il commento al vangelo della domenica

TUTTI MANGIARONO A SAZIETA’  

commento al vangelo della domenica del ‘corpus Domini’ (29 maggio 2016) di p. Alberto Maggi:

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Lc 9,11-17

In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta».
Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini.
Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla.
Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.

Nella solennità del SS Corpo e Sangue di Cristo la liturgia ci presenta l’evangelista Luca al capitolo 9, versetti 11-17. Gesù con i suoi discepoli si è ritirato a Betsaida, fuori dal territorio Giudeo. Ma le folle vennero a saperlo e lo seguirono. Le folle si sentono attratte da Gesù perché sentono nel suo messaggio la risposta di Dio al bisogno di pienezza che ogni persona si porta dentro.
Egli le accolse e prese a parlare loro del Regno di Dio. Gesù non parla loro del regno di Israele, Gesù non è venuto a restaurare il regno di Israele, ma ad inaugurare il regno di Dio, un regno senza confini perché l’amore di Dio non tollera nessuna barriera.
E a guarire quanti avevano bisogno di cure. Ecco di fronte al male, di fronte alle malattie, Gesù non ha parole di consolazione, ma azioni che curano, che eliminano questo male. Questo è un effetto del regno di Dio. Nel regno di Dio il bene e il benessere dell’uomo sono al primo posto.
Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono.  L’evangelista sottolinea una differenza. Mentre le folle seguono Gesù – e Gesù aveva invitato i suoi discepoli, i dodici, a seguirlo – i dodici gli sono lontani, tengono quasi un distanza di sicurezza, gli si devono avvicinare, ma gli si avvicinano per un motivo che è negativo … Dicendo … “ E l’evangelista adopera un verbo all’imperativo, quindi comanda quasi a Gesù: “Congeda (cioè manda via) la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”.
I dodici trattano Gesù quasi da sprovveduto come se non sapesse che era in una zona deserta, che non c’era da mangiare, quindi la loro preoccupazione è mandare via la gente. Non si dice che la gente si fosse stancata di ascoltare l’insegnamento di Gesù, sono i discepoli che pensano soltanto a se stessi.
Gesù disse loro: “Voi stessi date loro da mangiare”. Letteralmente l’evangelista scrive: “Date voi stessi da mangiare”. Il significato è duplice. Oltre a quello ovvio “procurate voi stessi da mangiare” c’è il significato “datevi voi da mangiare”. L’evangelista sta qui anticipando quello che sarà il significato dell’eucaristia, dove Gesù, il figlio di Dio, si fa pane, alimento di vita, perché quanti lo accolgono, lo mangiano e lo assimilano, siano poi capaci a loro volta di farsi pane, alimento di vita per gli altri.
Ecco però l’obiezione dei dodici.  Ma essi risposero: “Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare …” C’è un contrasto tra l’invito di Gesù “date”, cioè “condividete”, e la mentalità dei discepoli, “comprare”. Ancora non hanno compreso il messaggio di Gesù, della condivisione. “… viveri per tutta questa gente”, letteralmente popolo, ed è un termine dispregiativo. Gli apostoli vedono quasi con fastidio tutta questa folla che segue Gesù.
C’erano infatti circa cinquemila uomini. Perché questo numero? Perché la primitiva comunità cristiana, secondo gli Atti degli Apostoli, era composta da circa cinquemila persone. Allora l’evangelista vuole dire che questa è l’azione che costituisce la comunità.
Egli disse ai suoi discepoli: “Fateli sedere”. Mentre gli apostoli hanno usato l’imperativo “Mandali via, congedali”, Gesù risponde con un altro imperativo contrario: “Fateli sedere”, letteralmente sdraiare. Nei pranzi festivi, nei pranzi solenni, si mangiava sdraiati su dei lettucci, ma chi poteva mangiare così? I signori quelli che avevano dei servi che provvedevano a loro. Allora Gesù chiede alla comunità dei discepoli di far sì che i presenti si sentano come dei signori perché loro si mettono al loro servizio.
“A gruppi di cinquanta circa”. In questo brano del vangelo ci sono molti numeri. I numeri della Bibbia hanno sempre un significato figurato, simbolico, mai matematico o aritmetico.  Cinquanta è l’azione dello Spirito. Pentecoste è il cinquantesimo giorno, quindi cinquanta e i suoi multipli indicano l’azione dello Spirito. 
 Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Quindi tutti i partecipanti a questa azione vengono trattati come dei signori. E qui l’evangelista anticipa quelli che saranno i gesti di Gesù nell’ultima cena.
Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, (in comunione con Dio) recitò su di essi la benedizione, … rendere grazie, far comprendere che non si possiede più questo pane e questi pesci ma che sono un dono di Dio e i doni di Dio vanno condivisi per moltiplicare gli effetti della sua azione creatrice.
Li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. I discepoli non sono i padroni, i proprietari di questo pane, ma sono servi il cui compito è distribuire questo pane alla folla. Non sta a loro decidere chi è degno e chi no di prendere questo pane, di partecipare o no a questa mensa, il loro compito è soltanto quello di distribuire.
Risalta l’omissione di un rito molto importante nel pasto giudaico: la purificazione. Perché Gesù non chiede alla folla di purificarsi per essere degna di mangiare questo pranzo? L’evangelista anticipa quella che è la grande novità di Gesù: mentre la religione insegna che l’uomo deve purificarsi per essere degno di accogliere il Signore, con Gesù è accogliere il Signore quello che lo purifica e lo rende degno di lui.
Conclude l’evangelista: Tutti mangiarono a sazietà. Quando si condivide c’è l’abbondanza per tutti.
 E furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste. E’ l’ultimo dei numeri apparso in questo vangelo. Perché dodici? Dodici è il numero delle tribù che compongono Israele. L’evangelista vuole dire che attraverso la condivisione dei pani si risolve il problema della fame. Fintanto che le persone accaparrano per sé, trattengono per sé, c’è l’ingiustizia e c’è la fame, quando quello che si ha non si considera come esclusivamente proprio ma lo si condivide per moltiplicare l’azione creatrice del Padre, si crea sazietà e abbondanza.

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papa Francesco comincia a smuovere qualcosa anche tra i vescovi italiani …

Il contagio del papa. E il primo effetto sui vescovi

di Luigi Accattoli
in “www.ilblogdelregno.it” del 23 maggio 2016

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“C’è un influenza del papa argentino sui nostri vescovi? E in quale direzione?”: apre su questa pista, attraverso la sollecitazione provocata da queste due domande, l’ indagine di Luigi Accattoli sul positivo “contagio” che viene ai nostri vescovi dalle parole e dai gesti di papa Francesco. L’esempio da seguire è certamente “alto”, ma gli entusiasmi e le buone pratiche non mancano.

Se il «male è contagioso, lo è anche il bene»: è un motto di papa Bergoglio (Angelus del 15 febbraio 2015) che pongo a logo della mia seconda indagine sul contagio esercitato da Francesco. Ho riferito qui il novembre scorso delle domande che ho posto ai vicini e ai commercianti del rione Monti di Roma dove abito, e di quelle – forse più stringenti – che ho fatto a me stesso e ai visitatori del mio blog e ne è venuto un quadro sbilanciato: entusiasmo verbale ma pochi fatti (cf. «Bergoglio nel blog e nel quartiere. Qualcosa si muove ma è troppo poco», Regno-att. 10,2015,711s). Ora apro l’indagine su vescovi e preti. Parto dai vescovi: qui l’entusiasmo delle parole è minore, molto minore e spero che per compenso siano di più i fatti. Ma lo devo verificare. Questa puntata è un lancio di sasso: tornerò sull’argomento e sfrutterò l’eco che mi verrà dalla caduta del sasso.Sigalini

Resto una settimana in ogni parrocchia Nei giri per conferenze mi è capitato di ascoltare i cristiani comuni grati e lodanti per papa Francesco, con i soli preti – a volte – pieni di riserve. I vescovi che «si interrogano» mi paiono proporzionalmente più frequenti dei preti. Ma non mancano gli entusiasmi e le buone pratiche. Mi appunto a queste, più che alle parole. C’è un’influenza fattuale del papa argentino sui nostri vescovi? E in quale direzione? Il caso che m’attrae è quello di Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina, e riguarda l’abitazione: «Da un paio d’anni non abito più nel palazzo vescovile ma in case varie che mi vengono messe a disposizione dai parroci o dai parrocchiani. Per 19 mesi ho così girato i 18 comuni e le due frazioni della diocesi, restando un mese in ciascuno. Volevo conoscere la geografia e la popolazione, toccare le situazioni. Ora sto facendo la stessa cosa per la visita pastorale: resto una settimana ad abitare in ognuna delle 40 parrocchie. Sempre celebro o concelebro e tengo una breve omelia ogni mattina. Posso così conoscere le persone, ascoltarle, parlare a loro con il cuore in mano. Ho trovato un mio modo per essere tra le pecore a distanza ravvicinata. Per vivere basta una stanza, dico a chi mi commisera. Tutti sono generosi nell’ospitarmi e mi trattano benissimo». Uno potrà dire: Sigalini ha buon gioco, perché Palestrina è una piccola diocesi. È verissimo: sede suburbicaria, cioè sotto l’Urbe, con appena 114.000 abitanti.

BrambillaMa ho trovato un’analoga uscita verso le pecore nel vescovo di una grande diocesi: Franco Giulio Brambilla, di Novara: 564.000 abitanti in un territorio vastissimo. Brambilla, avendo appena concluso il Sinodo diocesano, ha avviato una visita pastorale «residenziale» che prevede una sua permanenza di due mesi – 60 giorni distribuiti in tre periodi – in ciascuno degli otto vicariati, in modo da incontrare gli operatori pastorali, tutti i preti e i laici che lo chiedono, i responsabili e gli animatori delle unità pastorali. «Una scelta – mi dice Franco Giulio – mirata alla conoscenza diretta, in loco, delle singole realtà e delle singole persone». Conosco da tanto tempo sia Sigalini sia Brambilla e ne tiro la conclusione che un vescovo secondo il cuore di papa Francesco cerca di fiutare le pecore, sia che ne abbia poche sia che ne abbia tante. Analoga a quella di Sigalini, per quanto riguarda l’abitazione e la celebrazione del mattino, è la scelta del nuovo arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi: alloggia in una casa del clero in via Barberia – dove ha un piccolo appartamento nello stesso piano già abitato da tre vescovi ausiliari emeriti – e celebra tutte le mattine, con omelia, all’altare del Sacramento in Cattedrale.

Zuppi
L’abitazione e la messa con omelia Al posto di Zuppi, nel settore Centro di Roma, è stato chiamato don Gianrico Ruzza, già parroco di San Roberto Bellarmino, la chiesa romana di cui il cardinale Bergoglio era titolare: egli si propone di cercare un alloggio che lo tenga a contatto con la popolazione e va studiando come poter guardare da vescovo ausiliare al mondo dei giovani. Vedremo che cosa inventerà. Il settore Centro è anche il mio e io ero buon amico di Zuppi e già lo sono di Ruzza, che una volta mi chiamò a San Roberto a parlare proprio di papa Francesco e già mi ha interpellato sull’avvicinamento dei giovani. Sulla falsariga delle iniziative papali, don Ruzza aveva avviato nella sua grande parrocchia un servizio docce e una mensa per i senzatetto. Per casa e messa feriale, molto simile alla scelta di Zuppi è quella del nuovo arcivescovo di Trento Lauro Tisi, già vicario generale della stessa arcidiocesi: «Resterò ad abitare dove sono ora», ha detto il giorno della pubblicazione della nomina, cioè in una casa del clero. Don Tisi ha deciso anche di tenersi la sua utilitaria, senza cercare un’auto di rappresentanza; e di celebrare ogni mattina – con omelia – per gli universitari, nella cappella dell’arcivescovado. Per la sola casa va anche nominato il vescovo di Cesena-Sarsina, Douglas Regattieri, che sta realizzando una trasformazione della sua residenza per aprirla a una «casa famiglia» della Comunità papa Giovanni XXIII e lo sta facendo con esplicito riferimento agli inviti di Francesco alla condivisione con i poveri e all’accessibilità, cioè all’opportunità che il vescovo sia sempre accostabile da parte di chi lo cerchi. Il modo e il luogo dell’abitare e l’omelia mattutina mi paiono gli elementi sensibili di questa miniindagine. Se li annoti chi volesse aiutarmi con segnalazioni. Chiedo infatti a chi mi legge di darmi una mano per allargare il campo di osservazione, indicandomi vescovi nostri che si sono posti fattivamente sulle orme del primate d’Italia.
Non vorrei il titolo di eccellenza Mi interessano ovviamente anche altri aspetti del contagio. Fino a qui ho nominato vescovi con i quali ho parlato e dunque sono sicuro di quello che ho scritto. Ma ho letto tanti altri segni del contagio bergogliano tra i nostri vescovi, che riferisco sommariamente dalla lettura dei giornali, o di siti Internet, o da sentito dire, che sono tutte fonti fallaci. Il cardinale Francesco Montenegro di Agrigento gira in vespa e parla dei migranti con lo stesso linguaggio evangelico del papa. Lo faceva già prima che arrivasse papa Francesco, ed è forse per quella vicinanza di linguaggio e gesti che è stato fatto cardinale. E lui ha voluto un gruppo di poveri alle «visite di calore» il giorno dell’investitura. Analoga la parabola del cardinale Edoardo Menichelli, che conosco dal vivo e che sempre è andato in giro con un’utilitaria che guida da solo. Da sempre don Edoardo parla delle famiglie ferite con lo stesso scrupolo dell’accompagnamento che oggi viene comandato dal papa venuto dalla fine del mondo.

Cipolla Il nuovo vescovo di Padova Claudio Cipolla da solo, con la sua piccola automobile, percorre la vastissima diocesi per incontrare a uno a uno tutti i 774 preti, nonché i religiosi e i laici che vogliono parlargli.
Vende Opel Astra e realizza un dormitorio CastellucciIl recente arcivescovo di Modena, Erio Castellucci, ha con sé in arcivescovado una famiglia di immigrati albanesi e rifiuta ogni cerimonia. «Non vorrei per me, se possibile, la qualifica di eccellenza e preferirei essere chiamato per nome», ha detto nell’omelia di ingresso. Sarei curioso di sapere come funziona questa spoliazione dai titoli, già tentata da tanti a partire dal cardinale Pellegrino all’indomani del Concilio, ma che attacca più in America Latina che da noi. Il cardinale Bergoglio a Buenos Aires era per tutti «padre Jorge», mentre qui da noi sono solo gli amici di prima che continuano a chiamare per nome chi diventa vescovo, anche se l’eletto preferirebbe che lo facessero tutti. Mi piacerebbe anche sapere come va, nella vita ordinaria, ai nuovi vescovi degli ultimi mesi che hanno voluto un pastorale di legno (Roberto Carboni, francescano conventuale già missionario a  Cuba e ora vescovo di Ales-Terralba); o hanno annunciato che volevano continuare a vivere in una comunità di preti e non isolati in episcopio (Renato Marangoni, prete padovano divenuto vescovo di Belluno); o hanno venduto l’automobile Opel Astra che gli era stata regalata al momento dell’ingresso in diocesi, destinando il ricavato alla realizzazione di un dormitorio per senzatetto (Luigi Renna vescovo di Cerignola – Ascoli Satriano). Il dono aveva acceso polemiche e altrettante ne ha scatenate la vendita. Morale: un vescovo non deve badare alle polemiche. Che ne è stato della «condivisione degli stipendi» proposta due anni addietro dal cardinale Gualtiero Bassetti ai dipendenti della curia di Perugia, «affinché chi prende di più si adatti per un motivo etico e di carità a ricevere meno in questo momento di difficoltà economiche»?

BregantiniCom’è finita l’autotassazione del clero di tutta Italia per costituire un fondo a sostegno dell’occupazione giovanile di cui parlò una volta l’arcivescovo Giancarlo Bregantini?
Appena ti muovi ti tirano le pietre Non sono pessimista sul contagio che viene ai nostri vescovi dalle parole e dall’esempio del papa. Tengo in conto le difficoltà a seguirlo, che forse sono maggiori in un piccolo ambiente, o comunque non minori. Appena ti muovi ti tirano le pietre: vuoi metterti in mostra, getti cattiva luce sul predecessore, cerchi un cardinalato fuori dalle regole. Sulla difficoltà di seguire il papa nella sua vicinanza alle pecore valga questa riflessione del cardinale Betori quando l’ebbe ospite in Firenze il novembre scorso:

Betori «Gli sono stato dietro tutto il giorno e ho ammirato la sua dedizione verso tutti, dai bambini agli anziani, ai poveri, ai malati, ai detenuti. La gente non fa fatica a voler bene a un uomo così, ma certo il problema è per noi pastori che abbiamo questo alto esempio da seguire».
www.luigiaccattoli.it

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Quando si innalza un muro è come se si dichiarasse guerra. A un popolo. All’umanità intera

non passa lo straniero?

editoriale di Mosaico di pace – maggio 2016 – 
http://www.mosaicodipace.it
Renato Sacco – coordinatore nazionale di Pax Christi

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“(…) Quando si innalza un muro è come se si dichiarasse guerra. A un popolo. All’umanità intera, che ha diritto a vivere in pace al di là del luogo in cui si è nati. E che dire del principio inviolabile del ripudio della guerra, (esiste ancora!) sancito nell’articolo 11 della Costituzione italiana, ridotto a brandelli?
Sì, perché oggi le guerre non si dichiarano, si fanno e basta. (…)
Guerre che si fanno anche con i muri. Come se veramente gli stranieri fossero invasori, come se veramente potessimo credere che la sicurezza dipenda dal trincerarci tra fili spinati a destra e a manca. Come se si potesse interrompere questo esilio forzato di gente senza nome né volti senza fermare subito il commercio delle armi, in Paesi in guerra o in altri Stati che fanno da tramite.

muro1 E continuiamo a concludere ben più che redditizi accordi con il Qatar (dove ci saranno i mondiali di calcio nel 2022) o a inviare missili in Kuwait. Anche al Brennero, ora, si vuol costruire un muro. Stessi luoghi, stesse guerre, stesse retoriche. E spesso in nome di radici cristiane dell’Europa! E perché non ripartire proprio dal Brennero per indicare strade nuove? Pensiamoci.  (…)  Insomma, dal non passa lo straniero della prima guerra mondiale ai ghetti della seconda… sino ai muri della terza? No! Noi non ci stiamo.  Non ci resta, che resistere, sempre. Anche alle guerre non dichiarate. “

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