relazione di don Vito Impellizzeri al CCIT 2016 di Esztergom in Ungheria

CCIT –Esztergom– 2016

basilica1la figura della coscienza del Samaritano lo sguardo dal basso della prossimità culturale

 

di don Vito Impellizzeri

A mio padre, vangelo nascosto

Introduzione

«L’altro è l’inferno» (Sartre)Vito

«Oggi sarai con me in Paradiso» (Gesù)

«La sofferenza, la fame, i disagi finiscono per fare degli uomini dei lupi fra loro: beati quei popoli che riescono a prevenire con l’unico mezzo efficace, la vera profonda leale solidarietà. La società di domani sarà come noi l’avremo voluta oggi» (G. Andrea Trebeschi, Brescia 1897 – Dachau Mauthausen Gusen 24.1.1945)

«Ma un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione; avvicinatosi, fasciò le sue piaghe, curò le sue ferite …» (Lc 10,33)

A proposito di misericordia … nell’accompagnare mio papà alle porte del cielo ho imparato il nostro poter essere due domande fondamentali. Certo mi piacerebbe da subito, in questa riflessione, fermarmi sul nostro essere due (ovvero relazione, ad immagine e somiglianza dell’essere relazione di Dio; il nostro essere due aperto al compimento del terzo, di Dio che sceglie di abitare nelle nostre relazioni autentiche di umanità nel suo nome; essere da) e sul nostro essere domanda (ovvero ricerca, desiderio, speranza, apertura, verso la verità, la bellezza, l’unità, il bene, verso Dio; essere per). Ma devo prima raccontare le due domande sentite ripetutamente negli ultimi giorni di mio papà. Domande che abitano come senso e come promessa la mia ricerca, che hanno ricordato alla mia coscienza l’intelligenza nascosta del vangelo nelle pieghe e nella piaghe del quotidiano.

  1. Accompagnandolo in ospedale a fare le visite, ma lo stesso potrebbe avvenire in posta, in un supermercato, o dal dentista, dovunque si crei un legame antropologico reale tra il tempo come attesa e lo spazio come fila e questo attenda la scelta delle relazioni, la prima domanda era sempre la stessa: «Scusate, chi è l’ultimo?». È, a mio semplice modo di vedere, riflesso di vangelo, completamento della domanda con cui Gesù conclude la parabola del Buon Samaritano, perché anche qui la risposta, il riconoscimento presuppone poi che io, cioè colui che pone la domanda, prenda il suo posto, diventi io l’ultimo. E lui diventi colui che è prima di me. Diventi il primo di me. È questa semplice domanda che trasforma gli ultimi in primi. È questa semplice domanda che custodisce l’umanità come riflesso bello di vangelo. È veramente una domanda bella.

  1. Ma, mentre diventati gli ultimi e resi primi quelli davanti a noi, eravamo in attesa del nostro turno, capitava sempre che qualcuno, magari perché conoscesse me, veniva a salutarci. Ed ecco la sua seconda domanda, fatta da mio papà proprio nella sua condizione di anziano con la fatica della memoria e della vita sociale e del senso del raccogliersi del tempo: «Ma, mi conosci?». Questa domanda immediatamente mi ha ricondotto alla pagina evangelica del giudizio sulla carità di Mt 25 e sul criterio del discernimento del Figlio dell’uomo, riguardo il conoscere e amare uniti dalla carità come opera, che permette il riconoscimento come benedizione e beatitudine. Ed ero reso partecipe, coinvolto, immediatamente in bellissimi dialoghi della memoria, in cui il mio giovane amico diceva semplicemente il nome del proprio genitore e del proprio nonno, e mio papà, con una semplicità autenticamente tenera, si faceva lui stesso dono come memoria graziosa (fatta di ricordi e forse di rimpianti) per la sua storia, indicandogli luoghi, fatti, vicende, esperienza, che il giovane stesso non conosceva, ma che ora, finalmente riconosceva, (ma quando noi abbiamo …); in forza del dono della memoria (fate questo in memoria di me) lo rendeva erede di un nome diventato memoria, cioè storia, relazione tra gli uomini oltre la loro stessa morte. Per questo benedetto e non maledetto.

  1. Il mondo come spazio della vera fraternità.

[È dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, Questo sfida l’uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.1 ]

Alcune semplici note ci permetteranno di cogliere la bellezza, la novità e anche la libertà di alcuni passaggi di questo numero del Concilio della misericordia2 intorno alla teologia pastorale dei segni dei tempi. In verità la teologia dei segni dei tempi è considerata da molti fra le più forti eredità del Concilio. Essa segna il cammino contemporaneo della Chiesa e ne manifesta la sua necessaria recezione creativa. Essa rinnova, cambia, forse completa, la percezione della relazione tra Chiesa e Mondo, avviando quel legame di reciprocità che permette al mistero della Chiesa di restare fedele al mistero stesso di Cristo e alla sua incarnazione, fedeltà alla Kenosi, allo scandalo e alla stoltezza della Croce; e allo stesso modo, le permette di restare aperta, come seme e come opera, all’annuncio e alla venuta del Regno di Dio. La Chiesa non può essere pienamente se stessa senza l’alterità del mondo, senza cioè la storia e la famiglia umana, oltre che senza l’alterità di Cristo. Cristo – Chiesa – Mondo, segnata dal suo legame con lo Spirito e con il Regno, e dunque in dissimmetria Spirito – Chiesa – Regno. È il percorso dell’autocoscienza che essa stessa ha percorso nel Concilio. Inoltre da questa eredità (traditio vivens) conciliare passa la fedeltà contemporanea alla natura missionaria della Chiesa. La Chiesa è tutta missionaria. È in gioco la contemporaneità della salvezza, come misericordia e come giustizia, e non solo la sua eternità, come giustizia e come misericordia! La GS ha piena consapevolezza che nella storia le cose non stanno semplicemente cambiando ma si sta entrando, in forza della tecnica e della comunicazione, della intelligenza e creatività umana, in una epoca del cambiamento e allora compie uno sforzo grande, proprio di una grammatica genitoriale della responsabilità e del responsabilizzare: riconosce in questa crisi di crescenza la necessità della crescita personale e sociale dell’uomo ed indica la necessità di non smarrire, di non perdere, il riferimento ai valori perenni dell’umanità che custodiscono la dignità di ogni persona e dell’intera famiglia umana. La scelta di indicare i valori come perenni mostra tutto intero il mistero che lega la Chiesa e il Mondo nel tempo, nella storia, come missione e come memoria. Si tratta dunque della responsabilità di ricordare in ogni cambiamento il permanere della sua dignità e della sua vocazione, del suo compito e del suo destino, della sua identità e della sua responsabilità. Il perenne non è perché nulla cambi, ma perché il cambiamento non smarrisca il senso, il camminare non smetta di essere crescenza. Infatti il Concilio è così libero di affermare la non paura dell’aggiornamento e la necessità della Chiesa di dover farsi trovare adeguata, cioè comprensibile e significativa, ad e per ogni epoca ed ogni generazione. Aggiornamento. Questo non vuol dire perdere i valori perenni, non vuol dire cedere i valori non negoziabili. Anzi. Questi le sono continuamente partecipati dal suo legame vivo e vitale con il Cristo, con l’umano dell’umanità crocifissa e risorta del Figlio di Dio e di ogni uomo partecipe del dolore della croce, con il suo Spirito e con la già presenza del suo Regno non ancora compiuta. Ed è proprio la perennità dei valori a spingere la Chiesa a cercare il dialogo con ogni uomo e in ogni contesto storico e sociale. Incarnazione ed inculturazione. Non c’è nulla di autenticamente umano che non riguardi e soprattutto non interessi la Chiesa. Il Concilio propone una idea di mondo plurale e completa, lo coglie nel suo significato antropologico e sociale, creazionistico e teologico, amartiologico (legato al peccato), storico, cristologico ed escatologico salvifico. Ne afferra l’orizzonte greco di cosmos; quello ebraico e cristiano di creazione e promessa di salvezza ed evento dell’incarnazione; ed anche quello occidentale moderno di storia e natura. Oggi il Concilio aggiungerebbe anche quello postmoderno e mediatico di rete e di comunicazione, fluido. Un piccolo mondo, dove niente è più fuori, extra, lontano, separato, dall’altra parte, nascosto, irraggiungibile. Un mondo raccolto e raggiungibile. I fatti del mondo riguardano tutti e possono ricadere su tutti. Nessuna guerra è più molto lontana. Il mondo raccolto, lo spazio piccolo, il tempo comunicazione, diviene oggi il luogo della responsabilità etica dell’uomo, giudicato e purificato dalla croce e continuamente rinnovato e ricreato dal suo spirito nell’evento della risurrezione escatologica. La GS sorprende anche per la sua tensione universalistica. In un mondo realmente globale e raccolto in rete la Chiesa sente forte la necessità di voler raggiungere tutti, di voler contattare interamente la famiglia umana e fare appello ad ogni singola e libera coscienza. Unico diventa il destino dell’umana società senza diversificarsi più in tante storie separate. Papa Francesco, seguendo le orme del Concilio, nella Laudato sii parla del mondo come casa comune e propone un’ecologia integrale. Dal Concilio è stata riconosciuta e assunta, cioè imparata, del cammino veritativo dell’uomo il valore forte che la modernità riconosce e attribuisce al soggetto e alla libertà. Il trittico che tutti abbiamo imparato in Occidente dalla rivoluzione francese libertà – uguaglianza – fraternità non risulta più contrario alla fede e alla vita cristiana. Si può dialogare. Resta il disagio però che da subito il trittico è stato ridotto nella modernità politica a dittico e il tema della fraternità è sparito dal riferimento al guadagno politico della modernità. Ora, per noi, la fraternità è proprio il contributo del cristianesimo ad una cultura occidentale che vuole assumersi in modo adulto il peso di una libertà che matura come responsabilità e di un soggetto che si riconosce e si costituisce nella sua identità proprio grazie all’alterità, all’altro. Il Concilio dimostra semplicemente la struttura dell’identità del soggetto legata all’alterità attraverso il ricorso alle dinamiche del micro sociale (padri-figli e uomo-donna) e del macro sociale (solidarietà, partecipazione). La socializzazione padri e figli e uomo-donna evidenzia le due polarità fondamentali che strutturano la condizione umana come intrinsecamente chiamata alla socialità; in senso così storico-temporale, come susseguirsi di generazioni, e in senso di contemporaneità orizzontale come essenziale espressione della creatura umana nella polarità di identità – differenza e identità – dialogo. Il macro sociale testimonia solidarietà, partecipazione, unità, conflitto, pluralismo, comunicazione. Sempre seguendo il cammino tracciato e avviato dal Concilio Papa Francesco afferma:

In questo modo, si rende possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita sola da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto.3

La storia dunque è il luogo specifico e il teatro di realizzazione dell’uomo come singolo e come comunità sociale. Ma il Concilio, proprio secondo la prospettiva dell’unità, assume una decisa prospettiva trinitaria, legge in tale chiave proprio l’ Intersoggettività.

[Iddio che ha cura paterna di tutti, ha voluto che tutti gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro come fratelli. Iddio abbia voluto per se stesso, non possa trovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé.4 ]

Ognuno deve considerare il prossimo, nessun eccettuato, come un altro se stesso. Il “come” dei sinottici, è in realtà la misura trinitaria della socialità umana, cioè il porre l’altro sullo stesso piano di sé, come il Padre e il Figlio, la stessa dignità. E deve considerare il prossimo come l’alterità di Dio. Amare Dio e amare il prossimo non possono essere disgiunti come comandamento, in ragione del fatto che il comandamento rileva, cioè assume a norma di comportamento, ciò che l’amore rivela: l’inseparabilità tra Dio e il prossimo. Inseparabilità realizzata in Cristo. È il mistero più profondo che abita l’incarnazione, lì dove inizia la misericordia.

[La Chiesa ha riconosciuto che l’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice della grazia in ciascuno di noi,pesanti inefficaci.5 ]

Il dialogo è la forma concreta che la vita e la missione della Chiesa sono chiamate oggi ad assumere, con una reale e bella spiritualità del dialogo. Questo comporta la conversione dello sguardo: «chi è il diverso?» Diverso, cioè di(s)vertere: volgersi via da. Il diverso è l’altro in quanto diverge, in quanto cioè è percepito allontanarsi da me perché ha preso una strada che guarda altrove rispetto a quella da me intrapresa. E invece l’altro è il volto che guarda verso di me, il volto che rivela me a me stesso, come anch’io un volto capace di incontro. “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza” promessa di reciproco riconoscimento, l’altro non è estraneo ma fratello! L’alterità, la prossimità, nel legame di amore e verità, intesa e assunta come fraternità è ciò che vorrei provare a mostrare come il compito dell’uomo e del cristianesimo con il confronto con la teologia di K. Rahner. Provando in questo modo ad argomentare il passaggio antropologico, prima considerato connaturale e semplice come pratica, tra prossimo e fratello perché fondato sulla condizione universale di figlio. La rinuncia pratica e politica della modernità alla dimensione universale di fraternità ha oggi contribuito, in ragione anche dei drammi, dei contrasti e delle paure in atto, a discuterla, nonostante l’appello continuo alla condizione universale di figliolanza. Per di più, da sempre, l’esperienza domestica ci racconta la fatica e il dramma quotidiano di relazioni di figliolanza e di fraternità vissute in contraddizione e in contrasto. Ognuno conosce la storia di Caino. Se già la naturale fraternità per nascita fa fatica ad essere considerata criterio e norma per relazioni e per scelte, oggi, una fraternità universale costruita sul comune e filiale senso di Dio come Padre e Creatore, fa veramente fatica ad essere praticamente condivisa come il criterio guida per affrontare ed assumere i drammi, i contrasti e le contraddizioni in atto nella scena politica del mondo. Il legame di identità antropologico fratello-figlio oggi non è più scontato come dato universalmente condiviso. Qui il cristianesimo, e non solo lui con la forza del comandamento dell’amore al prossimo Forse non nella sua forma riflessa ma certamente nella sua forma pratica. Occorre testimoniare e raccontare l’umano che comune attraverso uno sguardo che sa cogliere nel diverso uno specifico esercizio di umanità, un peculiare dono per sé e per gli altri. Io per primo o mi rivolgo verso di lui e così si può accendere la compassione e la misericordia. Compatire, cioè portare insieme i pesi gli uni degli altri, gioendo per le gioie dell’altro e soffrendo con lui per la prova che lo angustiano. Patire insieme il peso e la grazia di essere creati ad immagine e somiglianza di Dio per diventare insieme suoi figli nella concretezza difficile, ardua e complessa della nostra esistenza. L’insegnamento e la prassi di Gesù dischiudono in profondità l’atteggiamento della compassione, della kenosi. Amare significa farsi l’altro, mettersi nella sua pelle (è la proposta di una globalizzazione dal basso) ascolto disarmato, vuoto di sé; fraternità. Dio in persona viene ad abitare in mezzo agli uomini, là ove si accende il mutuo riconoscimento.

[L’unione della famiglia umana viene molto rafforzata e completata dall’unità della famiglia dei figli di Dio, il compimento della sua missione.6 ]

  1. La fraternità: totalità del compito di tutto l’uomo e del cristianesimo.

Eccomi al secondo momento di questo percorso: Non c’è alcun amore a Dio che non sia in se stesso già amore al prossimo e che attraverso l’esercizio dell’amore al prossimo non raggiunge il suo fine. Riflesso l’argomentare di Rahner della Prima Lettera di Giovanni. Solo chi ama il prossimo può sapere chi è veramente Dio, e solo chi ama Dio veramente può riuscire ad entrare in relazione con l’altro uomo, senza renderlo un mezzo per la propria autoaffermazione, in maniera riflessa oppure no. Dio non è il concorrente dell’uomo, bensì colui che rende comprensibile l’uomo, colui che gli dà la sua vera radicale dignità e significazione, essendo nel più intimo dell’uomo e nel contempo superandolo infinitamente. L’esistenza in Dio è la più profonda interiorità dell’uomo. In quanto viene amato in/per Dio, l’uomo è amato nel suo essere e nel suo significato ultimo, e in quanto si apre veramente all’amore al prossimo gli è data la possibilità di uscire da se stesso per amare Dio.

Il secondo passo sta nel comprendere come l’amore al prossimo presenti una vera dimensione storica che deve concretizzarsi nell’azione. C’è veramente una storicità dell’amore cristiano verso il prossimo. Le sfide attuali sono sotto lo sguardo di tutti: comunicazione, ecologia, finanza, migrazioni, terrorismo, gender, democrazia, dignità e difesa della donna, dialogo, pluralismo, fondamentalismi religiosi; queste sfide pongono la questione se abbia senso e contenga promessa intendere l’amore al prossimo come fraternità.

Di fatto, grazie alla comunicazione oggi siamo di fronte ad una umanità che nel suo insieme tende a diventare sempre più unità. Mondiale, globale, sono parole del quotidiano di ciascuno, spesso abbinate a crisi o conseguenze, basti pensare alle situazioni di conflitto o alle sfide ambientali. Viviamo nella situazione di una umanità che si fa sempre più vicina e unita. Ciò non significa naturalmente che questo mondo umano che diviene sempre più uno sia anche più armonico e tranquillo. Anzi. In un mondo in cui le singole storie dei popoli e le singole culture non sono più separate da spazi vuoti e da terre di nessuno, le situazioni di un conflitto divengono persino più pericolose che non nei tempi passati. C’è oggi nell’umanità una forza centripeta che costringe i singoli spazi storici e culturali a convergere verso uno spazio esistenziale comune a tutti gli uomini, ad es. la questione dei diritti universali dell’uomo. Ma anche c’è una nuova interiorità dell’uomo. Una nuova percezione di se. Sta cambiando decisamente la coscienza soggettiva e la sua relazione con il bene (e il male). Questa nuova condizione globale cambia anche la percezione della Chiesa, oggi tutti percepiamo la Chiesa nella sua dimensione mondiale, fa quasi nostalgia l’espressione usata da Papa Francesco la sera della sua elezione, di un papa venuto dalla fine del mondo!

Stoltezza della croce. Vera sapienza cristiana. Domanda che scuote le coscienze. La fraternità si rivela secondo Rahner come forma concreta dell’amore verso Dio. Il fratello diventa la porta, autenticamente umana, che porta Dio. Il fratello è la porta santa. Emerge chiaramente allora il senso e la promessa con cui Francesco ha voluto ampliare il segno della porta santa nel Giubileo della misericordia ponendovi luoghi come Lampedusa, il Centro Africa e la mensa dei poveri. Quando si comprende veramente l’unità che deve esserci tra l’amore verso Dio e verso il prossimo allora quest’ultimo passa dalla situazione di richiesta di una prestazione particolare e ben limitata alla condizione di un totale impegno di vita, in cui da tutta la nostra persona si richiede qualcosa, esigendola oltre misura. È il compiersi della trascendenza secondo la carità. È autentica libertà da noi stessi. In altri termini con fraternità, nella sua necessaria unità con la risposta d’amore verso Dio, si esprime la totalità del compito di tutto l’uomo e del cristianesimo. Secondo il padre gesuita è una parola da difendere e orientare verso la coscienza. In modo che torni a trovare residenza nella coscienza comune dell’umanità raccolta globalmente. Papa Francesco oggi in qualche modo rappresenta tangibilmente e percettibilmente la coscienza dell’intera umanità che vive più che mai oggi in unità e comunicazione. Rappresenta la coscienza del mondo.

Da questa impostazione della questione del recupero della logica agapica integrale della fraternità ne conseguono alcune conseguenze. Innanzitutto una teologia politica deve derivare necessariamente dall’essenza di questa fraternità cristiana. Oggi viviamo in una società del cambiamento. È un nuovo ambito per il compito della fraternità. L’ambito della politica vera e propria, della responsabilità per le premesse socio-strutturali che consentono una vita degna dell’uomo e sanamente possibile. Spiritualità fraterna e mistica della fraternità secondo l’EG, capaci di avviare il costituirsi di strutture di misericordia, alternativa alle strutture di peccato e alla logica del potere.

Poi ne consegue che mistero è la totalità dell’esistenza umana. Dio ed uomo sono mistero. L’amore del prossimo fa sì che uno entri nell’altro. Tale amore consegna l’uomo che ama all’altro, non soltanto in questo o quella sua caratteristica bensì nella sua totalità, come soggetto, con l’ampiezza illimitata della sua coscienza e del suo essere libero, con il suo perdersi in Dio. E allo stesso modo questo amore del prossimo è pronto ad accogliere l’altro come un soggetto denso di incalcolabile mistero. L’amore per il prossimo è il vicendevole compenetrarsi dei due misteri, in cui è presente il mistero per eccellenza Dio che rende così irriconoscibili i limiti tra questi due soggetti. In terzo luogo, secondo la proposta di Ranher la grazia si rivela come attraverso l’amore al prossimo, la fraternità, Dio stesso si fa norma interiore nello scambio tra due soggetti. La realtà bella ed universale, per tutti, è che l’antropologia della fraternità cristiana riesce a dire dell’uomo comune e semplice questa sua dignità infinita. La fraternità avvolta e sostenuta dal mistero assoluto di Dio infinito è per tutti. Per l’uomo che vive il quotidiano, fatto di spazi vuoti di infinito.

Terza ed ultima conseguenza è il rischio della libertà, amare nel senso vero e proprio della parola. La fraternità che è sorretta dall’amore verso Dio e che in questo amore trova il suo compimento, è la cosa più grande che ci sia. E proprio in quanto tale rappresenta la possibilità che viene offerta ad ogni uomo nella semplicità del quotidiano.

  1. Il perdono e le strutture di misericordia.

[la sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. che si chiama senso del mistero.]7]

Il termine misericordia conosce possibili chiavi semantiche:

  • miseror, avere pietà verso chi è misero, e cor, il cuore che sente questa pietà.

  • Rahim, rehem, esedh, emeth: viscere materne, grembo materno, bontà originaria, completa fedeltà, ma anche verità.

  • Eleos, oiktirmos, splanchena: misericordia, compassione, commozione, viscere materne.

«Misericordia io voglio e non sacrificio» ci ricorda il profeta Osea (6,6); spesso nella pratica però a noi sembra il contrario. Ora volere, desiderare, sentire misericordia significa entrare nella relazione che lega la madre con il figlio, in quella relazione talmente interiore che sente e riconosce il muoversi della vita, che è in te, ma che non è tua, e non sei semplicemente tu; ma è più intimo di te a te stesso, ti abita e si nutre di te. Il figlio ti rende madre (padre). È un dono reciproco, vicendevole: in te, il tuo corpo, la tua libertà, il tuo amare ha donato la vita, è diventata un’altra vita. Vita da vita, amato da amare. Un amore così grande che è capace di sopportare e attraversare il dolore del parto. Il parto diventa benedizione e non più maledizione quando il grido della madre cede il passo al pianto del bambino, quel pianto cancella tutte le prove, tutte le paure e le angosce, il bambino si rivela il senso e la promessa di quel grande dolore attraversato. L’amore diventato per un momento dolore ora si compie come amato, diventa il nome nuovo, diventa la umanità nuova, diventa figlio mio, figlia mia. Ma la madre e il padre possono solo gestire l’amore diventato dolore e poi amato come compimento del parto. Un dolore più grande è la drammatica somiglianza tra l’uomo, nella sua altissima dignità di amare, e Dio stesso: è la perdita del figlio. Quando un figlio perde il padre o la madre, la parola di senso e di dolore umano non tace ma riconosce la condizione di orfano, ma quando un fratello perde suo fratello, o un padre e una madre perdono un figlio, la parola umana di senso e di dolore tace, non vuole essere consolata, non riconosce quella nuova condizione. Il silenzio, il nome non nuovo di sé, ma il nome dell’amato diventato morto, diventato pianto, ricordo, memoria, gratitudine, rimpianto, diventa il quotidiano. Chi non conosce il dolore grande del sentire il figlio come perduto non può sentire la misericordia; perché non può provare la gioia più grande ovvero sentire il figlio come ritrovato. È la dracma perduta, è la pecora perduta, è il figlio perduto, il loro ritrovamento genera la vera gioia, la festa. Ma chi non ha perso nessuno, non attende nessuno, non spera per nessuno, forse non vive per nessuno. La domanda più bella sulla risurrezione e sul senso della vita io la ho avuta posta due volte da due bambini in circostanze drammatiche: Pier Claudia, dopo la morte della sorellina Eva a soli 7 anni mi ha chiesto «quando anch’io andrò in cielo, mia sorella sarò cresciuta come me e la riconoscerò o sarà rimasta piccola a 7 anni?»; Giuseppe a 9 anni, dopo la morte del suo papà mi ha chiesto «Zio, ma la risurrezione vuol dire che io rivedrò mio papà?». Il dolore per la perdita dell’amato mostra l’altissima dignità dell’uomo, mostra che l’amore è più forte della morte, mostra che l’amore è la vocazione di ogni uomo, mostra che la misericordia, la restituzione della vita dell’amato, la restituzione della vita del figlio è la dignità umana e divina, mostra che la misericordia è atto di risurrezione, di restituzione della vita del/al figlio e della vittoria della vita sulla morte. Mostra la ragione per cui il Figlio di Dio nella sua umanità crocifissa ha perdonato i suoi uccisori. Ma chi non conosce il dolore per la perdita dell’amato a fatica conosce la misericordia e riconosce il grido del perdono, senso e promessa del pianto del figlio restituito alla vita. La restituzione del figlio alla vita è il senso e la promessa della misericordia. È la gioia. Questo non contraddice ma include, lega, pone in relazione di reciprocità la misericordia e la giustizia di Dio. Secondo la misura smisurata della dignità divina, infinita, delle creature. La vendetta è vendicativa, ma la giustizia no, è giusta! Se non riconosco alcun legame essenziale con la persona da giudicare, penso di avere davanti a me soltanto un altro, cioè di fatto uno che sta fuori di me e vale meno di me, che per giunta è reo di qualche colpa. Così sarò portato a vedere non più la sua umanità e il legame prezioso che ci unisce, bensì solo le sue prestazioni negative o positive. E, prima ancora, sarò portato a credere che il male non riguardi me ma l’altro. O, semmai, mi immaginerò spontaneamente come colui che deve decidere se perdonare o no. Invece figlio o figlia è chi, nascendo a vita nuova, scopre che i cosiddetti altri sono fratelli e sorelle, e in tale scoperta si apre alla relazione viva con Dio padre e madre (se vuole). La giustizia della misericordia non è bendata ma guarda e vede bene il volto di ciascuno. È la ragione più alta di ogni razionalità. È intelligenza suprema, poiché sa vedere ogni cosa e ogni creatura per quello che è. Sa riconoscere il valore di ognuno anche e proprio quando sembra distrutto. È una logica superiore ad ogni altra logica. È la luce dell’amore vero. I processi vitali della misericordia sono la prossimità fedele che non tradisce e si ferma per prendersi cura; il perdono; il sapere bene che il malvagio nel compiere il male ha distrutto la sua libertà perché si è reso schiavo del peccato. Misericordia è restituzione della libertà: la sua seconda e nuova libertà è suscitata dall’amore misericordioso di Dio che vuole ritrovare nel malvagio un figlio. Una forza di guarigione, di liberazione dal male, di risurrezione. È rompere il legame tra uomo e male. Il principio di misericordia è «perdona loro perché non sanno quello che fanno». La misericordia è dunque amore/dolore, intelligenza dell’anima e processo di maturazione dell’unità spirituale della persona. Gesù stesso ha attraversato il conflitto e provocato situazioni di conflitto (diatriba sul ripudio e tradimento di Giuda) mostrando una percorribile via della non violenza, con il dialogo di misericordia/giustizia e la verità/carità, alternativa alla via del potere. Emerge chiaramente anche la tenerezza politica della misericordia: cura del bene comune e riscatto degli esclusi, alternativa alla cultura dello scarto e del ricatto, si tratta di costruire strutture di misericordia (Moltmann) per una società decente, generare un mondo nuovo con la logica messianica dell’etica concreta agapica. La misericordia deve venire dal basso (dove sono le vittime, dove si alza il grido, dove Dio si incarna) è non è paternalismo pietistico e patetico ma è riscatto e rottura. Il disagio di ricordare che nel Getsemani Gesù diede ai discepoli tempo e libertà e persino spazio proprio, lì collocò nell’ora dell’uomo. Ed essi si addormentarono.

Conclusione

Conosciamo la vicenda di Babele. (Gen. 11, 1-9)

Centoquaranta rampe di scale furono addossate alla torre, settanta a Oriente e settanta a Occidente. Quelle a Oriente servivano per salire e quelle a Occidente per scendere. Così il formicaio si rivelava più che mai insensato. Le formiche cercano e scelgono sulla superficie della terra provviste indispensabili alla sopravvivenza durante l’inverno, e le trasportano nelle loro abitazioni scavate nel suolo. Gli abitanti delle tre città prendevano da terra mattoni fatti con la terra e li trasportavano in alto, sempre più in alto, con fatica sempre maggiore e senza potersi fermare a riprendere fiato, perché la minima sosta rischiava di bloccare il flusso dei portatori provocando incidenti. Ormai occorreva più di un anno per arrivare in cima e un anno esatto per tornare giù. Se un uomo si feriva o cadeva da quell’altezza, nessuno ci faceva caso, ma se si rompeva o andava perduto un mattone, tutti piangevano perché sarebbero dovuti passare più di due anni prima di poterlo sostituire. L’unica pausa in quel moto perpetuo aveva luogo in cima alla torre, dove prima di attaccare la discesa i portatori di mattoni si fermavano a cementarli con la calce e a lanciare nugoli di frecce contro il cielo. Facendo bene attenzione a non guardare mai verso terra per paura delle vertigini. Gli angeli tornarono dall’Eterno:

  • Guardali! Sono arrivati tanto in alto che non ce la fanno a guardare il panorama.

Li vedo, disse l’Eterno rattristato, si sono trasformati in macchine puntante in un’unica direzione. Li ho lasciati fare fin’ora perché non si ingannano e non si uccidono, ma che pace è questa in cui si è perso il valore della vita umana? Venite, scendiamo fra questi sciocchi, confondiamo le loro lingue e costringiamoli a pensare».8

  • Non apparirebbe del tutto diversa la vita cristiana se noi intendessimo spontaneamente la massima salva la tua anima con salva il tuo prossimo?

  • Noi siamo disposti a prendere sul serio la beatitudine del povero, del misericordioso, dell’operatore di pace e il consegnarsi di Gesù come reale esperienza di compimento della nostra esistenza?

  • Siamo disposti ad accogliere che nell’amore cristiano, quale si attesta alle origini, l’amore del nemico è il principio di ogni amore ecclesiale?

  • Scusate, chi è l’ultimo, perché io possa prendere il suo posto?

  • Ma mi conosci? Ogni volta che lo hai fatto al più piccolo dei miei/tuoi fratelli lo hai fatto a me

1 Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n. 4

2 Espressione scelte da Piero Coda per una sua recente pubblicazione: Piero Coda , Il Concilio della misericordia. Sui sentieri del Vaticano II, Città Nuova, Roma 2015, pp. 407. Testo chiave per l’elaborazione di questo mio primo paragrafo.

3 Francesco, Evangelii Gaudium, Città del Vaticano 2013, n. 228

4 Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 24

5 Francesco, Evangelii Gaudium, Città del Vaticano 2013, nn. 188-189.

6 Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, n.42

7 Francesco, Evangelii Gaudium, nn. 276.278-279

8 G. Limentani, Gli uomini del libro, Adelphi, Milano 1975, pp.82-84

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introduzione di C. Dumas al ccit 2016 di Esztergom

CCIT – Esztergom 2016

 

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Introduzione

Claude DumasClaude

E’ con grande gioia che mi unisco al saluto e alle parole di benvenuto pronunciate da Monsignor SZÉKÉLY. Aggiungerei solamente che sono contento della presenza di Sua Eminenza il Cardinale ERDŐ PÉTER, Primate d’Ungheria, per l’interesse che Sua Eminenza porta per il lavoro del CCIT, e aggiungo anche un caloroso ringraziamento all’equipe dell’Ungheria per il loro lavoro di questi ultimi mesi e la qualità della loro accoglienza..

« All’incrocio dell’Europa, le Chiese e le culture di fronte alla misericordia »

Per presentare il tema di quest’anno, ho scelto un passaggio di Isaia :

Così parla il Signore : « Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?  Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà e la gloria del Signore sarà la tua retroguardia. È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l’uomo si umilia? Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere, è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al Signore? Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà; implorerai aiuto ed egli dirà: «Eccomi!». Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio,  se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio ». (Is 58/7-10) 

Isaia parla alla comunità ebraica di Gerusalemme la cui situazione è tutt’altro che idilliaca. All’indomani dell’esilio, la delusione è grande e tutto è in rovina. Hanno tutti l’impressione di essere in un vicolo cieco, vivono in una città che non ha più mura e l’insicurezza è grande. Inoltre, molte sono le tensioni in questa comunità nella quale gli ebrei ritornati della deportazione e coloro che sono restati vivono insieme. Poche speranze per il futuro. Questo popolo, promesso a diventare la luce dei popoli, offre uno spettacolo ove ricchi e potenti sfruttano quelli che non poveri e indifesi, una nazione che disprezza gli stranieri. Mentre tutti si lasciano andare nell’ingiustizia o la tollerano, si cerca di ottenere il favore del Signore ripristinando le osservanze religiose con grande rigore, moltiplicando pratiche come il digiuno. Dio resta insensibile a questo spiegamento di devozione… ma ecco, Dio risponde : «Queste preghiere non mi toccano, Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo?  »

Dissi che il popolo era in un vicolo cieco, ma sarebbe stato invece a un crocevia : a un incrocio con diverse direzioni da prendere… e deve fare una scelta : sarà la luce delle nazioni solo quando darà l’esempio e dividerà con i più sfortunati e lotterà contro l’ingiustizia e lo sfruttamento dei deboli.

« Nulla di nuovo sotto il sole ? » (Qo 1/9). In effetti, la Parola di Dio è sempre la stessa, quella di sempre : è eterna.

Al giorno d’oggi, l’attualità di tutti i paesi, qualunque siano le politiche impiegate, ci spingono a fermarci per interrogarci su come vogliamo vivere e cosa fare : dove andiamo ? Verso cosa ? Quale strada seguire : quella dell’individualismo, della cultura dell ‘ »Io », della sicurezza, dell’indifferenza che conduce alla costruzione di mura e barriere, alla xenofobia, all’esclusione, alla violenza…. tutto questo apre la porta a strade piene di fatti dolorosi. O allora percorsi meno rettilinei, che ci fanno avanzare con calma e pazienza, un passo dopo l’altro, a incontrarci con l’altro, ad arricchire delle nostre differenze, a coesistere, a vivere la fraternità tra i popoli…

Si, è questo il tema del nostro incontro ; che sia l’Europa nella sua costruzione o nel suo desiderio di de-construzione, le Chiese nelle loro dimensioni multiconfessionali a volte in contraddizione con il messaggio evangelico che sono sensate portare, o le culture dei nostri diversi paesi, o etnie spesso controverse, non possiamo sottrarci individualmente o collettivamente, alla domanda dal nostro Papa Francesco che apre le porte della misericordia. La speranza nella misericordia di Dio « ci porta la luce » ha detto il Papa, mentre “rigidità” e “i calcoli umani chiudono i cuori e la libertà”. (Omelia 12/14/15)

All’incrocio delle nostre strade… davanti alla crisi migratoria, allo smantellamento dei campi dei Roms, alle difficoltà di stazionamento che hanno i Tzigani in certi paesi… quale è stata e quale è la nostra risposta… e per quale futuro?

Il nostro conferenziere padre Vito IMPELLIZZERI, teologo, ha il duro compito di illuminarci e illustrare i nostri discorsi… e allora, senza perdere tempo, lasciamogli la parola.

Buon incontro a tutti.

 

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la relazione di Géza Dul al CCIT 2016 sulla pastorale degli zingari in Romania

CCIT 2016 – Esztergom (Ungheria)

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1)  I Rom in Ungheria1


Sulla base delle tradizioni secolari la società ungherese è tollerante verso i Rom, ma negli ultimi anni è apparso una forte voce anti-rom nella vita politica. L’aspetto negativo della democrazia per i Rom è il giocare nelle lotte politiche dei partiti con la carta degli Zingari, e questo si manifesta in un forte antiziganismo, o in un permissivismo eccessivo. La “discriminazione positiva” falsamente interpretata ha rovinato molto l’opinione pubblica sugli Zingari che ha condotto tante volte ai giudizi meno duri in molti casi quando gli autori del delitto erano d’origine rom. Nel Parlamento è presente un partito politico rappresentando pensieri anti-rom eccessivi. Tuttavia, forse anche un contro-effetto di questo è evidente. Nella società c’è uno strato che diventa sempre più attiva per colmare il conflitto tra Zingari e non Zingari. Conferenze organizzati su questo tema sono sempre più frequenti, i volontari mostrano ogni dove la loro disponibilità per aiutarli. In tutto il paese, abbiamo 80-100 iniziative pastorali formali degli Zingari all’interno della Chiesa cattolica. rom ungheresi

La sindrome da burnout dei specalisti significa un problema.

L’ostacolo dell’integrazione può essere l’assistenza sbagliata che conferma la subordinazione e la dipendenza, e non sostiene il mettersi in proprio.

Vogliamo sottolineare l’ostacolo che deriva dalla mancanza di autostima degli Zingari e questo è confermato e spesso provocato dall’opinione della maggioranza sulla soggezione dei Rom, constituendo un’ostacolo davanti la sana cooperazione sociale tra Rom e nonRom. Ci sono alcuni che vogliono “risolvere” il “problema” dei Rom che stanno lentamente ma sempre più rendendosi conto della coscienza in modo che vogliono fare ritornare lo spirito nella bottiglia, gli altri cercano di trovare soluzioni più degne all’uomo: fuori la formazione adeguata, la crescita dell’occupazione cercano di rispettare la loro cultura specifica per dare un posto degno agli Zingari nella società. approcci fortemente diversi fanno germogliare conflitti estremi poligonali che sono l’origine delle tensioni attuali con i Rom.

Il numero degli Rom ammonta al 7-8% della popolazione totale. Tuttavia, la capacità riproduttiva della popolazione Rom è molto superiore a quella della società maggioritaria, e quindi il numero della società Rom cresce in un ritmo molto più veloce. Il 20% delle donne nonrom ha tre o più figli, il 61% delle donne rom ha tre o più figli.2 In dieci anni, mentre il numero della popolazione ungherese è diminuito di 300 mila, il numero degli Rom è aumentato di 100 mila.

Alcuni gruppi degli Zingari sono presenti nel paese, l’87% non parla la lingua, gli Zingari cosidetti “romungri” che parlavano il linguaggio di Carpazi che è vicino alla lingua romanes di oggi sono arrivati nel paese nel XV secolo. Il 7,8% dei Rom che viva nel paese è valacco che era venuto nel XVIII e XIX secolo in Ungheria, parla la lingua lovari. Gli Zingari bea non parlano una lingua di tipo romani, ma di vecchio rumeno; loro costituiscono il 4,5% della popolazione zingara in Ungheria.

La situazione sanitaria dei rom ungheresi è molto sfavorevole. La speranza di vita per un uomo zingaro è di circa dieci anni meno di quella dei membri della società maggioritaria. Il tasso di incidenza della malattia è di solito 2-3 volte più, ma c’è una malattia che si incontra sei volte più (l’asma) fra i Rom.

Le condizioni abitative rispecchiano la loro situazione avversa. Uno dei problemi più gravi è l’eliminazione dei quartieri dei Rom. Più volte è stato preparato un piano di liquidazione finale”. Nel 2002, alcuni miliardi di fiorini sono stati programmati, ma alla fine il piano è caduto vittima dei giochi politici.3 Da quello tempo, l‘eliminazione dei quartieri va avanti continuamente, ma molto lentamente.

Solo il 25,1% dei Rom in Ungheria ha un posto di lavoro, il 5% studia, il numero dei pensionati di invalidità è molto alto: 15,4%. Quelli che sono a casa per educare i bambini, il 13%, ricevono un po’ di remunerazione. Prima del cambio di regime, al regime di dittatura di Kádár, l’85% aveva un posto di lavoro. In quel tempo, la disoccupazione era dentro il posto di lavoro. Negli ultimi 25 anni, questo ha provocato una sorta di nostalgia per il periodo prima del cambio di regime.

L’alto indice della disoccupazione è in relazione con il livello basso di scolarizzazione, di formazione. Il tasso di disoccupazione è così alto perché il livello della scolarizzazione e della formazione della popolazione rom è basso. E appunto a causa della povertà non può ottenere una scolarizzazione di livello più alto perché non si dispone di un reddito sufficente per crescere nella formazione. Questo circolo vizioso impedisce di uscire della povertà e riproduce continuamente la povertà, le povere condizioni abitative e gli indicatori di salute.

L’istruzione mostra allo stesso tempo tendenze positive e negative. Il tasso della popolazione che non finisce l’istruzione primaria è molto alto, è di 30,2%, e la parte che ha finito la scuola secondaria è solo di 36,4%. L’indice dei maturati riflette il tasso nella classe di età. E’ bene che questo indice si aumenta nella classe di età sempre più giovane.

Tabella comparativa tra la scolarizzazione della popolazione maggioritaria e quella rom: Inferiore all’istruzione primaria – Almeno istruzione primaria – Scuola professionale – Maturità – Università, collegio http://www.ceferino.hu/images/stories/tanulmanyok/dul-g-besz-a-ciganysag-helyz/beszamolo_a_magyar_clip_image002_0001.gif

Cambiamenti favorevoli: tra i gruppi di età più giovani la parte della popolazione che non finisce la scuola secondaria mostra una riduzione meno di cinque volte, ma è sempre di 15%. Il numero delle persone nelle classi di età più giovani che finiscono la scuola primaria sta sempre crescendo. La percentuale di maturati è aumentata di dieci volte in trent’anni, ma anche attualmente è solo di 11,4%. (Nella popolazione maggioritaria il tasso di maturati è di 38,2%.) L’indice dei lavoratori è più alto, è quasi quadruplicato. Gli ultimi sondaggi mostrano che – benché il numero di maturati fra i Rom stia crescendo, lo svantaggio sta crescendo sempre di più perché il numero di maturati giovani nella popolazione totale cresce molto più velocemente. In dieci anni il ritardo dei Rom è aumentato di 27%. Purtroppo, la recente tendenza è che il numero di scuole segregate e di classi omogenee rom di pedagogia differenziata sta crescendo.4 I dati educativi sono il peggiori negli insediamenti di quasi ghetto.

L’indice di scolarizzazione di collegio e di università è estremamente elevato rispetto alla media europea, ma resta ancora inferiore al 2% (il 7-8% sarebbe opportuno per la quota).

2) La pastorale dei Rom nella società con le tensioni tra Rom e non-Rom


C’è un elemento centrale, un‘idea di base nella pastorale degli Zingari. Non è sufficiente di affrontare il riallineamento unilaterale dei Rom, ma bisogna anche trasformare la società maggioritaria in accogliente verso i Rom e anche questo è il compito della pastorale degli Zingari. Allo stesso tempo, dobbiamo esercitare la nostra attività in due direzioni, perché la zizzania che separa gli Zingari e non Zingari non si attenua spesso con il trattamento unilaterale, secondo le esperienze, ma al contrario, le tensioni aumentano, come reazione opposta. La soluzione più efficace è la presenza comune degli Zingari e non zingari in comunità quando guardano insieme in entrambe le direzioni, verso entrambi i lati delle tensioni sociali.

Il governo politico attuale è cooperativa, incline moderatamente ad aiutare, assicurando un contesto adatto per l’opera di evangelizzazione tra la popolazione rom.

Alcuni fatti, eventi d’importanza simbolica che influenzano il pensiero collettivo

Probabilmente, non sono molti che usano la Bibbia completa tradotta in lingua romaní in 2008, ma si sente il suo effetto sull’autovalutazione degli Zingari che va crescendo. Nella liturgia essa si utilizza come traduzione, e non come un testo liturgico ufficiale. Il rispetto e la conoscenza del Beato Ceferino sono cresciuti in tutto il paese. La sua immagine, il suo nome sono diventati sempre più conosciuti tra gli Zingari, la sua immagine è esposta agli incontri per formare la coscienza. Questo influisce la mentalità pubblica sugli Zingari. Negli ultimi anni, da una parte stiamo notando una voce forte anti-rom nella politica, e allo stesso tempo, il numero dei giovani zingari lauerati coinvolti nella vita pubblica sta aumentando, e si mostra anche un interesse silenzioso, una solidarietà verso i Rom. In precedenza, queste persone erano prevalentemente di mentalità di sinistra, e adesso stanno cominciando ad essere presenti nei valori cristiani.

Nel 2010, un libro divulgativo con titolo Etnografia dei Rom è nato dalla penna del vescovo János Székely che presente la situazione, la storia e la cutura dei Rom. Questo libro ha suscitato un interesse oltre le aspettative e stiamo notando che forma continuamente l’immagine delle persone di buona volontà dagli Zingari. Nel 2015, un libro di catechesi è stato fatto per Rom, e nel 2016 anche un libro sul rito funebre di lingua romaní.

Ogni anno organizziamo incontri di grandi dimensioni. Tali sono la festa patronale a Csatka (una parte della Santa Messa si dice in lingua zingara, con testimonianze), la festa patronale degli Zingari a Mátraverebély – Szentkút (organizzata dai comuni di minoranza di questa regione, con processione e liturgia della Parola), la festa patronale degli Zingari a Máriapócs (un evento di due giorni con esercizi spirituali), la festa patronale di Sant’Anna a Csobánka, l’incontro degli Zingari giovani a Kaposszentbenedek, un incontro nazionale tra Zingari – non-Zingari a Vác, la festa patronale di San Martino a Alsószentmárton.

La chiesa cattolica greca è presente in una regione dove gli Zingari sono presenti in una percentuale elevata, facendo grandi sforzi nella pastorale degli Zingari. Scuole, esercizi spirituali, festa patronale degli Zingari a Máriapócs, ecclesia rom a Hodász.

Nel 2013, la Conferenza Episcopale Ungherese ha organizzato per la prima volta le Giornate Sociali Cattoliche. La pastorale degli Zingari era presente con alcune lezioni, organizzando una tavola rotonda e ha suscitato notevole attenzione.

Il lavoro dell’Istituto Beato Ceferino, istituzione della Conferenza Episcopale Cattolica per la pastorale dei Rom, ha una importanza pre-evangelizzatrice perché si coinvolge nel programma di lavoro nel settore pubblico che copre l’intero paese, donando così un sostegno per la vita di migliaia di Rom disoccupati e per le loro famiglie.

Ci sono nove sacerdoti di origine rom, la difficoltà è che una volta incorporati nella pastorale diocesana diventano meno coinvolti nella pastorale diretta dei Rom.

Tutti questi eventi rinforzano l’autovalutazione dei Rom, da una parte, per essere capaci di avere relazioni più armoniose con i non Rom, e dall’altra parte per formare l’immagine dei non Rom sui Rom perché quelli siano più accoglienti, più relazionali.

Parrocchie

L’attività ordinaria delle parrocchie non è tanto spettacolare, ma forse la più importante (catechismo, battesimo, messe, ecc.), a cui partecipano, naturalmente, molti Zingari. Basta pensare, per esempio, all’Arcidiocesi di Eger dove il 25% dei battezzati sono bambini rom.

Formazione dei seminaristi

Secondo la raccomandazione di 2013 del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e Itineranti, il tema della cultura dei Rom e della pastorale dei Rom è stato conosciuto ogni dove in qualche modo nei seminari in Ungheria, nell’educazione, tuttavia, in questo campo è ancora necessario di fare ulteriori passi. Il Comitato della Pastorale dei Rom della Conferenza Episcopale Ungherese ha preparato un programma scolastico che viene utilizzato nei collegi teologici secondo le loro peculiarità, di solito nel contesto della disciplina della Pastorale.

Altre attività regolari

Inoltre, molti Zingari sono aiutati dalla Caritas (assistenza alimentare, vestiti, medicine). In alcuni casi, la Caritas ha contribuito a lanciare programmi per aiutare la creazione di posti di lavoro (per esempio, a Kerecsend con un programma di semenza). Anche la nostra pastorale fra i detenuti è regolare dove entriamo in contatto con molte persone zigane (per esempio a Vác, a Balassagyarmat). Parecchi istituti educativi organizzano corsi biblici, sante messe (per esempio a Esztergom, a Aszód).

Ci sono movimenti religiosi a cui partecipano numerosi Zingari. Per esempio, al Cursillo che dà un’esperienza e una formazione molto intensa dura un weekend lungo. Un gran numero di Zingari ha partecipato ai weekend di Cursillo nel 2013.

3) Attività di evangelizzazione degli Zingari in modo mirato

La Chiesa cattolica sostiene molte istituzioni educative dove la maggior parte dei studenti è zigana, (per esempio in città di Kazincbarcika, Karcag, Szolnok, Nyíregyháza, Rakaca, Hodász, nei collegi specializzati per gli Zingari a Miskolc, a Szeged ed a Budapest, ecc.).

Ogni anno è consegnato il premio Valyi (riconoscenza del lavoro per i bambini svantaggiati nella provincia Komarom-Esztergom).

Con il sostegno della Conferenza Episcopale organizziamo ogni anno la Conferenza della pastorale degli Zingari, che offre ai dirigenti della pastorale dei Rom una formazione professionale e un’occasione per la condivisione di esperienze nelle zone più diverse del paese.

In alcune città universitarie del paese (a Budapest, Miskolc, Debrecen, Nyíregyháza e Szeged) operano collegi specializzati per gli Zingari, guidati dalle chiese (cattolica: gesuita, diocesi di Szeged-Csanád, diocesi cattolica greca di Hajdúdorog, chiese protestante e luterana). Mentre i rom giovani in prevalenza stanno studiando all’università o ai collegi hanno anche l’occasione di approfondire la conoscenza sulla cultura e la storia zigane, ricevono una formazione per la convivenza tra Zingari – non Zingari. Il senso della missione si sviluppa in loro, è sperabile che loro diventeranno lo strato dirigente intellettuale dei Rom nel futuro. Tra loro ci sono alcuni che vogliono diventare medico, musicista, canzonettista, artista, lavorio sociale, professore.

Nel 2015, sotto la direzione dell’Istituto Beato Ceferino, con il sostegno finanziario della conferenza episcopale è cominciata una formazione dei collaboratori pastorali nella pastorale dei Rom, con l’obiettivo di formare collaboratori rom e non-rom impegnati nella pastorale dei Rom per aiutare nelle parrocchie delle comunità il rapporto delle parrocchie con la società rom locale. La formazione prepara per il lavoro Rom e non Rom, con un livello di istruzione molto diverso, offrendo una conoscenza sull’etnografia rom e sulla pastorale fondamentale.

La Rete Socio-pedagogica della Chiesa comprende centri comunitari dove le persone svantaggiate sono sostenute per studiare, per costruire comunità, e dove si offre anche la possibilità di lavarsi, mangiare, fare il bagno, di trovare un supporto di consulenza (nelle città di Arló, Esztergom, Karcag, Gilvánfa, Alsószentmárton, Kaposfő e Zsámbék).

Nella Diocesi di Vác opera la Casa Ceferino, ufficio di pastorale dei Rom. Il suo principio è quello della pastorale non solo dei Rom, ma vuol predersi cura anche dei non-Rom perché i rappresentanti della società maggioritaria diventino capaci di entrare in contatto con loro. Ci sono comunità di Zingari-non-Zingari che operano in alcuni comuni con la partecipazione di 30-40 persone. Si vedono ogni mese, partecipano ogni anno agli esercizi spirituali. Ognuno di loro sta lavorando nel suo comune per introdurre gli Zingari nella vita pubblica locale. Iniziative di sostentamento sono state avviate per aiutare i Rom. Queste persone visitano scuole, organizzano „corsi di professore mastro straordinari” per gli studenti di età compresa tra i 10-18 anni. I giovani sono molto sensibili a un contatto diverso tra Zingari e non-Zingari.

Reti di assistenza doposcuola guidate dalle famiglie sono state create per bambini svantaggiati rom nelle regioni Nyírség e Nógrád per sostenerli nelle scuole. Una rete di case di comunità opera nella diocesi di Vác (nei comuni di Dejtár, Vanyarc, Kálló, Mátraverebély e Valkó), sotto la gestione di Casa Ceferino. L’operazione continua delle case rappresenta una grande difficoltà perché i concorsi offrono supporto solo per periodi.

A Budapest, un corso doposcuola di pomeriggio per bambini è organizzato in una delle più grandi comunità zigana. I nostri collaboratori partecipano agli esercizi spirituali e a corsi di aggiornamento diverse alcune volte all’anno, ogni volta per 2-3 giorni (nelle città di Esztergom, Máriabesnyő).

Sante Messe per la pastorale degli Zingari sono celebrate regolarmente a Esztergom (Chiesa di Sant’Anna ), e a Budapest nel distretto no. IX nella chiesa di Gát utca e e nel distretto no. VIII, nella cappella di Tömő utca.

A Esztergom, un incontro giovanile è stato organizzato sul tema del rapporto tra la cultura zingara e la Chiesa, in cui i giovani hanno interpretato poesie, pezzi teatrali, danze e canzoni a ispirazione religiosa e collegati alla cultura zingara (29 settembre).

L’Ordine Militare del Beato Ceferino che unisce gli Zingari di vita esemplare volendo promouvere la coesistenza tra Zingari – non-Zingari si riunisce ogni anno e sostiene, per esempio, il programma di pollame a Mátraverebély e a Esztergom.

L’Ordine di Malta è molto coinvolto nella pastorale degli Zingari con il suo lavoro economico e con l’educazione dei giovani a Monor e a Tarnabod.

Ogni estate organizziamo campi per i giovani zigani (Esztergom, Csobánka, Vanyarc, Kemence). Ci sono alcuni divertenti ritrovi (per esempio: festa di maggio a Esztergom – con partita di coppa di calcio, gara di cucina, ma sempre con la santa messa) .

A Budapest, i gesuiti hanno organizzato un’officina per la pastorale degli Zingari che sostiene la formazione e il dialogo; essa si apre ogni due settimane. Questo è un luogo di incontro regolare per gli interessati e per coloro che hanno preso un impegno attivo nella pastorale degli Zingari.

4) Programmi per i non-Rom, al servizio del contatto tra Rom et non-Rom

A volte, alcuni Collegi, università ci invitano per le celebrazioni della giornata dei Rom, per tavole rotonde, per occasioni organizzate agli studenti con l’obbiettivo di fargli conoscere la pastorale dei Rom, e queste sono conversazioni di buon umore e oneste con i Rom presenti, impegnati nella Chiesa. In questo caso, abbiamo anche l’opportunità di presentare la cultura e la gastronomia rom. I Rom impegnati nella Chiesa e nella cultura rom suscitano più e più volte uno stupore nei giovani.

Di tanto in tanto, l’occasione si pone anche nei media secolari di dare notize sugli eventi e l’approccio della pastorale degli Zingari. Ci sforziamo di fare conoscere agli spettatori, agli ascoltatori e ai lettori gli Zingari impegnati nella Chiesa che lavorano per il loro popolo. Così formiamo l’immagine della società maggioritaria sugli Zingari per renderla più aperta verso contatto con gli Zingari.

La finalità del programma regolare a Radio Maria sugli Zingari è quella di formare l’immagine del clero e dei fedeli sugli Zingari e renderli capaci al contatto con gli Zingari.

Nelle scuole primarie e secondarie, Rom impegnati nella Chiesa tengono master class non convenzionali per formare l’approccio degli studenti sui Rom e renderli capaci al contatto con i Rom. Nella maggior parte dei casi ne escono conversazioni profonde e oneste.

Il metodo di educazione musicale sudamericano “El Sistema” per bambini svantaggiati è pubblicato in Ungheria.

Per gli studenti di collegio, nel quadro della romologia o della pratica sociale, e per gli studenti della scuola superiore nell’ambito di un lavoro di volontariato obbligatorio di 50 ore prima della maturità abbiamo offerto l’opportunità di partecipare all’assistenza doposcuola dei Rom guidata dalle famiglie. I contatti così nati aiuteranno ad abbattere i pregiudizi nei confronti dei Rom. Questo forma l’immagine giovani sui Rom. L’esperienza degli studenti nel campo dell’assistenza dei bambini zingari manda un messaggio ai rappresentanti della società maggioritaria.

Alcuni siti web presentano da alcuni anni gli eventi e gli studi sulla pastorale degli Zingari:
www.ceferino.hu, http://www.boldogceferinoalapitvany.hu/

Programmi eccezionali

Siamo in contatto con la pastorale degli Zingari luterana e calvinista. Seguiamo reciprocamente con attenzione il lavoro, e qualche volta ci invitiamo reciprocamente per le conferenze e riunioni.

Relazione casuale sono costruite con il comune di Bártfa (Slovacchia), con la comunità Rom locale dei Salesiani di Don Bosco e con il comune di Csicsava, nella comunità della Chiesa greco-cattolica locale. Poi, nel 2013, la comunità rom di Bártfa ha visitato la comunità Ceferino ungherese, a Budapest-Gyömrő. Il programma ha servito non solo i contatti tra i Rom, ma anche la riconciliazione ungherese-slovacco.

L’invito per fare missione nel villaggio Barka (in Slovacchia) era straordinario, a cui ha partecipato l’80-90% della popolazione rom.

1 La maggior parte dei dati è stata presa dalla ricerca, dalla stima di Kertesi e di Kézdi di 2003

2 Morale ungherese di Mária Kopp, 2008, p. 419-420, ricerca di Judit Szabóné dr. Kármán

3 Morale ungherese di Mária Kopp, 2008, p. 434, articolo di Endre Miklósi

4 Morale ungherese di Mária Kopp, 2008, p. 419-420, ricerca di Judit Szabóné dr. Kármán

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il messaggio vaticano al CCIT 2016 a Esztergom in Ungheria

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Dal Vaticano, 17 marzo 2016

Prot. N. 8543/2016/N

Messaggio del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti

ai Membri del Comitato Cattolico Internazionale per gli Zingari (CCIT)

(Esztergom, Ungheria, 8-10 aprile 2016)

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Cari fratelli e sorelle,

La celebrazione dell’incontro annuale del Comitato Cattolico Internazionale per gli Zingari mi offre gradita occasione per porgere il più cordiale saluto agli organizzatori e a tutti i partecipanti riuniti a Esztergom. Ringrazio P. Claude Dumas, Presidente, per il gentile invito, che non ho potuto onorare di persona. Tuttavia, desidero essere presente con questo breve messaggio per augurare il buon esito dei lavori e per condividere con voi alcune riflessioni sul tema della vostra riunione: “All’incrocio: l’Europa, le chiese e le culture di fronte alla misericordia”.

Tale scelta indica il desiderio di ritornare alle origini della vostra missione tra le popolazioni rom e viaggianti, che trova il suo inizio nell’incontro con Gesù Cristo, “il volto misericordioso del Padrei, e nel desiderio di comunicarLo agli altri in base al mandato conferitovi dalla Chiesa. Inoltre, è un omaggio al Santo Padre Francesco, il quale ha offerto alla Chiesa l’Anno di Grazia, il Giubileo Straordinario della Misericordia, ricordandoci che ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padreii. La vostra scelta si pone altresì in sintonia con le esortazioni che lo stesso Pontefice ha rivolto ai partecipanti al pellegrinaggio dei Rom, Sinti e altri gruppi gitani, nel suo Discorso tenuto durante l’Udienza del 26 ottobre 2015iii.

In quella circostanza, il Papa ha auspicato che anche per il popolo Rom “si dia inizio a una nuova storia, a una rinnovata storia. Che si volti pagina! È arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo e della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri” (Discorso 2015). Ciò che vi abilita a dare il vostro contributo per la realizzazione di questo complesso compito è, appunto, “lo spirito della misericordia che ci chiama a batterci perché siano garantiti tutti questi valori. Permettiamo quindi che il Vangelo della misericordia scuota le nostre coscienze e apriamo i nostri cuori e le nostre mani ai più bisognosi e ai più emarginati, partendo da chi ci sta più vicino” (Discorso 2015).

L’Anno della Misericordia che viviamo ci mostra quanto abbiamo bisogno di sperimentare l’Amore di Dio sia noi sia i nostri fratelli e sorelle Rom e Sinti e come questo amore debba permeare tutte le dimensioni della nostra esistenza, in particolare la nostra fede e le sue espressioni, la nostra società e la cultura in cui viviamo. La misericordia è “fonte di gioia, di serenità e di pace”, “condizione della nostra salvezza” e “la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita”, come scrive il Santo Padre Francesco al n. 2 della Bolla Misericordiae Vultus (MV).

In riferimento al vostro tema si può constatare che la misericordia è il luogo dell’incontro tra la Chiesa, le culture e l’Europa, ma deve essere anche il punto di convergenza per la Chiesa e per la società nella ricerca di approcci adeguati per dare vita a nuove forme di convivialità basate su giustizia, solidarietà, fratellanza e pace. La misericordia indica anche, a ognuna di queste realtà, la strada giusta per ritornare a Colui che rivela a tutta l’umanità l’amore misericordioso di Dio, a Cristo, unico Salvatore.

Il grande araldo della Misericordia di Dio, san Giovanni Paolo II, nella sua Lettera Enciclica Dives in Misericordia, al n. 13 scriveva: la Chiesa “vive una vita autentica quando professa e proclama la misericordia – il più stupendo attributo del Creatore e del Redentore – e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia del Salvatore di cui essa è depositaria e dispensatrice”. Su questa scia Papa Francesco rammenta: “la misericordia di Dio, cuore pulsante del Vangelo, […] deve raggiungere il cuore e la mente di ogni persona. La Sposa di Cristo fa suo il comportamento del Figlio di Dio che va incontro a tutti, senza escludere nessuno” (MV 12). Là dove è presente la Chiesa deve essere evidente anche la misericordia. Ovunque si trovano i cristiani, nelle parrocchie, nelle comunità e nelle associazioni, devono sorgere oasi di carità e di amore misericordioso (cfr Idem). Permettiamo quindi che nell’opera di evangelizzazione dei nostri fratelli e sorelle Rom e Sinti, e in tutte le nostre attività a loro favore, ci guidi il motto di questo Anno Giubilare: Misericordes sicut Pater (Misericordiosi come il Padre). Chiediamo a Dio la grazia di essere misericordiosi perché ogni persona, ogni Rom, Sinto o Yenish che incontriamo nelle strade della vita, possa vedere in noi una scintilla del suo amore misericordioso e sperimentare la sua infinita tenerezza.

Questo spirito ci spinge a fare nostra la regola di vita dei discepoli di Cristo, quella che prevede il primato della misericordia improntata sul principio della valorizzazione e del rispetto della cultura e della dignità dell’altro, senza distinzioni. Non è mai un processo a senso unico, ma diventa una sorta di scambio. Donando misericordia diveniamo strumenti di carità, ma allo stesso tempo Dio ci benedice con la sua misericordia. È il principio etico di reciprocità che scaturisce dal discorso della montagna: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” (Mt 7,12) ed è un’espressione perfetta di osservanza del comandamento dell’amore: “Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,16-19) (cfr. CCC 2052).

La misericordia, quindi, si esplicita nel servizio all’uomo nella carità e con amore creativo. Tuttavia, voi sapete che “il fatto di presentarsi con amore e con il desiderio di proclamare la Buona Novella non è sufficiente per creare un rapporto di fiducia tra i Rom e gli operatori pastorali. […] Il superamento di questo iniziale atteggiamento può solo provenire da dimostrazioni concrete di solidarietà, anche attraverso una condivisione di vitaiv. Questo implica una conversione della mente, del cuore e degli atteggiamenti sia dei Rom e Sinti che delle popolazioni ospitanti, con la conseguente necessità di un’autentica riconciliazione tra loro. Tanto la riconciliazione quanto la comunione contemplano l’interazione legittima delle culture; in questo processo l’iniziativa deve partire anche dai Rom. Come tutti i cittadini, anch’essi possono e devono fare la loro parte, così come ha esortato Papa Francesco quando ha detto loro “potete contribuire al benessere e al progresso della società rispettandone le leggi, adempiendo ai vostri doveri e integrandovi anche attraverso l’emancipazione delle nuove generazioni” (Discorso 2015).

È giusto osservare che, sempre più spesso, il popolo gitano dimostra il desiderio di cooperare attivamente nel risolvere i problemi che affliggono la loro vita come la discriminazione, l’emarginazione, il razzismo e la negazione dei diritti al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche e alla casa. All’interno del Consiglio d’Europa si sono formati diversi gruppiv disposti a collaborare nella realizzazione dei progetti e programmi che riguardano Rom e Sinti. Nel 2015 è stato proposto un nuovo strumento di lavoro, il “Thematic Action Plan for the Inclusion of Roma and Travellers” per il periodo 2016-2019, in cui sono state individuate tre grandi priorità in merito: 1) affrontare con maggiore risolutezza pregiudizi, discriminazione e crimini contro le popolazioni gitane, 2) presentare modelli innovativi per le politiche inclusive delle persone più vulnerabili, 3) promuovere modelli innovativi per la soluzione di problematiche specifiche a livello locale. Inoltre, gli Organismi Internazionali e numerose ONG Rom si impegnano ad affrontare altre due piaghe vergognose per l’Europa e dolorose per il popolo Rom e Sinti: il fenomeno dilagante di anti-zingarismo e il traffico di donne e bambini all’interno delle Comunità Rom e Sinti.

L’anno della Misericordia ci rammenta che l’unica strada da seguire per creare giuste relazioni interpersonali è quella delle opere di misericordia corporale e spirituale che suggeriscono soluzioni appropriate alle reali condizioni di bisogno in cui versa l’uomo. Anche in questo contesto è importante sottolineare che il compimento delle opere di misericordia è un processo bilaterale che coinvolge chi dona misericordia e chi la riceve. Siamo chiamati a vivere di misericordia e a comunicare la misericordia “perché a noi per primi è stata usata misericordia” (MV 9).

La Chiesa è misericordiosa non solo quando richiama alla conversione, al pentimento e a riparare i danni, ma anche quando si mette in difesa dei diritti delle persone afflitte e delle vittime dei sistemi sociali o delle ideologie. Dobbiamo farci coraggio per denunciare le ingiustizie di cui i gitani sono ancora vittime e rispondere con le opere alle necessità dei Rom poveri, disprezzati e oppressi. Ciò esige da noi una “fantasia della misericordia” che, ricorrendo al termine “fantasia della carità” usato da San Giovanni Paolo II al n. 50 della Lettera apostolica Novo millennio inneunte, consiste nella “capacità di farsi vicini, solidali con chi soffre, così che il gesto di aiuto sia sentito non come obolo umiliante, ma come fraterna condivisione”. Dobbiamo quindi “fare in modo che i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come «a casa loro»” (Idem).

Nell’ottica della misericordia, in questa epoca segnata dalla secolarizzazione e dal relativismo religioso, l’Europa è chiamata a riscoprire le sue origini cristiane per poter offrire ai cittadini, talvolta disorientati, incerti e segnati da una sorta di smarrimento, un giusto contesto sociale e culturale che permetta di integrare la fede nella vita quotidiana per poter agire secondo i comandamenti di Dio. Anche le culture sono chiamate a spogliarsi di tutte le manifestazioni contrarie alla dignità della persona umana e a mettersi in dialogo che “deve avere come punto di partenza l’intima consapevolezza della specifica identità dei vari interlocutorivi.

Prima di concludere, desidero ringraziarvi per la testimonianza di carità che ogni giorno offrite con il vostro servizio e per l’instancabile annuncio della misericordia con parole e gesti che permettono ai Rom e ai Sinti di sperimentare l’amore di Dio e la grazia della salvezza. Vi auguro che sappiate accogliere con gioia l’invito di Papa Francesco a essere operatori della misericordia e a insegnare agli altri questo non facile “mestiere”.

Il Dio della misericordia sia misericordioso con voi, con i vostri cari, con le vostre famiglie e le vostre comunità.

Antonio Maria Card. Vegliò

Presidente

P. Gabriele F. Bentoglio, CS

Sotto-Segretario

i Francesco, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della Misericordia Misericordiae Vultus, Vaticano, 11 aprile 2015, n. 1.

ii Idem, n. 3.

iii Il Discorso è reperibile in diverse lingue nella pagina web del Vaticano: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2015/october/documents/papa-francesco_20151026_popolo-gitano.html

iv Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Orientamenti per una Pastorale degli Zingari, n. 74.

v Cfr. Forum of European Roma Young People (FERYP), Ternype – International Roma Youth Network, European Roma and Travellers Forum (ERTF), Romani Women’s Networks.

vi Benedetto XVI, Lettera Enciclica Caritas in veritate, Vaticano, 29 giugno 2009, n. 26.

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preghiera introduttiva del CCIT 2016 a Esztergom in Ungheria

CCIT 2016 – Esztergon

preghiera del venerdì sera

l’anno della misericordia

basilica1

 

misericordia, Europa, cultura zingara

Canto

1. Preghiera per la misericordia


Cari fratelli,


Quest’anno, il tema del nostro incontro è legato alla misericordia: misericordia nell’incontro delle culture misericordia al centro dei problemi attuali dell’Europa misericordia nella Chiesa. Tre parti principali compongono la nostra preghiera. Prima di tutto, chiediamo di poter vivere la misericordia e l’amore di Dio nella Chiesa, nella comunione fraterna in Cristo.
Una leggenda racconta che un pellegrino camminava sulla strada. Era di cattivo umore, e dei pensieri tristi gli attraversavano la mente. All’improvviso nota qualcosa di strano. e urla: ah, un serpente! Ma è troppo tardi, l’animale fa un saltato e lo morde. Poco dopo un altro pellegrino passa per la stessa strada. Il suo cuore è pieno di gioia, ed è di buon umore. Anche lui nota una cosa strana. Il suo viso si illumina con un sorriso e dice com’è bella questa allodola! E l’uccellino prende il volo subito, battendo le ali.
La morale della storia è questa: gli uomini sono spesso come noi li vediamo. Uno sguardo pretenzioso, negativo è un ostacolo, una rovina. Uno sguardo pieno di affetto mette le ali.gruppo rom suontori

Se in una famiglia regnano il giudizio, la malevolenza, la collera e l’amarezza, allora ognuno mostrerà la sua parte più oscura. Se in una famiglia regnano la sincerità, l’amore, la bontà, ognuno offrirà il suo volto più sorridente. E’ così nella Chiesa e nella società.

Quante ferite scaturiscono da giudizi negativi, da supposizioni malevoli, dal disprezzo!

Sono in grado di vedere con gli occhi di Dio, di guardare il mio prossimo, i membri della mia comunità, il povero, il disprezzato, con uno sguardo pieno di misericordia e di amore?

Avvicinati a chi è accanto a te, tendigli la mano, volgi su di lui uno sguardo pieno di amore e auguragli la pace di Cristo! E con il pensiero offri la riconciliazione anche a coloro che non sono qui!rom ungheresi

 

Canto

Le ferite, i conflitti tra gli uomini sono spesso insolubili a livello umano.
Solo la misericordia di Dio è in grado di guarire queste ferite, solo le braccia aperte del Cristo, dall’alto dalla croce, possono abbracciare gli uomini in conflitto.


All’interno della nostra comunità, succede che alla messa o in una cappella, davanti alla croce, uomini in lite tra di loro si riconcilino, si stringano la mano e si abbraccino come dei fratelli, anche se portano le cicatrici delle ferite che si sono inferti.

Con questa preghiera noi vogliamo rendere grazie perché Cristo è la nostra pace, lui che abbatte ancora e ancora i muri tra di noi, e fa di noi un solo corpo. Chiediamogli di divenire anche noi operatori della riconciliazione.

preghiera


Tutti: Signore, fa di me un artigiano della tua pace,

che Io porti l’amore là dove regna l’ odio,

il perdono là dove abita l’ingiuria,

l’accordo là dove c’è il disaccordo,

la verità là dove regna l’errore,

la fede là dove vive il dubbio,

la speranza là dove regna la disperazione,

la luce dove non c’è che ombra,

la gioia là dove abita la tristezza.

Signore, fa che io doni consolazione anziché essere consolato,

fa che io testimoni la comprensione anziché essere compreso,

che io ami piuttosto che essere amato.

Perché è dimenticandoci di noi che ritroveremo noi stessi,

E’ perdonando che saremo perdonati;

E allora, dopo la nostra ultima ora, ci sveglieremo nella vita eterna. Amen.

Canto

2. Preghiera per l’Europa


L’apostolo San Paolo ha udito in sogno la chiamata a percorrere l’Europa. Nei secoli il Vangelo di Cristo risorto è stato diffuso su tutta la terra. Grandi uomini e santi sono nati come frutti dell’amore eroico dei martiri di Cristo.


Risposta: Ti rendiamo grazie per i valori di cui hai gratificato l’Europa nel suo passato e nel suo presente.


Che la società intera si sforzi di seguire le orme di Gesù e non solo le persone. Che i dirigenti di tutti i popoli tendano a organizzare i loro Paesi secondo l’insegnamento di Gesù’. Che le relazioni tra i popoli possano allacciarsi secondo la volontà di Cristo.


Risposta: Ti rendiamo grazie per i valori di cui hai gratificato l’Europa nel suo passato e nel suo presente.


A causa delle debolezze e delle imperfezioni dell’uomo, la riuscita è stata solo parziale. Ma ricordiamoci che è negli sforzi dei grandi uomini della sua storia, Saint Etienne, Saint Louis, che la sua cultura si è formata.


Risposta: Ti rendiamo grazie per i valori di cui hai gratificato l’Europa nel suo passato e nel suo presente.

La teologia, la filosofia, l’architettura, la musica, il canto, la pittura e la scultura hanno sempre cercato di trovare i modi per esprimere Dio. Grazie al lavoro svolto per la gloria di Dio, terre aride e paludi sono state trasformate in terre fertili. L’Europa è stata la culla delle scienze e dello sviluppo della tecnica .

Risposta: Ti rendiamo grazie per i valori di cui hai gratificato l’Europa nel suo passato e nel suo presente.


Qui sono nati gli ordini religiosi che hanno curato i poveri e gli ammalati, che hanno insegnato ai giovani, che hanno riscattato i prigionieri.


Risposta: Ti rendiamo grazie per i valori di cui hai gratificato l’Europa nel suo passato e nel suo presente.


Perdona i peccati, le imperfezioni dell’Europa!


Risposta: Abbi pietà di noi, Signore!


Perdona quelli che hanno tollerato la palese ingiustizia tra ricchi e poveri.


Risposta: Abbi pietà di noi, Signore!


Perdona all’Europa le sue guerre, le sue intolleranze, le sue ostilità.


Risposta: Abbi pietà di noi, Signore!


Perdona all’Europa i crimini che ha commesso contro gli zingari, gli omicidi, le azioni giudiziarie, le esclusioni, il disprezzo e la discriminazione.


Risposta: Abbi pietà di noi, Signore!


Perdona all’Europa lo sfruttamento dei popoli degli altri continenti.


Risposta: Abbi pietà di noi, Signore!


Perdona all’Europa i suoi peccati, le sue infedeltà alle sue radici cristiane, le sue paure di annunciare il Vangelo!


Risposta: Abbi pietà di noi, Signore!


Canto

Preghiera di San Giovanni Paolo II per l’Europa

Maria, Madre della speranza,
cammina con noi!

Insegnaci a proclamare il Dio vivente;
Aiutaci a testimoniare Gesù, l’ unico Salvatore;
Rendici servitori verso il nostro prossimo,
accoglienti verso chi è nel bisogno.
Rendici artigiani della giustizia, costruttori appassionati di un mondo più giusto;
intercedi per noi che operiamo nella storia,
con la certezza che il disegno del Padre si compirà.
Alba di un nuovo mondo,
mostrati a noi Madre della speranza
e veglia su di noi!
Veglia sulla Chiesa in Europa:
che sia trasparente al Vangelo;
che sia un autentico luogo di comunione;
che viva la sua missione di annunciare, di celebrare e di servire
il Vangelo della speranza,
per la pace e la gioia di tutti. Amen.

3. Preghiera per gli Zingari – Gesù sulla croce

Gesù, Tu ha sofferto per noi, Tu sei stato crocifisso per i nostri peccati. Crediamo troppo poco in Te, perché guardiamo solo noi stessi invece di contemplare Te.
Noi vediamo solo le differenze tra gli uomini e le culture, per questo alziamo muri e per questo distogliamo il nostro sguardo dall’altro, piuttosto che chinarci verso di lui.

Dicci Signore, cosa dobbiamo fare?
Contemplarti sulla croce,
quando ci sentiamo traditi, ingannati,
quando ci crediamo importanti e dimentichiamo l’altro,
quando crediamo che tutto è finito.

Dove possiamo cercarTi, dove possiamo trovarTi?

Liberaci, guariscici dalle nostre malattie, permettici di offrirti le nostre ferite, e rafforza il nostro desiderio di lottare contro le divisioni tra gli uomini e le culture!

Guariscici dalla nostra cecità!


Sappiamo che sei pronto ad aiutarci a vincere le tentazioni della ricchezza, tutto quello che ci pone al di sopra dell’altro, la vanità e l’orgoglio che ci impediscono di testimoniare la verità.


Sappiamo che ami tutti gli uomini e che ai tuoi occhi siamo tutti uguali.
Gesù, sappiamo che Tu ci aspetti e vuoi guarire il nostro cuore e tutto ciò che ci divide.


Tu sei Dio e il tuo nome è “misericordia”.

Scena musicale e danza che vuole illustrare il processo attraverso il quale gli zingari offrono le loro sofferenze a Gesù crocifisso. gruppo di danza Dejtár (5-10 minuti). Alla fine mettiamo tutte le nostre candele davanti alla croce

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omelia del cardinale Erdo Peter al CCIT 2016 a Esztergom in Ungheria

CCIT 2016 – Esztergom

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Erdo Péter

Homélie, 3. dimanche de Pàques I année „C”

/ Basilique d’Esztergom, le 9 avril 2016 /Jn 21, 1-19 /

Mes Chers Frères dans le Christ,

Le secret de la résurrection et le secret de l’Eglise sont inséparables. Ce fait s’explique dans l’évangile d’aujord’hui.
1. La rencontre avec Jésus sur le bord de la mer de Tibériade évoque le temps de l’invitation des disciples. C’est aussi là, où ils se rencontrent, où ils s’occupent de leurs filets, où Jésus les invite à Le suivre. L’invitation des pécheurs se retourne comme un grand rondeau, au début et à la fin de l’histoire évangélique.
Mais quelle sorte de péche est celle d’après Inques? Peut etre ii s’agit de la méme, quand les disciples d’emmaiis partent abattus? Bien qu’ils se sont rencontrés déjà avec le Résuscité! Ils ont déja leur foi leur joie, que le Christ vive. Mais quand méme, qu’est ce qu’il veut dire cela dans la vie quotidienne?

concelebrazione1
II faut vivre de quelque chose, et puisqu’ils étaient pécheurs, ils continuent la péche. Mais ils n’attrapent rien. Et ils rencontrent avec Jésus, au début ils ne le reconnaissent pas, il sentent seulement, qu’il est Lui, puis à sa parole, ils jettent le filet. Et cette péche n’est plus le simple retour à leur travail efficace quotidien, mais quelque chose admirable. Au début de l’histoire évangélique Jésus invite les pécheurs, à devenir aux pécheurs d’hommes, ici à la fin, il leur montre quel résultat, quei sort attend celui, qui se met à ce travail. lis s’efforcent en vain toute la nuit de leur propre force. Le filet, lancé à la parole de Jésus aboutit à une péche abondante, inimaginable. Dans la conscience de l’Eglise, dans la réflexion de l’Eglise ces 153 grands poissons ont beaucoup d’importance.
2. A un certain temps, les hommes en comptant les espèces des poissons pensaient, qu’ils n’existent que 153 espèces en tout et en somme. Le message de ce nombre voudrait dire, que la mission de l’Eglise concerne toutes les races humaines, le Dieu veut le salut de tous, et l’Eglise doit les emmener jusque là, dans la force missionnaire de Jésus.
Mais il y a aussi une autre interprétation de ce nombre 153. Les chrétiens méditatifs, pour ceux, qui les nombres avaient d’une importance particulière, ont fait l’addition des nombres de 1 à 17 est pour -ésultat ils ont reu le 153, dans le nombre 17 ils ont vu la somme de 10 et 7. Tous les deux sont d’une sorte de totalité. Totalité de PaTens et de Juifs. Totalité de l’humanité entière.
Et le message est le méme de nouveau: le Dieu commande à étre prole et péche tous les peuples, tous les hommes, de Pierre et des diciples réunis autour de lui. L’Eglise est envoyée à tous, le Dieu Jeut assurer le saiut pour tous, par le service de l’Eglise.
3. Quelle est la réponse à cette mission, comment se met en route la communauté des ap6tres, pour :ommencer ce travail qui va durer jusqu’à la fin de l’histoire du monde? Il se met en marche aver. ane action solennelle, il n’est pas sans raison, qu’une église annonce son souvenir jusqu’ à présent, à, sur les bords de la mer de Tibériade. C’est ne rien d’autre que la question triple et la réponse triple. Ce n’est  pas seulement là triste allusion à la néeation triple de Pierre, mais sa solennité a une autre interprétation aussi.

Dans l’ère de Christ les juifsconcelebrazione ont conclu ainsi les concrats. Il fallait répéter trois fois en torme question-réponse, ce qu’il se chargent l’une et l’autre, les parties intéressées. Si l’on a répété trois fois, le contrat était indissoluble.
Qu’est ce qu’il se charge Pierre? il se charge – pas du tout… il avoue seulement – qu’il aime Jésus. Mieux, que les autres? li ne le sait. Jésus sait! II aime autant qu’il le peut. Peu importe ce qu’il a fait pendant les jours et semaines passés, il connait bien soi méme, il sait, que de sa propre force il se montrerait facilement infidète, mais pourtant il était celui, qui a reconnu en Jésus le Messie, et qui est devenu le disciple le plus fidèle de Jésus, pas de sa propre force, mais de la volonté du Père Céleste.
Et qu’est ce qu’il y a avec l’autre dité? En d’autres termes, avec Nutre moitié du contrat? „Pais mes agneaux!” Trois fois de suite. Jésus ne se réfère à la sagesse à la culture humaine, aux efforts humaines, il confie seul sur la base del’amour à Pierre la mission d’étre pasteur de l’Eglise entière. Voilà c’est qui deviendra définitif, là, sur les bords de la mer, avec cette mission va partir l’Eglise, pour inviter tous les peuples à devenir disciples du Christ. Et avec sa force admirable le Saint-Esprit va accompagner le cheminement de l’Eglise, davantage jusqu’à la fin de l’histoire du monde. 4. li y a encore un épisode à la fin de l’évangile d’aujourd’hui, qu’il est un avertissement aussi pour nous. A travers l’homme le Dieu peut accomplir des miracles, au bénéfice des autres. Mais si une fois l’homme est prét à suivre Jésus, il faut qu’il en soit prét pleinement. Il arrivait déjà que Pierre s’offrait courageusement: „Seigneur, je te suivrai partout où tu iras!” Alors Jésus a parlé de son chemin vers la mori. Bien seir, ils ne l’avaient compris. Jésus en l’avertissant Pierre, le repousse à moitié: le moment n’est pas venu encore. En prenant congé, quand il lui avait déja confié le troupeau, ce thème sera repris de nouveau, apparait le motif de la crucifixion de Pierre, que „c’est un autre, qui nouera ta ceinture” et puis dit Jésus, maintenant c’est Lui qui dit à Pierre: „Suis-moi”.
„Suis-moi” a t il dit, à l’occasion de la première invitation, quand il a appelé les disciples de leurs filets.
„Suis-moi” dit il maintenant, en parlant de la mission, de la mission de l’Eglise, mais dans ce „suis-moi” on peut découvrir déjà l’union avec la crucifixion, le pressentiment du martyre. Tel est héritage de Jésus, laissé pour nous. Il faut que nous nous joignons dans ce sens à la résurrection, ils nous a invité d’étre collaborateur à une telle ouvre. Prions son aide, que nous aussi, comme les apótres de jadis, pourrons se joindre au peuple de la bonne nouvelle de la résurrection.
5. La bonne nouvelle de l’évangile s’adresse à tous les peuples. Chacun a reu la vocation, qu’il se convertisse, qu’il reoive avec foi le Christ et son invitation à la joie éternelle. Au point de vue de l’amour de Dieu et du salut il n y a pas de différence entre les peuples. Comme Saint Paul l’écrit: „Il n y a plus ni Juif, ni Grec; il n y a plus ni esclave, ni homme libre, il n y a plus l’homme et la femme; car tous vous n’ètes qu’un en Jésus Christ”. Gal 3, 28; cf. Ac 14, 1; 20, 21 etc I. Cela ne veut dire que nous devrions oublier nutre langue maternelle, nos tradltlons, que la chrétienté voudrait nous transformer en quelconque homme de masse, qui est insignifiant et qui est privé de ses traits caractéristiques. L’histoire d’Europe témoigne que la foi chrétienne commune, n’a pas supprimé l’identité, la langue, la culture des peuples, mais il l’avait éclairé et développé. La chrétienté a marqué son empreinte sur le visage actucl des nations d’Europe.
Par contre, comme le miracle de pentecene nous montre, les auditeurs, qui appartenaient aux différents peuples et ont compris la parole de Saint Pierre, non parce au’ils ont oublié leur propre langue, bien au contraire, parce q’ilsont tous entendu en leur langue propre la mème bonne nouvelle/ cf. Ac 2, 8-11 /. L’évangile de Christ nous met en relation avec Dieu et nous unit dans une communauté fraternelle les uns et les autres. C’est pourquoi il est important que dans la communauté d’Eglise tous se sentent chez eux: Tsiganes et Non-tsiganes, Hongrois et Francais, ou les enfants de n’importe quel peuple. On ne peut pas dire donc que l’Eglise „accueille” les Tsiganes, mais il faut avouer, qu’ils sont les membres à droits égaux de l’Eglise, ils sont eux aussi chez eux dans l’Eglise, comme n’importe quelle autre personne. En méme temps le Dieu ne souhait de nous d’abandonner la richesse des cultures créées par lui. Donc il est juste, qu’ils fonctionnent dans le cadre de l’Eglise, des communautés populaires, des communatés, qui cultivent leur langue maternelle, des paroisses personneiles. Ici à Esztergom il y a une paroisse personnelle sous la direction de l’évéque Székely Anos. La mission de cene paroisse consiste en cela, que dans la proximité du Christ tous puissent se sentir chez eux. En méme temps à travers des paroisses nous sommes intégrés à un diocèse à une Eglise universelle.
Prions le Dieu qu’il nous donne, que les participants de cet rencontre, puissent renforcer cette joie de la convivialité et de l’accueil en Europe et partout dans le monde!
Ainsi-soit il.

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le domande che si è posto il CCIT 2016 a Esztergom in Ungheria

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CARREFOUR CCIT 2016 

BUDAPEST

Al bivio: L’Europa, la Chiesa, la cultura di fronte alla Misericordia”

  1. L’Europa sta attraversando momenti di improvvisi cambiamenti, dettati da paure che provocano chiusure e difesa dei propri confini e interessi. Ogni paese sembra preoccuparsi della propria Torre di Babele da preservare, attraverso leggi, filo spinato.. Quale misericordia annunciare: quella che si integra nella costruzione della torre o quella che ne favorisce il suo fallimento?

  1. I Rom e Sinti sono per la Chiesa la Porta Santa attraverso la quale Dio (si mette nella loro pelle) visita la nostra vita e quella delle nostre comunità..ne siamo consapevoli? Il nostro stare e avvicinare i Rom e Sinti riesce a raccontare Dio alle Chiese?gruppo riflessione

  1. Al bivio” e la vita dei Rom-Sinti. Verrebbe da dire che loro ci sono abituati, capaci di cambiamenti, di sconfinamenti geografici, culturali, sociali. Il bivio lo affronta chi vive camminando, chi si sente in movimento, chi si lascia interrogare. Le nostre società invece spesso sono più statiche, temono di trovarsi ad un bivio, crea insicurezza, timori di dover cambiare, di affidarsi, di interrogare e interrogarsi. La vita dei Rom sembra un susseguirsi continuo di bivio, di svolte..I Rom “vivono il bivio”, riuscendo ad affrontare la vita. “ Io sono la Via, la Verità e la Vita”.

  1. Come riusciamo a vivere la “Misericordia” con I Rom-Sinti? Quale “Misericordia” scopriamo tra i Rom-Sinti?

  2. articolo Avvenire
  1. Scusate, chi è l’ultimo, perché io possa prendere il suo posto?

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Weil

“Il Padre nostro” meditato da Simone Weil
 

Testi, conferenze, interviste  di :

Alberto Maggi

Carlo Maria Martini

Ricardo Pérez Márquez

Josè Maria Castillo

Vito Mancuso

Enzo Bianchi

Altri Autori e Testi completi in diversi formati

Appunti di Rosario Franza

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“Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.”

 

«Padre nostro che sei nei cieli».

Egli è nostro Padre; non c’è nulla in noi di reale che non proceda da lui.

Noi gli apparteniamo. Egli ci ama, perché ama se stesso e noi siamo cosa sua. Ma è il Padre che è nei cieli. Non altrove. Se noi crediamo di avere un padre quaggiù non è lui, ma un falso dio. Non possiamo fare un solo passo verso di lui: non si cammina verticalmente. Possiamo dirigere verso di lui soltanto il nostro sguardo. Non dobbiamo cercarlo, dobbiamo soltanto mutare la direzione dello sguardo. Tocca a lui cercarci. Dobbiamo essere felici di sapere che egli è infinitamente fuori della nostra portata.

Abbiamo così la certezza che il male in noi, anche se sommerge tutto il nostro essere, non contamina in alcun modo la purezza, la felicità, la perfezione di Dio.

«Sia santificato il nome tuo».

Dio solo ha il potere di nominarsi. Il suo nome non può essere pronunciato da labbra umane; il suo nome è la sua parola: è il Verbo. Il nome di un essere fa da intermediario tra la mente umana e questo essere, è la sola via attraverso la quale la mente umana possa afferrare qualcosa di questo essere quando è assente. Dio è assente: è nei cieli. Il suo nome è la sola possibilità per l’uomo di accedere a lui. È il Mediatore. L’uomo può accedere a questo nome, per quanto esso pure sia trascendente. Questo nome brilla nella bellezza e nell’ordine del creato e nella luce interiore dell’anima umana: è la santità stessa e non v’è santità fuori di lui; dunque non occorre che sia santificato. Chiedendo questa santificazione, noi chiediamo ciò che è dell’eternità, con una pienezza di realtà alla quale non possiamo aggiungere né togliere nemmeno una parte infinitesimale. Chiedere ciò che è, ciò che è in maniera reale, infallibile, eterna, del tutto indipendente dalla nostra domanda, è la richiesta perfetta.

Non possiamo impedirci di desiderare: noi siamo desiderio; ma questo desiderio che ci inchioda all’immaginario, al tempo, all’egoismo, possiamo, esprimendolo tutto intero in questa richiesta, farlo divenire una leva che, strappandoci dall’immaginario e dal tempo, ci colloca nel reale e nell’eternità, fuori della prigione dell’io.

«Venga il tuo regno».

Si tratta di qualcosa che deve venire, che non c’è. Il regno di Dio è lo Spirito Santo che colma tutta l’anima delle creature intelligenti. Lo Spirito soffia dove vuole. Non si può fare altro che invocarlo. Non bisogna neppure pensare d’invocarlo in maniera particolare su di sé, o su questo o su quello, o anche su tutti; bisogna semplicemente invocarlo, di modo che il semplice pensare a lui sia un appello, un grido: quando si è al limite della sete, quando si è ammalati di sete, non ci si raffigura più l’atto del bere in rapporto a se stessi e nemmeno l’atto del bere in generale; ci si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in se stessa, ma questa raffigurazione dell’acqua è come un grido di tutto l’essere.

«Sia fatta la tua volontà».

Noi siamo certi in maniera assoluta e infallibile della volontà di Dio soltanto per il passato: tutti gli avvenimenti che si sono verificati, quali che siano, sono conformi alla volontà del Padre onnipotente. Questo è implicito nel concetto di onnipotenza. Anche l’avvenire, qualunque esso sia, una volta compiuto, sarà compiuto conforme­mente alla volontà di Dio. Non possiamo aggiungere o sottrarre nulla a questa conformità. Così, dopo uno slancio di desiderio verso il possibile, con questa frase noi chiediamo di nuovo ciò che è già realtà: ma non più una realtà eterna, come la santità del Verbo; l’oggetto della nostra richiesta riguarda ciò che si produce nel tempo: noi chiediamo che ciò che si produce nel tempo sia conforme, infallibilmente ed eternamente, alla volontà divina. Con la prima richiesta del Paternoi avevamo strappato il desiderio dal tempo per applicarlo all’eterno, e così l’avevamo trasformato: ora riprendiamo questo desiderio, diventato esso stesso in certo modo eterno, e lo rivolgiamo di nuovo al tempo. Allora il nostro desiderio oltrepassa il tempo e trova dietro di esso l’eternità. Questo avviene quando sappiamo trasformare in oggetto di desiderio ogni avvenimento compiuto. È una cosa ben diversa dalla rassegnazione. Persino la parola accettazione è troppo debole. Si deve desiderare che tutto ciò che è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché ciò che è avvenuto è un bene a nostro modo di vedere, ma perché Dio lo ha permesso e perché l’obbedienza degli eventi a Dio è in sé un bene assoluto.

«Così in cielo come in terra».

Questo associarsi del nostro desiderio alla volontà di Dio deve estendersi anche alle cose spirituali. I progressi e i regressi spirituali nostri e degli esseri che amiamo hanno un rapporto con l’altro mondo, ma sono anche avvenimenti che si producono quaggiù, nel tempo. Sono quindi dei particolari nell’immenso mare degli avvenimenti, mossi, con questo mare, in maniera conforme alla volontà di Dio. Poiché le nostre passate debolezze si sono verificate, dobbiamo desiderare che esse si siano verificate e dobbiamo estendere questo desiderio all’avvenire, per il giorno in cui sarà divenuto passato. È una correzione necessaria alla richiesta che venga il regno di Dio. Dobbiamo abbandonare tutti i desideri che non siano quello della vita eterna, ma anche la vita eterna dobbiamo desiderarla con spirito di rinuncia. Non bisogna attaccarsi nemmeno al distacco. È l’attaccamento alla salvezza è più pericoloso degli altri. Si deve pensare alla vita eterna come si pensa all’acqua quando si muore di sete e, nel medesimo tempo, desiderare per sé e per gli esseri cari la privazione eterna di quest’acqua piuttosto che riceverla contro la volontà di Dio, se mai una cosa simile fosse concepibile.

Le tre richieste precedenti sono in rapporto con le tre Persone della Trinità: il Figlio, lo Spirito e il Padre, e anche con le tre parti del tempo: il presente, l’avvenire e il passato. Le tre richieste che seguono vertono sulle tre parti del tempo più direttamente e in un altro ordine: presente, passato, avvenire.

«Dacci oggi il nostro pane soprannaturale».

Cristo è il nostro pane. Possiamo chiederlo soltanto per oggi, perché è sempre alla porta della nostra anima: vuole entrare, ma non viola il nostro consenso. Se consentiamo che entri, egli entra; appena non lo vogliamo più, egli se ne va. Noi non possiamo vincolare oggi la nostra volontà di domani, fare oggi con lui un patto affinché domani sia in noi anche contro il nostro volere. Il nostro consenso alla sua presenza è la stessa cosa della sua presenza. Il consenso è un atto: non può essere che attuale. Non ci è stata data una volontà che possa essere applicata all’avvenire. Tutto ciò che nella nostra volontà non è efficace, è immaginario. La parte efficace della volontà è efficace immediatamente; la sua efficacia non è distinta dalla volontà stessa. La parte efficace della volontà non è lo sforzo, che è teso verso l’avvenire. È il consenso, il sì del matrimonio, un sì pronunciato nell’istante presente, per l’istante presente, ma pronunciato come una parola eterna, poiché è il consenso all’unione di Cristo con la parte eterna della nostra anima.

Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che di continuo traggono dall’esterno la loro energia, poiché, via via che la ricevono, la esauriscono nei loro sforzi. Se la nostra energia non è quotidianamente rinnovata, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Al di fuori del nutrimento propriamente detto, tutto ciò che ci stimola è per noi fonte di energia. Il denaro, l’avanzamento, la considerazione, le decorazioni, la celebrità, il potere, le persone amate, tutto ciò che mette in noi la capacità di agire è come il pane. Quando una di queste affezioni penetra in noi tanto profondamente da arrivare alle radici vitali della nostra esistenza fisica, l’esserne privati può spezzarci e persino farci morire: è quel che si dice morire di dolore. È come morire di fame. Gli oggetti delle nostre affezioni costituiscono, con il nutrimento propriamente detto, il pane di quaggiù. Dipende interamente dalle circostanze di accordarcelo. Per quanto concerne le circostanze, dobbiamo chiedere soltanto che esse siano conformi alla volontà di Dio. Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù.

Esiste un’energia trascendente la cui sorgente è in cielo e che passa in noi non appena lo desideriamo. È veramente una energia e si traduce in azione tramite la nostra anima e il nostro corpo.

È questo l’alimento che dobbiamo chiedere. Nel momento in cui lo chiediamo, e per il fatto stesso che lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole darcelo. Non dobbiamo tollerare di restare un solo giorno senza di esso. Poiché quando i nostri atti vengono alimentati soltanto da energie terrene, sottoposte alle necessità di quaggiù, non possiamo fare e pensare che il male. «Dio vide che i misfatti dell’uomo si moltiplicavano sulla terra, e che il frutto dei pensieri del suo cuore era costantemente e unicamente cattivo». La necessità che ci costringe al male governa tutto in noi, salvo l’energia che ci viene dall’alto nel momento in cui entra in noi. Non possiamo farne provvista.

«E rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori».

Al momento di dire queste parole dobbiamo aver già rimesso tutti i nostri debiti. Non si tratta soltanto delle offese che pensiamo di aver subito. È anche la rinuncia alla riconoscenza per il bene che pensiamo di aver fatto, e in genere a tutto ciò che ci attendiamo dagli esseri e dalle cose, tutto ciò che crediamo ci sia dovuto, la cui mancanza ci darebbe la sensazione di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che noi crediamo che il passato ci dia sull’avvenire. Anzitutto, il diritto a una certa durata. Quando abbiamo potuto godere una certa cosa per lungo tempo, crediamo che essa ci appartenga e che la sorte sia tenuta a lasciarcela godere ancora. Poi, il diritto a un compenso per ogni sforzo, di qualsiasi natura esso sia, per ogni lavoro, ogni sofferenza o desiderio. Ogni volta che noi facciamo uno sforzo e che l’equivalente di questo sforzo non torna a noi sotto forma di un frutto visibile, abbiamo una sensazione di squilibrio, di vuoto, ci sentiamo come derubati. Quando subiamo un’offesa noi aspettiamo che l’offensore venga castigato o si scusi, se facciamo del bene ci attendiamo la riconoscenza della persona beneficata. Questi sono casi particolari di una legge universale della nostra anima: tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo di averne diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’universo intero. E noi crediamo di avere crediti verso tutte le cose; ma tutti questi presunti crediti sono sempre crediti immaginari del passato verso l’avvenire: è a questi che dobbiamo rinunciare.

Aver rimesso i debiti ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato; accettare che l’avvenire sia vergine e intatto, rigorosamente legato al passato da legami che ignoriamo ma del tutto libero dai legami che la nostra immaginazione crede di imporgli; accettare la possibilità che l’avvenire si attui e, in particolare, che ci accada qualsiasi cosa e che il domani faccia di tutta la nostra vita passata una cosa sterile e vana.

Rinunciando a tutti i frutti del passato, senza eccezione, possiamo chiedere a Dio che i nostri peccati passati non diano nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errore. Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire in noi questa orribile fruttificazione: non possiamo attaccarci al passato senza attaccarci ai nostri delitti, poiché non conosciamo quanto c’è in noi di essenzialmente cattivo.

Il credito principale che pensiamo di possedere verso l’universo è la continuazione della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri. L’istinto di conservazione ci fa sentire questa continuazione come una necessità, e noi crediamo che una necessità sia un diritto. Come il mendicante che diceva a Talleyrand: «Monsignore, devo pur vivere», e al quale Talleyrand rispondeva: «Non ne vedo la necessità». La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla, ma noi preferiremmo morire anziché riconoscerlo. L’equilibrio del mondo è per noi un susseguirsi di circostanze tali che la nostra personalità resta intatta e sembra appartenerci. Tutte le circostanze che in passato hanno ferito la nostra personalità ci sembrano squilibri che un giorno o l’altro devono essere compensati da fenomeni contrari. Noi viviamo nell’attesa di queste compensazioni. L’incombenza della morte ci appare orrenda soprattutto perché ci costringe a renderci conto che queste compensazioni non avranno mai luogo.

La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità, rinuncia a tutto ciò che chiamiamo «io», senza alcuna eccezione. Sapere che in tutto ciò che chiamiamo «io» non c’è nulla, non c’è alcun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far scomparire. Bisogna accettare che sia così ed esserne felici.

Le parole: «Sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano questa accettazione.

Per questo un istante dopo si può dire: «Abbiamo rimesso ai nostri debitori».

La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. Se accettiamo completamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi: infatti, chiedergli di rimettere i nostri peccati, significa chiedergli di cancellare il male che è in noi. Il perdono è la purificazione. Il male che è in noi, e che vi resta, neppure Dio ha il potere di perdonarlo. Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha messi nello stato di perfezione.

Fino ad allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi li rimettiamo ai nostri debitori.

«E non indurci in tentazione, ma liberaci dal male».

La sola prova, la sola tentazione per l’uomo è di essere abbandonato a se stesso, a contatto con il male. Egli allora verifica sperimentalmente il proprio nulla. Sebbene l’anima abbia ricevuto il pane soprannaturale nel momento in cui lo ha richiesto, la sua gioia è mista a timore, perché ha potuto chiederlo solo per il presente. L’avvenire resta temibile. L’anima, che non ha diritto di chiedere il pane per il domani, esprime il proprio timore sotto forma di supplica. E con queste parole conclude. Con la parola «Padre» ha inizio la preghiera, con la parola «male» si conclude. Bisogna passare dalla fiducia al timore: solo la fiducia dà forza sufficiente affinché il timore non causi una caduta. Dopo aver contemplato il nome.

È il regno e la volontà di Dio, dopo aver ricevuto il pane soprannaturale ed essere stata purificata dal male, l’anima è pronta per la vera umiltà, che corona tutte le virtù. L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima (non solo la parte che chiamiamo «io» nella sua totalità ma anche la parte soprannaturale dell’anima che è Dio presente in essa) è sottoposta alle vicissitudini del tempo. Bisogna accettare in modo assoluto la possibilità che tutto ciò che in sé è naturale venga distrutto. Ma bisogna accettare e respingere nello stesso tempo la possibilità che la parte soprannaturale dell’anima scompaia: accettarla come evento che potrebbe verificarsi solo se Dio lo vuole, respingerla come qualcosa di orribile. Bisogna averne paura, ma in modo che la paura sia come il compimento della fiducia.

Le sei richieste si corrispondono a due a due. Il pane trascendente è la stessa cosa del nome divino: è ciò che opera il contatto dell’uomo con Dio. Il regno di Dio è la stessa cosa della protezione che egli stende su di noi contro il male: proteggere è una funzione regale. La remissione dei debiti ai nostri debitori è la stessa cosa dell’accettazione totale della volontà di Dio. La differenza sta nel fatto che nelle prime tre richieste la nostra attenzione è rivolta verso Dio, mentre nelle ultime tre la riportiamo su di noi, per costringerci a fare di quelle tre richieste un atto reale e non immaginario.

Nella prima metà della preghiera si comincia con l’accettazione, poi ci si permette un desiderio, quindi lo si corregge, tornando all’accettazione. Nella seconda metà l’ordine è mutato: si conclude esprimendo un desiderio. Ma il desiderio è diventato negativo e si esprime sotto forma di timore; in tal modo esso corrisponde al più alto grado di umiltà, l’atteggiamento più adatto a una conclusione.

Questa preghiera contiene tutte le richieste possibili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.

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il commento al vangelo della domenica

ALLE  MIE PECORE IO DO LA VITA ETERNA

  commento al vangelo della domenica quarta di pasqua (17 aprile 2016) di p. Alberto Maggi:p. Maggi

Gv 10,27-30

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Ogni volta che Gesù, il figlio di Dio, e Dio lui stesso, si trova nel tempio di Gerusalemme, il luogo più sacro della terra, il luogo più santo di Gerusalemme, il luogo dove si riteneva fosse presente Dio stesso, bene, ogni volta che Gesù si trova nel tempio è sempre una situazione di conflitto. Nel brano che vedremo è l’ultima volta che Gesù si trova nel tempio, nel santuario di Gerusalemme, e questa volta addirittura tenteranno di lapidarlo.
Vediamo cosa è successo. Dobbiamo inserire questi pochi versetti della liturgia di oggi nel contesto più ampio nel quale l’evangelista li inserisce. E’ una delle feste più importanti di Israele, la festa della dedicazione, cioè la riconsacrazione del tempio, fatta da Giuda il Maccabeo nel 165 a.C.
Per l’occasione si accendeva un grandissimo candelabro ed era chiamata la festa delle luci. Chiaramente c’è un conflitto tra questa festa delle luci e Gesù che si presenta lui come luce del mondo. Già l’ha detto.
Infatti quando Gesù entra nel tempio viene subito accerchiato dalle autorità che gli chiedono letteralmente: “Fino a quando ci togli la vita?” La missione di Gesù di restituire vita al popolo significa toglierla alle autorità che dominano questo popolo. Ebbene, questa volta Gesù rivolte alle autorità religiose, i rappresentanti di Dio, parole molto severe. Gesù dice: “Voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”. Gesù si era presentato come il vero pastore inviato da Dio per adunare il popolo, il gregge, eppure Gesù dice che ci sono alcuni che non fanno parte di questo gregge.
Proprio le autorità religiose, i capi spirituali, quelli che ritenevano per diritto di essere i più vicini a Dio, Gesù dice che sono esclusi. Ed ecco i versetti che la liturgia ci presenta. Gesù afferma: “Le mie pecore…”, quindi Gesù sottolinea ancora una volta che le pecore sono sue, lui è il vero pastore, perché il pastore è  colui che dà la vita per le proprie pecore. “Le mie pecore ascoltano la mia voce”. La voce di Gesù, che è la voce di Dio, è la risposta di Dio al bisogno di pienezza di Dio che ogni persona si porta dentro. Quello che caratterizza la voce di Gesù è che il messaggio d’amore non viene imposto, ma viene offerto, semplicemente proposto.
“Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco …” è importante in questo brano l’uso del verbo “conoscere”. Indica una conoscenza veramente intima, profonda dei suoi. “Ed esse mi seguono.” Lo seguono perché trovano in Gesù la risposta al proprio ideale di vita, cosa che invece non trovano i capi, perché Gesù aveva detto: “Almeno credete alle opere”. Ma loro non possono credere in queste opere perché le opere di Gesù sono tutte tese a restituire vita al popolo. E loro sono quelli che invece soffocano questa vita.
E Gesù continua: “Io do loro la vita eterna”. E’ un tema caro all’evangelista questo. La vita eterna non è un merito ma è un dono da parte di Dio e si chiama eterna non tanto per la durata, indefinita, ma per la qualità, che è indistruttibile.
“E non andranno perdute in eterno”, cioè mai, “e nessuno le strapperà dalla mia mano. Ecco Gesù dà un avviso molto severo, molto chiaro alle autorità religiose che non tentino di strappare queste pecore dalla sua mano. Lui sarà il pastore che darà la vita per le sue pecore. “Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti”. Questo è un versetto un po’ difficile e complesso. Ci sono ben cinque varianti perché il problema è capire cos’è più grande, il padre o il gregge?
Il senso, il significato, in fondo non cambia. Noi proponiamo la versione in cui quello che è più grande, più importante è il gregge, che il Padre ha dato al figlio. Quindi il Padre che ha dato questo popolo a Gesù, è il dono più grande che poteva fargli. E se prima Gesù aveva parlato della sua mano, che nessuno le può strappare dalla sua  mano, ora arriva a dire “E nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Quindi non si può distinguere tra Gesù e Dio come facevano le autorità religiose. Dio e Gesù sono la stessa cosa.
E il gregge sta nella mano di Gesù che è la mano del Padre. E nessuno tenti di rubare di nuovo questo gregge come avevano fatto le autorità. Ed ecco la frase che gli sarà fatale, la bestemmia, subito dopo la quale scatterà l’azione di linciare Gesù, di lapidarlo.  Gesù afferma:  “Io e il Padre siamo una cosa sola”. La traduzione non è corretta. Il testo dice: “Io e il Padre siamo uno”.
Uno nella simbologia biblica è il numero che indica la divinità. Cioè Gesù sta dicendo che lui è Dio, come il Padre è Dio. “Io e il Padre siamo uno”. Questa è una bestemmia insopportabile. L’evangelista qui realizza quello che aveva scritto all’inizio del suo vangelo nel prologo quando aveva affermato che Dio nessuno l’ha mai visto, solo il figlio ne è la rivelazione. Gesù non è un inviato da Dio, Gesù non è un profeta di Dio, Gesù è la manifestazione visibile e terrena di quello che Dio è.
Ed ecco perché Gesù dice: “Io e il Padre siamo uno”. Ebbene dopo di questo succede il finimondo. Scriverà l’evangelista che le autorità, i capi, prenderanno delle pietre per lapidarlo e diranno il motivo: “Non ti lapidiamo per un’opera buona, ma per una bestemmia. Perché tu che sei uomo ti fai Dio”.
 Quello che era il progetto di Dio sull’umanità, che ogni creatura diventasse suo figlio e avesse la sua stessa vita divina, per le autorità religiose che dovevano far conoscere questo progetto al popolo, era in realtà una bestemmia da punire con la morte.

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sogno un mondo, un’Europa e una chiesa diversi … il sogno (impossibile?) di p. Agostino Rota Martir

 

la pentecoste di Idomeni

Ogni giorno siamo raggiunti e sconvolti dalle notizie che ci vengono da Idomeni, un piccolo villaggio greco, al confine con la Macedonia, dove migliaia di profughi sono intrappolati dalla diplomazia Europea.

p. agostino

epa05199233 A refugee child stands by the border fence in the refugee camp at the Greek-Macedonian border near Idomeni, Greece, 07 March 2016. Media and humanitarian organizations estimate that the number of migrants stuck at the Greek-Macedonian border crossing has swelled to 14,000. Macedonia has closed its borders to the wave of refugees wanting to pass through its territory to reach richer nations in western and northern Europe, straining bilateral ties with Greece. The Greek Foreign Ministry has threatened Macedonia with unspecified serious consequences if it does not let the refugees pass through. EPA/KAY NIETFELD

Assistiamo e partecipiamo al loro dolore, amarezza e rabbia, respinti da una Europa che si rinchiude sempre più dentro la propria fortezza, che innalza e giustifica muri, fili spinati e respingimenti; in nome di che cosa?
Assistiamo a distanza alla violenza e ai pestaggi che subiscono i migranti, lasciati vivere sotto tende in mezzo al fango, con il consenso e la benedizione dei potenti, seduti in comodi e luccicanti palazzi di Bruxelles e dalle cancellerie dei governi europei.
Assistiamo con sgomento al loro smarrimento, alla loro delusione, alle loro grida disperate e al loro pianto, alla privazione delle libertà, alla disumanità perpetrata con calcolo e freddezza. Non è questa l’Europa che vogliamo e sogniamo. Idomeni è un piccolo spazio in Europa, potrà essere insignificante per le cancellerie europee, ma non per le nostre coscienze e a maggior ragione per chi si professa cristiano, seguace (in cammino) di Gesù, l’inviato del Padre.
Papa Francesco, dopo aver visitato l’isola di Lampedusa domani si recherà in quella di Lesbo in Grecia..Altro segno profetico, di misericordia e di denuncia.Idomeni bambini
In questo momento di smarrimento sogno una Chiesa in cammino verso Idomeni, insieme a tanta società civile, una Chiesa che non teme di mischiarsi e confondersi, che vive e annuncia il Vangelo anche “con i piedi”, che non ha paura di attraversare queste trappole di frontiere, anche per dire che c’è un’altra Europa, quella dei popoli, delle associazioni, dei religiosi, dei missionari, delle parrocchie, che non esita a venire incontro per dire che, seppure nella nostra impotenza, siamo con loro, ci sentiamo fratelli e sorelle nella nostra stessa umanità e che loro sono per noi i benvenuti. Sogno questa Chiesa in cammino, accogliente e fiduciosa, che sente anche la responsabilità di guarire questa nostra cara Europa: intossicata di egoismo, più intenta ad escludere e scartare in nome della sicurezza e per altri interessi di parte, o per calcoli meschini.
migranti siariani
Immagino quanto deve essere bella questa Chiesa in cammino, sotto la tenda, anche in piccoli gruppi, attraversamenti, con percorsi diversi, con destinazione Idomeni e simbolicamente raggiungere altri campi profughi sparpagliati ovunque: una Chiesa in silenzio, orante, ecumenica, in uscita, capace anche di lasciarsi accogliere: “Non prendete nulla per il viaggio..” (Lc. 9, 3-5), con uno stile di umiltà e provvisorietà, con poche cose con sè, proprio come fa ogni migrante in fuga. Una Chiesa in uscita, non tanto per portare aiuti, ma seguire le orme dei migranti, lungo gli stessi sentieri percorsi dai loro piedi.
Una Chiesa in cammino verso Idomeni , fermarci lì, anche per un solo giorno, per guardare e ascoltare questi volti segnati da prove e dolore e lasciarci evangelizzare dalla loro vita.
Idomeni profughi
Ecco, immagino quanto sarebbe vera e luminosa la Pentecoste nella tendopoli di Idomeni! Una Chiesa semplicemente presente, anche se provvisoria oltre che per ridare speranza ai profughi, forse saprà essere anche un grido forte di denuncia in nome del Vangelo, all’indirizzo di quella Europa arroccata e bloccata da paure.
Sogno una Chiesa che non si limita ad assistere a distanza, ma che cammina, in uscita per attraversare i confini, che supera le barriere per avvicinare e lasciarsi toccare, che non teme di tenere i piedi nel fango se necessario, pur di ascoltare il cuore di chi oggi è vittima di guerra, di povertà, di violenza e che si sente scartato..una Chiesa capace di vivere la loro compagnia.
Rimarrà un sogno? Però a volte Dio si muove lungo i nostri sogni e passo dopo passo, il suo Regno prende forma nella nostra storia.
p. Agostino Rota Martir
Campo Rom di Coltano (PI) – 15 Marzo 2016
 
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