggior parte delle volte senza comprendere in profondità la serietà della sua portata sociale, politica o religiosa, esprimendo, come altri uomini e anche alcune donne, la difficoltà di una Chiesa patriarcale governata da teste maschili a sentirsi solidale con la lotta per la dignità femminile in questo secolo. Queste persone non riescono neppure a pronunciare parole come “femminismo” in maniera positiva, a parte il fatto di disconoscere quasi completamente le tesi femministe contemporanee e le tesi ecofemministe.

Possiamo ammettere un certo tipo di solidarietà gerarchica maschile di fronte a situazioni limite espresse, soprattutto, nelle diverse forme di violenza fisica, culturale e sociale contro le donne. (…). Tuttavia, molte forme di esclusione, svalutazione, violenza simbolica, mancanza di autonomia, linguaggio escludente, difficilmente vengono riconosciute, soprattutto quando avvengono all’interno della stessa istituzione cattolica. Non vogliono udire i clamori delle donne con cuore aperto, ignorando come tali clamori siano parte dell’ecologia integrale che difendono a livello teorico.

In questo senso, quello che percepiamo è una specie di “politica di buon vicinato” che (…) include discorsi sempre generali o universalistici, in cui si esprimono ampiamente denunce socioeconomiche o politiche, ma senza nomi propri, senza destinatari precisi. (…). Per esempio, (…) per alcuni gruppi, i discorsi papali non indicano i soggetti storici concreti che sono, in certa misura, i maggiori responsabili del fenomeno del “riscaldamento globale”. (…). Ci piacerebbe udire dal papa, e anche dai rappresentanti della Chiesa, un riferimento esplicito alla responsabilità non solo dei cosiddetti Paesi ricchi, ma anche degli uomini che sono a capo delle politiche di distruzione della fauna, della flora e delle popolazioni escluse. Ci piacerebbe inoltre che ci si dedicasse di più ad analizzare il nefasto inquinamento che le loro teologie hanno prodotto sul corpo della terra e, particolarmente, sui corpi delle donne. (…).

Sulla stessa linea (…), è necessario avere chiaro che esistono alcune persone e alcuni gruppi o Paesi che sono a capo delle grandi industrie di armamenti, di quelle produttrici di veleni chimici, di quelle farmaceutiche che, nel nome del profitto, sacrificano vite umane e ambiente. (…). Ci piacerebbe sentir nominare più esplicitamente le responsabilità, oltre il romanticismo religioso che ci caratterizza. E questa non è solo la missione del papa, ma di tutti noi. In un modo o nell’altro, abbracciando la cura del nostro pianeta, dovremmo solleverci come giudici del mondo capitalista consumista e denunciare il saccheggio della terra che si esprime nelle differenti forme di spoliazione praticate dai poteri normativi del nostro mondo. (…).

Il papa ha ribadito, in forma rinnovata e piacevole, la teologia cattolica del passato e ciò rende anche lui piacevole, generando in molti l’illusione che si stia entrando in un tempo nuovo, una primavera per la Chiesa cattolica romana. Ma dimenticano che in questi tempi difficili “una rondine non fa primavera”; che, cioè, la voce del papa, da sola, non altera le forze di produzione e di corruzione presenti nella globalizzazione attuale. (…).

Che significa superare l’antropocentrismo nella pratica di vita delle comunità cristiane?

Il papa denuncia un «antropocentrismo dispotico che non si interessi delle altre creature» (Laudato si’, 68). E usa la Bibbia come esempio e come fondamento per azioni rispettose nei riguardi degli animali e degli altri esseri viventi. È vero che molti testi biblici, particolarmente la Genesi, includono tutta la creazione come opera divina. Ma non sempre la teologia ecclesiastica ha seguito questa logica di inclusione delle diverse forme di vita come orientamento per la vita delle comunità. Al contrario, sappiamo assai bene come la teologia, nelle sue molteplici elaborazioni nel corso dei secoli, abbia messo da parte “le altre creature”, rivolgendo il proprio interesse esclusivamente sull’essere umano e in modo speciale sull’essere umano maschile. E ciò ha determinato senza dubbio lo sviluppo di un paradigma teologico potentemente antropocentrico e androcentrico a cui il papa non si riferisce molto, benché egli stesso viva, in un certo senso, a partire da esso. (…).

Nel paragrafo seguente, Francesco afferma che «proprio per la sua dignità unica e per essere dotato di intelligenza, l’essere umano è chiamato a rispettare il creato con le sue leggi interne» (Laudato si’, 69). Non sarà che il papa (…), con questa affermazione, ci sta ponendo dinanzi a una riflessione piuttosto ingenua sull’intelligenza umana? Non è forse per questa stessa intelligenza che ci distruggiamo reciprocamente? (…). I discorsi generici corrono il rischio di ignorare che la nostra intelligenza, la nostra volontà, i nostri sentimenti e le nostre emozioni (…) non nascono già formati, al di là del fatto che non sono uguali per tutta la specie umana. (…). Per questo, l’intelligenza deve essere educata dal complesso della vita per essere rispettosa del “prossimo” nella sua diversità vitale.

La specie umana (…) è parte della comunità di vita della Terra. Siamo geneticamente connessi a tutta la comunità degli esseri viventi provenienti da uno stesso impulso originario. E in questo impulso la costruzione positiva convive con la negatività, con la forza distruttiva che caratterizza la nostra lotta per la sopravvivenza. L’intelligenza si inscrive in questa complessa mescolanza che ci costituisce.

Inoltre, tornando al testo, perché parlare di “dignità unica” dell’essere umano, quando in realtà viviamo in una interdipendenza senza la quale non sopravviveremmo? Possiamo anche dire, come affermano alcuni, che “siamo il pensiero della terra”, ma un pensiero che sopravvive solamente vivendo di tutto ciò che è vivo sulla Terra. (…).

Molte teologhe femministe in diversi Paesi hanno lavorato per recuperare e costruire collettivamente un cristianesimo etico inclusivo che, senza dubbio, è caratterizzato da tradizioni plurali presenti già alle sue origini. E, così facendo, hanno trasformato la percezione maschile, considerata unica, introducendo la diversità di sguardi, pensieri ed esperienze.

Attraverso questi pochi esempi, possiamo affermare che la teologia cristiana cattolica deve recuperare la dimensione cosmica ed ecologica a partire da un’antropologia in grado di ascoltare la diversità degli esseri umani intrinsecamente ed estrinsecamente uniti a tutti gli esseri viventi. E in questa prospettiva riconfigurarsi a partire dai riferimenti che parlano al complesso mondo di oggi. Senza dubbio, questo ci porterebbe a rivedere il nostro Credo, adattandolo alle molteplici forme possibili e temporali  di espressione dei nostri valori.

Dio, una metafora

L’utilizzo del termine nei documenti del papa, anche nella Laudato si’, è una pacifica conseguenza del suo pensiero. È come se Dio fosse un’evidenza. Se ci soffermiamo un po’ di più sull’utilizzo di questa parola nei documenti pontifici, essa appare come una metafora del potere più elevato, dell’amore puro, della giustizia nel suo più alto livello, del bene supremo… Tuttavia questa metafora rivela anche (…) come queste affemazioni provengano in particolare dal mondo maschile, abituato ai conflitti storici di potere (…). Manifestare questo potere soprattutto attraverso un linguaggio potente in nome di un essere assoluto che presiede la vita sulla terra e nei cieli, che domina l’universo e che ha tutta la creazione ai suoi piedi non è forse un’espressione dei sogni umani di onnipotenza?

Inoltre, questo essere, l’Altissimo, l’Assoluto, l’Immutabile, che presiede tutti i mondi conosciuti e sconosciuti, che conosce tutti i pensieri, che sa quanti capelli vi sono sulla nostra testa, Magnanimo e Potente, è un Signore il cui volto storico è, fondamentalmente, maschile!

Questa potente metafora è, precisamente, una metafora antiecologica, contraria al mondo della natura e alla sua costante evoluzione. È una metafora che contribuisce alla distruzione del pianeta, rafforzando un antropocentrismo gerarchico con poteri dittatoriali.

Perché non ci apriamo ad altre metafore per esprimere il mistero che coinvolge la vita dei più diversi esseri? Perché non esprimerci con parole mobili che non corrono il pericolo immediato di dare forza a espressioni emanate da semplici uomini armati di poteri religiosi istituzionali? (…).

Evidentemente, questo cambiamento culturale non è semplice, perché ci siamo abituati a una figura che sa tutto, presiede tutto, determina tutto e da cui facciamo dipendere la vita e la morte. Non è semplice cercare di salire da questa idea di Dio come controllore dell’universo e, soprattutto, del mondo umano, per entrare in quella di Dio come fonte di vita, vento, aria che respiriamo… (…). Più in là delle idee di causalità e finalità, per le quali abbiamo bisogno di un punto iniziale e di un punto finale, accogliere l’idea della trasformazione permanente della vita, di tutte le vite, e restare in silenzio di fronte al mistero che ci abita. In fondo, sappiamo molto poco… Semplicemente accogliere questo non sapere, queste incertezze, la fragilità della bellezza e della gioia di ogni giorno. Una posizione nuova e diversa esige molti anni di educazione e di cambiamento progressivo dei poteri di organizzazione e di rappresentanza nelle nostre comunità.

L’universo, realtà viva e metafora in evoluzione

A volte, abbiamo l’impressione che i discorsi teologici che ascoltiamo nelle chiese parlino dell’universo come una cosa, un oggetto quasi descrivibile creato da Dio. Siamo persino arrivati a identificare l’universo con una notte stellata in cui possiamo distinguere pianeti, satelliti e stelle. Tutto sembra calmo e tranquillo, suscitandoci desideri di tranquillità e di pace. Oggi, tuttavia, la scienza ci rimanda una straordinaria e spaventosa immagine dell’universo o una metafora dell’universo come realtà in trasformazione e in espansione. E questa evoluzione sembra piena di esplosioni violente che hanno permesso a nuove configurazioni di emergere, fino all’irruzione della vita, e poi fino alla vita umana.  (…). Immaginavamo una serena armonia della creazione divina dell’universo, della terra e degli esseri umani, e questa armonia tranquilla era immaginata come l’ideale da raggiungere. Oggi siamo ormai consapevoli della presenza violenta di questi processi creativi, pur accompagnati da tanta bellezza.

In certo modo, tutta questa violenza è rimasta inscritta anche in noi, capaci di riprodurla gli uni contro gli altri e contro la Terra, pianeta di cui siamo anche corpo.

Stiamo vivendo nel presente un enorme processo di distruzione planetaria del “mondo naturale”. (…). E questo perché crediamo che tutto può e deve servire alle necessità dell’essere umano, considerato il punto di convergenza del pianeta. Necessità, tuttavia, che non riguardano tutti gli esseri umani, ma esclusivamente i privilegiati del darwinismo sociale che ci caratterizza. (…).

Non sarebbe il momento di aprirci a una metafora viva dell’universo come nostro corpo, corpo di Dio (…)? Otterremmo così un’inclusione della trascendenza non solo nella verticalità, ma anche nell’orizzontalità e nella circolarità delle nostre molteplici relazioni. L’esperienza della trascendenza si dà in ogni momento della vita nella misura in cui percepiamo che le individualità o le singolarità non sussistono per sé sole. Siamo individui collettivi, non solo per quanto riguarda noi esseri umani, ma anche rispetto alla collettività della Terra e dell’universo. (…).

La nostra belligeranza o conflittualità è arrivata al limite estremo e in questo contesto storico non si tratta appena di salvaguardare la vita umana o la vita di una foresta, ma di mettere a punto un progetto collettivo di salvezza della terra come comunità viva di molti esseri viventi. (…). Per questo, le questioni relative alla distruzione della Terra e delle sue differenti specie non rappresentano unicamente questioni di ordine antropologico, biologico, geologico o ecologico, ma questioni di sopravvivenza comune. Gli esseri umani sono appena una dimensione della Terra e la Terra è una minima espressione dell’universo e l’universo invita al silenzio e alla contemplazione del mistero più grande in cui viviamo e  siamo e di cui sappiamo tanto poco. Per noi, inoltre, credenti in un Mistero più grande che ci avvolge, costituisce un’esigenza teologica la rilettura delle nostre tradizioni religiose alla luce delle nuove sfide che la vita e la conoscenza ci impongono. (…).

Questa missione tocca anche le nostre Chiese e le nostre teologie. Si tratta di accoglierla, e accogliere la “Fonte” o “esplosione stellare” che ci ha generato e ci ha reso partecipi di questa vita. È questa che ci rivolge questo invito a lasciarci attrarre dalle forze creatrici dello spirito che non può essere contenuto da nessuna dottrina, ma che soffia dove vuole e continua il suo corso più in là di tutti i dogmi e di tutte le previsioni.

Breve conclusione

(…). Senza alcuna pretesa di presentare un nuovo modello di pensiero ecologico-teologico, ho cercato di porre l’accento su aspetti critici che sembrano importanti, ma che sono stati dimenticati o ignorati nell’enciclica di papa Francesco. Ho tentato di (…) mostrare la complessità della vita e, soprattutto, la difficoltà della teologia tradizionale a rispondere al momento attuale. Nuovi processi di riflessione su nuove tradizioni si rivelano urgenti per non tradire la vita che è in noi. Gli antichi già ci dicevano che in ogni trasmissione di tradizioni vi sono anche tradimenti. (…). Mi piacerebbe abbracciare i tradimenti orientati alla novità, la trasgressione creativa come risposta alla molteplice necessità del momento.

Per questo, perseguitare e mettere a tacere i pensieri giudicati come tradimenti significa, in certo modo, distruggere la vita nuova che sorge. Credo nell’impossibilità di mantenere intatta una Tradizione se la vogliamo viva, perché può vivere solo nei nuovi tradimenti/nuove tradizioni che rispondono al momento attuale della vita. Per tale motivo la teologia femminista sviluppò il “metodo del sospetto” ogni volta che il protagonismo delle donne nelle comunità cristiane non era presente nei discorsi ufficiali.

E ora, nella prospettiva ecofemminista, non si tratta più solo del protagonismo femminile, ma anche dell’apertura a una visione più inclusiva della centralità e della diversità della vita che percepiamo nel presente (…). Per questo dobbiamo proporre processi educativi lenti ed efficaci che costruiscano e ricostruiscano in noi una nuova sensibilità e una nuova razionalità. (…).

Sentire la vita… Pensare la vita… Credere nella vita… Amare la vita… Prenderci le mani, intrecciarle, cercando sempre il nuovo…

 

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la chiesa non straparli in nome di Gesù

Enzo Bianchi

“Gesù non ha mai parlato dei gay, la Chiesa taccia. Sì alle unioni civili”

Enzo BianchiIl priore di Bose Enzo Bianchi sostiene le ragioni del riconoscimento delle unioni civili tra persone omosessuali ed anche la separazione tra coniugi che non vanno più d’accordo. Lo ha affermato nel corso di una assemblea pastorale diocesana tenutasi a Trento, secondo quanto riporta L’Adige. «La Chiesa non può avvallare il divorzio, ma se due persone non stanno bene assieme, e si avvelenano reciprocamente l’esistenza, è meglio che si separino. – scrive il quotidiano trentino – Diversamente, se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto». Il priore della comunità monastica di Bose ha tenuto una lezione magistrale dedicata interamente al valore cristiano della misericordia, poi ha risposto alle domande dei presenti.

«Dobbiamo chiedere scusa – ha detto Bianchi – alle famiglie per la presunta superiorità mostrata dai religiosi nei tempi passati: la vita di coppia è molto difficile, e noi dobbiamo essere in grado di riconoscere il grande merito di chi sceglie di costruire un nucleo famigliare. Tuttavia, in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere» riporta ancora l’Adige.

 Enzo Bianchi ha spiegato che «se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere. Che la Chiesa faccia il matrimonio per persone dello stesso sesso – ha concluso – è una cosa senza senso. Tuttavia, se lo Stato decide di regolarizzare una realtà affettiva, lasciamo fare, applicando la misericordia come vuole il Vangelo, non come la vogliamo noi».
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