‘tornare alla comunità’ per superare il ‘postumano’

nel tempo del “postumano”, tornare all’uomo

Fritjof Capra

Dobbiamo tornare alla comunità, spiega il fisico Fritjof Capra. Per il celebre autore del “Tao della fisica”, se studiamo il vivente “possiamo osservare che gli ecosistemi hanno sviluppato una serie di principi organizzativi che sono principi di comunità. Si potrebbe dire che la natura sostiene l’umano formando e nutrendo comunità”. Cooperazione e sviluppo sono impresse nel codice sorgente della nostra forma di vita.

«La nostra idea fissa della crescita economica e il sistema di valori ad essa sotteso hanno creato un ambiente fisico e mentale in cui la vita è diventata estremamente malsana». Eppure, prosegue Fritjof Capra, nemmeno l’idea opposta, quella di decrescita sembra in grado di accompagnarci verso quel «salto di paradigma» che l’odierno contesto di recessione globale rende non solo auspicabile, ma necessario

L’economia, osserva Capra, è solo un aspetto di un tessuto ecologico e sociale complessivo nel quale si sta facendo largo una nuova visione d’insieme che, a dispetto di cifre, rating e disavanzi di bilancio, oppone una «qualitative growth» – una crescita qualitativa – ai troppi numeri che «vorrebbero imbrigliare la vita» in schemi e grafici.

Fisico teorico, studioso di teoria della complessità, Fritjof Capra è fortemente critico nei confronti di ogni “parcellizzazione” e “settorializzazione” del sapere.

Dopo la svolta

Dono, comunità, interconnessione: tre parole chiave del nostro tempo…
Dobbiamo tornare alla comunità. Ci sono ragioni per questo “ritorno” che illuminano particolarmente il nostro tempo di crisi, dando ad esso una speranza nuova. Una ragione è legata alla sostenibilità, che non è una proprietà dell’individuo di una specie. È proprietà di una comunità ecologica o di una comunità sociale. Se studiamo la vita, possiamo osservare che gli ecosistemi hanno sviluppato una serie di principi organizzativi che sono principi di comunità. Si potrebbe dire che la natura sostiene la vita formando e nutrendo comunità.

Se vogliamo sostenere la vita, noi dobbiamo fare la stessa cosa: nutrire le comunità. In una comunità troviamo piacere nelle relazioni umane. Dobbiamo tornare alle relazioni umane, nutrirle, svilupparle Dobbiamo sognare un’economia informale basata sulla reciprocità, sul dono, su quella shadow economy che, nascosta dalle statistiche ufficiali, permette a uomini e donne di aiutarsi, di sentirsi meno soli, di assistersi, di parlarsi, di avere cura di sé, avendo cura degli altri. La crescita qualitativa di cui parlavamo all’inizio passa proprio da qui: dall’aver cura di sé, dall’aver cura degli altri, dall’aver cura del mondo.

Dobbiamo tornare alla comunità. Ci sono ragioni per questo “ritorno” che illuminano particolarmente il nostro tempo di crisi.

Oggi il pensiero economico sembra arrivato a quel «punto morto» che lei descriveva in uno dei capitoli più forti di un suo libro pubblicato trent’anni fa, Il punto di svolta. Che cosa è cambiato da allora e perché la svolta («turning point») avvenuta nelle fisica all’inizio del XX e tanto attesa in questo inizio di XXI ancora non si è ancora verificata?
The Turning point venne pubblicato nel 1982 e la sua elaborazione mi prese quasi cinque anni, dal 1978 al 1981. Molte cose discusse e, in un certo senso, preconizzate in quel libro si sono poi verificate, ma il punto di svolta non è avvenuto. In questi anni mi sono chiesto molte volte la ragione. Nel 1989 tutto sembrava propendere per un cambiamento globale, invece… Ci siamo andati vicini, abbiamo visto sorgere una società civile globale, in particolare a Seattle, in occasione della manifestazioni di protesta (ma non solo di protesta) contro il vertice dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (World Trade Organization).

Il 30 novembre 1999, più di cinquantamila persone, appartenenti a settecento organizzazioni non governative presero parte a una protesta pacifica e costruttiva che ha comunque cambiato per sempre l’orizzonte politico della globalizzazione. Però la storia non segue un corso lineare, avanza in maniera caotica e ci sorprende sempre.

La diffusione delle nuove comunicazioni e il pieno sviluppo della network societyhanno cambiato il contesto, mutando però anche la nostra consapevolezza. Hanno però anche dilatato i tempi della svolta. Una svolta che, ora, sembra nuovamente prossima ad arrivare.

“Noi siamo crisi”

La rapida consultazione di un qualsiasi dizionario basterebbe a ricordarci che “crisi” significa “separazione, scelta, giudizio”, capacità di cogliere nuove sfide, abbandonando vecchi schemi di pensiero. Qual’è dunque la sfida che ci pone la crisi che, dalla Grecia a New York, sembra non lasciare tregua al mondo?
La sfida principale è tutta nel capire “come” passare da un sistema ancora improntato su un’idea di crescita illimitata a un altro che preveda un livello ecologicamente sostenibile e socialmente oltre che economicamente equo. La nostra crisi inizia quando sbagliamo il sistema di referenza e avanziamo smarriti come su un territorio di cui possediamo la mappa, ma una macchia precocemente invecchiata. Per quanto attiene la sfida, occorre un passaggio, una svolta appunto. Ma per compiere questo passaggio, non basta dire “no” alla crescita o auspicare meno industria, meno consumi, meno tutto. La crescita è infatti una caratteristica fondamentale della vita e, di conseguenza, anche della società e dell’economia. Non c’è vita senza crescita e chi non cresce è destinato, prima o poi, a soccombere.

Dobbiamo però intenderci sul concetto di crescita e, come fisico, devo subito osservare che in natura essa non è mai un concetto lineare.
In un ecosistema c’è sempre un gioco di compensazioni che porta all’equilibrio: qualcosa cresce, qualcosa d’altro decresce, ma soprattutto si arriva a una crescita qualitativa che aumentare la complessità e la maturità dell’ecosistema stesso. Questo tipo di crescita non lineare, sfaccettata e multiforme è ben nota ai biologi e agli studiosi delle cosiddette scienze naturali, mentre pare ancora lontana dall’essere accolta dagli scienziati sociali, impregnati come sono di un meccanicismo cartesiano oramai fuori luogo e fuori tempo massimo.

La nostra è una cultura ancora troppo frammentata, divisa tra infiniti specialismi: il riduzionismo consiste proprio in questa disposizione culturale volta a ridurre interrelazioni tra fenomeni complessi a elementi base da studiare solo e soltanto in base ai meccanismo attraverso i quali interagiscono. È una visione ristretta del mondo alla quale, purtroppo, spesso si attribuisce l’etichetta del tutto fuori luogo di “metodo scientifico”.

L’attuale crisi finanziaria globale ha reso ancor più evidente che i maggiori problemi del nostro tempo – energia, ambiente, cambiamento climatico, sicurezza alimentare e la sicurezza finanziaria – non possono essere compresi separatamente. Sono problemi sistemici, il che significa che sono interconnessi e interdipendenti.

Proprio per uscire da questo schematismo, alla crescita e al suo corrispettivo, parimenti riduzionista di decrescita misurate dal PIL e dal consumo pro capite opporrei la visione di una crescita qualitativa e non-lineare, basata sulla qualità della vita e sulle relazioni. Siamo vicini al punto di svolta.

C’è una nuova energia, un movimento civile globale che non è puramente ideologico e chiede di rimettere l’uomo al centro dell’economia, mentre per troppo tempo l’economia si è insediata nel cuore dell’uomo.

Le nuove tecnologie hanno un ruolo ambivalente, in questa crisi. Aumentano la velocità di circolazione di denaro e titoli, ma al tempo stesso favoriscono la nascita di inedite solidarietà tra chi rivendica un modello di sviluppo diversamente partecipato e sostenibile…
Partiamo da una data: il 1989. Con la Caduta del Muro di Berlino. la crisi si è intensificata a tutti i livelli, ecologico, economico e sociale, ma il sistema ha sostanzialmente retto, anche perché le nuove tecnologie hanno dato vita a un nuovo materialismo fondato sul diktatedonistico “consumo, dunque sono”dando così a tutti l’illusione di partecipare in base alla propria capacità di acquisto. Oggi, venuta meno questa possibilità di inclusione attraverso il consumo, chi non può più consumare, comincia a chiedersi come ripartire, come partecipare, come fare rete. Al tempo stesso, infatti, queste nuove tecnologie di comunicazione hanno permesso la costituzione di reti di solidarietà orizzontale e di un pensiero non più lineare – la rete è, appunto, proprio questo: pensiero che si lega e interconnette in forma non convenzionale. C’è una nuova energia, un movimento civile globale che passa dall’occupazione di Wall Street alle proteste di piazza a un movimento di uscita dal nucleare che non è puramente ideologico e chiede di rimettere l’uomo al centro dell’economia, mentre per troppo tempo l’economia si è insediata nel cuore dell’uomo.

Nel tempo del “postumano” lei propone di tornare all’uomo?

Non c’è altra scelta. L’urgenza è anche quella di slegare finanza e vita. Un’economia in senso stretto dovrebbe uscire dall’ossessione istituzionalizzata della finanza. Questa ossessione è tutt’uno con la velocità: pensiamo al fatto che se, storicamente, gli scambi umani hanno sempre subito una certa frizione e un certo attrito – i trasporti via terra o via mare potevano subire ritardi di ogni tipo – oggi grazie alle nuove tecnologie di comunicazione la finanza ha velocizzato i processi di scambio annullando lo spazio tra azione e reazione. Al tempo stesso, però, queste nuove tecnologie hanno permesso il diffondersi di una consapevolezza altamente globalizzata, ma al tempo stesso localizzata nella necessità di azione. Il pensiero deve essere globale, ma l’azione non può prescindere dalla concretezza del locale. Il vecchio motto di Jacques Ellul, «pensa globalmente, agisci localmente» ha oramai preso corpo.

 
da vita.it
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il nobel a Barghouti sarebbe un’ottima notizia

Palestina

Marwan Barghouti candidato al Premio Nobel per la Pace

Ufficio Stampa Ambasciata di Palestina a Roma
Redazione Italia

Palestina, Marwan Barghouti candidato al Premio Nobel per la Pace

lo scorso 17 aprile, il Parlamento Arabo composto da parlamentari di tutto il mondo arabo, ha deciso di candidare ufficialmente al Premio Nobel per la Pace 2016 Marwan Barghouti, il leader di Al-Fatah detenuto nelle carcere israeliane in nome del quale – dalla cella di Nelson Mandela in Sudafrica – è stata lanciata la campagna per la liberazione di tutti i prigionieri palestinesi

Nella nomina fatta pervenire al Comitato per l’assegnazione del Premio, il Presidente del Parlamento, Ahmed Al Jarwan, ha motivato questa scelta con la convinzione che “il grande combattente per la libertà Marwan Barghouti rappresenta un simbolo di giustizia per la questione palestinese e la lotta del popolo palestinese”

La lettera al Comitato ricorda anche che Barghouti ha già trascorso 22 anni in carcere e 7 in esilio, oltre ad essere stato oggetto di svariati tentativi di omicidio a causa del suo impegno – dispiegato in un arco di tempo di più di 40 anni – per la causa della libertà e per il riconoscimento di uno Stato palestinese, in linea con le risoluzioni internazionali.

In sostanza, secondo il Parlamento Arabo “Il riconoscimento del Premio Nobel per la Pace a Marwan Barghouti rappresenterebbe un importante messaggio di sostegno e riconoscimento della lotta palestinese per porre fine all’occupazione sulla base della soluzione dei ‘due Stati’ e garantire alla regione una pace giusta e duratura”.

La campagna per la nomina di Barghouti è stata lanciata intorno alla metà di marzo da molte organizzazioni palestinesi, tra cui la Commissione del PLO per i Prigionieri, il Club dei Prigionieri Palestinesi e il Consiglio Legislativo Palestinese. Ai primi di aprile, Fadwa Barghouti, moglie di Marwan e attivista per i diritti umani, è stata invitata a Tunisi per una cerimonia molto partecipata nel corso della quale Fadhel Moussa, capo della Lega Tunisina per la Difesa dei Diritti dell’Uomo, ha voluto simbolicamente passare a Marwan il Premio Nobel per la Pace vinto l’anno scorso dal Quartetto per il Dialogo Nazionale Tunisino.

Di ritorno dal viaggio, Fadwa ha commentato che si trattava di una decisione importante “perché afferma che il popolo palestinese ha il diritto di liberarsi dall’ occupazione israeliana (…) Israele definisce Barghouti e gli altri prigionieri come terroristi; questa candidatura dice tutt’altro”. Questo invece il commento di Issa Qaraqe, capo della Commissione del PLO per i Prigionieri: “Non importa se Marwan vincerà o meno il premio, il fattore cruciale di questa vicenda è l’alto valore legale e simbolico di questa candidatura”.

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frei Betto e il nostro mondo ‘globocolonizzato’

Il cristianesimo come progetto di civiltà

il cristianesimo come progetto di civiltà

da: Adista Documenti n° 20 del 28/05/2016

frei Betto, uno degli esponenti più prestigiosi della Chiesa della Liberazione brasiliana, durante la conferenza pronunciata il 15 marzo scorso all’Accademia Brasiliana delle Lettere, evidenzia opportunamente che: 

come «non fu il cristianesimo a convertire l’Impero Romano, all’epoca di Costantino», ma «furono i romani a convertire la Chiesa in potenza imperiale», così non è stato il cristianesimo ad evangelizzare l’Occidente, «ma è stato il capitalismo occidentale a impregnarlo del suo spirito profittatore, individualista e competitivo»

con i risultati che abbiamo tutti dinanzi agli occhi. E ciò malgrado il fatto che Gesù non sia venuto a portare tra noi una Chiesa o una nuova religione, ma

 

«un nuovo progetto di civiltà, basato sull’amore per il prossimo e per la natura e sulla condivisione dei beni della Terra e dei frutti del lavoro umano. Una nuova civiltà in cui tutti siano inclusi: storpi, ciechi, lebbrosi, mendicanti e prostitute. E in cui la vita, il più grande dono di Dio, sia da tutti goduta in pienezza»

 

Il Brasile è un Paese di matrice cristiana. Chiedete a chiunque quale sia la sua visione del mondo e, certamente, avrete una risposta intessuta di categorie religiose.

Il cristianesimo, nella sua versione cattolica, è arrivato nel nostro Paese in compagnia del progetto colonizzatore portoghese. Entrare a far parte della civiltà, così come veniva concepita nella Penisola Iberica, significava diventare cristiani. Era questa l’ossessione missionaria di Anchieta: annullare le convinzioni religiose dei popoli originari della terra brasiliana, considerate idolatriche, per introdurre il cristianesimo secondo la teologia europea occidentale, in un  atto di aggressione alla cultura indigena.

I colonizzatori portarono in Brasile gli africani come schiavi, i quali dovevano piegarsi al battesimo per entrare nell’inferno qui in Terra, con la promessa che, se fossero stati docili alla volontà e ai perversi capricci dei bianchi, avrebbero meritato il Paradiso celeste come ricompensa. Si predicava il Gesù crocifisso alla senzala (la dimora degli schiavi contrapposta alla casa-grande del padrone, ndt), affinché si rassegnasse ad atroci sofferenze, e il Sacro Cuore di Gesù alla casa-grande, perché mettesse i propri beni a disposizione delle opere della Chiesa.

IL FLAUTO E L’OSTIA CONSACRATA

All’inizio del XX secolo, un prete destinato a catechizzare un villaggio della regione dello Xingu rimase indignato nel constatare che il rituale religioso era centrato su un flauto suonato dallo sciamano, la cui musica stabiliva la connessione con il Trascendente. A donne e bambini, chiusi nelle capanne, era proibito assistere alla cerimonia.

Scortato da soldati, il missionario portò il flauto al centro del villaggio, fece venire donne e bambini e, dinanzi a tutti, spezzò lo strumento musicale, denunciandone la natura idolatrica, e predicò la presenza di Gesù nell’ostia consacrata.

Ebbene, cosa impedisce a un gruppo di indigeni di entrare nella chiesa della Candelária, aprire il tabernacolo, strappare le ostie consacrate e gettarle nella spazzatura? Appena la mancanza di una scorta sufficientemente armata.

FEDE E POLITICA

Noi occidentali abbiamo desacralizzato il mondo o, come dice Max Weber, lo abbiamo disincantato. Fino al punto di decretare “la morte di Dio”. Se abbracciamo paradigmi così profondamente cartesiani, fortunatamente in crisi, ciò non costituisce un motivo per “spezzare il flauto” dei popoli che prendono sul serio le loro radici religiose.

Oggi, sbaglia l’Oriente per il fatto di ignorare la conquista moderna della laicità della politica e della reciproca autonomia tra religione e Stato. E sbaglia l’Occidente per il fatto di “sacralizzare” l’economia capitalista, divinizzare la “mano invisibile” del mercato e disprezzare le tradizioni religiose, pretendendo di confinarle nei templi e nella vita privata.

Gli orientali commettono un errore a confessionalizzare la politica, come se le persone si dividessero tra credenti e non credenti (oppure tra adepti alla mia fede e tutti gli altri). La linea divisoria della popolazione mondiale sta nell’ingiustizia che segrega 4 su 7 miliardi di abitanti.

A loro volta, gli occidentali commettono un grave errore nel pretendere di imporre a tutti i popoli, con la forza e con il denaro, il proprio paradigma di civiltà fondato sull’accumulazione della ricchezza, sul consumismo e sulla proprietà privata al di sopra dei diritti umani.

UN CRISTIANESIMO A IMMAGINE E SOMIGLIANZA DEL CAPITALISMO

Molti dei presenti in questa sala dell’Accademia Brasiliana delle Lettere sono figli e figlie del XX secolo e sono nati in famiglie cattoliche. Siamo stati battezzati e cresimati, abbiamo fatto la prima comunione, abbiamo imparato a pregare e abbiamo appreso la devozione ai santi e alle sante.

Questo cristianesimo si sposava perfettamente con la morale borghese che separava il personale dal sociale, il privato dal pubblico. Era peccato masturbarsi, ma non pagare un salario ingiusto a una lavoratrice domestica confinata in una stanzetta irrespirabile, sprovvista di tutele e obbligata a svolgere molteplici compiti. Era peccato saltare la messa la domenica, ma non impedire a un bambino nero di frequentare il collegio religioso dei bianchi. Era peccato fare cattivi pensieri, ma non pagare, in una notte, per una bottiglia di vino, quanto il cameriere che portava i bicchieri guadagnava in tre mesi di lavoro.

Come evidenziato da Max Weber, il cristianesimo ha dotato di spirito il capitalismo. Bisogna aver fede nella mano invisibile del mercato, così come si crede in un Dio che non si vede. Bisogna essere convinti che tutto dipende dai meriti personali e che la povertà deriva da peccati capitali come la pigrizia e la lussuria. Bisogna tener presente che molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti a godere, già sulla Terra, le gioie che il Signore promette nelle dimore celesti…

Non fu il cristianesimo a convertire l’Impero Romano, all’epoca di Costantino. Furono i romani a convertire la Chiesa in potenza imperiale. Allo stesso modo, non fu il cristianesimo a evangelizzare l’Occidente, ma fu il capitalismo occidentale a impregnarlo del suo spirito usuraio, individualista, competitivo. E cosa ci presenta la storia come risultato?

Tutte le nazioni schiavocratiche della modernità erano cristiane. Erano cristiane le nazioni che promossero il genocidio indigeno in America Latina. È cristiano il Paese che ha commesso il più grave attentato terroristico di tutta la storia, calcinando migliaia di persone con le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki. Erano cristiani i governi che hanno scatenato le due grandi guerre del XX secolo. Ostentavano la qualifica di cristiane le dittature che, il secolo scorso, hanno proliferato in America Latina, patrocinate dalla CIA. Sono cristiani i Paesi che più devastano l’ambiente. Così come sono cristiani quelli che più producono pornografia e alimentano il narcotraffico. Sono cristiane molte nazioni, tra cui il Brasile, in cui la disuguaglianza sociale è clamorosa.

Di che diavolo di cristianesimo stiamo parlando? Certamente non di quello chiamato a riflettere la prassi e i valori testimoniati da Cristo.

GESÙ È VENUTO A FONDARE UNA RELIGIONE?

Siamo stati educati nell’idea che Gesù venne a fondare una religione o una Chiesa. Ma ciò non coincide con quanto dicono i vangeli di Matteo, Marco, Luca e Giovanni, le principali fonti sulla persona di Gesù.

In tutti e quattro i vangeli la parola Chiesa appare solo due volte, e solo in Matteo. E i vangeli stanno a indicare come Gesù fosse un severo critico della religione dominante nella Palestina del suo tempo, basti leggere il capitolo 23 di Matteo.

Già l’espressione “Regno di Dio” (o “Regno dei cieli”, in Matteo) appare più di cento volte in bocca a Gesù. Il teologo Alfred Loisy diceva che Gesù aveva predicato il Regno, ma che ciò che si era avuto era stata la Chiesa…

Gesù visse, morì e resuscitò sotto il regno di Cesare, un titolo concesso ai primi 11 imperatori romani. A partire dall’anno 63 prima della nostra era, la Palestina si trovava sotto il dominio dell’Impero Romano. Era una provincia fortemente controllata da Roma, politicamente, economicamente e militarmente. Tutta l’azione di Gesù si svolse sotto il regno dell’imperatore Tiberio Claudio Nerone Cesare, al potere dall’anno 14 all’anno 37. La Palestina nella quale visse Gesù era governata da autorità nominate da Tiberio, come il governatore Ponzio Pilato (il quale, curiosamente, è stato immortalato nel Credo cristiano) e la famiglia del re Erode. La società era diretta da un potere centrale che si manteneva con le imposte riscosse dal popolo, dalle comunità rurali e dalle città.

Pertanto, parlare di un altro regno, quello di Dio, all’interno del regno di Cesare aveva l’effetto che avrebbe oggi parlare di democrazia in tempi di dittatura. E questo spiega la ragione per cui tutti noi cristiani siamo discepoli di un prigioniero politico. Gesù non è morto di epatite nel suo letto, né in un disastro di cammelli lungo una strada di Gerusalemme. Come tanti perseguitati dai governi autoritari, arrestati, torturati e uccisi, egli pure è stato arrestato, torturato, giudicato da due poteri politici e condannato a morte sulla croce. La domanda da porre è questa: che tipo di fede hanno, oggi, i cristiani, se neppure reagiscono a questo disordine stabilito in cui, secondo l’Oxfam, 62 famiglie possiedono una fortuna pari al reddito di 3,6 miliardi di persone, metà dell’umanità?

Al contrario di ciò che molti pensano, per Gesù il Regno di Dio non era solo qualcosa là in alto, nel Cielo. Era, soprattutto, qualcosa da conquistare in questa vita e su questa Terra. «Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10, 10). Ed egli fu l’uomo nuovo per eccellenza, il prototipo di ciò che dovranno essere tutti gli uomini e tutte le donne del “Regno” futuro, la civiltà dell’amore, della giustizia e della solidarietà.

Le basi di questo progetto di civiltà e dei suoi valori si trovano rispecchiate nella prassi e nelle parole di Gesù. Se operiamo come lui, questo nuovo mondo dovrà diventare realtà. È questa l’essenza della promessa di Gesù.

LA CENTRALITÀ DELL’UMANO

Si può non avere una fede cristiana e persino provare avversione per la Chiesa. Ma a imboccare il sentiero di Gesù è qualunque persona affamata di giustizia, libera da qualsivoglia pregiudizio nei confronti degli esseri umani, capace di condividere i propri beni con chi ne ha bisogno, di preservare l’ambiente, di avere compassione e saper perdonare, di essere solidale con le cause che difendono i diritti dei poveri.

Gesù non è venuto ad aprirci la porta del cielo. È venuto a riscattare l’opera originaria di Dio, che ci ha creati perché vivessimo in un paradiso, come indica il libro della Genesi. Se il paradiso non si è realizzato, è perché abbiamo abusato della nostra libertà anelando a trasformare in proprietà privata ciò che, di diritto, è di tutti.

Gesù non è venuto come un extraterrestre per portarci un catalogo di verità estranee al nostro mondo. È venuto a ri-velare, disvelare, togliere il velo, cioè a farci vedere ciò che è già parte del nostro procedere, del nostro quotidiano, ma del cui valore trascendente non avevamo idea.

È venuto ad avvisarci: il mondo che Dio vuole ha questo profilo, queste caratteristiche! Un mondo in cui non ci siano esclusi, affamati, vittime di ingiustizia. Un mondo in cui la solidarietà regni sulla competitività e la riconciliazione sulla vendetta.

Questo progetto di Dio, annunciato da Gesù, ha il suo centro non in Dio, ma nell’essere umano, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Solo nella relazione con il prossimo si può amare, servire e onorare Dio.

I missionari che colonizzarono l’America Latina bruciarono indigeni, come il capo indio Hatuey, a Cuba, colpevoli di rendere culto a un Dio diverso da quello dei cristiani. Ebbene, Gesù non predicò ai farisei e ai sadducei un altro Dio, differente da quello a cui rendevano culto gli ebrei nel Tempio di Gerusalemme. Predicò che, per l’essere umano, l’essere supremo è lo stesso essere umano. In Matteo 25, 31-46, Gesù si identifica con l’affamato, l’assetato, lo straniero, l’ignudo, l’infermo, il prigioniero. E chiarisce che è al servizio di Dio chi libera il prossimo da un mondo che produce tali forme di oppressione e di esclusione.

Pertanto, ciò che Gesù è venuto a portare tra noi non è stata una Chiesa o una nuova religione. È stato un nuovo progetto di civiltà, basato sull’amore per il prossimo e per la natura e sulla condivisione dei beni della Terra e dei frutti del lavoro umano. Una nuova civiltà in cui tutti siano inclusi: storpi, ciechi, lebbrosi, mendicanti e prostitute. E in cui la vita, il più grande dono di Dio, sia da tutti goduta in pienezza.

Come raggiungere tale progetto di civiltà? Gesù ha posto nitidamente l’accento sul fatto che a tale scopo è necessario rinunciare, come valori o obiettivi di vita, all’avere, al piacere e al potere, simbolizzati nell’episodio delle tentazioni nel deserto (Lc 4,1-13). E, al contrario di ciò che si presuppone, chi lo fa incontra ciò che ogni essere umano desidera di più, la felicità, o, nei termini del Vangelo, la beatitudine, esplicitata da Gesù in otto vie che imprimono un senso altruista alle nostre vite (Mt 5,3-12). Bisogna essere solidali con gli esclusi, come il buon samaritano; compassionevoli, come il padre del figliol prodigo; spogliati di tutto, come la vedova che dona al Tempio il denaro che le era necessario. Bisogna assicurare a tutti condizioni degne di vita, come nella condivisione dei pani e dei pesci. Bisogna denunciare coloro che mettono la legge al di sopra dei diritti umani e fanno della casa di Dio una spelonca di ladri. Bisogna trasformare la nostra carne e il nostro sangue in pane e vino affinché tutti, come fratelli e sorelle, intorno alla stessa mensa, condividano il miracolo della vita uniti da un solo Spirito.

Ebbene, se siamo d’accordo sul fondamento di tutta la predicazione di Gesù – il fatto che l’essere supremo è lo stesso essere umano – allora non resta che chiederci perché tanti esseri umani, in questo mondo globocolonizzato in cui viviamo, siano condannati da strutture ingiuste alla miseria, all’esclusione, alla migrazione forzata, alla morte precoce e, insomma, a una vita di sofferenza e di oppressione.

E che abbiano o meno fede in Dio, tutti coloro che si impegnano a combattere le cause dell’ingiustizia compiono la volontà di Dio secondo la parola di Gesù. E credono che questo “regno di Cesare” debba essere abolito per far spazio a un altro regno, le cui strutture assicureranno a tutti una vita in pienezza. E in questo si riassume il progetto di Dio per la storia umana e l’utopia annunciata da Gesù.

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un grido da ascoltare

summit umanitario mondiale

“ascoltiamo il grido di chi soffre”

Non ci deve essere una famiglia senza casa, nessun rifugiato senza un’accoglienza, nessuna persona senza una dignità, nessun ferito senza cure, nessun bambino senza un’infanzia, nessun giovane senza un futuro, nessun anziano senza una dignitosa vecchiaia.

 A chiederlo è Papa Francesco, nel suo messaggio inviato al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, in occasione della prima giornata del Summit Umanitario Mondiale. Dobbiamo impegnarci personalmente e poi tutti insieme – si legge nel testo – “coordinando le nostre forze e iniziative, rispettando le reciproche competenze ed esperienze, non discriminando, ma piuttosto accogliendo”

da Istanbul, Il servizio di Francesca Sabatinelli:

 

Questo summit, per Francesco “è un’occasione per dare una svolta alle vite di milioni di persone che necessitano protezione, cura e assistenza, e che cercano un futuro dignitoso”. L’auspicio che il Papa rivolge all’assemblea è quindi quello che da questo summit possano arrivare risultati che possano “realmente contribuire ad alleviare le sofferenze di questi milioni di persone”, frutti che “possano essere dimostrati attraverso una solidarietà sincera e un vero e profondo rispetto per i diritti e per la dignità di coloro che soffrono a causa dei conflitti, della violenza, della persecuzione, e dei disastri naturali”. Le vittime, scrive il Papa, sono le persone più vulnerabili, chi vive in condizioni “di miseria e di sfruttamento”
No al “mercato” degli aiuti
Le soluzione dei conflitti oggi sono impedite da troppi interessi, le strategie militari, economiche e geopolitiche costringono le persone a spostarsi, “imponendo il dio denaro, il dio del potere”. Allo stesso tempo – stigmatizza Francesco – gli sforzi umanitari sono spesso condizionati da vincoli commerciali e ideologici. Occorre quindi “un impegno rinnovato per proteggere ogni persona nella sua vita quotidiana e per proteggerne la dignità e i diritti umani, la sicurezza e i bisogni globali”.
Nessuno resti indietro
Al tempo stesso è necessario preservare la libertà e l’identità sociale e culturale dei popoli, senza che ciò ne comporti l’isolamento, ma che al contrario favorisca cooperazione, dialogo e soprattutto pace. “Non lasciare nessuno indietro” e “fare ognuno del suo meglio” (alcuni obiettivi del Summit – ndr) sono esigenze che chiedono che non ci si arrenda, e che tutti noi ci si assuma la responsabilità delle nostre decisioni e azioni riguardanti le stesse vittime.
Conoscere chi si prende cura della società
Francesco si augura quindi che il Summit possa anche essere l’occasione per riconoscere il lavoro di chi aiuta il prossimo, il proprio vicino, di chi contribuisce alla consolazione delle sofferenze delle vittime di guerre e calamità, degli sfollati e dei rifugiati, di chi si prende cura della società, in particolare attraverso scelte coraggiose in favore della pace, del rispetto , della guarigione e del perdono. E’ così, dice il Papa, che si salvano vite umane.
Non amiamo le idee, ma le persone
“Nessuno ama un concetto, nessuno ama un’idea, noi amiamo le persone. Il sacrificio di sé, vero dono di sé, scaturisce dall’amore verso gli uomini e le donne, verso i bambini e gli anziani , i popoli e le comunità… facce, quei volti e nomi che riempiono i nostri cuori”. Da Francesco parte quindi quella che lui stesso definisce “una sfida” al Summit: ai partecipanti chiede di far “ascoltare il pianto delle vittime e di coloro che soffrono”. Di consentire loro di insegnarci una lezioni di umanità. E di consentire a tutti noi di cambiare il modo di vivere, le nostre politiche, le nostre scelte economiche, i nostri comportamenti e atteggiamenti di superiorità culturale. “Imparando dalle vittime e da coloro che soffrono – conclude il Papa – saremo in grado di costruire un mondo più umano”.

(Da Radio Vaticana)

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la sfida di papa Francesco al primo vertice umanitario mondiale

papa Francesco

a nessun rifugiato sia negata accoglienza

il messaggio del Pontefice al primo “Vertice Umanitario Mondiale” che si svolge oggi e domani in Turchia

la sfida: salvare vite umane, sostenere chi affronta emergenze e rimuovere le vere cause dei conflitti

 bambini affamati in zone di guerra
 luis badilla – francesco gagliano    

Nessuna famiglia deve essere privata di una casa, a nessun rifugiato va negata l’accoglienza, a nessun ferito siano negate le cure, nessun bambino sia privato della sua infanzia, nessun uomo e nessuna donna devono essere privati del futuro». Così papa Francesco in un messaggio al World Humanitarian Summit di Istanbul, letto in plenaria dal Segretario di Stato Vaticano, cardinale Pietro Parolin.

«Oggi lancio una sfida a questo Summit: ascoltiamo il pianto delle vittime e di coloro che soffrono. Consentiamo loro di darci una lezione di umanità. Cambiamo i nostri stili di vita, politiche, scelte economiche, comportamenti e atteggiamenti di superiorità culturale», ha aggiunto il papa. 

«Imparando dalle vittime e da coloro che soffrono, saremo capaci di costruire un mondo più umano», ha concluso il pontefice nel suo messaggio. 

Dall’inizio del 2016, ieri, dopo l’Angelus Papa Francesco ha fatto riferimento al «Vertice Umanitario Mondiale» che si è aperto oggi in Turchia (Istanbul) tre volte. «Domani – ha detto – inizierà a Istanbul, in Turchia, il Primo Vertice Umanitario Mondiale, finalizzato a riflettere sulle misure da adottare per venire incontro alle drammatiche situazioni umanitarie causate da conflitti, problematiche ambientali ed estrema povertà. Accompagniamo con la preghiera i partecipanti a tale incontro perché si impegnino pienamente a realizzare l’obiettivo umanitario principale: salvare la vita di ogni essere umano, nessuno escluso, in particolare gli innocenti e i più indifesi. La Santa Sede prenderà parte a questo vertice umanitario, e per questo oggi è in viaggio per rappresentare la Santa Sede il Segretario di Stato, Cardinale Pietro Parolin».   

Sul Vertice, Francesco, parlò la prima volta nel suo discorso al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, 11 gennaio scorso, dicendo: «La Santa Sede auspica che il Primo Vertice Umanitario Mondiale, convocato nel maggio prossimo dalle Nazioni Unite, possa riuscire, nel triste quadro odierno di conflitti e disastri, nel suo intento di mettere la persona umana e la sua dignità al cuore di ogni risposta umanitaria. Occorre un impegno comune che rovesci decisamente la cultura dello scarto e dell’offesa della vita umana, affinché nessuno si senta trascurato o dimenticato e altre vite non vengano sacrificate per la mancanza di risorse e, soprattutto, di volontà politica». 

A Lesbo

Infine, il 16 aprile scorso, nel suo discorso alla cittadinanza di Lesbo, Grecia, il Santo Padre sottolineò queste sue convinzioni: «Per essere veramente solidali con chi è costretto a fuggire dalla propria terra, bisogna lavorare per rimuovere le cause di questa drammatica realtà: non basta limitarsi a inseguire l’emergenza del momento, ma occorre sviluppare politiche di ampio respiro, non unilaterali. Prima di tutto è necessario costruire la pace là dove la guerra ha portato distruzione e morte, e impedire che questo cancro si diffonda altrove. Per questo bisogna contrastare con fermezza la proliferazione e il traffico delle armi e le loro trame spesso occulte; vanno privati di ogni sostegno quanti perseguono progetti di odio e di violenza. Va invece promossa senza stancarsi la collaborazione tra i Paesi, le Organizzazioni internazionali e le istituzioni umanitarie, non isolando ma sostenendo chi fronteggia l’emergenza. In questa prospettiva rinnovo l’auspicio che abbia successo il Primo Vertice Umanitario Mondiale che avrà luogo a Istanbul il mese prossimo».

Ai diplomatici

Il fatto che sia il cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin, a rappresentare la Santa Sede al Vertice, cosa che il Papa ha voluto dire personalmente e pubblicamente, ieri, dimostra quanta sia per lui grande l’importanza e la posta in gioco di questo summit. Dai tre riferimenti fatti in cinque mesi, infatti, appare chiaro che Francesco considera che in quest’incontro sono tre le questioni centrali da affrontare con coraggio e lungimiranza: salvare vite umane, sostenere chi affronta emergenze e rimuovere le vere cause dei conflitti.

Le cifre e i trend

Le cifra degli esseri umani coinvolti oggi in emergenze umanitarie sono da brivido. Negli ultimi tre anni vi sono stati, e buona parte ancora irrisolti, oltre 400 conflitti di diversa natura (guerre, terrorismo, calamità ambientali, scarsità idrica, scontri etnico-religiosi, pressioni demografiche, repressioni statali contro le minoranze …) che non hanno fatto altro che acuire le conseguenze preesistenti della povertà di centinai di milioni di persone. Le sole emergenze climatiche ogni anno coinvolgono almeno 100 milioni di individui che fanno salire a 250 milioni il numero di esseri umani intrappolati in crisi umanitarie secondo i dati della Banca Mondiale, e intanto aumentano le persone in estrema povertà nei Paesi più fragili e che non sono capaci di far fronte a queste situazioni. La principale emergenza sono i profughi e sfollati che fuggono da un Paese a un altro, da un continente a un altro, oppure all’interno di un nazione senza varcare i confini. Negli ultimi anni sono stati costretti a fuggire oltre 60 milioni di persone e complessivamente oggi sono sempre in aumento. 

Ecco gli ultimi dati (2014): il rapporto annuale dell’Unhcr Global Trends riporta una forte escalation del numero di persone costrette a fuggire dalle loro case, con 59,5 milioni di migranti forzati alla fine del 2014 rispetto ai 51,2 milioni di un anno prima e ai 37,5 milioni di dieci anni fa. L’incremento rispetto al 2013 è stato il più alto mai registrato in un solo anno. L’accelerazione principale è iniziata nei primi mesi del 2011, quando è scoppiata la guerra in Siria, diventata la principale causa di migrazione forzata a livello mondiale. Nel 2014, ogni giorno 42.500 persone in media sono diventate rifugiate, richiedenti asilo o sfollati interni, dato che corrisponde a un aumento di quattro volte in soli quattro anni. In tutto il mondo, una persona ogni 122 è attualmente un rifugiato, uno sfollato interno o un richiedente asilo. Se i 59,5 migranti forzati nel mondo componessero una nazione, sarebbe la ventiquattresima al mondo per numero di abitanti.

Le proposte dell’Unione Europea

In preparazioni a questo Vertice l’Unione Europea ha pubblicato un documento in cui riassume le sue posizioni sulla questione: «L’esito del vertice dovrebbe confermare i principi fondamentali comuni: i valori della dignità, dell’integrità e della solidarietà; i principi umanitari; il rispetto degli obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale; l’impegno a mantenere le attività umanitarie distinte dagli interessi politici».

Diritto a essere aiutato

In secondo luogo, l’Unione Europea chiede che sia sempre garantito il diritto delle persone in stato di necessità ad accedere agli aiuti umanitari. In particolare si tratta di facilitare l’accesso degli operatori umanitari alle persone colpite, premessa fondamentale per erogare gli aiuti. Perciò l’UE insiste nel dire: i governi dovrebbero impegnarsi a garantire un ambiente sicuro per l’azione umanitaria. Inoltre dovrebbero disporre di un quadro giuridico e politico adeguato per agevolare l’accesso degli aiuti umanitari. 

Emergenze e vulnerabilità

In terzo luogo, per l’UE è necessario introdurre una nuova questione fondamentale nell’azione umanitaria: mettere la protezione delle persone al centro della risposta umanitaria, poiché le crisi umanitarie spesso rendono le popolazioni colpite vulnerabili allo sfruttamento e ai maltrattamenti. In altre parole, per l’UE, il mancato o insufficiente rispetto dei principi umanitari e del diritto umanitario internazionale aggrava l’insicurezza, le discriminazioni, gli abusi e le minacce alla vita. I più vulnerabili sono spesso i bambini, le donne e le ragazze, gli anziani e i disabili.

 

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la rabbia dell’Alitalia contro papa Francesco che sceglie un biglietto più economico

 

spending review

il Vaticano sceglie Ryanair e Alitalia si arrabbia

ryanair ape

bene la spending review, ma poi c’ è sempre qualcuno che si lamenta. Pare facile fare il vescovo-pastore che non bada a orpelli, minimizza su costi per ingiustificate misure di sicurezza, rifiuta biglietti di prima classe e altri lussi così come piace a papa Francesco che è stato il primo a dare questo esempio, dal rifiuto del Palazzo apostolico alla scelta di una utilitaria al posto delle scintillanti berline. Ma anche il corso di sobrietà che pure in tanti nella curia di Francesco intendono percorrere sentendosi più a loro agio con mezzi e metodi spartani, ha le sue spine, e fare scelte low cost quando si è prelati molto in vista ha conseguenze del tutto inaspettate.

È quello che è successo al cardinale Pietro Parolin, il segretario di Stato vaticano che in queste settimane ha preso un volo low cost Ryanair per recarsi a Vilnius, in Lituania. Un gesto che ha fatto notizia perché il fatto che un prelato in carica di così alto rango prenda un volo a basso costo per sbarcare in visita ufficiale non si era mai visto. E in più, se si pensa che il predecessore di Parolin, il cardinale Tarcisio Bertone, amava mobilitare attorno a sé un dispositivo di sicurezza che almeno nelle uscite in Italia coinvolgeva tanto auto della Gendarmeria vaticana quanto della Polizia italiana, c’ è di che stupirsene. Eppure. Scrive il quotidiano nazionale, la ben intenzionata mossa è diventata una specie di piccolo caso oltre le mura leonine. La Ryanair ha colto al volo l’ occasione per farsi sentire col Vaticano, ringraziare per l’ inattesa pubblicità e offrire nuovi voli promo per prossime missioni di esponenti vaticani. E addirittura proponendosi come prossimo vettore per il viaggio di papa Francesco in Polonia in programma a luglio. Tanto bene non l’ ha presa però Alitalia, abituata ad essere la compagnia ufficiale che accompagna il Pontefice nei suoi viaggi internazionali e in genere la linea aerea di prima scelta per le missioni di esponenti vaticani quando si muovono da Roma. La compagnia ha fatto avere in via informale la sua protesta.
Tra l’ altro l’ ex compagnia di bandiera è anche un forte investitore pubblicitario nei media vaticani, si guardi ad esempio al paginone pubblicato qualche giorno fa sull’ Osservatore romano.
Nello staff del cardinale Parolin davanti a tanto inatteso trambusto hanno allargato le braccia: «Quello della Ryanair era il volo che costava meno, e in realtà l’ unico collegamento diretto da Roma per Vilnius». Sotto traccia quindi, per i voli vaticani si profila anche una piccola guerra commerciale. La stessa via della sobrietà e dell’ antispreco è lastricata di involontarie pubblicità a nuovi marchi. Quando Francesco, appena eletto, ha immediatamente optato per utilizzare nei suoi spostamenti alcune vetture Ford che erano rimaste un po’ abbandonate nel parco macchine vaticano, facendo rimettere in garage le ammiraglie Mercedes a bordo delle quali viaggiava Benedetto, anche lì la compagnia americana beneficiò, del tutto inaspettatamente, di una formidabile pubblicità con livelli che nessuna campagna avrebbe mai potuto raggiungere.
Per non dire poi delle Fiat 500 L utilizzate da papa Bergoglio sia nel suo viaggio negli Stati Uniti, sia in quello più recente in Messico che oltre a dare il profilo della sobrietà del Pontefice, sono state protagoniste di uno spot planetario per il marchio torinese.

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il capitalismo non è più per giovani

i giovani dell’era della crisi che non amano il capitalismo

di Mauro Magatti in “Corriere della Sera”

giovani

Una recente ricerca condotta dall’Institute of Politics della Università di Harvard ha fatto discutere i media americani. Dai dati, risulta infatti che, nei giovani tra i 19 e i 25 anni, solo il 42% degli intervistati sostiene il capitalismo, mentre la maggioranza (51%) ne ha un’opinione negativa. Il Washington Post è arrivato a chiedersi se la crisi non stia cambiando gli orientamenti culturali delle nostre società: forse di fronte a un cambio generazionale destinato a trasformare gli equilibri economici e sociali? Difficile dire come andranno le cose. Certo è che i dati della prestigiosa università sembrano confermare ciò che, da qualche tempo, segnalano anche altri istituti di ricerca: nella testa e nel cuore dei giovani americani (ed europei) sta cambiando qualcosa.

Lontanissimi gli anni della contestazione, ma anche i tempi in cui a spopolare era l’affermazione soggettivistica del proprio Io, i giovani cresciuti nella crisi — specie quelli dotati di un buon livello di istruzione — esprimono sensibilità nuove verso la costruzione di un equilibrio più avanzato tra l’Io e il Noi, tra il sé e l’ambiente circostante. Le ricerche dicono, ad esempio, che i millennials hanno maturato un orientamento critico tanto verso il liberismo sfrenato quanto verso lo statalismo aggressivo. Convinti della bontà dell’economia di mercato, pensano tuttavia che essa vada regolata e difesa dei suoi stessi eccessi e che sia importante il ruolo attivo che lo Stato può svolgere per garantire le condizioni della crescita.

future

Molto sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sono convinti che il tema debba essere preso sul serio: non c’è più tempo per rinviare decisioni necessarie per la sopravvivenza del pianeta. Semplicemente perché sanno che sarà la loro generazione a dover sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, i millennials fanno della tolleranza un valore fondamentale e ritengono che la convivenza delle diversità debba diventare un modo ordinario di convivere. Un atteggiamento che li rende anche aperti nei confronti dei migranti, visti più come risorsa che come minaccia. Chi arriva è titolare del diritto a costruirsi una vita migliore. Un diritto che gli stessi giovani vivono sulla loro pelle poiché sanno, per scelta o per necessità, che le loro possibilità di vita non sono legate al posto in cui sono nati. Infine, l’affermazione personale non è contrapposta ai rapporti sociali. Per la propria vita i giovani aspirano a svolgere un’attività che riconosca le loro capacità, ma che al tempo stesso possa recare un vantaggio alla comunità nella quale vivono, al di là del puro reddito economico o della pura strumentalità. E considerano la qualità delle relazioni un ingrediente fondamentale per il proprio benessere. Una sensibilità che nasce da un’esperienza fondamentalmente positiva dei legami familiari, punto di riferimento sicuro e solido in un mondo incerto. Si tratta, come si può vedere, di un pacchetto di orientamenti dotato di una chiara logica interna. Una logica relazionale.

È come se la nuova generazione, di fronte ai guasti lasciati dal modello di sviluppo iperindividualistico degli ultimi decenni, stesse cercando di trovare un nuovo modo di pensare il legame con l’altro, visto come costitutivo e non minaccia della propria libertà. Riconoscendo, in buona sostanza, che non esiste l’Io se non in relazione.sogni

Ovviamente le ricerche non dicono che tutti giovani la pensano in questo modo. E tuttavia esse riconoscono un orientamento prevalente, benché ancora frammentato e soprattutto privo di un discorso pubblico capace di renderlo riconoscibile e riproducibile. Ma, come già accaduto altre volte nella storia (l’ultima volta nel ‘68), anche oggi è probabilmente negli orientamenti di questi giovani che si può intravvedere una via per il nostro futuro. A condizione che, anche politicamente, le generazioni degli adulti e degli anziani siano disposte ad ascoltare le proposte e le istanze di chi ha vissuto la propria adolescenza lontano dei miti della crescita infinita; di chi cioè ha conosciuto sulla propria pelle i guasti e le contraddizioni di un modello in liquidazione. Così, con forme, parole e modalità nuove siamo forse alla vigilia di un nuovo cambio di generazione. Che, possiamo tutti augurarci, potrebbe trasformarsi presto anche in un cambio di paradigma sociale.

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come spiegare facilmente il mistero più difficile

Come spiegare la Trinità?

don Tonino Bello 

“Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra.

E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri” (don Vincenzo)

trinità

 Bello
carissimi fratelli,
l’espressione me l’ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt’altro che banale.
Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.
Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.
E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l’altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l’altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile…
Colsi l’occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. 
Poi aggiunse: “Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c’è una Persona che si aggiunge all’altra e poi all’altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l’altra.
E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario’ così dominante in ‘casa Trinità’ che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l’uomo per gli altri”.
Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.
Peccato: perché, tra l’altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l’uomo è icona della Trinità (“facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”) e che pertanto, per quel che riguarda l’amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l’accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.
Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.
Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.
don Tonino Bello
 
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per la morte di Pannella l’onestà di Famiglia Cristiana, la freddezza di Avvenire, la denigrazione (ancorché coerente!) di Radio Maria di p. Livio Fanzaga

«il tuo Vangelo, quello degli ultimi, è quello che io amo»

il leader radicale e il protagonista dei diritti civili in Italia aveva scritto a papa Francesco il 22 aprile scorso. Gli restava da vivere meno di un mese. Nella sua casa vicino alla fontana di Trevi aveva seguito in televisione pochi giorni prima la visita del papa a Lesbo e i suoi incontri con i rifugiati accolti sull’isola greca. In fondo alla lettera, un post scriptum: «Ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene»

«Caro Papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano – vicino al cielo – per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano». 

Sono le prime righe della lettera che Marco Pannella aveva scritto a papa Francesco il 22 aprile scorso. A Pannella restava da vivere meno di un mese. Nella sua casa vicino alla fontana di Trevi, il vecchio e malato leader radicale aveva seguito in televisione pochi giorni prima la visita del papa a Lesbo e i suoi incontri con i rifugiati accolti sull’isola greca. Era rimasto colpito. Si era commosso. Ci ha riflettuto pochi giorni, poi ha deciso di scrivere a Francesco. La lettera è scritta a mano, con una penna blu, le righe leggermente inclinate verso l’alto, a destra. Alla fine i saluti sono scritti in maiuscolo: TI VOGLIO BENE DAVVERO TUO MARCO.

In fondo alla pagina avanza un po’ di spazio per un post scriptum: «Ho preso in mano la croce che portava mons. Romero, e non riesco a staccarmene». La croce di Romero oggi la porta attorno al collo monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio Consiglio per la Famiglia. E’ stato lui a spiegare a Pannella l’origine di quella croce. «Marco mi ha chiesto di indossarla, non voleva più staccarsene. E alla fine, quando prima di andare via me la sono ripresa, dentro di me ho sentito un po’ di rimorso per avergliela tolta». 

La lettera di Pannella è stata portata al papa da monsignor Paglia. Il 2 maggio, giorno del compleanno di Pannella, Francesco gli ha mandato in regalo il suo libro sulla Misericordia e una medaglia. Paglia conosce e frequenta Pannella dai primi Anni Novanta. Nelle ultime settimane si sono visti più spesso. «A marzo ero alla Casa del Divin Maestro di Ariccia con il Papa e gli altri prelati della Curia durante gli esercizi spirituali di Quaresima», racconta Paglia, «quando ho ricevuto una telefonata di Pannella. Voleva vedermi. Ho informato il Papa e lui mi ha detto: “Vai di corsa”».

Continua monsignor Paglia: «Prendo la macchina e lo raggiungo. Lui stava a letto un po’ rattristato, ci siamo abbracciati e poi abbiamo cominciato una delle nostre lunghe chiacchierate». Pochi giorni fa l’ultima telefonata, ma Pannella, ormai sopraffatto dai dolori, non poteva più rispondere. «Mentre parlavo con Matteo Angioli sentivo in sottofondo i suoi lamenti», dice Paglia, «il mio amico Marco aveva ormai finito di combattere la sua battaglia».

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l’ecumenismo della vita al di là di tutte le barriere ideologiche

Punjab

musulmani finanziano la costruzione di una chiesa cattolica

Tonio Dell’Olio
Contadini musulmani che contribuiscono ad una raccolta fondi per la costruzione di una chiesa cattolica. È il grande gesto di generosità di cui sono protagonisti gli abitanti di Khalsabad, chak (villaggio in lingua urdu) del Punjab, situato vicino a Gojra. Lì le famiglie cristiane sono solo otto, e la cappella di fango che usavano come luogo di culto è stata distrutta dalle piogge monsoniche dell’ultimo anno. Costretti a pregare in casa, i cattolici hanno deciso di fondare una nuova chiesa e hanno chiesto aiuto alla cittadinanza

“Ho saputo di questo progetto in un incontro comunitario il mese scorso – afferma Dilawar Hussain, negoziante musulmano –. Anche una chiesa è una casa di Allah, la preghiera è ciò che conta. Noi veneriamo lo stesso Dio”. Hussain ha donato 10mila rupie (95 dollari) per la costruzione del nuovo luogo di culto, mentre un uomo d’affari locale ha deciso di devolvere 30mila rupie alla commissione del villaggio che si occupa dei lavori. Per ora sono stati eretti i muri esterni della struttura. “Questo è dialogo della vita”, afferma p. Aftab James Paul commentando le donazioni. Il sacerdote è assistente parroco della chiesa di San Fedele a Khushpur e Khalsabad è uno dei 56 villaggi a cui fa visite pastorali: “Un altro fedele musulmano ha donato 2mila rupie la domenica di Pasqua”, fa sapere. P. Paul, che per nove anni ha guidato la commissione della diocesi di Faisalabad per il dialogo interreligioso, afferma che non è la prima volta in cui i musulmani aiutano la costruzione di un luogo di culto cattolici. Nel 2005 fu finanziata una chiesa nel sotto distretto di Gojra Tehnsil. L’area, però, divenne famosa solo nel 2009 per un episodio negativo: a seguito di sospetti di blasfemia, 10 cristiani furono uccisi, almeno sette dei quali arsi vivi. Quattro chiese furono distrutte nell’attacco. “Abbiamo troppi pregiudizi – afferma il sacerdote – e lasciamo che le azioni di pochi facciano ricadere la colpa su tutti i fedeli dell’islam”.

fonte: Kamran Chaudhry in AsiaNews.it

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