il commento al vangelo della domenica

CHIUNQUE SI ESALTA SARA’ UMILIATO, E CHI SI UMILIA SARA’ ESALTATO

commento al vangelo della domenica ventiduesima del tempo ordinario (28 agosto 201) di p. Alberto Maggi:

Maggi

Lc 14,1.7-14

Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato».
Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».

E’ la terza e ultima volta che Gesù pranza a casa di un fariseo. Ogni volta che Gesù si trova a mensa con i farisei, questi pii, questi leader spirituali, è sempre occasione di conflitto. Questa volta il conflitto l’ha causato Gesù, perché in questa mensa c’è un ammalato e Gesù chiede se sia lecito o no curarlo in giorno di sabato, il giorno in cui c’è il riposo totale.
Ebbene i farisei non rispondono. Allora Gesù li attacca dando loro degli ipocriti, dicendo: “Ma voi per interesse siete capaci invece di trasgredire la legge del Signore”. Dopo questa reprimenda Gesù continua. Diceva agli invitati, che sono tutti farisei, una parabola, notando come sceglievano i primi posti.
L’evangelista stigmatizza questa ambizione, questa vanità, che è tipica delle persone religiose, specialmente se ricoprono delle cariche di rilievo, che si sentono importanti, e quindi il bisogno di esibire e manifestare, di rendere nota a tutti la loro importanza scegliendo i primi posti.
“Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te”. Gesù si riferisce a un detto molto famoso, molto popolare, contenuto nel libro dei Proverbi, al capitolo 25, “E colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece …..” Ed ecco la lezione che Gesù dà, ed è una lezione che va compresa bene: non è per umiltà, ma un invito a fare queste cose per amore… “quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto”.
Perché? Per permettere agli altri, quelli che invece si sarebbero seduti all’ultimo posto, di mettersi davanti. Quindi non è umiltà ma amore. Gesù sta invertendo la scala di valori della società.
“Perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Gesù invita questi farisei che ha già rimproverando dicendo che tutto quello che fanno lo fanno per interesse a passare dalla categoria dell’interesse a quella del dono. “Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato”.
Gesù che si è fatto ultimo, che si mette a fianco dei rifiutati e degli esclusi, afferma che coloro che si fanno ultimi hanno la comunione con lui, la pienezza della condizione divina, quanti invece pretendono di mettersi al di sopra degli altri, separandosi dagli altri, ne saranno esclusi. Poi Gesù, al fariseo che l’ha invitato, rivolge un monito molto importante che va compreso alla luce di quei legami di amicizia, di parentela, di interesse, legami che sostengono la società, che sostengono gruppi ecclesiali, gruppi religiosi, che si autoproteggono a scapito degli altri. Quindi è un monito molto severo e molto attuale.
Disse poi a colui che l’aveva invitato: “Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini”, quindi Gesù parla di una sorta di cricca dove c’è un’amicizia, c’è una parentela, e soprattutto ci sono interessi comuni. Una cricca che autoprotegge dagli altri, che esclude gli altri e che soltanto al proprio interesse. “Perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio”. Quindi Gesù denuncia in un ambito farisaico l’atteggiamento dei farisei che tutto quello che fanno lo fanno per interesse. Non conoscono che cosa sia il disinteresse, la generosità e il dono. Ed ecco l’offerta di soluzione che Gesù dà loro.
Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri”, che naturalmente non hanno da ricambiarti. Poi Gesù inserisce, “storpi, zoppi, ciechi”, che sono quelle categorie di persone che per la loro infermità erano escluse dal tempio e dal sacerdozio. Quindi Gesù in un ambito molto pio, molto religioso, come quello dei farisei che si ritenevano i più vicini a Dio e in base alle loro norme, alle loro regole religiose si separavano ed escludevano gli altri da Dio, Gesù dice “No, invita proprio quelli che sono esclusi”.
Come si può tradurre, come si può interpretare oggi? Quelle categorie di persone che noi, in base a convinzioni religiose, spirituali, etniche, razziali, consideriamo gli esclusi, gli invisibili, i rifiutati, sono proprio questi a cui deve andare la nostra attenzione.
“E sarai beato”, beato lo sappiamo significa pienamente felice, “perché non hanno da ricambiarti. Quindi Gesù invita questa comunità di farisei ad agire non più con l’interesse, ma con il disinteresse, sempre per la generosità e l’amore verso gli altri. E poi, Gesù sta parlando ai farisei quindi adopera categorie religiose che i farisei potevano comprendere … “Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti”.
Quindi Gesù invita a non stare attenti alla ricompensa immediata “io faccio un favore a te perché tu ne fai a me”, realizzando questa cricca che esclude gli altri dai propri interessi e dal proprio benessere, ma a rivolgere tutta la propria attenzione al bene e al benessere degli altri e  poi Dio sarà la loro ricomprensa.

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due bambini sono il segno del nostro fallimento ma riusciranno a salvare le nostre coscienze?

con Aylan e Orman abbiamo fallito

di Niccolò Zancan
in “La Stampa” del 20 agosto 2016

Omran
Due bambini con i calzoncini corti sono il simbolo del nostro fallimento. Due bambini incredibilmente composti nel disastro del mondo. Aylan di tre anni su una spiaggia di Bodrum, le braccia lungo i fianchi, spinto indietro dal mare mentre cercava di scappare dalla guerra in Siria con la sua famiglia. E poi Omran, cinque anni, vittima della stessa guerra, seduto sul sedile di un’autoambulanza ad Aleppo con la faccia incrostata di sangue e gli occhi enormi. 2 settembre 2015, 18 agosto 2016. Due frammenti. La stessa storia.

Certe fotografie sbucano dal rumore di fondo e si impongono all’attenzione, diventano virali. Rimbalzano su ogni schermo del pianeta. Tutti devono vederle. Ma poi, dopo averle viste, condivise e commentate, dopo l’indignazione, cosa resta? Sarebbe sbagliato sostenere che quest’anno tutto sia rimasto uguale. Le cose possono anche peggiorare. Ed è quello che è successo. Secondo una stima sempre aggiornata per difetto, altri quattrocento bambini sono affogati nel Mediterraneo dopo Aylan, gli ultimi due ieri mattina.Aylan1

Erano su una piccola barca di legno carica di famiglie siriane. Essendo chiusa la rotta balcanica, erano passate dall’Egitto prima di pagare i trafficanti ed affidarsi al mare. Scappavano ancora dalla stessa guerra. Cercavano sempre di arrivare in Europa. Anche se nessuno vedrà quella fotografia, erano due bambine di 6 anni e di 5 mesi. La realtà ci lascia un passo indietro, sfugge continuamente. Mentre qualcuno su Twitter commentava la storia della famiglia di Omran scampato al bombardamento, altre bombe cadevano sulle case di Aleppo. Potevi imbatterti in un video in cui due medici tentavano di fare il massaggio cardiaco ad un ragazzino, steso sul pavimento dell’ospedale davanti ai suoi genitori. Puoi vedere tutto, ma non serve a niente. Anche la politica sta abdicando al suo ruolo.Aylan

Dopo Aylan c’era stato un profluvio di dichiarazioni. Ogni capo di Stato si era dichiarato sconvolto. Sembrava davvero che potesse cambiare qualcosa in Europa. Che la morte di un bambino in fuga da Kobane non fosse inutile, e quella foto simbolica potesse davvero incidere nella realtà. Invece è stato un progressivo sgretolarsi di parole ed intenzioni. Con l’incapacità di sentire il mondo profondamente, si è perso anche il potere di renderlo diverso. È stato l’anno del terrore moltiplicato in diretta, della morte esibita, della paura cavalcata, dell’emotività veloce, dell’assuefazione lenta. Nella quantità enorme di immagini che passano ogni secondo davanti ai nostri occhi, solo alcune ormai riescono ad imporsi all’attenzione. Sono immagini rare. Non spiegano la vita e neppure la morte, la mostrano. Questa è la loro forza. Sono drammatiche ma perfette, perché contengono l’orrore e l’innocenza nella stessa inquadratura. Come se avessero già al loro interno la risposta che serve. Eppure le fotografie di Aylan Kurdi e Omran Daqneesh forse salveranno le nostre coscienze, ma non stanno cambiando la Storia.

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burkini sì, burkini no, un polverone inutile?

il problema esisteburkini3

probabilmente i casi di uso del burkini come costume da bagno sulle nostre spiagge italiane ma anche di altri paesi non sono molte, per cui numericamente il clamore mediatico e le reazioni politiche sono da considerare esagerate o sproporzionate ai casi realmente verificatesi, e tuttavia il problema esiste e ha forti radici culturali che non si cambiano con alcuni divieti o minacciando multe o carcereburkini2

 Come dice M. Marzano (cfe articolo nel link qui sotto) “Il problema allora, nel caso del burkini, non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane. Cosa le spinge o meno a coprirsi? La paura del giudizio o delle sanzioni da parte dei familiari? I precetti religiosi? Il desiderio di opporsi ai valori occidentali? Il pudore? Certo, la libertà individuale è sempre sacra. Ma non ha ragione anche Lacordaire quando, nel XIX secolo, ci ricorda che “tra il forte e il debole è la libertà che opprime e la legge che affranca”?”burkini

qui sotto una piccola rassegna stampa tratta dalla sempre interessante e  benemerita pagina di ‘finesettimana’:

 

Bikini, burkini e senso del pudore di Michela Marzano in la Repubblica  del 19 agosto 2016

compatibilità

Il problema allora, nel caso del burkini, non è tanto la libertà o meno della donna di vestirsi come meglio crede. Su questo siamo (o dovremmo) essere tutti d’accordo. Il problema sono le condizioni di esercizio della libertà delle donne musulmane.
Il lungo percorso per la liberazione di Renzo Guolo in la Repubblica del 19 agosto 2016
Chiunque conosca la cultura islamica sa che le donne sono impegnate da tempo nell’erodere i divieti e le forme di controllo sociale maschile sulla loro vita. Anche il diffondersi del burkini fa parte di questo complicato, e lungo, percorso, molto più post- ideologico di quanto si pensi

Libertà non è il burkini di Giuliana Sgrena in il manifesto del 19 agosto 2016

Garantire, anche per legge, la parità, vuol dire respingere tutte quelle discriminazioni subite soprattutto nel mondo musulmano “Sostenere la «libertà» di portare il burkini vuol dire ignorare la condizione delle donne musulmane.
Laicità che assomiglia al fondamentalismo di Bia Sarasini in il manifesto del 19 agosto 2016
Vietarlo non aiuta le musulmane e la via del compromesso può ridurre il danno. Meglio fare il bagno o andare alle Olimpiadi che restare a casa “Sono i divieti che creano distanze, barriere, abissi. Perché impedire che lo sguardo reciproco conduca al libero pensiero, alle libere scelte?”
La perseveranza femminile e la «retorica occidentale» intervista a Layla M. Ammar a cura di Alessandra Pigliaru in il manifesto del 19 agosto 2016
“Personalmente sono ottimista e fiduciosa che possa essere proprio la perseveranza femminile (laica o anche religiosa), che esprime la forza delle donne, a superare le barriere che la logica maschile impone. Non è un problema religioso ma tutto politico.”
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sei la nostra cattiva coscienza!

 Omran

Non dimenticheremo gli occhi di Omran

Non dimenticheremo il suo viso bambino impastato di polvere, sangue e terrore. Non dimenticheremo il gesto fragile con cui tenta di pulirsi le mani sporche di dolore sul seggiolino dove i suoi rudi salvatori l’hanno sbattuto, trascinandolo fuori dalle bombardate rovine di Aleppo, la sua città. Una città che dicono la più antica del mondo. L’ultima grande città cosmopolita d’Oriente, eppure divenuta l’Invisibile e l’Insignificante. Solo un immenso campo di battaglia in questo tempo feroce e distratto, che non riesce a vedere ed esecrare l’orrore e non riconosce la tragedia se accade e fa strage lontano dalle vie e dalle piazze delle metropoli d’Occidente.

Non dimenticheremo gli occhi di Omran

Sono forti e implacabili come l’abbandono di morte del piccolo Aylan su una spiaggia di Anatolia. O la dolente saggezza di Kinan, il tredicenne siriano che giusto un anno fa, da una Budapest non ancora blindata dai “muri” di filo spinato, scandì davanti alle telecamere una verità semplice e terribile: «Non ci volete in Europa, volete che restiamo a casa nostra? Fate finire la guerra in Siria». Sono la cattiva coscienza del mondo e, soprattutto, dei potenti del mondo. Sono la ragione della ormai furente ribellione dell’anima al misfatto senza fine che chiamiamo guerra, e guerra di Siria.

Non dimenticheremo gli occhi di Omran

 

Quegli occhi non ci lasceranno un momento

© riproduzione riservata
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il commento al vangelo della domenica

VERRANNO DA ORIENTE E OCCIDENTE E SIEDERANNO A MENSA NEL REGNO DI DIO 

commento al vangelo della ventunesima domenica del tempo ordinario (21 agosto 20169 di p. Alberto Maggi:

Lc 13,22-30Maggi

In quel tempo, Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”.
Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

Per comprendere il brano dell’evangelista Luca al capitolo 13, dal versetto 22 occorre sapere che al tempo di Gesù il popolo di Israele pensava di essere l’unico a salvarsi, i pagani no.
Sentiamo cosa ci scrive l’evangelista. Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. Quindi Gesù si dirige verso quella che sarà la tappa finale di questo suo cammino, la città dove incontrerà la morte per mano delle autorità religiose. 1Un tale gli chiese: “Signore, sono pochi quelli che si salvano?”. Cioè vuole sapere quanti sono quelli che si salvano. Perché questo? Perché si credeva che la salvezza fosse un privilegio riservato al popolo di Israele. All’individuo che gli ha chiesto quanti sono quelli che si salvano Gesù risponde affermando chi sono quelli che si salvano.
Disse loro: “Sforzatevi (letteralmente lottate) di entrare per la porta stretta..”, Gesù non sta invitando a chissà quali sforzi ascetici, chissà quali difficoltà che presenta questa porta. Vedremo che in questa porta non si riesce ad entrare non perché sia difficile, ma perché – come dice Gesù “Perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno”…. Perché la porta sarà già chiusa.
Quindi Gesù non sta invitando a chissà quali penosi sforzi o sacrifici per entrare in questa porta, ma di aprire gli occhi perché c’è il rischio che poi questa porta sia chiusa. Perché? “Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, …”, quindi non è difficile entrare, ma sarà chiusa.
“Comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Quindi qui l’evangelista presenta persone che hanno una comunione con Gesù, lo chiamano Signore. “Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”, cioè non vi conosco. Perché Gesù non li conosce? Sentiamo la replica di questi che sono rimasti fuori. “Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza…” E’ un’allusione all’eucaristia, quindi hanno celebrato l’eucaristia del Signore.
E tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Quindi si sono nutriti della sua parola, eppure Gesù dirà…  “Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete”. Gesù torna a ripetere quello che ha detto prima. E addirittura poi – è la citazione del salmo 6  al versetto 8 – “Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Il salmo dice “voi tutti che fate il male”. Perché questa durezza da parte di Gesù? Perché a Gesù non importa il rapporto che i discepoli possono avere con lui o con il Padre.
Ma a Gesù interessa il frutto che questo rapporto con lui e con il Padre sia verso i fratelli, con azioni di amore, di misericordia, di compassione, di perdono, di condivisione generosa. E’ questo quello che permette la comunione con Dio. Dio non ci chiederà se abbiamo creduto in lui, ma se abbiamo amato come lui. Ecco per questo la risposta molto dura di Gesù “non vi conosco”. Non importa che relazione hanno con Dio, a Gesù interessa la relazione che hanno con gli altri.
Questi hanno partecipato all’eucaristia, ma poi non sono stati capaci di farsi pane, di fare della loro vita pane, alimento di vita per gli altri, hanno ascoltato il suo insegnamento, ma questo insegnamento non ha trasformato la loro esistenza. E le parole di Gesù sono molto severe: “Là ci sarà pianto e stridore di denti”. E’ un’immagine che indica il fallimento della propria vita. Noi in italiano diciamo “si metteranno le mani nei capelli”.
“Quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe (i grandi patriarchi) e tutti i profeti”, i profeti sono coloro che hanno denunciato il culto verso Dio e il disinteresse verso i poveri. “Nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori”.
Il popolo di Israele, che credeva di avere il diritto di far parte del regno di Dio invece per Gesù, se non trasforma questa conoscenza di Dio in amore verso gli altri, ne rimane escluso. Ma non solo! Rimane escluso e il suo posto lo prendono proprio quei popoli che loro ritenevano essere gli esclusi, cioè i pagani. Infatti, conclude Gesù: “Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno (quindi tutte le parti del mondo pagano) e siederanno a mensa nel regno di Dio.”
Gesù, quando deve presentare il regno di Dio non lo presenta con simboli liturgici religiosi, ma sempre conviviali, quindi una mensa. Ebbene a questa mensa, alla quale credevano di appartenere per diritto, questi saranno allontanati e quelli che si ritenevano esclusi invece ci parteciperanno. E èpoi ecco la conclusione di Gesù: “Ed ecco, vi sono ultimi”, cioè quelli che voi considerate esclusi, “che saranno primi, e vi sono primi”, quelli che credevano di avere diritto,  “che saranno ultimi”.
E’ un monito molto severo e molto attuale quello che Gesù ci dà. Ci può essere la presunzione per l’appartenenza a una fede religiosa, per la partecipazione ad atti di culto, ci può essere la presunzione di avere dei diritti dai quali le persone possono essere escluse perché non appartengono alla nostra cultura, alla nostra fede, alla nostra etnia, credono in altre divinità, si comportano in maniere differenti, allora Gesù li invita a fare molta attenzione.
Attenzione! Perché quelli che voi ritenete gli esclusi, quelli che voi rifiutate invece prenderanno loro il vostro posto nel regno dei cieli. Naturalmente insorgeranno i primi e subito dopo – non c’è in questo brano del Vangelo – si avvicineranno alcuni farisei con delle minacce di morte.

 

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perdonaci, Omran Daqneesh, bambino di Aleppo, non meritavi di sperimentare la nostra spietatezza!

la foto del bambino di Aleppo

sta circolando moltissimo ed è diventata il simbolo delle atrocità compiute nella battaglia più importante per la guerra in Siria

Da mercoledì sera sta circolando moltissimo sui social network l’immagine di un bambino siriano estratto vivo dalle macerie dopo un bombardamento ad Aleppo e seduto dentro un’ambulanza: il bambino sembra molto disorientato e sotto shock, coperto dalla polvere delle macerie e con una ferita sulla testa. Tecnicamente non è una foto: è un fermo-immagine da un video girato dall’Aleppo Media Centre, un network di Aleppo vicino all’opposizione, ed è stata usata nelle ultime ore per mostrare la gravità e la disperazione che ha raggiunto la battaglia per Aleppo, una città del nord della Siria contesa tra diversi gruppi ribelli e l’esercito del presidente siriano Bashar al Assad. L’immagine del bambino è stata twittata inizialmente da Raf Sanchez, corrispondente in Medio Oriente del Telegraph, e poi condivisa da migliaia di utenti e ripresa dalle più importanti testate internazionali.

bambinoOmran Daqneesh seduto dentro a un’ambulanza dopo un bombardamento su Aleppo, in Siria (Aleppo Media Centre)

Il bambino nell’ambulanza si chiama Omran Daqneesh, ha cinque anni ed è uno dei cinque bambini rimasti feriti mercoledì da un bombardamento aereo compiuto a Qaterji, un quartiere di Aleppo. Non si sa precisamente chi abbia compiuto l’attacco: potrebbero essere stati aerei dell’esercito siriano o gli aerei della Russia (i russi sono alleati con Assad). Nel video da cui è stata presa l’immagine, si vede Omran che viene sollevato da un soccorritore tra le macerie della casa bombardata e poi viene portato all’interno dell’ambulanza, dove rimane impassibile mentre proseguono i soccorsi.

Attenzione: il video contiene immagini che potrebbero impressionare

Il Telegraph ha scritto che Omran è stato curato per una ferita alla testa all’ospedale M10 di Aleppo e poi dimesso quella stessa notte. Raf Sanchez ha twittato un’altra foto di Omran con una fasciatura sulla testa, dopo le cure ricevute «da alcuni medici straordinariamente coraggiosi di Aleppo».
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il silenzio che parla a chi lo sa ascoltare

ascolta, parla il silenzio

a proposito di un libro di Alain Corbin

di Elena Loewenthal
in “La Stampa” del 17 agosto 2016

Alain Corbin

C’è silenzio e silenzio. Non sarà eloquente come la parola (né tantomeno «assordante»), benché il premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Le Clézio dica che è «lo scopo supremo del linguaggio e della coscienza», ma di certo la lingua italiana si trova ad affrontarlo disarmata di lessico. L’ebraico biblico, ad esempio, conosce almeno tre radici di significato per dire «silenzio»: eppure è una lingua primitiva, ridotta all’essenziale, refrattaria al superfluo. Con questo pluralismo di parole non può non dirci che ci sono tipi e universi diversi di silenzio, che esso non vuol dire sempre la stessa cosa. Che può significare tante cose diverse.

Per questa ragione il libro di Alain Corbin Histoire du silence. De la Renaissance à nos jours appena uscito in Francia per i tipi di Albin Michel è un viaggio letterario pieno di piccole e grandi scoperte.Alain Corbin1

La sfida è quella di parlare del silenzio attraverso le parole: una specie di ossimoro, peraltro inevitabile. Del resto Guy Barthélemy, che ha «magnificamente definito la specificità del silenzio del deserto», spiega che non «possiamo considerare il silenzio come il contrario del rumore, esso è piuttosto uno stato che introduce una nuova dimensione del reale immediatamente interiorizzata… e che ispira un nuovo rapporto con la realtà». Il passo del gatto L’analisi del silenzio si snoda dunque non su un piano lessicale – del resto non è soltanto l’italiano a ritrovarsi privo di strumenti primari per definire il silenzio, lo è anche il francese – quanto letterario. E attraverso i testi si delinea a poco a poco una interessante, sorprendente tassonomia del silenzio. C’è il silenzio dell’intimità, quello fatto di mura domestiche e quiete. I nostri luoghi parlano, e non di rado lo fanno con il silenzio. Parlano anche gli oggetti, quelli che in italiano si chiamano «inanimati» e chissà quanto è vero che non hanno un’anima: a volte parrebbe il contrario, per la forza con cui si depositano addosso alla nostra, di anima, ad attizzare la nostalgia e i ricordi, le speranze e gli sprazzi di felicità. Pensare che, non a caso, in ebraico si chiamano «oggetti muti», anzi «silenti». Eppure dal silenzio, ci insegna Proust, essi ci parlano, e quanto parlano, nel fluviale stream of consciousness dell’autore della Recherche. E quanti sono, apparentemente insignificanti, marginali, pronti ad essere dimenticati. L’universo delle cose stabilisce, nel silenzio, una fitta trama di rapporti con noi che siamo vivi: ci lega, a volte ci incatena, ci costringe a mettere radici, ci tarpa le ali. Nel silenzio, luoghi e cose hanno inventato per noi la nostalgia. C’è poi il denso silenzio che emana talora dagli animali. Che cosa racconta il passo di un gatto? Quante volte in letteratura diventa il simbolo stesso del silenzio, ma di un silenzio che non è assenza, anzi. È presenza, viva. E del silenzio come presenza ci parla in fondo un ricco lessico di verbi sulla disciplina intesa come obbedienza muta, priva di parole, «fare silenzio», «imporre il silenzio», «osservare il silenzio»: comandare il silenzio è il principio dell’ordine, anche se nel cosmo non è affatto così. Il caos tace, dice la Bibbia all’inizio della creazione, quando Dio lo spezza e incomincia a fare il mondo con la parola. Nel deserto Se quando è racchiuso fra le mura di casa, amata e vissuta, perduta e desiderata, il silenzio è quello dell’intimità e della quiete, vi è anche un silenzio dei luoghi opposto. Fatto di sgomento e smarrimento. O di una memoria talmente lontana che non la si trova più e ci si perde, dentro e fuori da se stessi. È il silenzio del deserto, ad esempio: il nulla a perdita d’occhio. È anch’esso un silenzio tremendamente eloquente perché malgrado l’apparenza di fissità il deserto è sempre il prima e il dopo, l’origine e la fine. E così il silenzio diventa un vertiginoso viaggio nel tempo. Corbin affronta anche il silenzio della fede, e lo fa con una figura emblematica del percorso cristiano, quella di Giuseppe: padre muto. «Il silenzio di un uomo, Giuseppe, e quello di un luogo, Nazareth, sono strettamente legati: sono assoluti. Il padre adottivo di Gesù è sempre muto nelle
Scritture. È il patriarca del silenzio. Inutile cercare anche una sola sua parola nei quattro Vangeli». Il suo silenzio è il cuore che ascolta, «l’interiorità più assoluta», la contemplazione pura. Il profeta Elia Ma c’è un silenzio biblico ancora più denso, più abissale, in cui interiorità ed esteriorità si fondono per un’esperienza talmente assurda che non si può narrare se non accostando i contrari. È la rivelazione che attraversa Elia, modesto profeta del fare, che si rimbocca le maniche e parla poco. Un giorno Dio decide che si merita una ricompensa, lo manda dentro una grotta e gli promette che si svelerà a lui in un modo tutto speciale. Non nel tuono, nella bufera. Non nel prodigio né nel frastuono del creato, ma in una «voce che è silenzio sottile» e quel «silenzio sottile» è tutto femminile. Ed è voce ma non dice, anzi tace. Dio per Elia sta lì, in quell’esperienza che chissà quanto è durata, se un istante o un’eternità, che chissà se era un brusio, un’eco di memoria, una fitta di nostalgia, una illuminazione.

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il nemico come costruzione ideologica

  come si crea il nemico in casa

di Guido VialeViale

Dal razzismo nessuno è immune. Lo succhiamo con il latte materno. Lo assorbiamo con l’aria che respiriamo. Lo pratichiamo in forme spesso inconsapevoli. Per liberarcene ci vuole attenzione alle parole che usiamo e agli atti che compiamo. Non essere razzisti non è uno stato “naturale”; è il frutto di una continua autoeducazione

 E’ come con la cultura patriarcale, a cui il razzismo è strettamente imparentato e che riguarda, in forme differenti, sia gli uomini che le donne; che ne sono spesso sia vittime che portatrici inconsapevoli. Ma anche il razzismo si manifesta, in forme diverse, sia in chi lo pratica che nelle vittime. Il pensiero postcoloniale ha fatto capire quanto è lunga la strada delle vittime per liberarsi dagli stereotipi dei dominatori. Questo è il “grado zero” del razzismo; che ha poi molti altri modi, vieppiù pesanti, di manifestarsi.

Primo: fastidio. Anch’esso in gran parte inconsapevole, ma più facile da riconoscere. Fatto di mille atti di insofferenza: l’uso, a volte ironico, di termini offensivi; il volgere lo sguardo altrove; la contrapposizione tra “casa nostra” e chi casa e paese suoi non li ha più. Nelle classi svantaggiate ha radici nella competizione, vera o presunta, per spazi, servizi e lavoro. Poi vengono le parole e i gesti aggressivi e discriminatori: l’affermazione di una “nostra” superiorità; le iniziative per escludere, separare, discriminare; le  angherie che giustificano emarginazione e sfruttamento con differenze “razziali”. Fin qui la pratica del razzismo è affidato all’iniziativa “spontanea” dei singoli. Poi vengono le azioni organizzate, come i pogrom di varia intensità e la delega alle istituzioni: le angherie contro profughi, migranti, sinti e rom, della polizia o delle amministrazioni locali; le campagne di stampa e media contro di loro; le politiche di respingimento e le leggi discriminatorie. Ma ovviamente non ci si ferma qui. Il grado superiore è trattare profughi e migranti come scarafaggi, il loro confinamento fisico e, alla fine, le politiche di sterminio. Implicite, quando si affida a Stati “terzi” il compito di provvedervi, chiudendo gli occhi su ciò che questo comporta. Esplicite, quando vengono gestite direttamente. La Shoah è stata la manifestazione più aberrante di questa deriva; ma, prima di essa, lo sono stati i massacri del colonialismo e ora lo sono le pulizie etniche delle molte guerre civili del nostro tempo. Ma una volta la popolazione poteva far finta di non vedere. Oggi, nel villaggio globale dei media, le stragi le vediamo ogni giorno sul teleschermo. Ma vediamo anche quanto sia facile scivolare lungo la china della ferocia; e quanto sia invece difficile risalirla in senso inverso. D’altronde la strada che collega volgarità e prepotenza verso le donne al femminicidio, che in guerra può comportare stupri di massa, schiavitù e stragi, ha una unidirezionalità analoga.

profughi

Alla luce di queste considerazioni, l’alternativa tra respingimenti e accoglienza di profughi e migranti – che sta dividendo la popolazione di tutto l’Occidente “sviluppato” in due campi contrapposti, facendo terra bruciata delle posizioni intermedie – dovrebbe indurre a chiedersi quali possibilità di successo abbia il respingimento. Non nel suscitare consenso – qui il suo successo è travolgente – ma nel realizzare i suoi obiettivi. Ma anche se invocarlo non faccia percorrere a tutti, e in tempi rapidi, la strada che dal razzismo inconsapevole conduce allo sterminio. Non sono in gioco solo politica, diritto e convivenza, ma l’idea stessa che ci facciamo di noi e degli altri come persone.

Innanzitutto respingere, se si riesce a farlo, vuol dire rigettare tra gli artigli di chi li ha costretti a fuggire coloro che cercano asilo nei nostri territori; condannarli a inedia, morte, angherie e ferocia da cui avevano cercato di sottrarsi; o, peggio, farne le reclute di milizie e guerre da cui siamo ormai circondati, dall’Africa al Medioriente; o, ancora, affidare il compito di farla finita con “loro” – nella speranza, vana, di dissuadere altri dal tentare la stessa strada – a Stati, potentati o bande criminali che si trovano lungo la loro strada.

Ma respingere è più un desiderio che una possibilità reale: molti Stati da cui provengono profughi e migranti non hanno accordi di riammissione; non sono disposti a “riprenderseli”; non hanno istituzioni e mezzi per farlo. O li usano per ricattare, come fa il Governo turco. Per sbarazzarsene bisogna lasciarli affogare. Altrimenti, in Italia e in Grecia, i due punti di approdo, le persone cui viene negata l’accettazione – asilo, protezione sussidiaria o umanitaria, permesso di soggiorno – vengono abbandonate alla strada e alla clandestinità: merce a disposizione di lavoro nero e criminalità. In questa condizione sono già in decine di migliaia. Ma se il resto d’Europa continuerà a mantenere barriere ai confini di questi paesi, non ci sarà altra soluzione che quella di enormi campi di concentramento dove internare centinaia di migliaia di refoulés, senza alcuna prospettiva di uscita. Nessuno ne parla, ma il Governo non sta facendo niente per far aprire ai profughi sbarcati in Italia le porte di tutta l’Europa. Ma poi, dopo i campi di concentramento, cos’altro?

Ma mentre le politiche di respingimento infieriscono sul popolo dei profughi, legittimando ogni forma di razzismo, e si moltiplicano le stragi che accompagnano le guerre cosiddette “umanitarie”, non si fanno i conti con il fatto che in Europa ci sono decine di milioni di cittadini europei (oltre quaranta milioni di religione musulmana) legati da vincoli di cultura, religione, nazionalità e parentela, alle vittime dei soprusi perpetrati dentro e fuori i confini dell’Unione. Come si può pensare che tra loro non maturi una ripulsa ben più forte che quella che proviamo noi? Ma anche, tra molti, soprattutto giovani, la pulsione a “colpire nel mucchio”, come succede a tante vittime “collaterali” dei nostri bombardamenti? E’ uno stragismo che ha poco a che fare con la religione, ma molto con un senso pervertito di indignazione. Affrontare questi fenomeni senza una politica di riconciliazione (e, ovviamente, di pace) dentro e fuori i confini d’Europa significa promuovere l’apartheid. Ce n’è già tanto, ma di strada da percorrere è ancora molta. Con le politiche di respingimento si fa credere che adottandole potremo mantenere il nostro stile di vita e i nostri consumi, per quanto insoddisfacenti. Invece, che si accolga o si respinga, le nostre vite e le forme della convivenza sono destinate a cambiare radicalmente. Niente sarà più come prima.

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i sogni europei di Tonino Bello

 

«l’Europa sognata da don Tonino Bello era una casa in cui Nord e Sud si aiutano»

il testo integrale della relazione “Costruttori di ponti: per una diplomazia del dialogo alla scuola di don Tonino Bello” tenuta l’11 agosto a Tricase (Lecce) da mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento – Santa Maria di Leuca, in occasione dell’incontro internazionale “Mediterraneo un mare di ponti” e la firma della Carta di Leuca

Siamo l’Europa del Sud. Sentiamo di appartenere all’una e all’altro. Ci sentiamo europei perché riconosciamo che inevitabilmente, nonostante pareri discordanti, le sue radici sono quelle della cultura classica e del fondamentale apporto dato lungo il corso dei secoli dal cristianesimo  e dall’azione della Chiesa. Siamo gente del Sud, perché qui siamo nati e in questa tradizione meridionale siamo profondamente radicati.

Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, nel Salento

Mons. Vito Angiuli, vescovo della diocesi di Ugento-Santa Maria di Leuca, nel Salento

Scenari inquietanti

In questi ultimi tempi, lo scenario mondiale è profondamente cambiato e questo ha avuto e continua ad avere notevoli ripercussioni anche sul nostro territorio e, in generale, sul continente europeo, sul suo modo di rappresentarsi e sulle scelte che è chiamato a compiere. La miscela composta dalla crisi economica e dal terrorismo di matrice islamica sta rimodellando la frontiera geopolitica europea. Dopo l’entusiasmo per l’ingresso di altre nazioni (2004-2008), il “cuore” geopolitico dell’Europa sembrava essersi spostato a Nord e nell’area orientale mentre il mar Mediterraneo sembrava ormai declassato a periferia irrilevante, facendo perdere qualsiasi centralità al fronte meridionale europeo. All’improvviso, gli equilibri faticosamente raggiunti sono profondamente mutati e il mar Mediterraneo ha rivendicato il suo primato.

Il “mare nostrum” è diventato “mare mortuum”, se si pensa alle migliaia di migranti annegati lungo la sua traversata. Oggi, il Mediterraneo appare come “muro liquido” che si estende dalla Turchia alla Spagna, dal Libano al Marocco, dalla Grecia alla Francia, al cui centro c’è proprio l’Italia, anzi il Sud Italia. Il Vecchio Continente si specchia in queste acque anche quando rifiuta di farlo, fingendo che quanto accade riguardi solo i paesi che si affacciano sul Mediterraneo. In tal modo, gli interventi politici sono pensati al massimo come una sorta di solidarietà economico-strategica e non invece come un inevitabile coinvolgimento dell’intero continente.

Occorrerebbe, invece, un coordinamento senza distinzioni tra Est e Ovest, tra Nord e Sud; una presa di coscienza e di iniziativa comune, assegnando un ruolo cruciale al Mediterraneo. In realtà, secondo un alto esponente del Parlamento europeo, «la disintegrazione dell’Unione Europea è purtroppo già una realtà. E lo si vede anche da quanto sta accadendo nella lotta al terrorismo, come nel contrasto alla crisi economica: come sempre, davanti alle sfide e alle emergenze, non riusciamo a prendere decisioni rapide ed efficaci. Attendiamo, attendiamo… ogni scelta richiede l’approvazione di 27 Stati.

Così siamo sempre in ritardo, o prendiamo decisioni deboli.   Il dibattito sul Sud In questo scenario mondiale profondamente mutato, è ritornato di attualità il dibattito sul Mezzogiorno, sul suo rapporto con l’Europa e sul suo ruolo nello scenario mondiale[2]. Per alcuni, il Sud sta ripartendo: «I dati Istat sull’andamento del Pil nel 2015 consentono finalmente un po’ di ottimismo. Il Mezzogiorno sta uscendo da una delle più gravi recessioni della sua storia, allineandosi se pur con ritardo al resto d’ Europa e superando anche il Centro-Nord». Sembra che «a trainare questa ripresa meridionale è soprattutto l’agricoltura: +7,3 per cento in un anno».

C’è chi, invece, ritiene che, a partire dagli anni Ottanta, si registra una diminuzione dell’attenzione verso il Mezzogiorno. In tal modo, esso «è così giunto dov’è oggi sull’orlo del collasso (…). Ciò che colpisce di questa situazione è la sostanziale assenza di una reazione forte e continua da parte dell’opinione pubblica meridionale e di chi dovrebbe darle voce. Mancano larghi dibattiti, autocritiche, progetti: mancano gruppi attivi, iniziative di mobilitazione durature, leader moderni e capaci».

Secondo altri il Sud è vivo, ma i poteri lo ignorano sicché «se il Sud protesta, fa il lacrimoso. Se il Sud ottiene qualcosa, scopre la sua cifra clientelare. Se il Sud tace, è apatico. Se il Sud parla o scrive, il Nord fa finta di non sentirlo o di non leggerlo, ma poi lo accusa ora di piagnucolismo ora di indifferentismo». C’è chi è convinto che per capire il Mezzogiorno, occorra liberarsi dalla «retorica meridionalistica […] e  promuovere la cultura del merito, contro il mantra dei localismi e del territorio».

Infine c’è chi propone la creazione di un «apposito Ministero per il Mezzogiorno, con le deleghe necessarie a coordinare la programmazione strategica e il reperimento delle risorse nazionali e comunitarie». Come si vede il dibattito verte soprattutto sul piano economico. Poco o niente si dice sul ruolo strategico che l’Europa e, al suo interno, il Meridione d’Italia dovrebbero svolgere tenendo conto dei nuovi equilibri mondiali. Al massimo, si fa appello a un cambio della politica europea in attesa che a Bruxelles vengano prese le opportune iniziative per far fronte a questa nuova situazione geo-politica. In un simile frangente, secondo Jeffrey Sachs, l’Italia avrebbe «l’occasione di lanciare un grande piano per il Mediterraneo. Può farlo e deve farlo. Anche perché Bruxelles guarda costantemente troppo a Nord».

Secondo Sachs, le priorità di un Piano per il Mediterraneo sarebbe tre: l’aumento della sicurezza alimentare nel Maghreb e in Africa; l’accesso all’educazione per una popolazione in rapidissima crescita; la sostenibilità energetica. Purtroppo anche l’Italia, appare sempre più «una società frammentata che viene gestita senza progetti unitari e chiari. Che ha urgente bisogno di definire quali devono essere i rapporti fra il Parlamento e il governo, per ritrovare la capacità di individuare obiettivi definiti e specifici al di là delle esigenze del momento» (E. De Mita, La società frammentata e l’assenza della politica).

In una casa comune dobbiamo aiutarci tutti

In questa prospettiva, torna di attualità il pensiero di don Tonino Bello, che già all’inizio dell’avventura dell’unione europea metteva in guardia da una «polarizzazione intorno ad una nazione emergente: la Germania, il Marco.  In una casa comune – egli soleva dire – se dobbiamo aiutarci tutti, ognuno deve lasciare qualcosa; non possiamo andare con tutte le nostre masserizie; bisogna lasciare qualche cosa».

A suo giudizio, il Sud Italia si presenta come un «luogo paradigmatico dove si manifestano gli stessi meccanismi perversi che, certamente in modo più articolato, attanagliano tutti i Sud della terra. Questa nuova visione planetaria, che ci fa scorgere come i più poveri sono sempre più numerosi mentre i ricchi diventano sempre più ricchi e sempre di meno, deve spingere il volontariato a decidersi da che parte stare se vuole che la sua azione sia demolitrice delle strutture di peccato, o rimanga invece una semplice opera di contenimento e di controllo sociale, come di utile ammortizzatore, tutto sommato funzionale al sistema che tali sperequazioni produce e coltiva».

Al contempo, egli invitava a scorgere alcuni segnali positivi. Si avverte nel Sud «il bisogno di uscire dalle vecchie aree dell’individualismo per aprirsi a orizzonti di comunione. C’è un’istintiva disponibilità all’accoglienza del diverso. Non per nulla il Mezzogiorno è divenuto crocevia privilegiato delle culture mediterranee, vede moltiplicarsi al suo interno le esperienze di educazione alla pace, si riscopre come spazio di fermentazione per le logiche della nonviolenza attiva, avverte come contrastanti con la sua vocazione naturale i tentativi di militarizzazione del territorio e vi si oppone con forte determinazione […]. L’Europa che nasce deve fare i conti con il Sud Italia, il quale, nella sua coscienza emergente, si rifiuta di assolvere al ruolo di icona della subalternanza per tutti i Sud della terra, ma vuole sempre più decisamente presentarsi alla ribalta mondiale come icona del riscatto dalle antiche schiavitù. Ed è in forza di questo riscatto che il Sud d’Italia respinge la prospettiva di essere utilizzato come baluardo militare dell’Europa, proteso nel Mediterraneo come arco di guerra e non come arca di pace». In questa luce, secondo don Tonino, si deve dar credito «all’ansia profonda di solidarietà presente nel Sud istintivamente portato alla costruzione di una civiltà multirazziale, multietnica, multireligiosa  […] assumendo la speranza come filo rosso che attraversa il nostro impegno e sostiene il nostro messaggio il quale, in fondo, è un messaggio di liberazione».

Nel contesto del Meridione, alla Puglia è riservato un ruolo tutto particolare. In molti discorsi del magistero, la Puglia viene esaltata come «un ponte lanciato verso l’Oriente». Essa è, dunque, «come una finestra aperta, da cui osservare tutte le povertà che incombono sulla storia.
È una terra- finestra. Una terra-simbolo. Una terra-speranza. Una terra-frontiera. Una terra finis-terrae. Da questa terra-finestra si scruta bene l’Adriatico in fiamme. Il crollo dell’Albania e il fuoco dei Balcani. Si distingue bene il Mediterraneo, nuovo invisibile muro, che curva la nostra regione come un arco di guerra puntato dal Nord verso il Sud del Mondo. Il radicalmente altro che è il musulmano, il radicalmente impoverito che è l’africano. Insomma, siete nella terra dove la speranza è sfidata ogni giorno dalla violenza». Per questo, la Puglia non può trasformarsi in «un ponte aereo!»[1]. Purtroppo, «dalla Daunia alle Murge al Salento, ancora una volta, la Puglia viene penalizzata da moduli di sviluppo che privilegiano la militarizzazione del territorio, ne distorcono l’assetto paesaggistico e produttivo, o lo espongono, (come nel caso della centrale a carbone di Cerano), ad alto rischio ambientale. I segni dei tempi, ci fanno scorgere nella Puglia un promontorio di pace avanzato nel Mediterraneo, e non un avamposto di guerra che affida alle armi la sicurezza dell’Europa».

In realtà, si vorrebbe imporre alla Puglia «un ruolo “tragico” come nei teatri greci, un tempo così numerosi nella nostra terra. Un ruolo che non ci appartiene né per vocazione di Dio, né per tradizione degli uomini […]. Un ruolo che ci fa considerare gendarmi di rincalzo nel Mediterraneo per il servizio di controllo. Se non di repressione, sulle folle disperate del terzo e del quarto mondo. A questa storia ci sentiamo estranei. E coloro che si prestano come comparse a intervenire nella trama dell’olocausto planetario sappiamo che forse stanno provando il disgusto di Dio e la rabbia dei poveri».

Da queste considerazioni, secondo don Tonino, dovrebbe nascere un forte richiamo a chi ha la responsabilità delle scelte politiche: «A voi, politici, di cui comprendiamo la sofferenza e intuiamo le perplessità, chiediamo di mostrare che la rete delle istituzioni  non si è scollata dal sentire della gente. Che a voi preme ancora il bene comune. Che ben altri sono i progetti, in calce ai quale volete segnare i vostri nomi. Che su più gloriose pagine della nostra storia ambite figurare come protagonisti. Che l’amore per i poveri e per la loro vita è ancora il principio architettonico della vostra azione sociale».

L’appello di don Tonino non è un sogno utopico, nasce invece dai fatti realmente accaduti, in modo particolare dalla vicenda migratoria che, negli anni ’90, ha riguardato l’Albania alla quale egli prestò grandissima attenzione tanto che ad un anno di distanza scrisse queste parole:  «Ora che il tempo è passato e che di questa gigantesca arnia attraccata al porto di Bari e brulicante di api ci è rimasto solo il riverbero nelle pupille e il tanfo nelle narici, riusciamo ad afferrare meglio l’ambivalenza di quella vicenda. Una vicenda di peccato, per un verso. O se vogliamo usare categorie più laiche, una vicenda di lesa umanità. Quindicimila esseri umani, sospinti in branco dalla fame, che rischiano di andare alla deriva avvinghiati fino all’elica di un unico bastimento. Lupi accecati dall’arsura e dalle croste di sale. Che si riversano sul molo, divenuto per centinaia di metri una protesi di carne. Che vengono braccati con inesorabile determinazione dalle forze militari, mentre più dietro si ingrossa inutilmente la cintura della pietà privata. Uno scenario da girone dantesco, la cui drammaticità non viene temperata neppure dall’espediente di dividere il fronte portandone una metà nello stadio della Vittoria». Tuttavia, questa triste storia contiene anche «risvolti di grazia. Di cui non è esercitazione sprecata fare memoria. Anzitutto, l’operosità solidale della gente comune che si è prodigata con tutta l’anima per alleviare la sofferenza di quegli infelici. Chi in quei giorni disperati è vissuto sul posto, ha potuto misurare l’alta quota di umanità espressa dalla popolazione: dai privati ai gruppi di volontariato, dalle associazioni laiche alle caritas parrocchiali. E’ un aspetto, questo dell’ospitalità della gente, che è stato tenuto colpevolmente in ombra per un anno intero […]. Un secondo frutto di grazia va ravvisato nel fatto che si è sviluppata in tutta la Puglia una fitta trama di gemellaggi tra le comunità ecclesiali e i vari dipartimenti albanesi. Una rete di rapporti che, mentre assicura l’aiuto concreto ai fratelli più poveri, provoca anche una intensa cultura dello scambio e catena quella coscienza di solidarietà così indispensabile per chi voglia aprirsi a orizzonti multietnici. E ora, a un anno dalla disperata avventura albanese sulle nostre coste, siamo chiamati a cogliere un segnale per il futuro. […] Questa terra, che oggi rantola tra i bagliori della guerra vicina e le incertezze della solidarietà lontana, ci chiede soprattutto di essere riscoperta nella sua identità, rispettata nella sua autonomia, e aiutata nella sua crescita originale. Senza tentazioni di colonialismo né economico, né culturale, e tanto meno religioso».

Da qui, un invito alla Chiesa a non tirarsi indietro. Commentando il documento della Conferenza episcopale italiana, Chiesa italiana e Mezzogiorno (18 ottobre 1989), don Tonino rilevava che la Chiesa aveva «finalmente capito di non trovarsi per metà su una barca a remi che fa acqua e per metà su di un motoscafo inossidabile. Sulla barca a colabrodo ci siamo tutti, ma con una fortissima speranza di poter evitare il naufragio». Certo, a suo parere, in quel documento non tutto era stato detto e molto ancora bisognava fare. Soprattutto occorreva ridisegnare il ruolo che il Meridione era chiamato a svolgere con l’imminente integrazione europea, inquadrato nel contesto planetario della tensione Nord-Sud. La necessaria autocritica da parte della Chiesa nel riconosce la sua porzione di responsabilità nella denuncia dei fenomeni perversi, doveva poi risolversi nel promuovere «un protagonismo di pace che il Mezzogiorno può esprimere, in modo particolare sullo scenario mediterraneo».

Don Tonino Bello

Tonino Bello

 

Don Tonino era consapevole che si trattava di un progetto che non poteva essere attuato con le sole forze umane. Egli sapeva che la storia è guidata dal Signore. Questa sera, mentre chiede anche noi di adoperarci per la nascita di un mondo migliore, ci invita ad elevare un’accorata e corale invocazione a Cristo, Figlio di Dio e Salvatore del mondo:
«Eccoci davanti a te, Signore della storia, fratello solidale con gli uomini Dio estroverso che hai impregnato della tua presenza il tempo e lo spazio amore segreto verso cui fremono di incoercibili spasimi gli abissi del mare, i tumulti delle foreste e le traiettorie del firmamento, alfa da cui si diparte il compitare delle stagioni e omega verso cui precipita la piena dei tempi, scaturigine primordiale dei fiumi delle umane civiltà, e ultimo approdo verso cui in un interminabile conto alla rovescia, battono le sfere di tutti gli orologi terreni…
Verbo incarnato, che riassumi nel tuo mistero la stabilità dell’eterno e le clessidre del mutamento noi ti contempliamo stasera come archetipo della missione che hai affidato alla tua Chiesa: quella di introdurre te nelle culture del mondo. […] Perciò ti imploriamo stasera: discendi, ancora una volta, agli inferi. No, non alludiamo a marce trionfali che ti facciano strappare al diavolo, in un quadro di potenza, le anime dei morti. Ma vogliamo riferirci a quella tua capacità di prendere su di te le disperazioni del mondo, di sedurle con le nostalgie del Sabato Santo, e di farle aprire alla tavola imbandita della Pasqua. Tu semente che si disfa, entra nelle zolle delle umane culture, e noi, non più sgomenti come dice un poeta “staremo ad ascoltare la crescita del grano”».

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i bassi interessi dell’azione militare in Libia

comunicato stampa Pax Christipax christi2

i potenti delle guerre

 Firenze, 13 agosto 2016 pax christi1

Pace è forza della verità, vera e grande politica.

La spedizione militare in Libia, in atto da anni, non ha come obiettivo primario l’espulsione dell’Isis da Sirte ma la spartizione di risorse (petrolio, gas, acqua fossile, fondi sovrani libici confiscati nel 2011) e il controllo di territori ritenuti fondamentali per gli interessi di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Italia assieme a Turchia, Egitto, paesi arabi e altre potenze.
L’azione bellica, preparata da tempo con insediamenti europei in Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, è animata da logiche neocoloniali che sfruttano il caos geopolitico con rischi altissimi per la Libia, il nord Africa, il Medio Oriente, l’Italia. Costituisce un regalo al demonizzato Califfo e alla proliferazione del terrorismo. Aggrava i mali da contrastare. Prepara ulteriori divisioni e dolore.
Occorre rilanciare un’offensiva diplomatica per l’unità della Libia (dirigenti dell’ENI hanno dichiarato al “Corriere della sera” che occorre “farla finita con la finzione libica”) con il protagonismo di forze locali  libere da alleanze ambigue, mutevoli e interessate, con l’accordo tra città e tribù  (usate ora da questa o quella potenza), con la presenza attiva dell’ONU  coerente con la sua Carta fondativa  (che prevede forme di “polizia internazionale” o di interposizione molto diverse dalla guerra), con un serio lavoro di intelligence, con pratiche di riconciliazione, con esperienze di dialogo interreligioso.
Pace è grande e vera politica, è forza della verità (la gandhiana satyagraha), è capacità di trasformazione costruttiva dei conflitti, è creazione delle condizioni di pace per un futuro libero dalla forza ingannatrice e ipocrita della violenza armata a servizio di pochi potenti pronti a destabilizzare per stabilizzare a loro favore.

Smoke billows as Libyan rebels progress westward from the town of Bin Jawad towards Moamer Kadhafi's home town of Sirte on March 28, 2011 as NATO finally agreed to take over full command of military operations to enforce a no-fly zone in Libya from a US-led coalition. AFP PHOTO/ARIS MESSINIS (Photo credit should read ARIS MESSINIS/AFP/Getty Images)

Nei giorni in cui la liturgia ci offre nel Magnificat (15 agosto) l’immagine della caduta dei potenti dai loro troni, condividiamo le parole del papa dello scorso 7 agosto, riguardanti i prezzi dei conflitti armati in Siria, ma anche Iraq, Sud Sudan e in molti altri Paesi a noi vicini o lontani, soprattutto il prezzo della chiusura di cuore e della mancanza della volontà di pace dei potenti”.

Pax Christi Italia

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