“seminatori di bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”

PAPA FRANCESCO AGLI ARTISTI CIRCENSI

“SIATE SEMINATORI DEL BENE E ARTIGIANI DEL BELLO”

circo

nell’aula Paolo VI Papa Francesco riceve in udienza 7 mila artisti di strada in occasione del Giubileo dello Spettacolo Viaggiante e Popolare

artisti

“Seminatori di bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”. E’ così che Papa Francesco si è rivolto questa mattina, in Aula Paolo VI, ai circa 7 mila, tra circensi, fieranti, burattinai, bande musicali, giocolieri e madonnari, partecipanti al Giubileo del mondo dello spettacolo viaggiante e popolare. Prima dell’udienza un intrattenimento artistico ha animato l’attesa del Santo Padre. “Artigiani della festa, della meraviglia, del bello”. Bergoglio definisce in questa maniera i partecipanti al Giubileo dello Spettacolo viaggiante. Circensi, fieranti, giostrai, lunaparkisti, artisti di strada, madonnari, componenti di bande musicali e animali, tra cui una tigre accarezzata dal Papa, hanno colorato e riempito di suoni ed allegria la Sala Nervi.

Con loro ride e scherza: “Potete anche spaventare il Papa, nell’accarezzare quella tigre… Ma siete potenti! E voi non potere immaginare il bene che voi fate: un bene che si semina. E grazie di questo. Grazie!”. Le vostre esibizioni, è stata la riflessione del Santo Padre, sono capaci di “arricchire la società di tutto il mondo, e alimentare sentimenti di speranza e fiducia, elevare l’animo, mostrare l’audacia di esercizi particolarmente impegnativi, affascinare con la meraviglia del bello e proporre occasioni di sano divertimento. “La festa e la letizia sono segni distintivi della vostra identità. Voi avete una speciale risorsa: con i vostri continui spostamenti, potete portare a tutti l’amore di Dio, il suo abbraccio e la sua misericordia. Potete essere comunità cristiana itinerante, testimoni di Cristo che è sempre in cammino per incontrare anche i più lontani”.

In particolare Francesco, salutato dal card. Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, ha espresso apprezzamento per l’iniziativa di alcuni circhi e complesso fieranti che in questo anno giubilare hanno aperto le porte agli ultimi in continuità con l’impegno dei tanti artisti che si recano con la loro arte nelle zone colpite da guerre, calamità naturali e violenza: “Mi congratulo con voi perché, in questo Anno Santo, avete aperto i vostri spettacoli ai più bisognosi, ai poveri e ai senza tetto, ai carcerati, ai ragazzi disagiati. Anche questa è misericordia: seminare bellezza e allegria in un mondo a volte cupo e triste”.

Una delle forme più antiche di intrattenimento, alla portata di tutti, veicolo della cultura dell’incontro e della socialità nel divertimento, lo spettacolo viaggiante e popolare – è stato l’auspicio del Papa – sia sempre accogliente verso piccoli e bisognosi. La Chiesa è con voi, ha assicurato Francesco constatando la difficoltà per gli artisti itineranti di conciliare i ritmi di vita e di lavoro: “Perciò vi invito ad avere cura della vostra fede. Cogliete ogni occasione per accostarvi ai Sacramenti. Trasmettete ai vostri figli l’amore per Dio e per il prossimo. Come sapete, la Chiesa si preoccupa dei problemi che accompagnano la vostra vita itinerante, e vuole aiutarvi ad eliminare i pregiudizi che a volte vi tengono un po’ ai margini”. Al termine dell’udienza, gli artisti hanno varcato la Porta Santa della basilica vaticana. Nel pomeriggio, spettacolo in piazza San Pietro.

 
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l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi»

cercando in ogni giorno l’incanto del Regno

di Lucia Capuzzi
in “Avvenire”

Angelo Casati, L’alfabeto di Dio, Il Saggiatore

Casati

Max Weber, il padre della sociologia, definiva la modernità come l’epoca del «disincantamento del mondo», in cui la scienza aveva esautorato dalla natura il magico, lo spirituale, il sacro. Eppure, adesso più che mai, l’incanto è indispensabile per «costruire un mondo diverso che deve prima abitare negli occhi». Perché «se ti incanti davanti a un volto non ti accadrà di sfigurarlo; se ti incanti davanti a un’anima, non ti accadrà di occuparla; se ti incanti davanti a una terra, non ti accadrà di sfruttarla».

L’autore di queste parole, Angelo Casati, è un esperto sul tema. Nei suoi oltre sessant’anni di ministero sacerdotale, si è esercitato nell’arte di incantarsi, accogliendo il suggerimento di Isacco di Ninive. Don Casati si incanta di fronte ai visi degli uomini e delle donne, ai fiori che si ostinano a spuntare sui marciapiedi della ‘sua’ Milano, al mattino, al vento, ai bambini, ai vecchi. In una parola, alla vita. Quella che comincia ogni giorno «quando sgusci dalle coperte e termina quando vi rientri la notte». Perché lì, nella carne, nella storia «bistrattata» degli umani, Dio scrive, col suo alfabeto, il sogno del Regno.

Il recente libro di don Casati, L’alfabeto di Dio è un elogio dei piccoli, degli ordinari, degli esclusi: i preferiti di Gesù, secondo il Vangelo

Casati

Il saggio si ‘srotola’ come un piccolo dizionario di suggestioni e riflessioni bibliche, intorno ad alcune parole-chiave. E a soffermarsi sull’elenco dei 38 termini scelti, s’intravede, in controluce, il filo rosso che li unisce. È la ricerca estenuante e gioiosa del volto di Dio nel mondo. Pur sapendo che, scrive don Angelo, nessuno sguardo né parola umana, pur gloriosa, può contenere «l’incandescenza della sua luce o della luce della verità». Per questo, da poeta qual è, l’autore preferisce «scrutare il cielo e la terra a tutto campo», non intristito «dall’arroganza del possesso della verità», per «sorprenderne i segni», «innamorarsi delle tracce». Solo così, il sacerdote può davvero entrare nella casa dell’altro. A cui non si accede sfondando la porta bensì come fa Dio «bussando al silenzio e alla libertà». Questa è la mitezza evangelica. Non debolezza di fronte al male. «Proprio perché la mitezza nasce dalla carezza del volto dell’altro, dalla sua difesa, nei veri miti, e si pensi a Gesù, trovi questa mescola sorprendente di mitezza e di fortezza». Certo, non è facile familiarizzare con l’alfabeto di Dio sparso nei granelli di sabbia dei nostri giorni e delle nostre notti. Ci vuole un’esistenza intera e nemmeno questa basta. Come scolaretti, però, non possiamo sottrarci al fascino di provare a catturare qualche lettera, fosse anche uno scarabocchio. Magari gli occhi si sono fatti opachi, per la «cataratta dello spirito» «incapaci di sorprendere il mistero che abita le cose». Allora non resta che fermarsi, «indugiare alla soglia delle cose». Se la fretta ci fa predatori e l’effimero ci imprigiona nel qui e ora, l’antidoto alla disumanizzazione in questo tempo del consumo vorace e spietato è, ancora una volta, l’incanto.

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il commento di A. Maggi al vangelo della domenica

TU SEI IL CRISTO DI DIO. IL FIGLIO DELL’UOMO DEVE SOFFRIRE MOLTO

  commento al vangelo della domenica dodicesima del tempo ordinario (19 giugno 2016) di p. Alberto Maggi

Maggi

Lc 9,18-24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto».
Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno».
Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

L’inizio di questo brano di vangelo è:  Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. Ma in realtà Luca non scrive così. Questo è un tentativo di armonizzare una apparente incongruenza che c’è in questo brano. Allora leggiamo dal testo originale greco cosa ci scrive l’evangelista. Anzitutto Gesù non viene nominato, e l’espressione “Un giorno” è assente.
Inizia dicendo che Si trovava (Gesù), da solo a pregare. Non in un luogo solitario, Gesù prega da solo. Perché allora le traduzioni riportano Si trovava in un luogo solitario? Perché poi l’evangelista scrive: I discepoli erano con lui. Quindi non può pregare da solo se i discepoli erano con lui. Ma in realtà l’evangelista vuole indicare, come ha già fatto altre volte, che i discepoli stanno accompagnando Gesù ma non lo seguono.
Quindi Gesù è nella solitudine. E’ solo. I discepoli, pur stando con lui, non gli sono solidali. Ebbene Gesù pose loro questa domanda: “Le folle …”, le folle alle quali Gesù aveva mandato i discepoli per annunziare la novità della notizia del Regno di Dio, “chi dicono che io sia?”. E’ una sorta di esame che Gesù fa per vedere se l’effetto della predicazione dei discepoli è andato a buon fine. Il risultato fa cadere le braccia, è un fallimento.
Essi risposero: “Giovanni il Battista”. Perché Giovanni il Battista? Giovanni Battista era già stato assassinato da Erode, ma si credeva che i martiri sarebbero risuscitati prontamente. “Altri dicono Elìa”. Elìa era il profeta bellicoso che, attraverso la violenza, faceva osservare la legge divina, “Altri uno degli antichi profeti che è risorto”.  Sono tutti personaggi che riguardano il passato. Nessuno ha compreso chi è Gesù, il nuovo che Dio esprime con la sua figura.
Questa confusione è dovuta alla confusione che i discepoli hanno nella loro testa. Accompagnano Gesù ma ancora non  hanno capito chi è e soprattutto qual è la sua missione e il suo destino.
Allora domandò loro (tornando alla carica): “Ma voi”, – rivolgendosi a tutto il gruppo – “chi dite che io sia?». Come fa spesso risponde Pietro a nome di tutti, pretendendo di essere il leader, il capo del gruppo. Pietro rispose: “Il Cristo di Dio”. Non è una buona risposta, tant’è vero che vedremo che Gesù non solo li sgrida, ma l’evangelista usa il termine, il verbo, che si adopera per gli indemoniati.
Perché non è una buona risposta? Il Cristo di Dio, cioè il messia di Dio, con l’articolo determinativo, indica quello che è atteso dalla tradizione, cioè il messia vendicatore, il messia liberatore, il messia che avrebbe conquistato il potere e scacciato i romani.
Sono le stesse espressioni che useranno gli avversari di Gesù quando sarà sulla croce, quando gli diranno “Salvi se stesso se è il Cristo”, cioè quest’uomo così potente come può finire in croce? Che la risposta sia sbagliata si vede dalla reazione di Gesù.
Egli ordinò loro severamente, letteralmente sgridò, ed è il verbo che si adopera per cacciare i demoni, quindi la risposta di Pietro non solo non è esatta, non solo non viene da Dio, ma è una risposta demoniaca perché insegue questi sogni di potere.  Di non riferirlo a nessuno, perché la risposta non è esatta. Se Pietro ha definito Gesù il Cristo, Gesù ora si riferisce a se stesso come Il Figlio dell’uomo. Nei vangeli Gesù parla di sé come il Figlio di Dio. Figlio di Dio è Dio nella condizione umana e il Figlio dell’uomo è l’uomo nella condizione divina.
Qui presenta se stesso come l’uomo che ha la pienezza della condizione divina. E’ questo l’oggetto dell’odio mortale dell’istituzione religiosa, che può dominare gli uomini, li può sottomettere fintanto che rimangono in una condizione infantile, ma quando l’uomo raggiunge la pienezza della condizione divina – e questa non è una prerogativa esclusiva di Gesù, ma una possibilità per tutti i suoi discepoli – è l’allarme dell’istituzione. Infatti, Gesù afferma:  “Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato …” E qui di seguito Gesù indica il Sinedrio, il massimo organo giuridico di Israele.
“Dagli anziani” (i senatori), “dai capi dei sacerdoti”, (che sarebbero i sommi sacerdoti), “e dagli scribi”, (i teologi), “venire ucciso…” L’istituzione, quella che credeva di essere la rappresentante di Dio, quando Dio manifesta se stesso in Gesù, non solo non lo riconosce, ma addirittura ne chiede l’eliminazione, l’uccisione. 
“E risorgere il terzo giorno”, il terzo giorno significa in maniera definitiva, in maniera completa. Poi Gesù a questi discepoli che ancora non hanno capito e come abbiamo detto all’inizio lo accompagnano ma non lo seguono…. Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me…”, Gesù aveva invitato questi discepoli ad andargli dietro, “rinneghi se stesso”.
Cosa significa rinnegare se stesso? Passare per un rinnegato. A quei valori della società: Dio, Patria e Famiglia, a cui Gesù chiede di rinunciare e mettere al posto di Dio il Padre, al posto della Patria il Regno di Dio e al posto della famiglia la comunità, e quindi passare e quindi passare per un rinnegato da parte della società. 
“Prenda la sua croce”. Qui l’evangelista adopera il verbo “sollevare”. Era il momento in cui il condannato doveva sollevare da terra il patibolo, cioè l’asse orizzontale della croce, caricarselo sulle spalle, e poi, condotto da boia fuori della città dove c’era l’asse verticale, quello sempre conficcato, e lì essere crocifisso, con questa tortura terribile.
Gesù non si rifà alla morte della croce, ma al momento tremendo del massimo disprezzo, della massima solitudine, perché era un dovere per i parenti, per gli amici, insultare e malmenare il condannato a questa tortura terribile. Allora Gesù dice: “Se volete venirmi dietro rinunciate ad ogni forma di ambizione e di successo, accettate di perdere completamente la reputazione, di essere completamente soli”.
“Ogni giorno”, quindi accettare quotidianamente questo rifiuto da parte della società, specialmente da parte dell’istituzione religiosa che si vede minacciata da queste persone che raggiungono, grazie alla sequela di Gesù, la condizione divina.
“E mi segua”. Quindi è la condizione che Gesù mette. Va sottolineato che la croce nei vangeli mai fa riferimento ai dolori, alle malattie, alle sofferenze che si incontrano nella vita. Dio non manda le croci, ma la croce viene presa dall’uomo come scelta libera per seguire Gesù. E per seguire Gesù bisogna essere pienamente liberi.
E chi tiene alla propria reputazione, chi tiene al proprio nome, chi tiene alla carriera, non è una persona libera e non può seguire Gesù. E Gesù conclude: “Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà”. Quindi Gesù conclude affermando che chi vive per se stesso distrugge la propria esistenza, chi vive per gli altri è quello che la realizza in pienezza.

 

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i poveri che disturbano e danno fastidio

 

“tanti emarginati, profughi, e noi proviamo fastidio”

il vangelo letto da papa Francesco

papa2

di Iacopo Scaramuzzi
in “La Stampa-Vatican Insider”

«Quante volte quando vediamo tanta gente nella strada, gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare, sentiamo fastidio, quante volte noi quando ci troviamo davanti i tanti profughi e rifugiati sentiamo fastidio…»

All’udienza generale in piazza San Pietro Papa Francesco ha raccontato l’episodio evangelico di Gesù che guarisce un cieco nella città di Gerico sottolineando che «l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi» e affermando: «Tutti siamo mendicanti, tutti abbiamo bisogno di salvezza, e tutti da mendicanti possiamo diventare discepoli».

L’evangelista Luca, ha detto Francesco, scrive che «quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare. Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata nei suoi pensieri … e in tante altre cose; e la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine. Tanta folla che passa … ma lui è lì solo. E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa».

poveri assoluti
«Mentre il cieco grida, aveva una buona voce, invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida», ha proseguito il Papa. «Quante volte noi quando vediamo tanta gente nella strada, gente bisognosa, ammalata, che non ha da mangiare – ha proseguito il Papa a braccio – sentiamo fastidio… quante volte noi quando ci troviamo davanti i tanti profughi e rifugiati sentiamo fastidio: è una tentazione, tutti noi abbiamo questo, eh, tutti, anche io, e per questo la parola di Dio ci insegna: l’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore. Indiferenza e ostilità: e quando questa indifferenza e ostilità diventa aggressione, e anche insulto, “ma cacciateli via tutti questi, metteteli in un’altra parte” questa aggressione è quello che faceva la gente quando il cieco gridava “ma tu vai via, non parlare non gridare”».
L’evangelista, ha proseguito il Papa, «dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: “Passa Gesù, il Nazareno!”», è «il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione. Quando passa Gesù sempre c’è liberazione, salvezza. Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua» e «a differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, “Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui”. Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Pensiamo anche a noi, quando siamo stati in situazioni difficili o brutte, anche situazioni di peccato, come è stato proprio Gesù a prenderci per mano e toglierci dal margine della strada».migranti
La gente, ha spiegato il Papa, «aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso». Inoltre, «il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Fratelli e sorelle, il passaggio del Signore è un incontro di misericordia – ha detto il Papa che sta svolgendo, durante il Giubileo, un ciclo di catechesi sul tema dell’anno santo, la misericordia appunto – che tutti unisce intorno a lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di

povertà
aiuto e di consolazione». Il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio»: «Si fa discepolo, da mendicante a discepolo», ha detto il Papa: «Tutti siamo mendicanti, tutti abbiamo bisogno di salvezza, e tutti i giorni dobbiamo fare questo passo, da mendicanti a discepoli», «colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e “tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio”. Il secondo miracolo, ha concluso Francesco, è che «ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li attira a sé, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso».
Prima dell’udienza in piazza San Pietro, il Papa ha ricevuto il Primo Ministro dei Paesi Bassi, Mark Rutte, che si è successivamente incontrato con il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, accompagnato da monsignor Paul Richard Gallagher, Segretario per i Rapporti con gli Stati. «Durante i cordiali colloqui – informa la sala stampa vaticana – sono state rilevate le buone relazioni bilaterali tra i Paesi Bassi e la Santa Sede. Ci si è poi soffermati su questioni di comune interesse, quali il fenomeno delle migrazioni, e sono state passate in rassegna alcune problematiche di carattere internazionale».

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il commento al vangelo della domenica

quando è il Signore che ci interroga

il commento di E. Ronchi al vangelo della dodicesima domenice del tempo ordinario (19 giugno 2016)

 

Ronchi1

Luca 9, 18- 24

Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: «Le folle, chi dicono che io sia?». Essi risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa; altri uno degli antichi profeti che è risorto ». Allora domandò loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro rispose: «Il Cristo di Dio». Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. «Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno». Poi, a tutti, diceva: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà».

«Ma voi, chi dite che io sia? ». Non interrogare più, ma lasciarsi interrogare. Non mettere più in questione il Signore, ma lasciarsi mettere in questione da lui. Amare domande che fanno vivere la fede. Gesù usa la pedagogia delle domande per far crescere i suoi amici: sono come scintille che accendono, mettono in moto trasformazioni e crescite.

Gesù era un Maestro dell’esistenza, e voleva i suoi pensatori e poeti della vita. Per questo, Maestro del cuore, lui non indottrina, non impartisce lezioni, non suggerisce risposte, ma conduce con delicatezza a cercare dentro di te: «Nella vita, più che le risposte, contano le domande, perché le risposte ci appagano e ci fanno stare fermi, le domande invece ci obbligano a guardare avanti e ci fanno camminare » (Pier Luigi Ricci).

vangelo

All’inizio Gesù interroga i suoi, quasi per un sondaggio d’opinione: « Le folle, chi dicono che io sia? ». E l’opinione della gente

è bella e incompleta: « Dicono che sei un profeta », una creatura di fuoco e di luce, come Elia o il Battista; bocca di Dio e bocca dei poveri. Allora Gesù cambia domanda, la fa esplicita, diretta: « Ma voi, chi dite che io sia? ». Ma voi… Prima di tutto c’è un ma, una avversativa, quasi in opposizione a ciò che dice la gente. Non accontentatevi di una fede per sentito dire.

Ma voi, voi con le barche abbandonate sulla riva del lago, voi che siete con me da tre anni, voi miei amici, che ho scelto a uno a uno: chi sono io per voi? E lo chiede lì, dentro il grembo caldo dell’amicizia, sotto la cupola d’oro della preghiera.

È il cuore pulsante della fede:

chi sono io per te? Non cerca parole, Gesù, cerca persone; non definizioni ma coinvolgimenti: che cosa ti è successo, quando mi hai incontrato? La sua assomiglia alle domande che si fanno gli innamorati: quanto posto ho nella tua vita, quanto conto, chi sono per te? E l’altro risponde: tu sei la mia vita, sei la mia donna, il mio uomo, il mio amore.

Gesù non ha bisogno dell’opinione dei suoi apostoli per sapere se è più bravo dei profeti di ieri, ma per accertarsi che Pietro e gli altri siano degli innamorati che hanno aperto il cuore. Gesù è vivo solo se è vivo dentro di noi. Il nostro cuore può essere la culla o la tomba di Dio.

Cristo non è ciò che dico di lui, ma ciò che vivo di lui. Non domanda le mie parole, ma cerca ciò che di lui arde in me. « La verità è ciò che arde » (Christian Bobin). Mani e parole che ardono, come quelle di Pietro che risponde con la sua irruenza e decisione: « Tu sei il Cristo di Dio », il messia di Dio, il suo braccio, il suo progetto, la sua bocca, il suo cuore. Tu porti Dio fra noi: quando ti fermi e tocchi una creatura nelle tue mani è Dio che accarezza il mondo.

( Letture: Zaccaria 12,1011; 13,1; Salmo 62; Galati 3,2629; Luca 9, 18- 24).

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