come si può fare una guerra in buona fede?

In buona fede?

Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi, non riesce a crederlo, e con lui tutti noi!

Renato Sacco

Dopo 7 anni la commissione Chilcot arriva a dire che forse per la guerra in Iraq qualche problema c’è stato. Ma l’interessato, Blair, si scusa, come aveva già fatto Bush, e rivendica la propria ‘buona fede’.
Come si può fare una guerra in buona fede?
war
Come può un presidente o un primo ministro parlare di una scelta del genere, la guerra, fatta in buona fede?
La buona fede è un’altra cosa: è di chi compie un gesto che magari si rivela sbagliato, ma almeno lo ha fatto senza nessun tornaconto o interesse.
Di fronte a questa scelta di guerra dobbiamo chiederci: quali interessi c’erano in campo? Cosa c’era da guadagnare?
La vita degli iracheni non interessava allora e non interessa oggi.
Quanti sono stati i morti per la guerra in Iraq? Sappiamo il numero esatto dei morti inglesi, italiani, statunitensi, ma non degli iracheni.
Alla faccia della buona fede.
Domenica prossima leggeremo a Messa la parabola del buon Samaritano: Gesù ci indica come modello il Samaritano che si ferma, non il sacerdote e il levita che passano oltre.
Papa Francesco, qualche giorno fa, ha denunciato l’ipocrisia di chi parla di pace e alimenta la guerra: “Mentre il popolo soffre, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace. Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?”
Siamo tutti interpellati sulla nostra buona fede: giornalisti, politici.. ma anche ognuno di noi.
Il rischio di abituarci alla guerra, di credere che vendere armi sia un buon affare, l’esultanza per il progetto degli F-35, la convinzione che le banche siano fatte per guadagnare e non ci interessa sapere dove e come investono e sulla pelle di chi, l’indifferenza di fronte alle tragedie ‘lontane’ è un rischio reale per ognuno di noi.
Ne va della nostra buona fede, quella vera.

 

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gli stranieri ci rubano il lavoro? la realtà smentisce gli stereotipi

stereotipi smentiti: gli stranieri non tolgono il lavoro agli italiani

di Linda Laura Sabbadini
in “La Stampa” 

Quando ci sono periodi di crisi, la paura aumenta. Cresce tra i settori più vulnerabili, tra quelli che si sentono più in pericolo. Paura di perdere il lavoro, timore di non ritrovarlo dopo averlo perso. E’ proprio in questi momenti critici, la storia ce lo ha dimostrato, ahimè, che la paura del diverso si accentua ed è facile cadere nell’ottica della ricerca del capro espiatorio. Ricerche condotte nel Regno Unito mostrano quanto ciò abbia influito anche sulla vittoria di Brexit. migranti

La propaganda di diverse formazioni politiche si è particolarmente soffermata su questi aspetti, gli immigrati sono un carico in più per il nostro welfare, ci rubano il lavoro. Ma è proprio così nel nostro Paese? Alcuni dati forniti dall’Inps e altri dall’Istat possono aiutarci a capire. Tito Boeri, presidente dell’Inps, presentando alla Camera l’interessante rapporto annuale ieri ha sottolineato che gli immigrati in termini di contributi sociali versano di più di quanto ricevono in pensioni. Infatti, versano 8 miliardi di contributi sociali in un anno e ne ricevono 3 se si considerano sia pensioni sia altre prestazioni sociali. Danno cioè al nostro Paese 5 miliardi di contributi netti. Certamente questa è una fotografia del presente, quando ancora gli immigrati che percepiscono la pensione sono pochi; un domani sarà diverso, quando ci saranno più pensionati tra gli immigrati. Ma la storia migratoria a livello internazionale ci insegna che in molti casi i contributi previdenziali degli immigrati non si traducono poi in pensioni, perché una parte di essi si spostano di Paese, oppure tornano nel loro, e spesso non arrivano a percepire una pensione nel Paese in cui hanno versato anni di contributi.
«Abbiamo calcolato che sin qui gli immigrati ci abbiano “regalato” circa un punto di Pil di contributi sociali a fronte dei quali non sono state loro erogate delle pensioni. E ogni anno questi contributi a fondo perduto degli immigrati valgono circa 300 milioni di euro» dice Tito Boeri.
Altri dati di fonte Istat smentiscono un altro stereotipo. Non è vero che gli immigrati rubano il lavoro agli italiani. Laddove calano gli occupati italiani non aumentano i lavoratori stranieri. Per esempio, gli occupati italiani nel corso della crisi sono diminuiti nell’industria, commercio, pubblica amministrazione, istruzione e sanità. Gli occupati stranieri sono aumentati nei servizi alle famiglie e negli alberghi e ristorazione, cioè in settori totalmente diversi. In agricoltura calano gli italiani e aumentano gli stranieri, ma i primi calano tra i lavoratori autonomi e i secondi crescono tra i braccianti. Il che significa che il nostro mercato del lavoro continua a mantenere un carattere duale, con una forte e netta separazione tra professioni italiane e straniere. In sintesi, non sono quindi gli immigrati la causa della perdita di occupazione degli italiani o della loro difficoltà a trovare lavoro. Tutto ciò non significa che ogni cosa vada bene. Ci sono problemi di degrado in zone ad alta concentrazione di immigrati, ci sono problemi di crescita di criminalità che vanno affrontati e risolti nell’ottica dell’integrazione. Ma se smettessimo di crearci fantasmi e affrontassimo le cause reali della disoccupazione che risiedono nella crisi economica e nella rivoluzione che sta attraversando la società globalizzata, faremmo già un bel passo in avanti. Così come ne faremmo un altro se riuscissimo a creare un modello virtuoso di integrazione dei migranti, valorizzando anche le esperienze meravigliose di solidarietà che esistono nel nostro Paese.migranti-tuttacronaca

Volenti o no le migrazioni saranno un fenomeno rilevante dei nostri tempi. I nostri nipoti ci ricorderanno con riconoscenza se troveranno persone di origine diverse come pari e amici, colleghi e compagni di lavoro, piuttosto che nemici astiosi e rancorosi rinchiusi in ghetti. Non mi posso dimenticare la bellissima immagine che l’indagine dell’Istat dava, richiamata dal Presidente della Repubblica nel discorso di fine anno: la maggioranza dei bambini stranieri in Italia ha come migliore amico un bambino italiano.

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“è urgente svecchiare la religione musulmana dalle ambiguità legate al passato”

noi musulmani ipocriti

Daesh ci rappresenta

Kamel Abderrahmani

la sharia “inventata” dagli ulema e insegnata nelle scuole coraniche è la stessa che viene praticata dai militanti dello Stato islamico. La “giurisprudenza religiosa, sorta più di 10 secoli fa” ha “incatenato e arrugginito il nostro cervello e quello dei nostri figli”. È urgente svecchiare la religione musulmana dalle ambiguità legate al passato. La coraggiosa denuncia di un giovane studente musulmano algerino

Dopo ogni strage ad opera di Daesh o di qualche terrorista islamico, si apre sempre il balletto delle responsabilità. Mentre fra gli occidentali si accusa in blocco la religione dei musulmani, nel mondo islamico si cerca di allontanare ogni legame fra la violenza e la religione musulmana dicendo subito: “Questo non è l’islam”. È avvenuto lo stesso in questi giorni, dopo le stragi di Istanbul, Baghdad e Dhaka, rivendicate in modo più o meno ufficiale dallo Stato islamico. Proprio dopo questi massacri, ci è giunta questa piccola riflessione da parte di un giovane studente algerino (musulmano) di 27 anni, che vive in Francia. Egli accusa di ipocrisia molto mondo islamico che da una parte dice di rifiutare l’operato di Daesh e dall’altra sogna di applicare nel mondo la sharia. Il giovane autore sottolinea soprattutto la necessità per i musulmani di operare una riforma e una modernizzazione della fede, abbandonando quegli elementi legati al passato storico della comunità islamica e (purtroppo) diffusa e “predicata nelle nostre moschee e insegnata nelle nostre scuole”.

Daesh, noi e il clero [musulmano]!

Oggi ho deciso di prendere posizione per difendere lo Stato islamico davanti a tutti coloro che dicono che esso non rappresenta la sharia. Daesh non è ipocrita. Esso è franco, diretto e vero.

Come osiamo dire che Daesh non rappresenta la sharia? Una sharia inventata dai nostri “ulema”, predicata nelle nostre moschee e insegnata nelle nostre scuole? E oggi questa stessa sharia è perfettamente applicata sul terreno proprio dallo Stato islamico.

[Essa] è il risultato delle nostre idee e della nostra giurisprudenza religiosa, sorta più di 10 secoli fa. Guardiamo come l’istituzione clericale ha incatenato e arrugginito il nostro cervello e quello dei nostri figli. Guardiamo come essa ha scomunicato luci [intellettuali] quali Averroé, Ibn Sina [Avicenna], Arkoun, … la lista è lunga.

Noi vogliamo un califfato simile a quello del profeta come ben lo descrivono i nostri libri e i nostri imam nelle loro prediche. È un’utopia insegnata da secoli!

Smettiamola col denunciare questo Stato e smettiamola di offenderlo. Non è facile sbarazzarci di esso perché è il figlio legittimo della nostra giurisprudenza. E infine, se abbiamo davvero questa intenzione, sbarazziamoci della nostra sharia e della nostra giurisprudenza che gli hanno dato vita. Questa sharia non è quella di Dio, ma quella del diavolo. Finiamola col darle un carattere sacro!

E soprattutto, non cerchiamo di accusare il Mossad, la Cina, e gli altri “miscredenti”! Dieci secoli fa essi non esistevano. Non è la mano straniera che ha promulgato leggi diaboliche come l’amputazione delle mani per i ladri (v. foto)! Non siamo ingiusti, non è il Mossad che ha fatto passare la lapidazione dell’adultera come una legge divina! Non è la Cia che ha inventato l’esecuzione dell’apostata…. ma sono i nostri “shouyoukhs” [dottori coranici] e la loro giurisprudenza da quattro soldi.

Se oggi gli Stati Uniti ci aiutano a realizzare il nostro sogno (lo Stato “diabolico”), per loro interessi, noi dobbiamo ringraziarli perché è un obbiettivo della nostra giurisprudenza. Dobbiamo anche applaudire i coraggiosi membri di Daesh. Essi non sono ipocriti come noi. Essi applicano alla lettera le raccomandazioni dei dottori coranici.

La nostra posizione è davvero contraddittoria, confusa, disonesta, ipocrita. Noi condividiamo la stessa sharia con Daesh, ma purtroppo non la assumiamo e continuiamo a dire che Daesh non ci rappresenta! È davvero strano!

Non vogliamo l’instaurazione di un califfato?

Non vogliamo instaurare la nostra sharia?

Se la risposta è “sì”, non abbiamo che due scelte. O noi raggiungiamo e facciamo alleanza con Daesh, e la smettiamo di recitare la commedia, o riformiamo la nostra visione dell’islam e la spolveriamo di tutto il vecchiume, ossia della sharia e della giurisprudenza inventata dagli ulema! Dobbiamo decidere prima che sia troppo tardi.

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il commento di p. Maggi e di Alessandro Dehò al vangelo della domenica

VA E FA ANCHE TU LO STESSO  

commento al vangelo della domenica quindicesima del tempo ordinario (10 luglio 2016) di p. Alberto Maggi:

Maggi
Lc 10,25-37

In quel tempo, un dottore della legge si alzò per mettere alla prova Gesù: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?».
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». E Gesù: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai».  Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».
Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.  Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall’altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui.  Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno.  Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va e anche tu fa lo stesso» .

La legge divina va osservata anche quando causa sofferenza nell’uomo? Vediamo quello che ci scrive Luca al capitolo 10, versetti 25-37.
In quel tempo, un dottore della legge… I dottori della legge sono gli scribi, i massimi legislatori. La loro era un’autorità divina perché la loro parola era ritenuta la stessa parola di Dio. Si alzò per mettere alla prova Gesù. Letteralmente “tentarlo”. L’evangelista adopera qui lo stesso verbo che ha adoperato nel deserto per le tentazioni del diavolo. Quindi l’evangelista ci mette in guardia, “attenzione, questi zelanti  difensori della dottrina, della tradizione, in realtà sono strumenti del diavolo. E chiese: “Maestro… “, tipico della falsità curiale questo atteggiamento, costui si rivolge a Gesù per tentarlo, quindi per accusarlo, e invece gli si rivolge con questo titolo di ossequio, come se volesse apprendere, ma in realtà vuole soltanto giudicare. “Che devo fare per ereditare la vita eterna?”. Ecco la tematica che gli interessa. Gesù non ne parla, Gesù è venuto a cambiare questa vita qui. Gesù non è interessato alla vita eterna.
Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge?” E’ provocatorio e ironico da parte di Gesù. Il dottore della legge è uno dei massimi esperti. E’ uno che tutta la sua vita, tutto il giorno è stato sopra la legge per scrutarne i reconditi significati. Ebbene Gesù gli chiede “Che cosa sta scritto nella legge?” E poi con profondo sarcasmo: “Come leggi?”, cioè “Cosa capisci?” Non basta leggere la scrittura, bisogna anche comprenderla. Se non si mette al primo posto nella propria vita il bene dell’uomo, la Sacra Scrittura si legge ma non si capisce.
Costui rispose, e qui cita il Deuteronomio, al capitolo 6 versetto 5: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente”, cioè l’amore a Dio è totale, assorbe tutte le energie dell’uomo. E aggiunge, con un precetto del libro del Levitico: “E il prossimo tuo come te stesso”. C’è una differenza tra questi due amori: mentre l’amore verso Dio assorbe tutte le energie dell’uomo, l’amore verso il prossimo è relativo, amo il prossimo come amo me. E Gesù: “Hai risposto bene; fà questo e vivrai”.
Non parla di vita eterna, ma parla di questa vita. Ma quegli, volendo giustificarsi… Cosa significa giustificarsi? Al tempo di Gesù c’era un ampio dibattito tra due scuole rabbiniche, la scuola di Rabbi Shammai, molto più rigoroso e severo, e quella di Rabbi Hillel, di manica larga, sul concetto di “prossimo”. Allora per Hillel il concetto di prossimo significava anche lo straniero che risiede in Israele, per Shammai, la posizione più rigorosa, soltanto l’appartenente al proprio clan familiare o al massimo la tribù. Il fatto che si vuole giustificare ci fa capire che lui è per la posizione più ristretta.
Infatti disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Ebbene Gesù non risponde in maniera teologica, ma con una narrazione, una parabola nella quale cambia radicalmente due concetti fondamentali della religione: il concetto di credente e il concetto di prossimo.
Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”. Gerusalemme è sita nella montagna di Giuda, a più di 818m di altitudine sul livello del mare, mentre Gerico, giù nel deserto, è a ben 258m sotto il livello del mare. Sono poche decine di chilometri, una trentina, quindi c’è un grande dislivello. E’ una zona arida e desertica, dove si fa fatica a camminare.
“E cadde nelle mani nei briganti”. La zona era pericolosa ed è tuttora pericoloso percorrerla da soli. “Che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto”.  In quella strada, in quella situazione, in quel clima, non ha alcuna speranza. Deve soltanto attendere di morire, a meno che, provvidenzialmente, passi qualche anima buona. E’ quello che Gesù ci fa comprendere.
Per caso … che significa provvidenzialmente, Gesù presenta il meglio che poteva capitare, la persona più adatta. Un sacerdote scendeva per quella medesima strada. E’ importante che Gesù parli di un sacerdote che scende. Cosa significa? Gerico era una città sacerdotale dove i sacerdoti, secondo il loro turno,  salivano a Gerusalemme al tempio, e, attraverso complicati rituali di purificazione, per una settimana esercitavano il loro ministero liturgico. Quindi il sacerdote non è che va a Gerusalemme per essere purificato, ma è già stato per una settimana in servizio nel santuario (si può dire che i suoi abiti ancora profumano d’incenso) ed è nella pienezza della purità rituale. Quindi il meglio che poteva capitare.
“Quando lo vide…”, ecco la salvezza a portata di mano e invece ecco la doccia gelata … “Passò oltre dall’altra parte”. Perché questo? E’ una persona crudele, è una persona insensibile? No, peggio, è una persona religiosa. Per una persona religiosa i doveri verso Dio vengono prima di quelli verso gli uomini. Del resto cosa ha risposto il dottore della Legge? L’amore a Dio è totale, l’amore al prossimo è relativo.
Lui è un sacerdote in condizione di purezza e la legge nel libro del Levitico e nel libro dei Numeri, gli proibisce di entrare in contatto con un morto o con un ferito, perché altrimenti diventa impuro. Allora si trova di fronte al dilemma: osservo la legge divina o soccorro la persona? Cos’è più importante il bene di Dio o il bene del prossimo?
Le persone religiose non hanno alcun dubbio, per loro è più importante il bene di Dio.
Anche un levita, i leviti erano gli addetti al culto, anche loro dovevano restare in condizioni di purità per le cerimonie del tempio. Giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. Non c’è speranza. E poi c’è il colpo di grazia.
Invece un Samaritano, il nemico più tremendo, la persona più orrenda, l’essere umano più schifoso agli occhi di un ebreo, che era in viaggio, passandogli accanto … E noi ci aspetteremmo “arrivò lì e gli diede il colpo di grazia”. E invece, dice Gesù: “Lo vide”. Va bene l’ha visto anche il sacerdote e il levita e Gesù afferma qualcosa di straordinario: ,   “N’ebbe compassione”.
“Avere compassione” è un verbo riservato soltanto a Dio. E’ soltanto Dio che ha compassione, perché avere compassione significa un’azione con la quale si comunica vita a chi vita non ce l’ha. Allora per Gesù questo Samaritano, un eretico, un meticcio, un peccatore, una persona impura, si comporta come Dio. Chi è il credente per Gesù? Non colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi – e abbiamo visto i risultati con il sacerdote – ma colui che assomiglia a Dio praticando un amore simile al suo.
Il Samaritano gli si avvicina, cura la persona malcapitata e addirittura lo porta in una locanda prendendosi cura di lui, e alla fine Gesù si rivolge di nuovo al dottore della Legge e gli chiede: “Chi di questi tre (un sacerdote, un levita, un samaritano) ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Gesù ha ribaltato la domanda del dottore della Legge. Lui voleva sapere “chi è il mio prossimo”, cioè “Fin dove deve arrivare il mio amore?” Gesù gli chiede “chi si è fatto prossimo”, cioè da dove parte l’amore?
Il prossimo è colui che si approssima a chi ha bisogno.
La risposta è facilissima, ma inaccettabile per il dottore della Legge. Quegli rispose (e neanche lo nomina tanto gli fa orrore il Samaritano): “Quello che …” E non accetta che un uomo possa amare come Dio, non dice – nonostante qui la traduzione parli di compassione, il testo greco parla di misericordia, perché Dio
è colui che ha compassione, gli uomini hanno misericordia. E per il dottore della Legge è inaccettabile che un uomo possa amare come Dio.
“Chi ha avuto misericordia di lui”. Gesù gli disse: “Và e anche tu fà così”. Quindi per Gesù il credente non è più colui che ubbidisce a Dio osservando le sue leggi, ma colui che assomiglia al Padre praticando un amore simile al suo.

 

Ne ebbe compassione

Alessandro Dehò

di Alessandro Dehò

Da duemila anni c’è un uomo che scende da Gerusalemme a Gerico, da duemila anni si ripete la storia di vite umane aggredite e lasciate ai bordi della strada,  mezze morte. O mezze vive, dipende dallo sguardo. Abbandonati in terre di mezzo ci sono da sempre corpi umani imploranti, ogni corpo umano, in fondo, sempre  implora dal bordo di una strada. Le parole e i silenzi di ogni uomo sono scomode preghiere impastate di terra o bestemmie crude rivolte a chi vive di violenza  o molesti casi morali gettati negli occhi anestetizzati dei devoti. Dipende dallo sguardo. Da duemila anni ci sono corpi sospesi tra vita e morte che nessuno  vorrebbe vedere, sono segno di quell’umanità che si incastra a inceppare il fluire comodo della vita, sono quegli ostacoli che rischiano di catturare tutta  l’attenzione perché, puoi anche darti tutti gli alibi del mondo, ma un uomo mezzo morto ai bordi della strada ti resta inchiodato dentro, anche solo per  il fatto che ti costringe a trovare delle scusanti per proseguire il cammino. Quell’uomo mezzo morto è scomodo, è giusto dirlo. È l’errore di programmazione, è la nota stonata, è l’inciampo che fa venir voglia di cambiare rotta e  di continuare a sognare un mondo dove tutti possano camminare senza rischi. Il dottore della legge chiede a Gesù notizie sulla vita eterna ma lui, il Maestro,  sceglie di rispondere con il realismo ingombrante della vita terrena: vita spesso ruvida e scomoda, vita che ti chiede di schierarti, vita intralciata
dal male.

Alessandro Dehò1

Un uomo scende da Gerusalemme a Gerico e viene percosso a sangue e lasciato a morire per strada. Altri tre uomini scendevano per la medesima strada e tutti  e tre, almeno per un istante, maledicono il fato alla vista di quella carne pestata a sangue e tenuta in vita da un filo cocciuto di respiro. I primi due,  un sacerdote e un levita, vedono e “passano oltre”, il Vangelo non esplicita le motivazioni, probabilmente sono pretesti religiosi legati al culto, quello  che però sappiamo con certezza è che “passano oltre”. Passare oltre significa decidere di non fermarsi. La qualità della vita si decide qui, dice Gesù,  dalla scelta di fermare il cammino mandando all’aria le tabelle di marcia. E se ci pensiamo bene questo ha davvero del paradossale, la vita diventa eterna  se accetto di perdere tempo, di arrivare in ritardo, di infrangere le regole. La “vita eterna” non è qualcosa che sarà, insiste il Vangelo, ma qualcosa  che è già qui, ogni volta che accettiamo di lasciare che l’uomo ferito fermi il nostro cammino, ogni volta che ci lasciamo ferire dalle ferite del mondo.

La pagina letta non è l’attacco alle norme religiose ma la critica feroce a tutte quelle vite che non accettano intrusioni. Ed è una delle tentazioni più  grandi. Sentirsi in diritto di decidere in totale autonomia lo svolgersi della vita, sentire di essere così autonomi e indipendenti da non concepire variabili.
Soprattutto quando le variabili non accendono sensi di colpa: non è certo colpa del levita o del sacerdote se un gruppo di briganti assalta uno sprovveduto!

In questo pensiero mi sembra di leggere una tentazione molto presente in ognuno di noi, una specie di pretesa che il mondo non venga a darci fastidio.
Cosa c’entro io con il male? Cosa c’entro io con la perenne emergenza educativa frutto di genitori che non sanno fare i genitori, di una scuola che non  educa più, di un oratorio che non è capace di garantire sicurezza… cosa c’entro io? Passo oltre e denuncio i briganti.

Leggo la pagina di oggi e, calata nel mondo che viviamo, non mi sembra tanto una critica della “religione delle regole” ma dell’unica vera religione assoluta  in cui crediamo: noi stessi. È una critica profonda all’individualismo, a quell’atteggiamento che ci permette di passare oltre al male del mondo perché  “non abbiamo colpa”. Quello sguardo che ci fa guardare con rabbia tutte le persone che intralciano i sogni. Non sto parlando di cose enormi ma per esempio  dei ragazzini difficili che non vorremmo avere nella classe di nostro figlio, degli adolescenti problematici che non vogliamo avere nel CRE, dei portatori  di handicap che rallentano il passo, ma anche di tutte le persone che non la pensano come noi… perché ci fanno fermare!

A fermarsi è il samaritano, che da quel giorno è diventato “buono”, buon samaritano perché si è fermato. A me pare che la buona notizia del Vangelo di  oggi arrivi diritta a tutte le persone che hanno dovuto cambiare i tempi del loro viaggio, i colori del loro sogno, il senso della loro vita. La buona  notizia arriva diretta a tutte le persone che sono state fermate da una malattia, da un figlio che non desideravano così come l’hanno ricevuto, da una  delusione cocente, da un tradimento improvviso. La buona notizia arriva a tutte le persone dal cuore fragile che hanno scelto di fermarsi, di lasciarsi  ferire dalla vita. Il samaritano si commuove, lascia che il dolore gli stringa le pareti del cuore e accetta di lasciarsi scompigliare i piani. Questa la vera differenza. Certo, si può anche scegliere di “andare oltre”, di portare a termine i propri progetti e di tenere tutto sotto controllo, anzi, alla  fine della vita ci saranno persone lodate proprio per la loro determinazione, ma non è la determinazione a rendere infinita la vita. Il profumo di eternità  nasce dall’assumersi il rischio di tramutare la propria esperienza in un fallimento per l’incapacità di chiamarsi fuori dal dolore. A rendere infinita  la vita sarà la nostra capacità di lasciarci interpellare dagli eventi, e poco importa se alla fine non avremmo compiuto perfettamente il viaggio, se non
saremmo arrivati alla meta, perché la meta vera camminava con noi e il Senso profondo non è nell’andare ma nel fermarsi, nel lasciarsi fermare dal dolore  del fratello. È interessante vedere che, alla fine, il sacerdote che non si ferma è sulla strada “per caso” mentre il samaritano è l’unico che viaggiava.
Il viaggiatore non è ossessionato dalla meta ma dagli incontri, non è costretto a buttare nell’approdo tutto il senso di un viaggio, sa benissimo che il  Senso è in ogni istante vissuto con sguardo profondo. Sono le cadute di Gesù a rendere la via crucis un viaggio: quello di un Dio che si inginocchia nel  cuore delle sofferenze umane.

La pagina di oggi è un invito al Viaggio e a non credere che vita eterna sarà qualcosa che ci aspetta alla fine del tempo ma è già qui, ogni volta che  ci fermiamo, strappati da cavallo da un cuore che proprio non ce la fa a non commuoversi.

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riviste missionarie reagiscono duramente per l’uccisione del nigeriano da parte di un ultrà

difende la compagna da insulti razzisti

nigeriano picchiato a morte da ultrà locale

Fermo, difende la compagna da insulti razzisti. Nigeriano picchiato a morte da ultrà locale
Emmanuel Chidi Namdi e la compagna Chinyery 

Emmanuel Chidi Namdi, 36 anni, era fuggito con la 24enne Chinyery da Boko Haram, trovando ospitalità presso il seminario della cittadina marchigiana. Martedì l’aggressore si è rivolto alla donna chiamandola “scimmia”. Don Albanesi: “Stesso giro delle bombe davanti alle chiese”. Renzi: il governo a Fermo contro odio, razzismo e violenza

di PAOLO GALLORI e CHIARA NARDINOCCHI

Morto, ammazzato di botte. Un nigeriano di 36 anni, Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo, è stato aggredito nel pomeriggio di ieri, martedì 5 luglio, da un fermano di 38 anni, ultrà della squadra di calcio locale. Camminava in via XX Settembre insieme alla compagna Chinyery, 24 anni, non lontano dal seminario arcivescovile di Fermo dove la coppia era ospite.

La dinamica di quanto accaduto non è ancora stata accertata. Stando a una prima ricostruzione della polizia, Namdi stava camminando con la ragazza quando due residenti del posto hanno iniziato a insultarla chiamandola “scimmia”. Emmanuel ha reagito, mossa che ha scatenato la violenza. Non è chiaro chi tra Namdi e l’ultrà 38enne abbia sradicato un palo della segnaletica usandolo come arma. L’unica cosa certa è che alla fine della rissa, il richiedente asilo è caduto a terra, poi è stato finito a calci e pugni. Uno dei colpi ha causato un’emorragia cerebrale che l’ha portato in coma irreversibile. Anche lei è stata picchiata, ha riportato escoriazioni alle braccia e a una gamba guaribili in sette giorni. 
 
Nel pomeriggio i medici hanno decretato la morte cerebrale di Namdi. Chinyery ha chiesto la donazione degli organi, ma il suo desiderio non è stato esaudito per la mancanza dei documenti necessari.

L’autore del pestaggio era già noto alle forze dell’ordine per altri episodi di violenza che gli sono costati un Daspo di quattro anni. 

La difesa dell’ultrà e del suo amico – secondo il racconto della donna – è stata in un primo momento dire che avevano visto la coppia guardare in modo sospetto dentro le macchine parcheggiate sulla via. Ma ci sono molti testimoni, e saranno ascolati dalla procura. L’ultrà diffidato è stato denunciato a piede libero per lesioni gravissime. Ma dopo la morte di Emmanuel probabilmente la procura formulerà un nuovo capo d’imputazione.

Emmanuel Chidi Namdi e la compagna Chinyery erano arrivati al seminario vescovile di Fermo lo scorso settembre, fuggiti dalla Nigeria dopo l’assalto di Boko Haram a una chiesa. Nell’esplosione erano morti i genitori della coppia e una figlioletta. Prima di sbarcare a Palermo, avevano attraversato la Libia, dove erano stati aggrediti e picchiati da malviventi del posto. Durante la traversata, Chinyery aveva abortito. 

E adesso don Vinicio Albanesi, presidente della Comunità di Capodarco, accusa: “E’ stata una provocazione gratuita e a freddo, ritengo che si tratti dello stesso giro delle bombe davanti alle chiese“. Riferimento ai quattro ordigni piazzati nei mesi scorsi di fronte a edifici di culto di Fermo. Don Albanesi, anche presidente della fondazione Caritas in Veritate che assiste migranti e profughi, si costituirà parte civile.

Il premier Matteo Renzi ha telefonato a don Albanesi per esprimere la sua solidarietà e vicinanza per la morte del cittadino nigeriano. Renzi, come lui stesso ha ricordato al telefono, aveva conosciuto don Albanesi quando faceva parte dei giovani scout. Il premier ha anticipato la presenza a Fermo domani del ministro dell’Interno Angelino Alfano.

Parla di “sgomento e indignazione” la presidente della Camera Laura Boldrini, appresa la notizia che “un uomo che era venuto via dal suo Paese per scampare alla ferocia dei terroristi di Boko Haram ha perso la vita qui da noi, in Italia, sotto i colpi dell’odio razzista e xenofobo”. “Mi addolora ancor di più – scrive Boldrini in una nota – che questo fatto orribile sia avvenuto nella mia regione, che è sempre stata terra di solidarietà e di accoglienza. Abbraccio nel modo più affettuoso la giovane compagna dell’uomo ucciso e mi auguro che dal territorio, già investito nei mesi scorsi da episodi inquietanti come gli attentati alle chiese della zona, arrivi la risposta più netta, capace di isolare ed espellere i violenti”.

Monsignor Albanesi aveva unito secondo un rituale risalente al medioevo Emmanuel e Chinyery poiché senza documenti non era possibile celebrare il matrimonio: “La ragazza era sua convivente stabile, ma non si erano ancora sposati. Se la legge lo permetterà, lei potrebbe donare gli organi”.

Fermo, difende la compagna da insulti razzisti. Nigeriano picchiato a morte da ultrà locale

Nelle stesse ore, quando la sorte del nigeriano era parsa segnata, il sindaco di Fermo, Paolo Calcinaro, in una nota, aveva espresso il suo dolore e condannato non solo il brutale episodio ma anche lo “strisciante razzismo che non può e non deve trovare spazio nel modo più assoluto nella nostra città”. “La comunità di Fermo – ribadisce Calcinato – è conosciuta come esempio virtuoso di integrazione e accoglienza anche rispetto a chi rifugge da drammi inenarrabili. Non merita di essere bollata per quanto emergerà da questo episodio, ma deve invece rivendicare con forza lo spirito che ha sempre contraddistinto la sua realtà, le etnie straniere, i nuovi cittadini italiani e i figli di tutti loro, che stanno crescendo insieme, senza discriminazione”.

Era intervenuta anche l’Anpi provinciale di Fermo, per ricordare come Emmanuel e Chinyery, “nostri fratelli e compagni, vittime delle persecuzioni e delle guerre civili nel loro Paese” sono anche “vittime della violenza fascista e razzista in Italia”. Perché, sottolinea l’Anpi, i “due cosiddetti cittadini italiani” coinvolti nella brutta vicenda sono “noti da tempo alle forze dell’ordine come ultras ed elementi della destra fascista”, “stupidi pericolosi sicari generati da un clima di intolleranza, di paura e d’odio innescato volutamente da quanti pensano di far leva sulle angosce e i timori della gente in difficoltà per avvantaggiarsene politicamente ed economicamente”.

Apparteniamo tutti alla stessa famiglia umana

Apparteniamo tutti alla stessa famiglia umana”. Così reagiscono “Missione Oggi” e “Missionari Saveriani”, le riviste dei Saveriani in Italia, alla barbara morte di Emmanuel Chidi Namdi, nigeriano 36enne, richiedente asilo, aggredito martedì 5 luglio, da un ultrà di Fermo, mentre camminava non lontano dal seminario arcivescovile dov’era ospite insieme alla compagna Chinyery. Ancora una volta, nel nostro paese ha preso forma la folle “gratuità” del male paradossalmente nello stesso luogo, via XX Settembre, in cui il richiedente asilo era stato toccato dalla “gratuità” del bene, l’ospitalità del seminario. Diciamo no alla follia del male “gratuito”, alimentato della cecità dell’odio, del razzismo e della violenza, che ci sta facendo perdere la fiducia in noi stessi come italiani, la fiducia nell’altro come straniero e la fiducia nel futuro del nostro bel paese.

Ci sembra più che mai pertinente il pensiero del pastore luterano tedesco, internato 9 anni a Dachau, Martin Niemöller, Berlino 1932:

Prima di tutto vennero

a prendere gli zingari

e fui contento

perché rubacchiavano.

Poi vennero a prendere

gli ebrei

e stetti zitto perché

mi stavano antipatici.

Poi vennero a prendere

gli omosessuali

e fui sollevato

perché mi erano fastidiosi.

Poi vennero a prendere

i comunisti

ed io non dissi niente

perché non ero comunista.

Un giorno vennero

a prendere me

e non c’era rimasto

nessuno a protestare.


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la dura vita in un bordello del Bangladesh

 

ecco cosa vuol dire lavorare nel bordello più antico del Bagladesh

Il Bangladesh è uno dei pochi paesi musulmani dove la prostituzione è legale e nel bordello più antico del paese, Kandapara, vivono oltre 700 donne.

Le ragazze vengono impiegate giovanissime, ancora bambine, dai 12 anni di età.

Spesso vengono vendute dalle loro famiglie, troppo povere per mantenerle; oppure, poverissime, entrano nel bordello per saldare dei debiti, ma dopo averli estinti non sono in grado di reintegrarsi nella società, ormai stigmatizzate come prostitute e impossibilitate a trovare un altro lavoro per il resto della loro vita.

Kandapara si trova in Bangladesh, nella regione di Tangail ed è in attività da più di 200 anni

Già dal dodicesimo anno di età le ragazze si prostituiscono, vendute dalle famiglie stesse, o per sfuggire al controllo del marito, oppure per saldare debiti che non possono pagare.

vengono pagate circa 10 euro al giorno e sono obbligate a soddisfare quotidianamente oltre i 15/20 clienti

Non hanno nessun diritto: da quando vengono vendute, diventano di proprietà del gestore del bordello, senza nessuna possibilità di un futuro diverso. Vengono infatti stigmatizzate come prostitute e, fuori da Kandapara, nessuno sarebbe disposto ad assumerle.

ci sono ragazze con figli, che spesso vivono con loro in condizioni misere, di estrema povertà

Sono malnutrite e costrette ad assumere l’Oraxedon, uno steroide che i contadini usano per far ingrassare i bovini, in modo da prendere peso ed avere un aspetto più sano ed attraente per i clienti. Secondo i dati, il 90% delle prostitute ricorre costantemente all’Oradexon, che comporta effetti negativi come il diabete, la pressione alta, gli sfoghi cutanei e il mal di testa.

all’interno del bordello è proibito l’uso del velo, che invece le ragazze sono obbligate ad indossare fuori

Numerose ragazze sono costrette a prostituirsi dal loro stesso marito, che ne gestisce gli affari e i clienti.
A volte hanno la “fortuna” di incontrare clienti che non chiedono di avere rapporti, ma si limitano a parlare, bere il tè o stringere la loro mano: tutte cose normali nella nostra società, ma che diventano una lussuriosa evasione nella rigida cultura bengalese.

il dilagare della prostituzione in Bangladesh è legato alla miseria: più del 50% del paese vive sotto la soglia di povertà

e le donne vendute come schiave del sesso, spesso non hanno nessuna alternativa

“Se riuscissi a fuggire”, dice una di loro, “dove potrei andare? I miei mi hanno sempre detestato e non mi rivogliono indietro. Noi tutte ci dobbiamo rassegnare al fatto che siamo delle schiave e come schiave dobbiamo morire”.
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l’ultratradizionalismo cattolico e i fanatici dell’iperliberismo economico i grandi nemici di papa Francesco

nella chiesa cresce il malumore per il “papa eretico”

dai cattolici tradizionalisti ai movimenti in difesa della famiglia, si diffonde l’opposizione alle nuove idee di Papa Bergoglio, accusato addirittura di non  essere cattolico

Papa

Le truppe ultra-tradizionaliste non hanno retto: il Papa venuto dalla fine del mondo non gli piace, non gli è mai piaciuto per la verità, solo che ora il brusio di fondo, il malcontento che si sentiva come un rumore in lontananza, è esploso. Il Papa non è cattolico, accusano, è quasi un eretico anzi; si avvicinano così alle classiche posizioni sedevantiste dei lefebrviani, la Fraternità di San Pio X che resta, per molti di loro, un punto di riferimento. Il punto di non ritorno è stato il sinodo sulla famiglia, anzi i due sinodi: a lungo l’ala conservatrice più intransigente ha coltivato l’obiettivo di mandare a monte il progetto riformista del Papa che metteva fuorigioco la dottrina concepita come ideologia: chi è in regola è dentro tutti gli altri fuori, altro che misericordia, altro che amore di Dio, altro che accoglienza: porte chiuse e non e ne parli più.

Su questa linea si asserragliava l’integralismo duro e puro che aveva più di una diramazione rosso porpora nei sacri palazzi, anche se certo i cardinali integralisti non usavano il linguaggio aggressivo e feroce di certi gruppi e siti internet. D’altro canto uno dei padri sinodali, l’arcivescovo Tomash Peta, di Astana (Kazakhstan), appartenente alla corrente più intransigente, è andato fino in fondo e ha detto senza giri di parole – riprendendo una celebre espressione di Paolo VI – che il «fumo di Satana» è entrato in Vaticano con il sinodo e «precisamente attraverso la proposta di ammettere alla sacra comunione chi è divorziato e vive in una nuova unione civile; l’affermazione che la convivenza è un’unione che può avere in se stessa alcuni valori; l’apertura all’omosessualità come qualcosa dato per normale».

A lungo l’ala conservatrice più intransigente ha coltivato l’obiettivo di mandare a monte il progetto riformista del Papa che metteva fuorigioco la dottrina concepita come ideologia: chi è in regola è dentro tutti gli altri fuori, altro che misericordia, altro che amore di Dio, altro che accoglienza: porte chiuse e non e ne parli più

Non meraviglia più di tanto allora che nel sottobosco del web, di gruppi e associazioni fondamentaliste, il Papa diventi una specie di anticristo, un diavolo che si è infiltrato al vertice della Chiesa cattolica; ambienti marginali dai quali trapela però un clima pesante, una pericolosa aggressività mal repressa. Non va dimenticato, tuttavia, che se l’estremismo religioso cattolico ce l’ha con Bergoglio, i primi a dargli del “comunista” sono stati i fanatici dell’iperliberismo economico a stelle e strisce, i capi del Tea Party, le falangi repubblicane aderenti al cristianesimo evangelico in salsa fondamentalista, quello della “bible belt” che si saldavano agli ideologi di Wall street: il Papa si occupasse di anime, il capitalismo finanziario in crisi di questi anni turbolenti, non poteva essere toccato, tanto meno era compito del vescovo di Roma parlare di diritti sociali.

In ogni caso se un’opposizione coerente al Papa non riesce a prender forma, e appare anzi piuttosto frastagliata e divisa, gruppi e sensibilità diverse convergono però in un malumore crescente contro Francesco e i suoi collaboratori. Solo che questo sommovimento ha dovuto fare i conto con l’immenso consenso che accompagnava il Papa argentino, da Manila a Rio de Janeiro, dove interi popoli cattolici, folle di “scartati”, di marginali, ritrovavano una guida e un riferimento in un mondo regolato dal potere di una economia che non aveva – negli slums filippni e brasiliani – un volto umano.

Del resto è lungo l’elenco delle cose che hanno fatto sobbalzare i gruppi tradizionalisti: dalla critica alla finanza mondiale al San Francesco ecologico, dall’attacco alla corruzione nella Chiesa alla richiesta di pastori “col puzzo di pecora” – in grado cioè di stare in mezzo al popolo – alla scomunica ai mafiosi diretta anche e forse soprattutto ai tanti silenzi interni di preti e vescovi conniventi, dalla riforma delle finanze vaticane al depotenziamento della corte pontificia. E poi c’è stata la sconfessione di ogni criterio gerarchico nelle nomine cardinalizie: la scelta non premiava più diocesi potenti e carriere costruite per arrivare a quello zucchetto rosso, ma uomini di Chiesa che abitano i luoghi complessi di un mondo reale: dalla Birmania alla lontana Tonga, da Motevideo ad Agrigento.

Se un’opposizione coerente al Papa non riesce a prender forma, e appare anzi piuttosto frastagliata e divisa, gruppi e sensibilità diverse convergono però in un malumore crescente contro Francesco e i suoi collaboratori

L’enciclica sull’ambiente, inoltre, ha mobilitato intorno al Papa mondi che prima guardavano solo con diffidenza alla Santa Sede, ma in modo particolare ha avvicinato al vertice della Chiesa dopo molto tempo una miriade di organizzazioni cattoliche che dal Brasile, all’Africa, all’Australia, hanno combattuto col Vangelo in mano battaglie non di rado disperate per difendere territori depredati e comunità umane fatte a pezzi. Così è lo stesso papa Francesco ha descrivere il modello di Chiesa che ha in mente come una piramide rovesciata, dove il popolo di Dio – secondo la definizione del Concilio Vaticano II – è il protagonista e non più il porporato di Curia con il codice di diritto canonico fra le mani.

Infine è arrivato il tema più grosso, la famiglia, dove Bergoglio ha dato indicazione, senza cambiare la dottrina, di aprire le porte a tutti: divorziati, conviventi, madri single, omosessuali. Non un’assenza di regole, ma il ritorno al fondamento della fede cristiana, il perdono e l’accoglienza. E su questo si è aperta una battaglia culturale cruciale nella Chiesa.

Il sinodo è diventato allora il momento nel quale i vari oppositori interni hanno provato a riunificare le forze per fare muro contro il Papa, per bloccarne il disegno. Ma certo cardinali come Gerhard Muller, prefetto della dottrina della fede, e Angelo Scola, arcivescovo di Milano, pure in dissenso, non potevano approvare un progetto di ‘guerra civile’ interna come quello scatenato dai circoli più oltranzisti, per altro le voci più oltranziste e forse finivano col danneggiare l’ala meno irruenta dei conservatori. Fiorivano intanto gli interventi del professor Roberto De Mattei, della Fondazione Lepanto, o quelli di Antonio Socci, commentatore cattolico tradizionalista, che evocava paragoni storici per parlare di eresia latente e di Papa in definitiva non cattolico o quasi.

È lo stesso papa Francesco ha descrivere il modello di Chiesa che ha in mente come una piramide rovesciata, dove il popolo di Dio – secondo la definizione del Concilio Vaticano II – è il protagonista e non più il porporato di Curia con il codice di diritto canonico fra le mani

Forze più organizzate, come la lobby ultra-tradizionalista “Voice of the family”, attaccavano le posizioni “aperturiste” presenti nel sinodo mentre accoglieva e pubblicava in bella evidenza il comunicato del Superiore dei lefebvriani, monsignor Bernard Fellay, che a proposito del testo finale del sinodo affermava: “Vi si possono leggere sicuramente dei richiami dottrinali sul matrimonio e la famiglia cattolica, ma si notano anche delle spiacevoli ambiguità e omissioni, e soprattutto delle brecce aperte nella disciplina nel nome di una misericordia pastorale relativista. L’impressione generale che si ricava da questo testo è quella di una confusione che non mancherà di essere sfruttata in un senso contrario all’insegnamento costante della Chiesa”. A canto a questi si muoveva anche il gruppo “Tradizione famiglia proprietà”, fondato in America Latina alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso da Plinio de Correa de Oliveira, e poi diffusosi in varie parti del mondo; il movimento entrò in conflitto con la conferenza episcopale brasiliana a causa del suo fondamentalismo estremista.

Alla rete di “Voice of the Family”, aderisce anche “Famiglia domani”, l’organizzazione italiana che ha indetto da qualche anno la marcia per la vita nella quale si ritrovano i settori integralisti del cattolicesimo italiano e che incontra il consenso di gruppi politici di estrema destra come “Forza Nuova”. In Curia le posizioni oltranziste sono state rappresentate in primo luogo da un cardinale americano, Raymond Leo Burke, fautore della messa preconciliare; e all’interno dello stesso sinodo una personalità come il cardinale Carlo Caffarra, ormai ex arcivescovo di Bologna, ha dato voce, insieme ad altri, alla fazione più intransigente. C’è poi un livello di discussione più articolato, quello promosso da settori del cattolicesimo conservatore d’Oltreoceano, che non gradiscono la dottrina sociale declinata dal papa e dai suoi sostenitori, giudicata troppo sensibile ai temi della giustizia sociale.

La lobby ultra-tradizionalista “Voice of the family” attaccava le posizioni “aperturiste” presenti nel sinodo mentre accoglieva e pubblicava in bella evidenza il comunicato del Superiore dei lefebvriani, monsignor Bernard Fellay, che affermava: “Vi si possono leggere sicuramente dei richiami dottrinali sul matrimonio e la famiglia cattolica, ma si notano anche delle spiacevoli ambiguità e omissioni”

D’ora in avanti, insomma, il cammino si fa più aspro per il Papa, come dimostra la vicenda grottesca della falsa malattia diffusa a poche ore dalla conclusione del sinodo. dietro le quinte s’intuisce un lavorìo che fa leva sulla suggestione del caos, sul disordine interno che avrebbe suscitato l’azione riformatrice di Bergoglio. Del resto non c’è rivoluzione che non crea conflitti, e questo il Papa lo sa bene. Così il prossimo sinodo, potrebbe avere per tema – lo ha ipotizzato il cardinale Oscar rodriguez Maradiaga, vicino al pontefice – il decentramento della Chiesa, ovvero il potenziamento del ruolo delle conferenze episcopali nazionali, delle singole diocesi, dei sinodi continentali. Una Chiesa in grado di discutere di tutto dunque, in cui il Papa sarebbe il garante dell’unità; in un progetto simile c’è certo poco spazio per i diktat della curia vaticana.

E poi – a sinodo appena concluso – sono arrivate due nomine importanti di vescovi in Italia, a Bologna e Palermo, città chiave per la chiesa italianam alla cui guida Francesco ha chiamato due pastori, nell’accezione bergogliana del termine: monsignor Matteo Zuppi, già vescovo ausiliare di Roma, e Corrado Lorefice, parroco e studioso. Da ultimo il Papa ha dato una stoccata indiretta ma ben assestata ai suoi detrattori parlando di Monsignor Oscar Arnulfo Romero, il vescovo assassinato da gruppi armati di estrema destra in Salvador nel 1980 e divenuto un simbolo della lotta evangelica contro l’oppressione dei più poveri. Il suo martirio, ha detto il Papa, è proseguito anche dopo la morte: «Una volta morto – ero giovane sacerdote e ne fui testimone – fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche da parte di suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato. Non parlo per aver sentito dire. Ho ascoltato queste cose». Insomma Bergoglio comincia a levarsi qualche sassolino dalle scarpe e si prepara intanto al Giubileo della misericordia.

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«Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?»,

papa Francesco

«Basta al traffico di armi, la pace è possibile»

di Luca Kocci
in “il manifesto”

Kocci

Dito puntato, ancora una volta, da papa Francesco contro tutti i Paesi occidentali di area Nato, ma anche contro le monarchie saudite e la Russia, che vendono armi alla Siria o ai ribelli anti Assad mentre contemporaneamente invocano la pace. «Come si può credere a chi con la mano destra ti accarezza e con la sinistra ti colpisce?», chiede retoricamente il pontefice in un videomessaggio diffuso ieri in occasione del rilancio della campagna per la pace in Siria («Siria, la pace è possibile») promossa dalla Caritas Internationalis, organismo a cui aderiscono 165 Caritas di tutto il mondo, tra cui quella italiana.papa8

«Mentre il popolo soffre – si ascolta nel videomessaggio di Francesco –, incredibili quantità di denaro vengono spese per fornire le armi ai combattenti. E alcuni dei Paesi fornitori di queste armi, sono anche fra quelli che parlano di pace». Nomi Bergoglio non ne fa, ma sul banco degli imputati siedono i principali governi occidentali e i Paesi della Nato, che per anni hanno venduto armi alla Siria e da un po’ di tempo le vendono agli oppositori di Assad (fra cui si annidano anche gli jihadisti dell’Isis e di Al Qaeda), ma anche la Russia di Putin. E qualche giorno fa il New York Times ha rivelato che una grande quantità di armi che la Cia – in collaborazione con i sauditi – aveva destinato ai ribelli siriani contro il regime di Assad è stata rubata dai servizi segreti giordani e collocata sul mercato nero. Si tratta di una guerra, ricorda il papa nel videomessaggio, «oramai entrata nel suo quinto anno. È una situazione di indicibile sofferenza di cui è vittima il popolo siriano, costretto a sopravvivere sotto le bombe o a trovare vie di fuga verso altri Paesi». E a questo proposito la Rete italiana per il disarmo rilancia il rapporto della ong olandese Stop Wapenhandel (“Border wars”) che denuncia come «le principali aziende europee di armamenti coinvolte nella vendita di sistemi militari al Medio Oriente sono le stesse aziende che stanno traendo profitti dalla crescente militarizzazione delle frontiere dell’Unione europea». Insomma un affare doppio. Non è la prima volta che papa Francesco denuncia il commercio internazionale delle armi come causa prima delle guerre. E non è la prima volta che interviene sulla Siria, da quando, nel settembre 2013, alla vigilia di quello che sembrava un imminente attacco occidentale alla Siria di Assad, scrisse a Putin (contrario all’azione militare) che presiedeva un G20 a San Pietroburgo per chiedere ai capi di Stato e di governo di abbandonare «ogni vana pretesa di una soluzione militare» contro Damasco; e pochi giorni dopo promosse una giornata di digiuno e una grande veglia per la pace in piazza San Pietro che contribuì a fermare l’intervento armato. «Appelli puntualmente inascoltati – spiega Giorgio Beretta (Rete disarmo) –, le responsabilità sono tutte dei governi occidentali che continuano a vendere armi nonostante siano ben coscienti delle continue violazioni dei diritti umani in Medio Oriente. Se vogliamo fermare le guerre, il primo passo è la trasparenza e un controllo rigoroso sull’export di armamenti, che invece è in aumento, come confermano i recenti contratti firmati da Finmeccanica e Fincantieri» Ancora papa Francesco: «Non c’è una soluzione militare per la Siria, ma solo una politica. La comunità internazionale deve sostenere i colloqui di pace verso la costruzione dì un governo di unità nazionale. La pace in Siria è possibile!».

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la prima biografia di p.Turoldo nel centenario della nascita

Poeta di Dio, “disturbatore di coscienze”. La prima biografia di David Maria Turoldo

poeta di Dio

“disturbatore di coscienze”

la prima biografia di David Maria Turoldo

 

il nuovo libro di Mariangela Maraviglia, docente, giornalista e storica della Chiesa, David Maria Turoldo. La vita, la testimonianza (1916-1992), (Morcelliana, pp. 450), è un’occasione per rileggere la biografia di una figura cardine della Chiesa del ‘900 (si tratta peraltro della prima biografia completa su Turoldo, di cui quest’anno, a novembre, ricorre il centenario della nascita) che ha attraversato la società del secolo scorso in tutte le sue dimensioni, culturale (è stato insigne poeta), ecclesiale (è stato tra le figure che hanno anticipato, accompagnato e poi sviluppato il Vaticano II) e politica

Il libro, frutto di oltre quattro anni di intenso lavoro (commissionato a Maraviglia dai Servi di Maria, la congregazione a cui Turoldo apparteneva), contiene diverse “notizie” sul religioso servita che ne ampliano notevolmente la conoscenza. 

La prima notizia è legata al ruolo svolto da Turoldo durante la Resistenza. La puntuale ricerca d’archivio compiuta dalla storica ha permesso di ricostruire con precisione l’attività febbrile svolta da padre Turoldo, dal suo amico e confratello padre Camillo De Piaz e dai Servi di Maria del convento di San Carlo in sostegno all’antifascismo milanese negli anni dell’occupazione nazifascista. Un’esperienza che divenne uno “spartiacque” nella vita religiosa e civile di Turoldo, che arrivò a definire la propria scelta etica «dell’umano contro il disumano», permettendogli di conoscere ed essere vicino a tanti resistenti cattolici e comunisti che transitarono e furono ospitati nel convento milanese dei Servi di Maria: tra questi, Teresio Olivelli ed Eugenio Curiel. 

Un secondo elemento di interesse del libro riguarda i rapporti tra Turoldo e don Primo Mazzolari, che Turoldo conobbe subito dopo la guerra. Furono amici, anche se l’uno non volle mai scrivere sulla rivista fondata dall’altro, e viceversa. Le divergenze riguardavano la diversa valutazione del ruolo della Democrazia Cristiana nella vita politica italiana; ma anche Nomadelfia, progetto utopico sorto negli anni ’30, fondatore don Zeno Saltini, di una comunità di cattolici praticanti che cercano di vivere adottando uno stile di vita radicalmente ispirato a quanto riportato negli Atti degli Apostoli. Mazzolari aveva pubblicamente espresso giudizi critici sull’iniziativa; Turoldo per alcuni anni fu invece una sorta di “ministro degli Esteri” della comunità (e il libro dedica infatti importanti pagine anche all’intenso e non sempre facile rapporto tra Turoldo e don Zeno, cui il primo rimproverava l’estrema e ingenua leggerezza nella gestione economica della comunità). Mazzolari e Turoldo erano invece uniti dal profondo desiderio di rinnovamento ecclesiale e sociale, dalla comune matrice resistenziale e dall’aver vissuto un rapporto difficile e conflittuale con le gerarchie cattoliche. Ma anche dalla convinzione, – che fu alla base della fondazione, avvenuta nel 1952 per iniziativa di Turoldo e De Piaz, della Corsia dei Servi, centro culturale per decenni punto di riferimento dei cattolici e degli intellettuali progressisti milanesi – che la società italiana si stava rapidamente secolarizzando e che le sfide di questo processo non si potessero affrontare con un atteggiamento di netta chiusura e intransigente opposizione alla modernità (il tratto distintivo del pontificato di Pio XII); piuttosto, attraverso l’ascolto delle nuove istanze e l’elaborazione di un progetto credibile ed evangelico di Chiesa che abitasse la città dell’uomo e di una proposta di vita per i credenti cattolici che fosse significativa e integrale, che abbracciasse la storia e l’eterno, la possibilità di giustizia e pace sulla Terra che si realizza compiutamente nell’abbraccio amoroso di tutta l’umanità in Dio.

Legata a questo aspetto c’è un’altra questione che il libro affronta: quella del rapporto di Turoldo con il “partito dei cattolici”, ossia la Democrazia Cristiana. Turoldo fu sempre avverso al dogma dell’unità dei cattolici in politica e fu tra i protagonisti di quella intensa stagione politico-ecclesiale passata alle cronache come “dissenso”, scrivendo su numerose riviste e giornali, anche laici (tra cui il Giorno, il Corriere della Sera, la Domenica del Corriere) articoli e saggi che esprimevano soprattutto la sua intransigente opposizione a fascismo e borghesia, entrambi antitetici, secondo Turoldo, al cristianesimo. Ne discendeva dunque anche una critica radicale al matrimonio che si era consumato lungo i secoli tra Chiesa e borghesia. Contrario a tutte le strutture di oppressione del tempo – che Turoldo chiamava sempre per nome (la Spagna franchista, il Portogallo salazarista, la Grecia dei colonnelli, le dittature sudamericane, ma anche gli imperialismi occidentali) – Turoldo assunse una posizione di radicale opposizione “di sistema”. In un articolo del 1973 pubblicato sul settimanale Tempo scriveva infatti: «La mia contestazione è assolutamente religiosa. Un cristiano deve mettersi fuori dal sistema. Io devo essere “nel sistema”, ma non devo essere “del sistema”. Per questo i cristiani, se “veri” cristiani e cioè in misura della loro autentica fede, sono realmente pericolosi». Prima ancora della famosa lettera di Bettazzi a Berlinguer (divenuta celebre a seguito della risposta dell’allora segretario del Pci), c’è una lettera di Turoldo a Berlinguer, che il libro della Maraviglia pubblica, assai più “spinosa” di quella che il segretario del Pci avrebbe ricevuto dal vescovo di Ivrea (e infatti la missiva non ebbe risposta…), perché Turoldo criticava la politica della mediazione con la Democrazia Cristiana inaugurata da quello che avrebbe dovuto essere il partito della classe operaia e degli sfruttati: «Va bene, dunque – scrive Turoldo – la rivoluzione è impossibile; all’opposizione non si può stare in eterno; gli stessi operai hanno bisogno di sentirsi rappresentati al governo… Ma chi difenderà le vittime del potere? La destra nazionale? Chi si deciderà a cambiare finalmente il codice fascista? Chi ci salverà dalla mafia politica? Chi proteggerà il povero e lo straniero? Dicevo che si possono anche accettare le nuove strategie, o almeno si possono comprendere. Non si può ammettere che diventiate “socialdemocratici”! A questo punto molti si chiedono: cosa serve andare al potere, se poi l’uomo non conta nulla, e la vita più esposta e inerme non la difende nessuno? Come si possono giustificare le nuove strategie se poi ne va di mezzo il più umile, quello che sicuramente e con purezza di fede, vi ha dato il voto?».

Il libro, attraverso gli anni dell’impegno per la pace, l’attenzione ai processi di rinnovamento politico ed ecclesiale dell’America Latina, l’attenzione al mondo delle carceri, l’impegno poetico, giunge sino al periodo della malattia, un tumore al pancreas scoperto nel 1988, e agli ultimi anni, vissuti non in silenzioso raccoglimento in attesa della morte, ma come occasione preziosa di andare all’essenziale e utilizzare il tempo che gli restava nella maniera più intensa e feconda. 

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perché alla fin fine gli uomini uccidono le donne

essenzialmente corpi

di Lea Melandri
Lea Melandriin “il manifesto” del 2 luglio 2016

non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate (e nell’immaginario dominante lo sono tuttora) con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminili «al suo servizio», o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione. È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzionelibro

Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole? L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole». Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini. Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.

Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé». Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io».

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Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?

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