se la politica avesse un po’ di creatività e utopia …

migranti

una passerella per unire Libia e Sicilia

l’utopia artistica di due studenti bergamaschi

I due liceali si sono ispirati all’opera di Christo, inaugurata oggi sul lago d’Iseo.

«Basta morti nelle acque del Mediterraneo»

un fotomontaggio della passerella per migranti immaginata dai due liceali

Cinque cose da sapere sulla passerella di Christo

Una passerella per i migranti, per un traversata senza morti. È un’utopia, una provocazione artistica, quella firmata da Cecilia Rizzi e Simone Assi, studenti della III L del Liceo Artistico “Giacomo e Pio Manzù” di Bergamo che ispirandosi all’opera di Christo inaugurata oggi sul Lago d’Iseo sono andati oltre, immaginandosi un ponte galleggiante in grado di unire la Libia alla Sicilia, con tappa intermedia a Lampedusa.  

 

 

«In classe abbiamo ragionato molto sul tema dei migranti contestualmente allo studio delle opere di Christo, e il tentativo è stato quello di unire le due cose – spiega Cecilia –. Abbiamo quindi preso la passerella costruita sul Lago d’Iseo e l’abbiamo immaginata sul Canale di Sicilia: un camminamento dorato lungo oltre 520 km, per dare ai migranti una possibilità di salvezza. Un progetto ovviamente irrealizzabile: ma è compito dell’arte far meditare sulle tragedie contemporanee». 

 

 

A colpi di Photoshop Cecilia e Simone hanno così concretizzato la loro visione, scandagliando la rete alla ricerca delle immagini giuste da rielaborare: gruppi di persone in movimento, coste siciliane, bozze del ponte e fotografie aeree, da utilizzare per realizzare un collage digitale. «Camminare sulle acque è un sogno di tutti – conclude Cecilia. – «Ho già prenotato la mia visita al ponte di Christo, e non vedo l’ora di andare. Il nostro “Floating Bridge” invece rimarrà sulla carta, ma dalle reazioni delle persone abbiamo capito di aver attivato delle riflessioni. Quindi abbiamo raggiunto il nostro obiettivo».

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il cardinale in crisi nera di fede di fronte a 336 bare

 

il cardinale Montenegro

“di fronte alle 366 bare a Lampedusa ho avuto una crisi di fede e ho scritto al Papa”

cardinale-Montenegro

Di fronte alle 366 bare di migranti morti durante il naufragio del 3 ottobre 2013 a Lampedusa “ho avuto una grossa crisi di fede, che ancora mi segna”: lo ha confidato, davanti a un’aula magna gremita di studenti, il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente di Caritas italiana, durante il colloquio sulle migrazioni organizzato ieri sera dal Centro Astalli alla Pontificia Università Gregoriana.
Trovarsi davanti a 366 bare ti fa sentire schiacciato e impaurito – ha raccontato -. Stare sul molo di Lampedusa e vedere quei volti mi ha provocato una crisi di fede; non solo ho sentito Dio lontano ma non l’ho proprio sentito.
Poi ho visto un poliziotto piangere come un bambino.
Quella sera stessa ho scritto al Papa, dicendogli la mia difficoltà, come vescovo che avrebbe dovuto aiutare gli altri e che invece si è ritrovato con il cuore spento”.
Quanto sta accadendo oggi in Europa, ha proseguito, è “una storia pesante che non possiamo mettere sotto la voce ‘carità’ ma dobbiamo mettere sotto la voce ‘giustizia’.
Il problema non è la migrazione ma l’ingiustizia nel mondo e il mondo si regge su questa ingiustizia. Se non cominciamo a combattere l’ingiustizia le soluzioni non si trovano”. “Noi ci siamo lavati le mani ma continuiamo a stare sugli spalti come al Colosseo – ha affermato -, e con il pollice in alto o in basso decidiamo la sorte di chi può vivere o morire”.  Al contrario, ha concluso, “dobbiamo cominciare a vivere la cultura dell’accoglienza, che è la capacità di guardare l’altro negli occhi, e l’altro è contento perché vede riconosciuta la sua dignità di uomo”.

 

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la situazione attuale dei migranti? “è il test supremo per la nostra civiltà”

ritrovare l’umanità

“ho dovuto ritrovare la verticalità dell’uomo”

di Jean-Claude Raspiengeas
in “La Croix” del 9 giugno 2016

Velibor Čolić,

Manuel d’exil. Comment réussir son exil en trente-cinq leçons,

Gallimard

Velibor Čolić

Alla fine dell’estate 1992, dopo una lunga traversata dell’Europa, Velibor Čolić, 28 anni, intellettuale, scrittore, disertore dell’esercito bosniaco, arriva in Francia con, come unico bagaglio, tre parole di francese: Jean, Paul e Sartre. Quando depone lo zaino, la grande, vertiginosa domanda: e adesso?

“A poco a poco mi rendo conto di essere il rifugiato. L’uomo senza documenti e senza volto, senza presente e senza futuro (…). Non ho più un nome, non sono più né grande né piccolo, non sono più né figlio né fratello. Sono un cane bagnato d’oblio in una lunga notte senza alba, una piccola cicatrice sul volto del mondo”, scrive nel suo nuovo libro. “Ero partito per nascondermi, non in esilio”, riconosce oggi, seduto in una grande poltrona nella sede del più prestigioso degli editori parigini. “Mi sentivo come un animale spaventato. Ho dovuto ritrovare la verticalità dell’uomo”.

Il suo undicesimo libro, scritto per “comunicare” la sua esperienza, con una sfumatura di ironia acida, un’ironia molto slava, è impregnato di questa angoscia. A quel tempo, lo si guarda, gli si parla come ad uno “straniero”. Ci si stupisce che sia europeo, “come noi”, eppure apolide. Di questo, prova un “freddo metafisico”. Di questo tremava nelle vie di Parigi, dove tutto gli sembrava un labirinto senza luce.

“Trasformato in robot dalla paura, disumanizzato dalla miseria”, questo colosso comprende presto che la sua nuova vita “esige uno spirito forte e una memoria azzerata”. Tutto il suo romanzo è segnato da questa necessità. Voltare pagina, sbarazzarsi di un passato troppo pesante. “Introiettare e digerire l’idea che non sarei più tornato nel mio paese”. La scrittura gli ha salvato la vita. “Aprire un bloc notes, riempire pagine scrivendo mi ha ricollegato con l’umanità. Ogni frase tracciata mi alleggeriva di quella stratificazione di frustrazioni”.

Velibor Čolić1

Uno zingaro gli insegna le regole, legali, ai margini dei limiti e del buon senso, per resistere, tener duro, diventare trasparente

Superando una sensazione di morte e di solitudine, Velibor Čolić si sforza di entrare sui convogli affollati della metropolitana per sentirsi esistere in mezzo agli altri. Ogni rifugiato, assicura, vuole fondersi nella massa, “fare come fanno tutti, mangiare come mangiano tutti, avere scarpe comode, documenti in ordine”. Ossessionato da questo tormento, scrive: “Sogno una vita semplice, fatta di piccole felicità, di routine quotidiana”. Adottare la lingua del paese d’accoglienza diventerà la via maestra della sua integrazione, passando, non senza fatica, dal “cubo di Rubik della lingua slava” alla “morbidezza felina e musicale del francese”. Dal 2006, i suoi libri non hanno più bisogno di essere tradotti. “Non posso più immaginare di cominciare un romanzo se non in francese, diventato il mio rifugio e il mio paese”, afferma.

Cosa pensa della situazione attuale dei migranti? “È il test supremo per la nostra civiltà, risponde  Velibor Čolić. “O cresciamo insieme, o cadiamo insieme. Guardare un rifugiato come uomo, significa ritrovare in sé la nobiltà dell’umanità”.

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il parroco dice che un duplice assassinio è opera del demonio

 

“La colpa non è sua, ma del demonio”. Parroco “scagiona” l’assassino di moglie e figlio

“la colpa non è sua, ma del demonio”

parroco “scagiona” l’assassino di moglie e figlio

da: Adista Notizie n° 23 del 25/06/2016
Don Tonino Maria Nisi ha scomodato perfino il demonio pur di scagionare Luigi Alfarano, l’uomo che il 7 giugno scorso ha ucciso la moglie Federica De Luca e il figlio che avevano avuto quattro anni fa, Andrea, prima di togliersi la vita. «Luigi aveva una gran bella famiglia», ha detto il sacerdote, secondo quanto riportano le cronache locali, nel corso dei funerali di Alfarano, officiati il 10 giugno nella chiesa di San Pasquale Baylon di Taranto. «Il demonio si è messo in mezzo, perché non vuole la famiglia e la nostra gioia. E oggi io lo vedo così: con una mano tiene la sua sposa, con l’altra il suo bambino». Don Nisi ha pensato poi di rafforzare la sua arringa difensiva prendendo spunto dal lavoro che svolgeva Alfarano, coordinatore delle attività promozionali dell’Associazione nazionale tumori di Taranto. «Luigi, per il lavoro che faceva, aveva tutte le carte in regola per poter entrare in Paradiso», ha detto. E poi ancora, in ordine sparso: «Era un uomo buono»; «Nessuno si deve permettere di giudicare. Il Signore sa»; «Qualche ombra tutti noi dobbiamo presentarla alla misericordia di Dio».

Le parole di don Nisi non sono passate inosservate. «Uccidere una donna e il suo bambino, se erano “la tua” donna e “il tuo” bambino, è stato decretato dal pulpito di quella chiesa come un peccato minore – ha commentato, tra le altre, Michela Murgia –, giusto una macchiolina sul curriculum per il cielo, un errore veniale che non può compromettere la stima di amici e parenti, tantomeno quella di Dio». «Il fatto che l’assassino si sia suicidato è sufficiente a includerlo nel novero delle vittime e rubricare tutto come una “tragedia” familiare, una specie di imprevedibile evento del destino che ha colpito tutti allo stesso modo, senza colpevoli». «Lo stesso effetto di assoluzione/deresponsabilizzazione – prosegue Murgia – lo si ottiene dicendo e scrivendo che l’uomo era “disperato, ferito, affranto, spaventato” e simili, inducendo chi sente e chi legge a empatizzare con le ragioni dell’uccisore, piuttosto che con quelle della donna assassinata e di suo figlio. L’effetto che si ottiene è surreale: gli uccisi sono la donna e il bambino, ma la vera vittima è il loro assassino. Vittima di cosa? Ovvio: della decisione della donna di chiedere la separazione, evento che ha scatenato la sua sofferenza e la sua reazione».

Il vescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro, interpellato dal Corriere del Mezzogiorno (11/6), si è detto «convinto che l’emozione dettata dal legame affettivo con la famiglia abbia fortemente spinto il predicatore a straripare, facendosi in modo inopportuno interprete di Dio». Secondo il vescovo, le parole pronunciate da don Nisi sono state determinate «dal desiderio di consolare la mamma di Alfarano» e «di rivolgere una parola di fiducia al mondo dell’associazionismo di cui il defunto faceva parte». Ma non è aberrante, gli ha chiesto il giornalista, sentir dire che Alfarano «amava la sua famiglia»? «Il messaggio aberrante – ha risposto il vescovo – può essere veicolato nel momento in cui non circoscriviamo le frasi di padre Tonino alla situazione contingente alla quale accennavo». Insomma secondo mons. Santoro le parole di don Nisi vanno contestualizzate.

Che sulla questione la Chiesa – come anche i media e la politica – sia quantomeno impreparata è poco ma sicuro. In molti ricorderanno il caso di don Piero Corsi, il parroco di Lerici che nel 2012 pensò bene di affiggere in parrocchia un volantino in cui la colpa dei femminicidi veniva attribuita alle donne, le quali «sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti e finiscono con esasperare le tensioni esistenti».

Ma anche quando le intenzioni sono le migliori sembra proprio che la Chiesa non sia attrezzata a trattare l’argomento.

Tre anni fa il vescovo di Perugia, mons. Gualtiero Bassetti, dedicò alla questione un lungo intervento pubblicato su La Voce, il settimanale della diocesi, in cui si leggeva, sì, che «non è amore alzare le mani contro la propria moglie, fidanzata e contro qualsiasi donna», ma si leggeva anche che «uccidere una donna significa spegnere tutto il dono di profezia che essa porta in sé, il suo dna di femminilità che armonizza e smorza dissidi che a volte si creano nelle relazioni».

Sempre nel 2013, l’allora vescovo di Locri, mons. Giuseppe Fiorini Morosini, affidò le sue riflessioni in merito a una nota pastorale in cui, partendo dai ripetuti casi di violenza sulle donne verificatisi in quei mesi, scriveva che «alcuni episodi sono stati crudeli e raccapriccianti» – solo alcuni? – e che a volte questa violenza è «sopportata eroicamente» dalle donne – ci può essere essere qualcosa di eroico nel sopportare la violenza? E ancora, senza bisogno di commento: «I mariti, i fratelli, i fidanzati non possono concedersi il lusso di andare nei bar a giocare, ad ubriacarsi e poi tornare a casa ed aggredire le proprie donne per una qualunque scemenza».

* Foto di ho visto nina volare. tratta da Flickr. Immagine originale e licenza.

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ce la farà il sinodo panortodosso a vedere la luce dopo 60anni di preparazione?

il sinodo pan (?) -ortodosso

di Ioannis Maragós
in “SettimanaNews”

sinodo

Mancano pochi giorni all’inizio del Santo e grande sinodo della Chiesa ortodossa. Il suo presidente, il patriarca ecumenico, ha programmato il suo arrivo a Kolymbari Chania, sede del Sinodo, per mercoledì 15 giugno. Lo si stava preparando da circa 60 anni, e finalmente si saprà quale sarà il suo approdo. Un Sinodo avrebbe dovuto ridare vigore e presenza concreta a ciò che la Chiesa ortodossa intende per “sinodalità” (unità nella pluralità), e avrebbe chiamato la Chiesa a dare la sua testimonianza e il suo carisma nel mondo contemporaneo, poliedrico sotto tutti i punti di vista. L’aspirazione – come ha dichiarato il metropolita Ignazio di Volo – è «di dare testimonianza dell’unità e celebrarla nel Sinodo. Il Santo sinodo si tiene per affermare e confermare l’esistenza dell’unità nel sacramento dell’eucaristia, la fede comune, i sacri canoni e la tradizione teologica»

Il metropolita però è ben conscio dei problemi esistenti, perciò ha aggiunto: «Nell’Ortodossia non abbiamo questioni di primazie. Non dobbiamo lasciarci vincere dalle divisioni dei nazionalismi». Tutto questo impegno e questo sforzo ora rischiano di rivelarsi una spina dolorante nel fianco e una frattura nel profondo dell’unità della Chiesa ortodossa.

In attesa di vedere l’esito definitivo, diamo un piccola rassegna sulle diverse posizioni – così oserei chiamarle – di politica ecclesiastica.

Il Patriarcato delle Russie è a capo delle Chiese che si augurano si rimandi il tutto a tempi più propizi. Il Patriarcato russo ha chiesto al Patriarcato ecumenico di rimandare il Sinodo se nel frattempo non si fossero rimossi gli ostacoli che già dividono alcune Chiese locali, come per es. la Chiesa di Antiochia e la Chiesa di Gerusalemme; non trovandosi in comunione, ciò impedirà loro di compartecipare all’eucaristia durante i lavori del Sinodo. In seguito, hanno avanzato riserve anche le Chiese di Georgia, di Bulgaria e della Serbia, arrivando alla conclusione che, anche se un tale Sinodo si celebrasse, sarà comunque non legittimo perché contrario allo statuto che prevede il comune accordo nella convocazione. Quando è stato chiesto al metropolita Ilarione, incaricato per gli affari esteri del Patriarcato russo, perché, dopo aver sottoscritto tutto in fase preparatoria, ora ritrattassero, ha risposto che già nella fase preparatoria erano emerse divisioni che si sperava vedere superate nel frattempo. Quando la Chiesa di Antiochia ha dichiarato in modo chiaro e distinto le sue ragioni per non partecipare, si sono aggiunte le rinunce delle altre Chiese, Georgia, Bulgaria, Serbia. A quel punto la Chiesa Russa riunita in Sinodo ha chiesto al patriarca ecumenico di convocare una riunione preliminare per affrontare i problemi sorti per poter proseguire di comune accordo. Se questo non si fosse rivelato possibile, chiedeva di rimandare il tutto a un tempo più propizio. Intanto si cercherà di appianare le divergenze. Per il metropolita Ilarione il problema non è del Patriarcato ecumenico ma dell’intera Chiesa Ortodossa. Chiudendo, si è appellato alla prudenza, alla pacatezza e all’umiltà che caratterizzano il patriarca ecumenico, nel prendere la dovuta decisione.

sinodo

Le rinunce a partecipare sono cominciate dal Patriarcato di Antiochia, che non ha trovato all’ordine del giorno il suo contenzioso con il Patriarcato di Gerusalemme, il quale tre anni fa aveva istituito una metropolia a Qatar, tradizionalmente considerato territorio di Antiochia. Antiochia ha dichiarato la rottura della sua comunione con il Patriarcato di Gerusalemme. Dietro questa contesa alcuni non dubitano di vedervi una questione di politica internazionale sullo scacchiere mediorientale più ampio. Si sa che Antiochia si lascia influenzare volentieri da Mosca; si ricorda ancora che il patriarca, storicamente, è passato sotto l’influenza e il “dominio” della lingua araba per la spinta e il supporto della politica zarista in Medio Oriente sul finire dell’800. Si sa che il patriarca di Gerusalemme è grande amico degli emiri del Qatar, che ha costruito, a sue spese, la cattedrale ortodossa a Qatar. Tutti due sono sul versante filo USA.

Il Patriarcato Bulgaro viene considerato un satellite fedele della Russia e non solo nella politica – per cosi dire – ecclesiale. Esso contesta che le sue riserve non sono state recepite nei vari documenti. Le spese sono esorbitanti e si dichiara impossibilitato a conferire il proprio contributo. Sono presenti problemi procedurali, a proprio avviso non ancora presi in seria considerazione, per es. come saranno seduti intorno al tavolo, la procedura dei dibattimenti ecc., che tutelano la sinodalità. È una Chiesa ultraconservatrice, chiusa ad ogni apertura al mondo. Non partecipa al dialogo ecumenico né con la Chiesa cattolica, né con il Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC). È recente il suo riconoscimento come Chiesa autonoma. La sua autonomia dal Patriarcato ecumenico è stata riconosciuta nel 1945. Dopo la caduta del regime comunista, ha rischiato lo scisma interno tra collaborazionisti e non, contezioso ancora non del tutto assorbito.

Il Patriarcato di Georgia è anch’esso un satellite russo. Una Chiesa strettamente chiusa in se stessa. Il patriarca, una volta attivissimo membro del CEC, adesso rifiuta ogni discorso ecumenico. Dal Patriarcato si contesta e si ripudia il documento per le relazioni con il resto del mondo cristiano. Vecchi calendaristi a oltranza, per loro è una questione di fede. Il documento sui matrimoni è ritenuto molto liberale, specialmente quando tratta i matrimoni misti ecc. Il Patriarcato di Serbia è autonomo dal 1920. Il problema con la sua autocefalia è la modalità della sua concessione e del suo riconoscimento. Ha seri problemi con la Chiesa della ex Repubblica jugoslava di Macedonia, auto-dichiaratasi indipendente, e dunque considerata scismatica. Tradizionalmente ha buoni rapporti con il Patriarcato ecumenico e adesso anche con Mosca. Però ha dei problemi con il Patriarcato di Romania, perché questi ha ultimamente nominato dei vescovi per la cura pastorale della gente di lingua romena (vlacho) e risiede nei territori serbi confinanti con la Romania.

sinodo2

Il Patriarcato di Romania si propone come terzo polo dato che non è né di lingua greca né di lingua slava ma neolatina. Con Mosca è in continuo attrito, perché un suo territorio, l’Yperdnisteria, si è staccato dall’obbedienza Romena per avvicinarsi a Mosca.
Il blocco pro Sinodo insieme con il Patriarcato ecumenico

Il Patriarcato di Alessandria, il secondo per ordine d’onore, cerca di tenersi equidistante tra Costantinopoli e Mosca. È forte del suo prestigio di missionarietà in terra africana.

La Chiesa di Cipro ha buoni rapporti con tutti, però si considera il battistrada del Patriarcato ecumenico e il principale sostenitore delle missioni in Africa del Patriarcato di Alessandria, sia in termini di personale sia per i quantitativi di aiuti. Qualche lamento sul Sinodo lo avrebbe, ma non protesta più di tanto. Benché sia di origine apostolica, nella linea di onore la precedono altre Chiese molto più giovani. È una Chiesa estroversa e partecipa a tutte le manifestazioni ecumeniche. Il suo arcivescovo si comporta come paritetico al presidente della repubblica: si esprime in tutto e per tutto anche su temi di politica interna ed estera. Nel suo messaggio per l’imminente Sinodo ha scritto: «Partecipare (al Sinodo) è una dichiarazione di unità e di comune accordo, per questo consideriamo ogni altra presa di posizione o proposta dell’ultimo momento come minaccia per l’unità (della Chiesa) e la responsabilità sarà a carico di tutti coloro che, anche non volendo, contribuiranno alla sua rottura». La Chiesa della Grecia si considera custode della nazione greca, dell’ortodossia e del Patriarcato ecumenico. È vero che le sue relazioni col Patriarcato a volte appaiono burrascose, ma restano sostanzialmente buoni fratelli. Nei momenti difficili per il Patriarcato ecumenico, è sempre al suo fianco. I problemi si concentrano attorno alle cosiddette “nuove terre”, cioè il Nord della Grecia che, nel 1912, sono state annesse allo Stato greco allora esistente solo al Sud, dopo le guerre balcaniche contro l’allora Impero ottomano, ma non alla Chiesa della Grecia. Solo più tardi si è trovato un compromesso. Le metropolie del Nord sono state affidate alla cura pastorale della Chiesa della Grecia ma non giuridicamente alla Chiesa della Grecia. Altri problemi sono la presenza e la funzione dell’Ufficio di rappresentanza del Patriarcato in Atene. Per molti greci costituisce un grosso problema che il patriarca ecumenico debba essere per forza un cittadino turco. Negli ambienti conservatori non sono ben viste le aperture ecumeniche del Patriarcato. Quanto al Sinodo, contestano l’uso dei termini “Chiesa”, “Chiese”, “«comunità cristiane” e “confessioni”, e si sono riservati il compito di porre il problema in assemblea.

La Chiesa dell’Albania è una Chiesa piccola ma dinamica, malgrado le pressioni e le angherie che subisce ad ogni pie’ sospinto dallo Stato albanese. Attivissima in tutti i forum interortodossi, intercristiani, interreligiosi. L’arcivescovo di Albania Anastasios scrive: «È evidente che i problemi sono tanti. Appunto per questo si deve celebrare il Grande e santo sinodo. Altrimenti i problemi non si risolvono. Il rinvio ferirà profondamente l’autorevolezza internazionale della Chiesa ortodossa». La Chiesa autocefala di Polonia è già a Creta. I vescovi della Cechia, che in un primo momento hanno mostrato perplessità a partecipare, hanno ritrattato le loro precedenti prese di posizione contro il Patriarcato dichiarandosene pentiti, e parteciperanno.
Cosa sarà questa riunione, se si farà Per i russi e alleati sarà un’assemblea illegittima, se si lavorerà senza cinque Chiese, malgrado si autoproclami Grande e santo sinodo della Chiesa ortodossa. Altri, i più ottimisti, sostengono che sì, la mancanza di alcune Chiese sarà un disguido, ma la natura dell’assemblea si chiarificherà dal peso che assumerà nella coscienza ecclesiale. Il Sinodo successivo a quello di Creta deciderà del suo carattere ecclesiale. Non è un grande male che non siano presenti tutti i convocati, visto che nemmeno nei grandi sinodi ecumenici del passato erano tutti presenti. Se sarà o no considerato come vero sinodo, oppure qualcosa d’altro, dipenderà dalla ricezione nella coscienza del santo popolo fedele. Di certo si affrontano due linee, quella ecumenica, con la sua ansia di mostrare e testimoniare la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo, e la linea del particolarismo nazionale che coltiva lo star bene nei propri territori e la custodia di uno stile di vita tradizionale, cercando semmai di rinvigorirlo in qualche modo, perché sappiamo cosa sia il passato ma non il futuro, e questo fa paura. Sicuramente, un certo tipo di nazionalismo religioso – della nazione santa da Dio protetta – presente nella parte orientale del’Europa non è assente nemmeno in alcune Chiese cattoliche. La teoria della “terza Roma” e il mito della Roma città eterna sopravvivono eccome. Vi è qui un grosso problema da risolvere una volta per tutte, almeno nella Chiesa Ortodossa: la Chiesa nazionale, la sua natura, il suo territorio, il suo governo; non basterebbe un sinodo intero per risolverlo. Un altro concetto, sia teologico sia pratico, è illustrare, in qualche modo descrivere e regolamentare, la cosiddetta sinodalità di cui tutti parlano. Tutti la annunciano come fosse la medicina per ogni male. Sarebbe un’ottima occasione per la Chiesa ortodossa di dare una buona lezione a tutti gli altri – cattolici, protestanti, chiese libere ecc. – ma pare che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare. Certo, si è creato il caso della non convergenza tra le Chiese sul da farsi. La questione è: ci si dati da fare per risolverlo o se si è approfittato per invitare chi di dovere – il primus inter pares – a non cercare di aumentare il proprio prestigio – si voglia o no, sarà in prima fila – e ricordargli che “ci siamo anche noi”? La sinodalità dovrà essere vissuta secondo forme paritarie. Il problema viene creato e alimentato per costringere il primus a interpellarli e risolverlo. In chiusura, avendo davanti gli occhi tanta violenza che serpeggia nel mondo, il nichilismo imperante, il dominio dell’economia, lo sfascio della famiglia, l’edonismo che avviliscono e annullano la persona umana, di che cosa ci occupiamo noi – cattolici, ortodossi, protestanti, Chiese libere – che ci onoriamo del nome cristiano? A chi assomigliamo: all’imperatore Costantino oppure al Nazareno pellegrino che ai suoi discepoli nomadi raccomandava «Chi vuole essere il primo sia il servo di tutti»?

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un giovane prete racconta la brutta avventura vissuta da bambino vittima di pedofilia

«smettiamola, smettetela di idolatrare il prete»

di un giovane prete

in “La Croix” del 7 giugno 2016

prete

‘La Croix’ pubblica la testimonianza esclusiva e anonima di un giovane religioso francese che invita i laici ad uscire da un “rapporto infantile” coi preti, che favorisce il clima di impunità nel quale certi hanno potuto commettere abusi

“Non sta succedendo, non lo sta facendo, non è possibile”. Questo urlava interiormente l’adolescente che ero quando il cappellano del mio liceo faceva ciò che anni di occultamento mi hanno a lungo impedito di nominare e di dire. “Non è possibile”. L’ho pensato talmente forte che ci ho creduto. Solo il corpo ha registrato il fatto, e lo spirito si è trovato umiliato quando il ricordo è tornato a galla, come uno choc. Avevo evidentemente ben introiettato quello schema secondo il quale quelle cose non possono succedere. Non da parte di un prete. Non da parte di colui che mi seguiva e che aveva la mia fiducia. Non in quell’istituto prestigioso dove lo incontravo tutti i giorni. Non durante la confessione. Non all’inizio del XXI secolo. “Non è possibile”. Grazie a quello che sta succedendo in questo periodo, quella negazione sembra svanire nelle diocesi: il vescovo che mi ha ricevuto recentemente non ha minimizzato i fatti e si assumerà, spero, le sue responsabilità rispetto a quel prete. Lo sguardo della nostra società si focalizza in questi ultimi tempi sulle vittime, il grido delle quali, soffocato, chiedeva da troppo tempo di essere ascoltato. “È successo”, per l’istituzione, scossa quando comincia ad ammettere, a bassa voce, che “è possibile”. Ma in questo quadro, manca il resto del gregge. “Non è possibile”. Battezzati, genitori, catechisti, laici impegnati o no, non lo abbiamo forse anche noi creduto impossibile? Non ci siamo messi anche noi dei paraocchi? Involontariamente, certo, semplicemente mantenendo in noi e attorno a noi, in particolare tra i giovani, un’immagine del prete che non è corretta. Rileggendo la mia storia, mi accorgo quanto io fossi, da adolescente, legato ad una rappresentazione del prete come sant’uomo, perché uomo di Dio: colui che quindi non può mai essere nell’errore, in nulla di ciò che dice o fa. Rappresentazione ereditata dal mio ambiente, certo, ma che mi sembra molto diffusa. Oggi sono prete: questo può stupire. Quello che ho passato non mi ha impedito di andare avanti, di discernere, anche se è stato proprio nel momento delle scelte decisive che il velo del diniego si è strappato: il mio aggressore era anche la persona che mi seguiva, che mi ha aiutato nel discernimento, e che in questo senso mi ha anche “fatto del bene”. Per me è stato complicato, ad un certo momento, districare, nel mio cuore, il mio risentimento contro di lui dai benefici che gli devo. Ma “Dio è più grande del mio cuore”, e non ho mai dubitato della realtà di una chiamata sentita molto prima, di un desiderio che è cresciuto e si è radicato indipendentemente da quei fatti, con cui non mi identifico anche se fanno parte della mia storia, e mi rendono attento a qualsiasi forma di influenza all’interno della Chiesa. A questo proposito, non è anodino che io abbia scelto la vita consacrata, che dà al presbiterato un quadro comunitario: sono fratello prima di essere padre e credo fermamente al “sacramento del fratello”, quello stare insieme nell’umanità in cammino verso Dio. Come “giovane prete”, scopro oggi le gioie del ministero. È l’occasione di veder cambiare, dalla mia ordinazione, lo sguardo che mi viene rivolto. In certi contesti si manifesta deferenza nei miei confronti, una sorta di rispetto legato al mio stato più che alla mia persona. E questo indica talvolta che ci si aspetta da me un ruolo lontano da quello per cui sono stato ordinato prete. Io non sono perfetto o santo perché prete, ma sono chiamato alla santità come tutti. Ed è proprio perché c’è una chiamata generale alla santità che abbiamo bisogno di preti. Smettiamola, smettetela di idolatrare il prete, come un essere fluttuante al di sopra dei mortali e staccato dalle molte vicissitudini dell’esistenza, come l’errore o il dubbio. Bisogna amare i preti,
non idolatrare in loro un’immagine. Il clericalismo che venera un’immagine del prete più che amare i preti non tocca solo gli ambienti classici, impregna profondamente le nostre mentalità. Aggiungerei quindi questo: l’ordinazione non fa di me il manager ideale, essere prete non mi rende indispensabile a tutte le riunioni parrocchiali, perché il sacerdozio non è qualcosa in virtù della quale avrei una scienza infusa che mi permetterebbe di prendere sempre la decisione giusta e di mettere tutti d’accordo. Questo è un rapporto infantile col prete, e credo che gli scandali che vengono a galla, con tutto il loro disagio, devono rimettere in discussione questo atteggiamento che non è giusto nei rapporti col clero. Dicendo questo, non intendo allontanare lo sguardo dalle colpe di governo dei vescovi, né invitare ad un sospetto generalizzato nei confronti dei preti, ma semplicemente sottolineare che una denuncia del “sistema” non sarebbe completa se coloro che non sono preti non si ponessero le stesse domande. Il problema del silenzio della Chiesa è innanzitutto quello del silenzio delle vittime e quel silenzio viene mantenuto, almeno passivamente, da quelle immagini che rimangono nella mente di tutti e che manteniamo inconsciamente. Deve cambiare qualcosa, collettivamente, perché i mea culpa venuti dall’alto non suonino come ammissioni di impotenza. Il dolore che il popolo di Dio sente ora che le vittime riescono a parlare ci mostra che è necessaria, e che è cominciata, una purificazione delle nostre rappresentazioni. Che ci siano delle pecore nere, o dei lupi nell’ovile, è una cosa. Che le nostre paure e i nostri accecamenti collettivi permettano loro di continuare a imperversare favorendo un clima di silenzio che soffoca il grido, è un’altra cosa. E su quest’ultimo punto, dobbiamo tutti lavorare, affinché si possa dire un giorno, davvero: “Non è possibile”.

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“seminatori di bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”

PAPA FRANCESCO AGLI ARTISTI CIRCENSI

“SIATE SEMINATORI DEL BENE E ARTIGIANI DEL BELLO”

circo

nell’aula Paolo VI Papa Francesco riceve in udienza 7 mila artisti di strada in occasione del Giubileo dello Spettacolo Viaggiante e Popolare

artisti

“Seminatori di bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”. E’ così che Papa Francesco si è rivolto questa mattina, in Aula Paolo VI, ai circa 7 mila, tra circensi, fieranti, burattinai, bande musicali, giocolieri e madonnari, partecipanti al Giubileo del mondo dello spettacolo viaggiante e popolare. Prima dell’udienza un intrattenimento artistico ha animato l’attesa del Santo Padre. “Artigiani della festa, della meraviglia, del bello”. Bergoglio definisce in questa maniera i partecipanti al Giubileo dello Spettacolo viaggiante. Circensi, fieranti, giostrai, lunaparkisti, artisti di strada, madonnari, componenti di bande musicali e animali, tra cui una tigre accarezzata dal Papa, hanno colorato e riempito di suoni ed allegria la Sala Nervi.

Con loro ride e scherza: “Potete anche spaventare il Papa, nell’accarezzare quella tigre… Ma siete potenti! E voi non potere immaginare il bene che voi fate: un bene che si semina. E grazie di questo. Grazie!”. Le vostre esibizioni, è stata la riflessione del Santo Padre, sono capaci di “arricchire la società di tutto il mondo, e alimentare sentimenti di speranza e fiducia, elevare l’animo, mostrare l’audacia di esercizi particolarmente impegnativi, affascinare con la meraviglia del bello e proporre occasioni di sano divertimento. “La festa e la letizia sono segni distintivi della vostra identità. Voi avete una speciale risorsa: con i vostri continui spostamenti, potete portare a tutti l’amore di Dio, il suo abbraccio e la sua misericordia. Potete essere comunità cristiana itinerante, testimoni di Cristo che è sempre in cammino per incontrare anche i più lontani”.

In particolare Francesco, salutato dal card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, ha espresso apprezzamento per l’iniziativa di alcuni circhi e complesso fieranti che in questo anno giubilare hanno aperto le porte agli ultimi in continuità con l’impegno dei tanti artisti che si recano con la loro arte nelle zone colpite da guerre, calamità naturali e violenza: “Mi congratulo con voi perché, in questo Anno Santo, avete aperto i vostri spettacoli ai più bisognosi, ai poveri e ai senza tetto, ai carcerati, ai ragazzi disagiati. Anche questa è misericordia: seminare bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”.

Una delle forme più antiche di intrattenimento, alla portata di tutti, veicolo della cultura dell’incontro e della socialità nel divertimento, lo spettacolo viaggiante e popolare – è stato l’auspicio del Papa – sia sempre accogliente verso piccoli e bisognosi. La Chiesa è con voi, ha assicurato Francesco constatando la difficoltà per gli artisti itineranti di conciliare i ritmi di vita e di lavoro: “Perciò vi invito ad avere cura della vostra fede. Cogliete ogni occasione per accostarvi ai Sacramenti. Trasmettete ai vostri figli l’amore per Dio e per il prossimo. Come sapete, la Chiesa si preoccupa dei problemi che accompagnano la vostra vita itinerante, e vuole aiutarvi ad eliminare i pregiudizi che a volte vi tengono un po’ ai margini”. Al termine dell’udienza, gli artisti hanno varcato la Porta Santa della basilica vaticana. Nel pomeriggio, spettacolo in piazza San Pietro.

 
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l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi»

cercando in ogni giorno l’incanto del Regno

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire”

Angelo Casati, L’alfabeto di Dio, Il Saggiatore

Casati

Max Weber, il padre della sociologia, definiva la modernità come l’epoca del «disincantamento del mondo», in cui la scienza aveva esautorato dalla natura il magico, lo spirituale, il sacro. Eppure, adesso più che mai, l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi». Perché «se ti incanti davanti a un volto non ti accadrà di sfigurarlo; se ti incanti davanti a un’anima, non ti accadrà di occuparla; se ti incanti davanti a una terra, non ti accadrà di sfruttarla».

L’autore di queste parole, Angelo Casati, è un esperto sul tema. Nei suoi oltre sessant’anni di ministero sacerdotale, si è esercitato nell’arte di incantarsi, accogliendo il suggerimento di Isacco di Ninive. Don Casati si incanta di fronte ai visi degli uomini e delle donne, ai fiori che si ostinano a spuntare sui marciapiedi della ‘sua’ Milano, al mattino, al vento, ai bambini, ai vecchi. In una parola, alla vita. Quella che comincia ogni giorno «quando sgusci dalle coperte e termina quando vi rientri la notte». Perché lì, nella carne, nella storia «bistrattata» degli umani, Dio scrive, col suo alfabeto, il sogno del Regno.

Il recente libro di don Casati, L’alfabeto di Dio è un elogio dei piccoli, degli ordinari, degli esclusi: i preferiti di Gesù, secondo il Vangelo

Casati

Il saggio si ‘srotola’ come un piccolo dizionario di suggestioni e riflessioni bibliche, intorno ad alcune parole-chiave. E a soffermarsi sull’elenco dei 38 termini scelti, s’intravede, in controluce, il filo rosso che li unisce. È la ricerca estenuante e gioiosa del volto di Dio nel mondo. Pur sapendo che, scrive don Angelo, nessuno sguardo né parola umana, pur gloriosa, può contenere «l’incandescenza della sua luce o della luce della verità». Per questo, da poeta qual è, l’autore preferisce «scrutare il cielo e la terra a tutto campo», non intristito «dall’arroganza del possesso della verità», per «sorprenderne i segni», «innamorarsi delle tracce». Solo così, il sacerdote può davvero entrare nella casa dell’altro. A cui non si accede sfondando la porta bensì come fa Dio «bussando al silenzio e alla libertà». Questa è la mitezza evangelica. Non debolezza di fronte al male. «Proprio perché la mitezza nasce dalla carezza del volto dell’altro, dalla sua difesa, nei veri miti, e si pensi a Gesù, trovi questa mescola sorprendente di mitezza e di fortezza». Certo, non è facile familiarizzare con l’alfabeto di Dio sparso nei granelli di sabbia dei nostri giorni e delle nostre notti. Ci vuole un’esistenza intera e nemmeno questa basta. Come scolaretti, però, non possiamo sottrarci al fascino di provare a catturare qualche lettera, fosse anche uno scarabocchio. Magari gli occhi si sono fatti opachi, per la «cataratta dello spirito» «incapaci di sorprendere il mistero che abita le cose». Allora non resta che fermarsi, «indugiare alla soglia delle cose». Se la fretta ci fa predatori e l’effimero ci imprigiona nel qui e ora, l’antidoto alla disumanizzazione in questo tempo del consumo vorace e spietato è, ancora una volta, l’incanto.

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il commento di A. Maggi al vangelo della domenica

TU SEI IL CRISTO DI DIO. IL FIGLIO DELL’UOMO DEVE SOFFRIRE MOLTO

  commento al vangelo della domenica dodicesima del tempo ordinario (19 giugno 2016) di p. Alberto Maggi

Maggi

Lc 9,18-24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

L’inizio di questo brano di vangelo è:  Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Ma in realtà Luca non scrive così. Questo è un tentativo di armonizzare una apparente incongruenza che c’è in questo brano. Allora leggiamo dal testo originale greco cosa ci scrive l’evangelista. Anzitutto Gesù non viene nominato, e l’espressione “Un giorno” è assente.
Inizia dicendo che Si trovava (Gesù), da solo a pregare. Non in un luogo solitario, Gesù prega da solo. Perché allora le traduzioni riportano Si trovava in un luogo solitario? Perché poi l’evangelista scrive: I discepoli erano con lui. Quindi non può pregare da solo se i discepoli erano con lui. Ma in realtà l’evangelista vuole indicare, come ha già fatto altre volte, che i discepoli stanno accompagnando Gesù ma non lo seguono.
Quindi Gesù è nella solitudine. E’ solo. I discepoli, pur stando con lui, non gli sono solidali. Ebbene Gesù pose loro questa domanda: “Le folle …”, le folle alle quali Gesù aveva mandato i discepoli per annunziare la novità della notizia del Regno di Dio, “chi dicono che io sia?”. E’ una sorta di esame che Gesù fa per vedere se l’effetto della predicazione dei discepoli è andato a buon fine. Il risultato fa cadere le braccia, è un fallimento.
Essi risposero: “Giovanni il Battista”. Perché Giovanni il Battista? Giovanni Battista era già stato assassinato da Erode, ma si credeva che i martiri sarebbero risuscitati prontamente. “Altri dicono Elìa”. Elìa era il profeta bellicoso che, attraverso la violenza, faceva osservare la legge divina, “Altri uno degli antichi profeti che è risorto”.  Sono tutti personaggi che riguardano il passato. Nessuno ha compreso chi è Gesù, il nuovo che Dio esprime con la sua figura.
Questa confusione è dovuta alla confusione che i discepoli hanno nella loro testa. Accompagnano Gesù ma ancora non  hanno capito chi è e soprattutto qual è la sua missione e il suo destino.
Allora domandò loro (tornando alla carica): “Ma voi”, – rivolgendosi a tutto il gruppo – “chi dite che io sia?». Come fa spesso risponde Pietro a nome di tutti, pretendendo di essere il leader, il capo del gruppo. Pietro rispose: “Il Cristo di Dio”. Non è una buona risposta, tant’è vero che vedremo che Gesù non solo li sgrida, ma l’evangelista usa il termine, il verbo, che si adopera per gli indemoniati.
Perché non è una buona risposta? Il Cristo di Dio, cioè il messia di Dio, con l’articolo determinativo, indica quello che è atteso dalla tradizione, cioè il messia vendicatore, il messia liberatore, il messia che avrebbe conquistato il potere e scacciato i romani.
Sono le stesse espressioni che useranno gli avversari di Gesù quando sarà sulla croce, quando gli diranno “Salvi se stesso se è il Cristo”, cioè quest’uomo così potente come può finire in croce? Che la risposta sia sbagliata si vede dalla reazione di Gesù.
Egli ordinò loro severamente, letteralmente sgridò, ed è il verbo che si adopera per cacciare i demoni, quindi la risposta di Pietro non solo non è esatta, non solo non viene da Dio, ma è una risposta demoniaca perché insegue questi sogni di potere.  Di non riferirlo a nessuno, perché la risposta non è esatta. Se Pietro ha definito Gesù il Cristo, Gesù ora si riferisce a se stesso come Il Figlio dell’uomo. Nei vangeli Gesù parla di sé come il Figlio di Dio. Figlio di Dio è Dio nella condizione umana e il Figlio dell’uomo è l’uomo nella condizione divina.
Qui presenta se stesso come l’uomo che ha la pienezza della condizione divina. E’ questo l’oggetto dell’odio mortale dell’istituzione religiosa, che può dominare gli uomini, li può sottomettere fintanto che rimangono in una condizione infantile, ma quando l’uomo raggiunge la pienezza della condizione divina – e questa non è una prerogativa esclusiva di Gesù, ma una possibilità per tutti i suoi discepoli – è l’allarme dell’istituzione. Infatti, Gesù afferma:  “Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato …” E qui di seguito Gesù indica il Sinedrio, il massimo organo giuridico di Israele.
“Dagli anziani” (i senatori), “dai capi dei sacerdoti”, (che sarebbero i sommi sacerdoti), “e dagli scribi”, (i teologi), “venire ucciso…” L’istituzione, quella che credeva di essere la rappresentante di Dio, quando Dio manifesta se stesso in Gesù, non solo non lo riconosce, ma addirittura ne chiede l’eliminazione, l’uccisione. 
“E risorgere il terzo giorno”, il terzo giorno significa in maniera definitiva, in maniera completa. Poi Gesù a questi discepoli che ancora non hanno capito e come abbiamo detto all’inizio lo accompagnano ma non lo seguono…. Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me…”, Gesù aveva invitato questi discepoli ad andargli dietro, “rinneghi se stesso”.
Cosa significa rinnegare se stesso? Passare per un rinnegato. A quei valori della società: Dio, Patria e Famiglia, a cui Gesù chiede di rinunciare e mettere al posto di Dio il Padre, al posto della Patria il Regno di Dio e al posto della famiglia la comunità, e quindi passare e quindi passare per un rinnegato da parte della società. 
“Prenda la sua croce”. Qui l’evangelista adopera il verbo “sollevare”. Era il momento in cui il condannato doveva sollevare da terra il patibolo, cioè l’asse orizzontale della croce, caricarselo sulle spalle, e poi, condotto da boia fuori della città dove c’era l’asse verticale, quello sempre conficcato, e lì essere crocifisso, con questa tortura terribile.
Gesù non si rifà alla morte della croce, ma al momento tremendo del massimo disprezzo, della massima solitudine, perché era un dovere per i parenti, per gli amici, insultare e malmenare il condannato a questa tortura terribile. Allora Gesù dice: “Se volete venirmi dietro rinunciate ad ogni forma di ambizione e di successo, accettate di perdere completamente la reputazione, di essere completamente soli”.
“Ogni giorno”, quindi accettare quotidianamente questo rifiuto da parte della società, specialmente da parte dell’istituzione religiosa che si vede minacciata da queste persone che raggiungono, grazie alla sequela di Gesù, la condizione divina.
“E mi segua”. Quindi è la condizione che Gesù mette. Va sottolineato che la croce nei vangeli mai fa riferimento ai dolori, alle malattie, alle sofferenze che si incontrano nella vita. Dio non manda le croci, ma la croce viene presa dall’uomo come scelta libera per seguire Gesù. E per seguire Gesù bisogna essere pienamente liberi.
E chi tiene alla propria reputazione, chi tiene al proprio nome, chi tiene alla carriera, non è una persona libera e non può seguire Gesù. E Gesù conclude: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”. Quindi Gesù conclude affermando che chi vive per se stesso distrugge la propria esistenza, chi vive per gli altri è quello che la realizza in pienezza.

 

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i poveri che disturbano e danno fastidio

 

“tanti emarginati, profughi, e noi proviamo fastidio”

il vangelo letto da papa Francesco

papa2

di Iacopo Scaramuzzi
in “La Stampa-Vatican Insider”

«Quante volte quando vediamo tanta gente nella strada, gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare, sentiamo fastidio, quante volte noi quando ci troviamo davanti i tanti profughi e rifugiati sentiamo fastidio…»

All’udienza generale in piazza San Pietro Papa Francesco ha raccontato l’episodio evangelico di Gesù che guarisce un cieco nella città di Gerico sottolineando che «l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi» e affermando: «Tutti siamo mendicanti, tutti abbiamo bisogno di salvezza, e tutti da mendicanti possiamo diventare discepoli».

L’evangelista Luca, ha detto Francesco, scrive che «quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare. Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata nei suoi pensieri … e in tante altre cose; e la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa … ma lui è lì solo. E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa».

poveri assoluti
«Mentre il cieco grida, aveva una buona voce, invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida», ha proseguito il Papa. «Quante volte noi quando vediamo tanta gente nella strada, gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – ha proseguito il Papa a braccio – sentiamo fastidio… quante volte noi quando ci troviamo davanti i tanti profughi e rifugiati sentiamo fastidio: è una tentazione, tutti noi abbiamo questo, eh, tutti, anche io, e per questo la parola di Dio ci insegna: l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indiferenza e ostilità: e quando questa indifferenza e ostilità diventa aggressione, e anche insulto, “ma cacciateli via tutti questi, metteteli in un’altra parte” questa aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava “ma tu vai via, non parlare non gridare”».
L’evangelista, ha proseguito il Papa, «dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: “Passa Gesù, il Nazareno!”», è «il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione. Quando passa Gesù sempre c’è liberazione, salvezza. Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua» e «a differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, “Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui”. Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche a noi, quando siamo stati in situazioni difficili o brutte, anche situazioni di peccato, come è stato proprio Gesù a prenderci per mano e toglierci dal margine della strada».migranti
La gente, ha spiegato il Papa, «aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso». Inoltre, «il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, il passaggio del Signore è un incontro di misericordia – ha detto il Papa che sta svolgendo, durante il Giubileo, un ciclo di catechesi sul tema dell’anno santo, la misericordia appunto – che tutti unisce intorno a lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di

povertà
aiuto e di consolazione». Il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio»: «Si fa discepolo, da mendicante a discepolo», ha detto il Papa: «Tutti siamo mendicanti, tutti abbiamo bisogno di salvezza, e tutti i giorni dobbiamo fare questo passo, da mendicanti a discepoli», «colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e “tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio”. Il secondo miracolo, ha concluso Francesco, è che «ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li attira a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso».
Prima dell’udienza in piazza San Pietro, il Papa ha ricevuto il Primo Ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, che si è successivamente incontrato con il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, accompagnato da monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati. «Durante i cordiali colloqui – informa la sala stampa vaticana – sono state rilevate le buone relazioni bilaterali tra i Paesi Bassi e la Santa Sede. Ci si è poi soffermati su questioni di comune interesse, quali il fenomeno delle migrazioni, e sono state passate in rassegna alcune problematiche di carattere internazionale».

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