il migrante costruito come nemico da cui difenderci

la costruzione del nemico migrante

di Filippo Miraglia
in “il manifesto” del 26 giugno 2024

Trentacinque anni fa, dopo l’omicidio del rifugiato sudafricano Jerry Masslo, avvenuto nell’agosto
del 1989 a Villa Literno, il 7 ottobre di quell’anno, un vasto schieramento di forze sociali promosse
la prima grande manifestazione contro il razzismo. Quella data segna la nascita di un movimento
antirazzista per i diritti delle persone di origine straniera e contro ogni forma di discriminazione.
A distanza di 35 anni, la condizione del mondo dell’immigrazione è peggiorata e, nonostante il
numero di migranti sia cresciuto (da poche centinaia di migliaia del 1989 a più di 5 milioni oggi),
abbiamo visto diminuire la visibilità e il protagonismo di migranti e rifugiati, in parallelo a un
aumento della politicità dell’argomento e di un uso sempre più strumentale a fini elettorali.
La scarsa presenza nel dibattito pubblico sull’immigrazione dei protagonisti, insieme all’uso
aggressivo di argomenti razzisti, ha portato a una progressiva disumanizzazione delle persone,
permettendo a politici e giornalisti spregiudicati di usare argomenti esplicitamente razzisti senza
alcuna vergogna. Questa condizione ha autorizzato chiunque a considerare stranieri, migranti,
rifugiati, lavoratori e lavoratrici come numeri, la cui vita evidentemente non vale nulla.
Le affermazioni di Renzo Lovato, datore di lavoro di Satnam Singh, sulla responsabilità del
lavoratore morto «per mancanza di attenzione», cancellano le circostanze che ne hanno determinato
la morte, nonché l’elemento essenziale di quella che è una nuova forma di schiavitù, con condizioni
note a tutti come il lavoro nero, lo sfruttamento e il ricatto legato al permesso di soggiorno.
Questo ricorda chiaramente quanto disse il ministro Piantedosi all’indomani della strage di Cutro:
««L’unica cosa che va detta e affermata è che i migranti non devono partire». E subito dopo: «La
disperazione non può mai giustificare condizioni di viaggio che mettono in pericolo la vita dei
propri figli».
Insomma, la colpa è delle vittime che scelgono di morire perché sono irresponsabili, mettendo a
rischio le loro vite e quelle dei figli. Se lo dice un ministro della Repubblica, perché non dovrebbe
dirlo un datore di lavoro che non si vergogna di un atto crudele e criminale?
Le parole allucinanti di Piantedosi all’epoca di quella strage furono seguite da una scelta coerente di
tutto il governo, che si riunì subito dopo, proprio nel luogo della strage, per approvare una legge
contro l’immigrazione legale e a sostegno dei trafficanti, senza peraltro stringere la mano e portare
il cordoglio dell’Italia ai superstiti e ai familiari delle vittime. Un governo che ha impostato tutta la
sua azione in questo ambito proprio sulla costruzione del nemico, da dare in pasto all’opinione
pubblica con profluvio di leggi e accordi in sfregio della Costituzione e del diritto internazionale.
Una forma esplicita di razzismo di stato che va contrastata con forza, mettendo in campo
un’alternativa dal basso, dai territori.
Oggi, come nel 1989, un fatto tragico legato allo sfruttamento lavorativo, non un incidente ma un
vero omicidio, può rappresentare l’elemento che fa scattare la reazione dell’Italia antirazzista. Un
movimento che non è minoranza in Italia, ma che prende raramente la parola, come di rado la
prendono le persone di origine straniera sulle questioni che le riguardano direttamente.
È necessario che il prossimo autunno, proprio in prossimità di quella data che ha visto l’avvio di
una mobilitazione importante per la lotta contro il razzismo nel nostro Paese, si faccia tutto il
possibile per portare in piazza quella parte d’Italia che non vuole arrendersi alla disumanizzazione
delle persone, all’attacco alla civiltà giuridica italiana ed europea e all’avanzata delle destre
xenofobe in tutta l’Ue, per gli interessi dei partiti che sul razzismo hanno costruito la loro fortuna, il
loro business e non certo nell’interesse del Paese.
Una mobilitazione che va preparata con assemblee territoriali, in tutti i luoghi nei quali le persone,
soprattutto migranti e rifugiati, si incontrano per discutere e organizzare la partecipazione, ridando
finalmente la parola ai protagonisti.
C’è il tempo per farlo, per far crescere dai territori una grande mobilitazione. Per ribaltare l’idea che
il razzismo paga elettoralmente, che parlare di diritti e uguaglianza è impopolare e affermare con
forza che ciò che serve per rimotivare le persone a partecipare è un’idea giusta e praticabile di
società accogliente e aperta. Se non ora, quando?

la situazione attuale dei migranti? “è il test supremo per la nostra civiltà”

ritrovare l’umanità

“ho dovuto ritrovare la verticalità dell’uomo”

di Jean-Claude Raspiengeas
in “La Croix” del 9 giugno 2016

Velibor Čolić,

Manuel d’exil. Comment réussir son exil en trente-cinq leçons,

Gallimard

Velibor Čolić

Alla fine dell’estate 1992, dopo una lunga traversata dell’Europa, Velibor Čolić, 28 anni, intellettuale, scrittore, disertore dell’esercito bosniaco, arriva in Francia con, come unico bagaglio, tre parole di francese: Jean, Paul e Sartre. Quando depone lo zaino, la grande, vertiginosa domanda: e adesso?

“A poco a poco mi rendo conto di essere il rifugiato. L’uomo senza documenti e senza volto, senza presente e senza futuro (…). Non ho più un nome, non sono più né grande né piccolo, non sono più né figlio né fratello. Sono un cane bagnato d’oblio in una lunga notte senza alba, una piccola cicatrice sul volto del mondo”, scrive nel suo nuovo libro. “Ero partito per nascondermi, non in esilio”, riconosce oggi, seduto in una grande poltrona nella sede del più prestigioso degli editori parigini. “Mi sentivo come un animale spaventato. Ho dovuto ritrovare la verticalità dell’uomo”.

Il suo undicesimo libro, scritto per “comunicare” la sua esperienza, con una sfumatura di ironia acida, un’ironia molto slava, è impregnato di questa angoscia. A quel tempo, lo si guarda, gli si parla come ad uno “straniero”. Ci si stupisce che sia europeo, “come noi”, eppure apolide. Di questo, prova un “freddo metafisico”. Di questo tremava nelle vie di Parigi, dove tutto gli sembrava un labirinto senza luce.

“Trasformato in robot dalla paura, disumanizzato dalla miseria”, questo colosso comprende presto che la sua nuova vita “esige uno spirito forte e una memoria azzerata”. Tutto il suo romanzo è segnato da questa necessità. Voltare pagina, sbarazzarsi di un passato troppo pesante. “Introiettare e digerire l’idea che non sarei più tornato nel mio paese”. La scrittura gli ha salvato la vita. “Aprire un bloc notes, riempire pagine scrivendo mi ha ricollegato con l’umanità. Ogni frase tracciata mi alleggeriva di quella stratificazione di frustrazioni”.

Velibor Čolić1

Uno zingaro gli insegna le regole, legali, ai margini dei limiti e del buon senso, per resistere, tener duro, diventare trasparente

Superando una sensazione di morte e di solitudine, Velibor Čolić si sforza di entrare sui convogli affollati della metropolitana per sentirsi esistere in mezzo agli altri. Ogni rifugiato, assicura, vuole fondersi nella massa, “fare come fanno tutti, mangiare come mangiano tutti, avere scarpe comode, documenti in ordine”. Ossessionato da questo tormento, scrive: “Sogno una vita semplice, fatta di piccole felicità, di routine quotidiana”. Adottare la lingua del paese d’accoglienza diventerà la via maestra della sua integrazione, passando, non senza fatica, dal “cubo di Rubik della lingua slava” alla “morbidezza felina e musicale del francese”. Dal 2006, i suoi libri non hanno più bisogno di essere tradotti. “Non posso più immaginare di cominciare un romanzo se non in francese, diventato il mio rifugio e il mio paese”, afferma.

Cosa pensa della situazione attuale dei migranti? “È il test supremo per la nostra civiltà, risponde  Velibor Čolić. “O cresciamo insieme, o cadiamo insieme. Guardare un rifugiato come uomo, significa ritrovare in sé la nobiltà dell’umanità”.

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