le trentamila donne israeliane e palestinesi che gridano la nacessità della pace

Migliaia di donne israeliane e palestinesi insieme in marcia per dire basta ad una guerra che dura da 60 anni. L’intervista ad una protagoniste della manifestazione

Women Wage Peace è un movimento creato all’indomani della guerra “Margine di Protezione” fra Hamas e l’esercito israeliano nell’estate del 2014. Da qui l’idea che ha avuto un gruppo di donne, israeliane e palestinesi, di unirsi per manifestare la volontà di giungere a un accordo per porre fine a un conflitto drammatico.

Un anno fa la prima marcia: oltre 4 mila persone, donne e bambini soprattutto, hanno camminato per 200 km dal nord di Israele fino a Gerusalemme. Quest’anno dal 24 settembre al 10 ottobre sono state molte di più le presenze, almeno 30 mila persone che mettendosi in moto dai quattro lati del paese si sono date appuntamento prima nel deserto per una grande festa di musica, balli e commozione, e poi per una due giorni conclusivi di tavole rotonde, preghiere, incontri.

La richiesta è di vedere seduti ad uno stesso tavolo i leader delle due parti in causa al fine di superare finalmente una situazione di impasse e tensione che condiziona l’intera regione. Un’iniziativa dal basso per dire basta alle violenze e per stimolare i partiti politici, che sul tema paiono non volersi esporre, Un segnale fortissimo da queste ragazze e donne vestite di bianco.

Abbiamo raggiunto telefonicamente una di queste attiviste, Shazarahel, artista e scrittrice israeliana, portavoce del movimento in Italia, per farci raccontare l’atmosfera fra le partecipanti: «E’ stato un prodigio, un miracolo. Migliaia di donne insieme, fianco a fianco, israeliane e palestinesi, ebree e musulmane. Senza propaganda, senza strumentalizzazioni, solo con la voglia di gridare dal fondo del cuore basta a una guerra che da sessant’anni ha versato inutilmente così tanto sangue».

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Siete madri, figlie, sorelle, amiche a dire che “Il re è nudo”, e che la guerra non ha portato ad alcun risultato in una terra dove pare non vi sia alternativa al conflitto permanente.

«Con questa marcia sono caduti vari tabù, e quello dell’inevitabilità della guerra è uno. La narrazione comune spesso presenta madri islamiche felici di vedere i figli immolarsi in nome di Allah, e madri israeliane orgogliose dei propri che difendono la patria. Ma la maggior parte delle donne sia israeliane che palestinesi non sono così come vengono dipinte dalla propaganda politica: tutte noi siamo venute per dire con chiarezza che non siamo più disposte a dare i nostri figli per la causa della guerra e della lotta armata».

Ecco, i figli: dalle immagini si vedono bambine e bambini mano nella mano con le madri a marciare e ballare. Sono loro il futuro del pianeta, perché è importante fossero al vostro fianco?

«Perché devono sapere che un altro mondo è possibile. Vedere le mie due figlie abbracciate e coccolate da donne arabe sconosciute, vederle giocare con bambini palestinesi, senza timori da parte di nessuno, in un clima di festa e di gioia, è stato uno dei momenti più intensi. E poi noi madri abbiamo potuto incontrarci, parlarci e capire che al di là dei facili miti vogliamo tutte soltanto il bene dei nostri figli».

Uomini, classe politica e mezzi di comunicazione: quali sono stati gli atteggiamenti di questi tre attori?

«Alcuni uomini hanno marciato con noi, si è trattato per lo più di alcuni dei nostri mariti. Per il resto questa e nostre altre iniziative sono guardate con occhio critico, sospettoso: purtroppo bisogna avere il coraggio di dire che la parola Pace a queste latitutidini è un vero tabù, quasi una parolaccia: la Pace pare soltanto un’utopia, il sogno degli stolti. E’ incredibile ma siamo arrivati a tal punto. Per questo i media locali hanno snobbato l’evento, almeno fino a quando la sua eco non è rimbalzata su giornali e tv internazionali: allora non hanno più potuto far finta di nulla; i commenti non stati sempre positivi ma volti a presentarci come un gruppo di sognatrici. Stesso discorso vale per la politica».

Tutte insieme a marciare, a ballare, ad abbracciarsi. E la tanto reclamata sicurezza?

«Questo è un altro dei tabù che abbiamo contribuito a smontare. La cosa più incredibile è che ci siamo riunite a migliaia sotto le tende nel deserto senza passare alcun controllo di polizia, senza un metal detector, senza nemmeno pensarci. Che proprio in Israele, dove devi passare a controlli ovunque tu vada, 10.000 donne si siano radunate nello stesso luogo senza controlli di sicurezza è un evento senza precedenti: sarebbe bastato che un solo pazzo entrasse e poteva succedere l’ennesima strage, e la cosa più straordinaria è che non sia successo!».

Il mondo religioso israeliano come ha guardato alla vostra manifestazione?

«Alla marcia hanno partecipato credenti e laiche, con una netta preminenza delle seconde.Ma come ogni religione anche l’ebraismo non è monolitico, e vi sono aree più sensibili ad istanze moderate. E’ stato però molto bello che alla fine della manifestazione abbia preso la parola Adina bar-Shalom, attivista molto nota in Israele perché figlia del grande rabbi Ovadia, il capo spirituale degli ebrei sefarditi, figura mito per gli ultraortodossi. Il suo intervento, seppur si inscriva perfettamente in un percorso che Adina da anni ha intrapreso soprattutto per il superamento delle discriminazioni di genere, l’ha comunque molto esposta nel suo ambiente di provenienza e rappresenta per noi un incoraggiamento a proseguire nei nostri sforzi».

Come fare ora per non dissipare questa grande carica di energia, quali le prossime tappe?

«Intanto meglio sgombrare il campo da equivoci: noi non siamo un partito né ambiamo ad esserlo. Ci sono fra noi donne di ogni pensiero politico che non vogliono dare i propri figli alla causa guerrafondaia. Non entriamo per questo nell’analisi politica. Il nostro è un urlo. Presenteremo al parlamento un documento ufficiale che verrà redatto in questi giorni, per tenere alta l’attenzione sulle nostre azioni. Si sta costituendo intanto una sorta di gruppo informale interpartitico, una lobby di una ventina di parlamentari che si stanno impegnando per portare alla Knesset le nostre istanze. Noi crediamo che la pace sia possibile, e non ci fermeremo fino al raggiungimento di un accordo fra le due parti».

Per il grande raduno erano stati invitati ufficialmente il Primo Ministro Bibi Netanyahu e il Presidente dell’Autorità Palestinese Abu Mazen: quest’ultimo ha mandato una sua rappresentante, il premier israeliano invece non ha nemmeno risposto all’invito e i giornali a lui fedeli non hanno fatto molti giri di parole per render noto cosa pensavano di tutto ciò. Ma l’impressione è che non sarà il silenzio a fermare queste donne.

Immagini di Gal Mosenson

“Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali”

«La Chiesa non aiuta il cammino di noi donne»

intervista a Antonietta Potente

a cura di Luigi Accattoli


in “la Lettura” del 11 dicembre 2016

«Nei nostri otto secoli di storia c’è stato un progressivo accomodamento in una spiritualità che in realtà chiedeva di non “sedersi” mai, nata all’insegna dell’itineranza dello spirito e della mente e di un’umile ricerca del Mistero. Penso a Domenico di Guzman, il nostro fondatore, che percorreva il Sud della Francia indignato non perché c’erano degli eretici, ma perché il Vangelo si predicava con armi e ricchezze: “a cavallo”, disse lui. E poi penso a quanti di noi si sono fatti inquisitori della storia altrui, invece di vivere la propria in umile condivisione con tutti. La celebrazione degli 800 anni potremmo prenderla come occasione per il recupero di una complicità profonda con l’umano, superando i limiti di un esclusivo servizio alla Chiesa in quanto istituzione»

parla così Antonietta Potente, dell’Unione Suore Domenicane San Tommaso d’Aquino. Già docente di teologia morale all’Angelicum di Roma, Potente è critica con la storia dell’Ordine e con la componente maschile, ma rivendica l’attualità del carisma domenicano. Nel 1994 lasciò l’Italia per andare a vivere in Bolivia dove ha insegnato all’Università Cattolica Boliviana. Per un quindicennio ha vissuto insieme a una famiglia di etnia Aymara. Ha fatto parte della commissione teologica della Conferenza dei religiosi e religiose d’America Latina e ha appoggiato le riforme del governo boliviano di Evo Morales. Nel 2012 è rientrata in Italia e vive a Torino.

Una delle sue pubblicazioni è intitolata “Un bene fragile. Riflessioni sull’etica” (Mondadori, 2011).

L’abbiamo intervistata al telefono durante un viaggio di ritorno in Bolivia:

Che cosa vuol dire essere domenicani oggi e in particolare domenicane?

«Per me significa raccogliere ogni minimo respiro di vita anche là dove la storia è più dissestata, perché Domenico aveva questa grande passione per ciò che respirava. Per Domenico gli eretici erano persone assetate e non nemici della Verità. Con loro dialogava e da loro imparava. Raccogliere ogni minimo respiro di vita non significa porsi come benefattori, ma come compagni di sete. È così che percepisco come questa spiritualità possa essere viva oggi e aiutare la ricerca di quanti, credenti e non, hanno sete e avvertono che la realtà ha ancora possibilità trasformative».

E per le donne, che c’è di specifico?

«Quasi mai si parla di noi, anche in queste rievocazioni degli 800 anni, e penso che sia una perdita grave di memoria delle origini dell’Ordine, che furono plasmate con la vita delle donne. La prima comunità fondata da Domenico era femminile. Il momento attuale, per noi domenicane, è il più difficile, perché bene o male nei secoli passati persino i cronisti parlavano di noi. Si raccontavano aneddoti e si trasmetteva sapienza. Eravamo mistiche, audaci nell’ascolto del Mistero e impegnate nella cura dell’esistenza umana. Capaci di imparare a leggere e scrivere da sole o con altre donne. Oggi l’Ordine sembra essere dei soli frati, che in noi donne non riescono a vedere delle compagne di ricerca».

Che ci fa una donna nell’Ordine dei Predicatori dal momento che alle donne non è riconosciuto il «ministero» della predicazione?

«Non mi sono mai preoccupata di chiedere il permesso di predicare. Te lo danno coloro che frequenti, e non questa o quella norma. Inoltre mi è chiaro che la vera predicazione non è solo linguaggio parlato in pubblico, ma crescita di vita nell’incontro. Nell’Ordine non è gradito che, nel firmare articoli o libri, noi domenicane accompagniamo alla firma la sigla “op”, cioè: “Ordine dei Predicatori”. Mi dispiace, ma so che non significa niente rispetto alla possibilità che abbiamo di interpretare la vita e di comunicarla».

Lei ha fama di donna forte, missionaria in luoghi difficili: forse si ispira a Caterina da Siena
che era anche lei domenicana?

«Non so se sono una donna forte. Forse l’unica cosa che evoca la forza, nella mia vita, è il mio cognome. Ho percorso e continuo a percorrere molti cammini, ma il mio viaggio è più interiore che esteriore. È la mia mente che viaggia molto, nello studio o nell’elaborare scrittura. Mi piace conoscere religioni altre, sapienze e discipline altre. Non mi considero missionaria. Se per quasi vent’anni ho vissuto in Bolivia, è stato per conoscere gli aspetti del Mistero che non riuscivo a vedere in altri luoghi. Per missione intendo fare della vita una costante questio, per usare un termine caro a Tommaso d’Aquino. Una continua richiesta: dove vivi, come ti chiami, che vedi tu del Mistero? Caterina da Siena è una presenza preziosa per me. Prendo da lei la sete infinita e l’infinito desiderio. Ricordo il suo metodo che fa scaturire tutto dallo stare “nella cella interiore”, nonostante la costante itineranza».

Domenicano era Savonarola e c’è chi spera di vederlo riabilitato…

«Se lo riabilitano si potranno conoscere meglio i suoi scritti, le bellissime lettere dal carcere, le omelie, la sua profonda e vera indignazione. Ma domenicani erano anche Giordano Bruno, Bartolomé de Las Casas, Antón de Montesinos e tutta la sua comunità che diventò capace di rifiutare la politica degli spagnoli nel XVI Secolo. Domenicana era Caterina de Ricci al tempo del Savonarola. E prima di lei c’erano tutte quelle donne e uomini della scuola domenicana in Germania. Domenicano era frei Tito de Alencar, portato fino al suicidio dopo tanta tortura durante la dittatura militare brasiliana. Domenicane erano alcune delle suore nordamericane che affrontarono l’assurda politica ed ecclesiologia del Vaticano. Basterebbe riscattare uno di questi giusti per avviare il riscatto degli altri, delle altre, morti o vivi per passione d’amore».

Il suo è stato anche l’Ordine dei tribunali dell’Inquisizione…

«Per noi domenicani l’Inquisizione resta come una ferita che ci identificò per troppo tempo con le pratiche violente contro la dignità delle coscienze. Ci vedo un tradimento, tipicamente maschile, per questioni di prestigio, di incarichi nella Chiesa. Un tradimento per una paurosa immaturità, quella di chi non vuole perdere le sue sicurezze, forse anche solo quelle del suo immaginario intellettuale. E pensare che eravamo nati per stare sul confine che si trova più vicino agli inquisiti che agli inquisitori. Ma non tutti tra noi hanno accettato l’Inquisizione. Tanti e soprattutto tante non si riconobbero in quell’esercizio del potere sulle coscienze».

Da italiana che si è fatta boliviana come valuta il Papa latinoamericano?

«Nella sua elezione vedo una mossa strategica di una Chiesa incapace, in quel momento, di uscire da un grande groviglio e desiderosa di dare un’immagine diversa di sé. Ma non ne sono venute profonde trasformazioni. Credo che quella di Bergoglio sia una conversione molto personale e poco istituzionale. Il suo nuovo modo di porsi ha indotto la società a dialogare come non mai con i cristiani su ogni questione, dai gay alla crisi della famiglia. Ma da parte della Chiesa istituzionale, che nonostante Bergoglio resta troppo piramidale, c’è poco ascolto di questo “mondo adulto”, come lo chiamava Dietrich Bonhoeffer».

Anche il nuovo generale dei gesuiti è un latino-americano: è venuta l’ora di quel continente nella Chiesa cattolica?

«Non lo so, posso solo assicurarle che tornando in America Latina ho notato che nell’ambito teologico e pastorale non è successo proprio niente. Anzi, in certi casi — per esempio nell’ambito teologico istituzionale — il clima è ancora quello degli ultimi due pontificati, quando l’America Latina era duramente colpita».

Che si aspetta come donna sul fronte delle riforme bergogliane?

«I cambiamenti per le donne non possono venire dagli uomini, neanche dai più santi. Da domenicana potrei sognare che succeda a tante quello che capitò a Caterina da Siena: l’affidarono a fra’ Raimondo da Capua come confessore, ma il rapporto si capovolse e lui divenne discepolo di lei e suo compagno di ricerca. Vedo il cammino delle donne nella Chiesa più complesso di quanto si  possa pensare e ritengo che in esso poco contino i ruoli istituzionali. Credo che noi donne dobbiamo trovare altri modi e metodi per cambiare la partecipazione “politica”, visto che quella esistenziale non ce la può togliere nessuno e in fin dei conti è quella che serve all’umanità per respirare e immaginare altre forme di convivenza sulla terra».

perché alla fin fine gli uomini uccidono le donne

essenzialmente corpi

di Lea Melandri
Lea Melandriin “il manifesto” del 2 luglio 2016

non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate (e nell’immaginario dominante lo sono tuttora) con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminili «al suo servizio», o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione. È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzionelibro

Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole? L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole». Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini. Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.

Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé». Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé. Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso. La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io».

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Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?

il difficile rapporto delle religioni con le donne

“Dio odia le donne”? Lo dicono le religioni. Un libro di Giuliana Sgrena

“Dio odia le donne”?

lo dicono le religioni

un libro di Giuliana Sgrena

da: Adista Notizie n° 21 del 04/06/2016

Al titolo provocatorio del libro di Giuliana Sgrena Dio odia le donne (Saggiatore, 2016) mi viene da contrapporre l’incipit di un saggio di Giovanni Fioravanti (in Italialaica) «Dio è morto, la religione no. Se si uccide in nome della propria fede, non è Dio che si sta cercando ma esclusivamente la propria affermazione terrena…». Aggiungo: si può uccidere anche senza l’uso delle armi, semplicemente rendendo la persona umana invisibile. L’uomo-maschio si è servito nei secoli del mito dell’onnipotenza della divinità per affermare e difendere il proprio dominio sulle donne create come esseri inferiori.

È questa sorta di complicità che ha mantenuto in vita la religione che non è – come comunemente si pensa – il ponte tra l’umanità e Dio. Basta percorrere la ricchissima documentazione proposta dall’autrice, frutto di un’accurata ricerca sui testi fondamentali delle 3 grandi religioni monoteiste per rendersene conto. Ma quando è morto Dio? E poi, Dio è veramente morto? È morto alcuni secoli fa, se consideriamo le “guerre di religione” che dal Medioevo in poi hanno funestato le nostre società, le persecuzioni degli “eretici”, degli “infedeli”, delle “streghe”. Non così nel mondo antico, dove le guerre venivano scopertamente combattute per estendere il proprio dominio su terre e mercati e agli dei venivano tributati sacrifici e doni propiziatori. Le sconfitte erano considerate vendette per doni mancati o inadeguati… Dio potrebbe essere morto, ucciso dal progresso scientifico e dalla complessità dei centri di potere dell’Età moderna.

Ma Dio non è morto. Segni della sua vitalità sono la ricerca di spiritualità in chiave non fondamentalista, e i fondamentalismi risorgenti dovuti alla crisi dei valori, all’ignoranza, alla sete di protagonismo (cfr. Introduzione). La ricerca di spiritualità passa necessariamente per la laicità fondandosi sul rifiuto delle discriminazioni offerte a piene mani dai testi sacri di ebraismo, cristianesimo e islam, e sulla negazione dell’Assoluto. E laico è nel metodo e nel merito questo saggio di Giuliana Sgrena.

Nel metodo: non si instaura alcun confronto gerarchico tra le 3 religioni. I dettami di ciascuna vengono calati senza pregiudizi nelle realtà conosciute dall’autrice durante la sua attività di giornalista in Medio Oriente e in Nord Africa, e durante i giorni del suo sequestro. Piovono come pietre sul capo di donne che non conoscono la distinzione tra imperativo religioso e leggi dello Stato.

Nel merito: le religioni non sono affrontate come una “disciplina di studio”, ma per le ricadute tutte ugualmente discriminanti nei confronti delle donne. Ben altro approccio rispetto a quella “Storia delle religioni” invocata da molti come antidoto all’insegnamento della religione cattolica concordatario. Infatti è la religione, non le religioni la causa reale della mancata liberazione delle donne. Le religioni sono le varianti contestualizzate nelle diverse culture, ma è la religione quel groviglio di tradizioni, pregiudizi, legami irrinunciabili che formano l’appartenenza, e l’impossibilità per la gran parte delle donne di formarsi una propria identità al di fuori dell’obbedienza.

Dalle pagine di questo terribile libro escono figure come Gulnaz, la giovane donna di Kabul, stuprata dal marito della cugina; potrebbe fuggire, aiutata da un’associazione, ma alla fine resta senza più speranze, sposa il cugino stupratore, vive nella sua casa con la prima moglie, che ha 4 figli, mentre lei ne avrà tre. “È rassegnata, non rivolge mai lo sguardo al marito stupratore”… figure come Amina in Somalia «una donna bellissima ma i suoi occhi sono spenti». Ha sperimentato sulla sua bambina la pratica delle mutilazioni genitali femminili (mgf). Una pratica che viene accettata di buon grado dalle donne di quel Paese (e non solo) poiché il dolore fisico da loro subito rende la famiglia degna di onorabilità…

I primi due capitoli riguardano il tema della creazione e della verginità. Notevole l’immagine di Lilith, la divinità mesopotamica entrata nella cabala ebraica, creata dalla terra come Adamo, ma ribellatasi a lui viene associata al demonio, seminatrice di vento e tempesta. Per questo Dio creò Eva dalla costola di Adamo e non dalla terra, perché gli fosse per sempre sottomessa… I capitoli a seguire evidenziano le inferiorità attribuite alla donna: invisibili e svergognate per l’impurità del corpo di cui sono portatrici e che devono continuare a espiare, a partire da segregazioni, lavaggi, aspersioni, fino al rito macabro del mgf che Sgrena descrive con pagine di intensa partecipazione.

Una riflessione sulle circostanziate descrizioni degli effetti prodotti sulle donne dalle Scritture non può che farci concludere che la religione – emanazione di regole e norme patriarcali per mantenere inalterato il potere in mano maschile – non è certo il ponte che conduce a Dio.

Resta uno scoglio, quello della nostra appartenenza. Il rifugio in un Dio, che depuriamo di tutte le discriminazioni contenute nei Sacri Testi, un Dio che in qualche modo “ci appartiene?” O il passo ulteriore, dalla laicità all’ateismo?

un nuovo futuro per le donne nella chiessa?

papa Francesco apre al diaconato femminile, una “possibilità per oggi”

annuncia che istituirà una Commissione di studio

papa Francesco ha annunciato che istituirà una Commissione di studio sul diaconato femminile come esisteva nella Chiesa primitiva, ritenendo che le donne diacono sono “una possibilità per oggi”. Il Papa lo ha detto durante l’udienza di oggi in Vaticano con l’Uisg, l’Unione internazionale delle superiori generali, rispondendo a una domanda

Papa Francesco, durante l’udienza cui partecipavano circa 900 rappresentanti dell’Uisg e delle comunità religiose femminili, ha annunciato che creerà una commissione per studiare la possibilità di consentire alle donne di servire come diaconi nella Chiesa, indicando così la possibilità di una storica apertura per porre fine alla prassi di un clero esclusivamente maschile. Nel corso della sessione di domande e risposte, è stato chiesto tra l’altro al Papa perché la Chiesa esclude le donne dal servire come diaconi. Le religiose hanno detto al Pontefice che le donne servivano come diaconi nella Chiesa primitiva e hanno chiesto: “Perché non costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?”. Il Pontefice ha risposto che una volta aveva parlato della materia qualche anno fa con un “buon, saggio professore”, che aveva studiato l’uso delle donne diacono nei primi secoli della Chiesa. Francesco aveva spiegato che non gli era ancora chiaro quale ruolo avessero tali diaconi. “Che cos’erano questi diaconi femminili?”, ha ricordato il Papa di aver chiesto al professore. “Avevano l’ordinazione o no?”. “Era un po’ oscuro”, aveva detto. “Qual era il ruolo della diaconessa in quel tempo?”. “Costituire una commissione ufficiale che possa studiare la questione?”, ha quindi chiesto Bergoglio ad alta voce. “Credo di sì. Sarebbe bene per la Chiesa chiarire questo punto. Sono d’accordo. Io parlerò di fare qualcosa del genere”. “Accetto”, ha detto il Papa successivamente. “Mi sembra utile avere una commissione che lo chiarisca bene”.

le donne chiedono di più a papa Francesco

no, papa Francesco, preferisco restare tentatrice

No, papa Francesco, preferisco restare tentatrice

Il serpente aveva detto ad Eva che la conseguenza del mangiare i frutti dell’albero proibito sarebbe stata l’ «apertura degli occhi» e il diventare «come Dio» (o «come una divinità»), cioè in grado di discernere il bene dal male.

Il resto della storia la conoscete. Il morso, la caduta, la mortalità. Il peccato originale. La donna tentatrice, “porta del male” addirittura. Male inteso come capacità di discernere? Come apertura degli occhi? Come lascivia? Comunque secoli di roghi. Io li ho studiati tutti, dalle prime herbarie, donne medico nelle campagne dei secoli alto medievali che dispensavano cure, per aiutare la vita e la morte alleviandone i dolori, alle streghe dei secoli basso medievali bruciate nelle piazze dell’Inquisizione. Le stesse donne a cui la Chiesa tolse il “patentino” di curatrici. Perché quelle cure, quella conoscenza o anche solo quella prassi era opera del demonio, era male e non bene. Il dolore, la morte, la vita erano un dono di Dio. E nessuna poteva interferire.

Secoli di gloriosa ribellione delle donne. Indimenticabile Ildegarda di Bingen, Trotula di Salerno e tutte quelle anonime donne “porte del male”, tentatrici dagli “occhi aperti” che, nascoste si opposero, al modello di madre e moglie imposto dalla Chiesa di Roma.

Tremo all’idea che ci venga tolto anche questo. Anche questo glorioso passato di identità di tentatrici, di peccatrici, di porte di un “male” che io intendo come rottura di schemi, ricerca di conoscenza, ribellione a quel modello di vita e di umanità, per schiacciarci in quello che Francesco ha chiamato: «Una teologia della donna che sia all’altezza di questa generazione di Dio». E temo anche quei tutti che subito gridano “bravo Francesco, quanto è moderno Francesco”.

Possibile che non si accenda alcuna spia di allarme nella mente di nessuno di questi? Perché lo fa? perché lo dice? Perché farlo in un momento in cui i roghi non si rischiano più, al limite si rischia la “definitiva” libertà di dire No. No al matrimonio, no ai figli. No. “Sacrosanti” no. «La donna, ogni donna, porta una segreta e speciale benedizione per la difesa della sua creatura dal maligno, come la donna dell’Apocalisse che corre a difendere il figlio dal drago e lo protegge», ha detto il papa. Ha spiegato il motivo, non siamo il male, anzi noi, donne, produciamo e proteggiamo i figli dal male. Madri dunque. Sempre e solo madri. Custodi di piccoli animali possibili prede del male. «Cristo è nato da una donna – ha aggiunto poi durante l’udienza di qualche giorno fa a piazza San Pietro – e questa è la creazione di Dio sulle nostre piaghe, sui nostri peccati, ci ama come siamo e vuole portarci avanti con questo progetto, e la donna è la più forte nel portare avanti questo progetto». Sì Cristo è nato da una donna, è vero. Illibata lei e illibata sua madre che l’ha generata. Dunque il modello è quello: madre e moglie, per giunta illibata. Che porta avanti questa creazione di Dio sulle nostre piaghe e sui nostri peccati.

Allora io vi dico, timidamente ed educatamente, grazie No. Preferisco la tentatrice, la peccatrice.

La donna non è il male, per il papa che vuole rompere questo offensivo luogo comune, perché salverebbe la famiglia (quella tra uomo e donna ovviamente) e la famiglia poi («questa alleanza, la comunità coniugale-famigliare dell’uomo e della donna è la grammatica generativa, il ‘nodo d’oro’, potremmo dire. La fede la attinge dalla sapienza della creazione di Dio: che ha affidato alla famiglia non la cura di un’intimità fine a se stessa, bensì l’emozionante progetto di rendere domestico il mondo») salverebbe il mondo dal disastro.

Ecco, io il mondo non lo voglio rendere domestico, non voglio essere liberata da nessun male se questo vuol dire essere riconosciuta solo come madre e moglie all’interno di quel progetto sulle nostre piaghe e i nostri peccati.

c’è un posto per le donne nella chiesa di papa Francesco?

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le donne cercano il loro posto nella chiesa

aria nuova nella chiesa di papa Francesco, maggiore spazio alle persone rispetto alle tradizioni irrigidite, alle strutture ossificate fino al punto di schiacciare le persone

maggiore spazio alle persone soprattutto a quelle che tradizionalmente sono state più trascurate, ignorate, bocciate, subordinate, emarginate, silenziate anche da un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile

riusciranno nella chiesa di papa Francesco le donne e le teologhe a trovare il loro spazio da protagoniste? papa Francesco è disposto  a mettersi in ascolto della teologia elaborata dalle donne?

tante sono le questioni e ampia la problematica  legate a questo ambito: si offrono qui di seguito (utilizzando l’apporto prezioso di ‘finesettimana’) tre contributi per illustrare alcune delle attese che il mondo femminile oggi vive per cercare e trovare il proprio posto nella chiesa:

 

Lo spostamento del baricentro dalla dottrina alla prassi (la dottrina e il culto si inverano nella pratica della giustizia) richiedono un ripensamento complessivo della vita delle nostre comunità. Ripensare l’intera struttura ministeriale della chiesa, il rapporto sacro potere. Papa Francesco è disposto a mettersi in ascolto della teologia elaborata dalle donne?

In un mondo teologico storicamente e tradizionalmente maschile, in cui sono sempre stati gli uomini a creare dottrina, morale, leggi, spiritualità, a celebrare i sacramenti e a trasmettere il Vangelo, la sapienza femminile è rimasta inespressa, complice anche una misoginia – strisciante ma non troppo – di cui la teologia maschile si è fatta portatrice

Un interessante numero della rivista bimestrale “Legendaria” dedica  un notevole spazio al tema delle donne nella chiesa. Ha chiesto a 7 donne, credenti e non credenti di rivolgerea papa Francesco 3 domande. Già avevamo riportato quella di Mariella Gramaglia apparsa anche sul neoquotidiano “pagina99”. 1)Perché non riconoscere al femminismo il molto che ha fatto per le donne? 2)perché gli ecclesiastici esercitano una superiore autorità nei confronti battezzati? 3) che fare nei confronti della povertà diffusa livello mondiale?

papa Francesco delude le donne

gatto nero

La “porta chiusa” di papa Francesco

La delusione delle donne sul tema del sacerdozio femminile

Se i riconoscimenti tributati a papa Francesco in occasione della Giornata mondiale della gioventù dello scorso luglio sono stati tanti ed entusiastici, molte donne sono rimaste però profondamente deluse dalle sue parole di chiusura rispetto all’ordinazione femminile: «Questa porta è chiusa», aveva detto il papa nel suo colloquio con i giornalisti sul volo di ritorno dalla Gmg, aggiungendo che una «teologia della donna» resta ancora da fare e che, come Maria è più importante degli apostoli, così la donna nella Chiesa lo è rispetto a vescovi e preti.

Non ha nascosto il suo disappunto, in un articolo pubblicato su Brasil de Fato (2/8), la nota teologa brasiliana Ivone Gebara, la quale, pur riconoscendo come, «di fronte alle acclamazioni generali», qualsiasi annotazione critica «potrebbe risultare inopportuna», esclama: «Dopo tanti anni di lotta, povera me, se me ne stessi zitta!». La teologa non nasconde la gioia provata «nel sentire la simpatia, l’affetto e la vicinanza» del papa argentino come pure la coerenza di alcune posizioni rispetto alle strutture della Curia romana, ma si domanda: «Come può papa Francesco semplicemente ignorare la forza del movimento femminista e la sua espressione nella teologia femminista cattolica?». Evidenziando come l’abbondante e innovativa produzione teologica femminista continui a risultare «inadeguata per la razionalità teologica maschile» e a rappresentare «una minaccia al potere maschile dominante nelle Chiese», Ivone Gebara denuncia come «la maggior parte degli uomini di Chiesa e dei fedeli» consideri la teologia «una scienza eterna basata su verità immutabili e insegnata soprattutto da uomini», oppure, e in seconda battuta, dalle stesse donne ma «secondo la scienza maschile prestabilita». E, rivolgendosi a Bergoglio, lo invita ad informarsi «su alcuni aspetti della teologia femminista, almeno nel mondo cattolico. Forse – aggiunge – il tuo possibile interesse potrebbe aprire percorsi nuovi per cogliere il pluralismo di genere nella produzione teologica!». Quanto alle parole del papa sulla grandezza di Maria, si tratta ancora una volta, sottolinea, di un’espressione consolatoria astratta della teologia maschile: «Si ama la Vergine distante, e vicina all’intimità personale, ma non si ascoltano le grida delle donne in carne e ossa. È più facile innalzare lodi alla Vergine e inginocchiarsi di fronte alla sua immagine che rivolgere l’attenzione a quel che avviene alle donne in molti luoghi lontani del nostro mondo». Di più: il rischio, a suo giudizio, è che, se Benedetto XVI, «con le sue posizioni rigide», aveva alimentato «una critica del clericalismo e dell’istituzione papale», ora molti fedeli e operatori di pastorale «si abbandonino alla simpatica e amorevole figura di Francesco promuovendo un nuovo clericalismo maschile e una nuova forma di adulazione del papato». «Il momento – conclude – esige prudenza e una critica vigile, non per screditare il papa, ma per aiutarlo» a realizzare «una Chiesa plurale e rispettosa dei suoi molti volti». Ma Ivone Gebara non è l’unica delusa.

Nel suo blog su Religión Digital, la teologa laica Patricia Paz, pur convinta della necessità di condurre una rilettura del ministero ordinato «alla luce del Vangelo e della prassi di Gesù» e dunque «non particolarmente interessata» alla questione dell’ordinazione delle donne, rivolge una critica dettagliata alle parole del papa. «Possono esserci – si chiede – formulazioni definitive in un mondo in cui si scoprono in ogni momento cose nuove e cadono paradigmi di ogni tipo?». E aggiunge: «Che dolore sentire che qualcosa di tanto importante per tanta gente si scontri con una “porta chiusa”! Forse non seguiamo Gesù proprio perché ha aperto tante porte», superando «paradigmi sociali, culturali e religiosi?». E ancora: «Mi risulta inaccettabile continuare a sentir parlare delle donne come se fossimo un gruppo di persone immature che non possono assumere decisioni e hanno bisogno che altri, gli uomini, dicano loro cosa possono o non possono fare. È ora di iniziare a parlare con le donne e non delle donne». Non se ne può più, dice, del fatto «che esaltino la nostra dignità, la nostra importanza, il nostro genio e poi ci escludano». E, infine, «in che senso siamo più importanti dei vescovi e dei preti se manchiamo di autorità e di potere decisionale?».

È quanto sottolinea anche la teologa statunitense Mary Hunt, contestando «la stessa teologia trita e ritrita secondo cui la Vergine Maria è più importante di chiunque altro nella storia» quando «di fatto le donne non possono prendere decisioni a livello ecclesiale né esercitare il ministero sacramentale e neppure compiere scelte etiche». Respingendo qualsiasi esaltazione della donna che non sia accompagnata da «cambiamenti strutturali concreti», la teologa assicura che «le donne non resteranno a guardare passivamente gli uomini, papa compreso, mentre cercano scuse» per il rifiuto dell’ordinazione femminile. (claudia fanti)

da: Adista Notizie n. 29 del 31/08/2013

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