non se ne può più! … un grido contro ogni ‘missionario’ o ‘civilizzatore’

 

contro chi porta la “civiltà”

a proposito del modo ignorante e ‘violento’ con cui in genere guardiamo ai Rom e ai ‘campi’ in cui molti di loro abitano: una bella riflessione di Marcello Palagi, all’insegna della tesi ragionata che:

si può davvero incontrare l’ ‘altro da sè’ solo come ‘traditori’ della propria parte

Marcello

Non se ne può più. dei sedicenti esperti e del volontariato beneficente, delle onlus a pagamento, degli amministratori democratici e fascisti e  dei ministri che  per far la concorrenza alla Lega sgomberano rom e immigrati, ma soprattutto  di  tutti quelli che sanno  come si dovrebbero risolvere i problemi dei rom e dei sinti, che poi sono i problemi che abbiamo noi nei loro confronti. Lasciamoli perdere gli “zingari”, non occupiamocene e non preoccupiamocene più. Più ci si occupa e preoccupa di loro e più i loro problemi crescono e  più diventano difficili i rapporti con loro. Più ne neghiamo la cultura e l’identità e vogliamo assimilarli e più siamo portati a perseguitarli, escluderli, respingerli ai margini più bassi della nostra società.  Quanto più ci dedichiamo al loro “bene”, a igienizzarli, a sedentarizzarli,  a edilizzarli, a residentarizzarli,  a domiciliarli, ad alfabetizzarli, a scolarizzarli, storiografarli, fotografarli, documentarizzarli, reportarizzarli, narrarli., onestizzarli, moralizzarli,  tanto più facciamo danni.
Esperti improvvisati

Uno va in un campo di “zingari” un paio di volte e, se non ci scrive subito un libro o gira un documentario per ammannirci la sue scoperte “antropologiche”, si sente autorizzato a far proposte e progetti su come tutelare la loro cultura e risolvere i “loro” problemi: insegnargli a vivere come si deve, a “educare” i figli,  a diventare simili a noi, a lavorare come noi, ad abitare come noi, a fare meno figli, ad abitare nelle case popolari.

La moda dello smantellamento

Oggi, l’ultima moda è quella di dire che i campi rom sono uno scandalo, che vanno aboliti con le ruspe per dare a chi li abita una casa popolare. Ma mentre gli sgomberi sono già iniziati, manu militari,  e si chiudono sempre più aree di sosta, le case agli sgomberati non gliele dà nessuno, sono una merce così rara che difficilmente può capitare a una famiglia  rom e se gli capita, si assiste regolarmente alla sollevazione dei coinquilini che non vogliono convivere con loro. L’abolizione dei campi è quindi solo propaganda politica. Il fine vero di tanti discorsi, compresi quelli del ministro Alfano, non è quello di dar loro una casa, ma solo di controllarli e abolire i loro modi di vivere e tra questi, il nomadismo che continua a riguardare, in Italia, almeno un 40% di loro, è al primo posto. Perché il nomadismo – si dice –  è un modo di vivere storicamente superato e indegno  e  non avrebbe neanche mai fatto parte della cultura rom, che avrebbero nomadizzato solo perché costretti dai sedentari. Naturalmente mentre si predica la necessità di stanzializzarli, il programma delle ruspe, diventato universale, da destra a sinistra, si traduce nella distruzione dei loro pur precari e indegni baraccamenti, per cacciarli in mezzo alla strada dove le condizioni di vita sono ancor più precarie, indegne e antiigieniche.

Giustizia feroce

E per chi insiste nel voler restare nomade   si predispongono feroci provvedimenti e discriminazioni: l’esclusione dall’assistenza sociale e sanitaria, la perdita della patria potestà e l’inserimento dei figli in strutture “protette” in attesa di adozione, pratiche queste diventate tristemente abituali grazie all’assistenza sociale e i tribunali dei minori. I rapporti della giustizia e dell’assistenza sociale con i rom sono infatti quasi sempre sbrigativi e feroci. Perchè c’è la convinzione che i rom, siano quasi tutti dediti alla microcriminalità, per cui, anche a sparare nel mucchio, si farebbe sempre centro, Per i rom non scatta mai la prescrizione, venendo regolarmente processati per direttissima e se devono andare in galera ci vanno e stanno, altro che arresti domiciliari a 4 ore settimanali di “assistenza” a vecchi non autosufficienti!

Civilizzatori a progetto

Intorno ai rom e ai sinti  si muovono, a parte l’assistenza sociale per lo più ostile, quasi esclusivamente improvvisatori buonisti del volontariato che fanno più danni che la grandine, perchè sono  appunto  convinti di sapere, loro, cos’è il bene per gli “zingari” e vogliono redimerli, salvarli, inserirli, liberarli dalla loro arretratezza, devianza e incapacità di autoregolarsi e anche farsi pagare per questo. Inutile nasconderselo, il volontariato  c’è andato a nozze con i rom e ci ha guadagnato, con le migliori intenzioni e per il bene dei rom, naturalmente : un progettino oggi e uno domani e il gioco è fatto. Incompetenti totali sono andati nei campi ad alfabetizzare, a insegnare mestieri fuori mercato dei rom, ai rom, come la battitura del rame o il cucito alle donne,  a intrattenere  i bambini con giochi e metodi disciplinari che niente hanno a che fare con i loro modi di vivere ed educare le nuove generazioni. E’anche probabile che, da qualche parte, i gruppi di volontari siano stati inconsapevolmente manovrati da cattivisti mafiosi che
si aggiudicano appalti e finanziamenti e li subappaltano, a prezzi scontatissimi, agli ingenui buonisti. I  più furbi dei volontari, però, capito il gioco,  hanno stabilizzato il loro interventismo, mettendo in piedi onlus che organizzano convegni, si autopatentano esperti e accedono ai finanziamenti pubblici con cui inviano inutilissimi e dannosi operatori nei campi,  elevano proteste in nome dei diritti dei rom e contro gli sgomberi e predicano la necessità che ai rom vengano dati appartamenti in case popolari, perchè, anche loro credono che i rom siano diventati nomadi per costrizione, pregiudizi e persecuzioni. 

La scienza dell’omologazione

Anche  gli antropologi accademici, che hanno a che fare, come consulenti, con gli enti pubblici e i loro emolumenti, sono tra i sostenitori dell’accasamento dei rom e pontificano sulla loro testa: ormai il nomadismo è finito, si tratta di una fase storica superata, sono i rom che vogliono avere una casa popolare, sono pochi quelli che ancora si muovono, eliminiamo perciò i campi degradati e degradanti. Portatori di civiltà e progresso umanitari, anche loro sanno a memoria quale sia il bene per i rom che non è, evidentemente, quello di poter decidere per se stessi, se andare ad abitare in case o se stanzializzarsi e  vivere nei campi o continuare a nomadizzare.  E’ devastante questa crescita esponenziale dell’interesse buonista e assistenziale per i rom. Si preparano tempi sempre più bui per i rom  con tanta gente che li studia, classifica e vuole fargli cambiare vita. Fascisti e nazisti cominciarono ad “occuparsi” dei rom, sulla base degli studi di eminenti scienziati e antropologi dell’epoca che con le loro schedature ed elucubrazioni teoriche giustificarono concentramento e sterminio.

I progetti non funzionano

Ma i motivi per cui credo non si debbano fare progetti sui rom e per i rom e, neanche, formalmente, con i rom, sono anche altri: perchè non hanno mai funzionato (campi, scolarizzazione, corsi di formazione professionale,  inserimento lavorativi, inserimenti in case popolari, ecc.) essendo solo progetti nostri, per controllarli, assimilarli, renderli “normali” e non per favorire le loro scelte in autonomia.La cosa peggiore che si possa fare è quella di decidere per gli altri e sugli altri, per “portargli la democrazia e la civiltà”.

Andare dai rom: come e perché?

Ci si va in tanti modi dai rom. Come le forze dell’ordine, a far le perquisizioni alle 5 del mattino,  a  sgomberarli con le ruspe, a buttarli in mezzo alla strada.  Come i “benefattori” che vanno a far loro del bene, gli  portano vestiti dismessi e un pacco di pasta o una bottiglia d’olio o le scatolette di carne  confezionate dalla Comunità Europea per “gli indigenti” coi surplus delle sue produzioni.  Come gli studiosi per conoscerne la cultura e scrivere su di loro libri e saggi e per dire alle istituzioni come “integrarli”. Come gli assistenti sociali che vogliono scolarizzarli, igienizzarli, vaccinarli e inquadrarli. Come quelli che vanno a fare il doposcuola nei campi per alfabetizzarli. Come i sindaci che oggi si illudono di “normalizzarli” con i patti di legalità e convivenza, ecc. Vanno, passano il confine, entrano in territorio rom, un territorio antropologico, ma anche fisico, provvedono ai propri interessi, dettano le loro regole e tornano indietro. Hanno sempre fatto così i neocolonizzatori, anche quelli che vogliono essere comprensivi e disponibili, scientifici e rispettosi delle culture altre, finiscono per farne le mappe e per indicare le strade per ulteriori invasioni, conquiste, sottomissioni, reclusioni, esclusioni, colonizzazioni, stermini, genocidi, assimilazioni, marginalizzazioni. Anche se i rom continuano a opporre resistenza ai provvedimenti istituzionali e beneficenti a loro “favore” e a vanificarli sistematicamente, deludendone i promotori che si meravigliano e scandalizzano, altrettanto sistematicamente, di tanta  irriconoscenza nei confronti di quanti si danno tanto da fare per il loro bene. Ma quante sono le sofferenze che devono affrontare i rom per far fronte a tutte queste attenzioni beneficenti?

Varcare il confine del territorio dei rom

Penso che condizione preliminare per poter frequentare e capire rom e sinti è fare una scelta di campo, una scelta di carattere politico; bisogna “tradire” la propria parte (i gagé), fare un “buon uso del tradimento”, scegliendo di passare al nemico, armi e bagagli, senza progetti di “conquista” e senza la presunzione di appartenere a una civiltà superiore, tagliandosi tutti i possibili ponti alle spalle. Perchè stare dalla parte dei rom e dei sinti, significa scegliere di essere contro la nostra società, la sua cultura, le istituzioni dominanti, non collaborare e sapere che fino a quando questa società avrà il dominio, non ci sarà rispetto e pace per le minoranze, per i più deboli, per i marginali.

Il mondo dalla parte dei rom

La visione del mondo che si può avere, in un campo rom o a un semaforo a lavar vetri e a chiedere l’elemosina, o, oggi, su una barca di clandestini, non ha niente a che spartire con quella di chi si “occupa” di risolvere i loro problemi  istituzionalmente o volontaristicamente. Sono diverse, opposte, conflittuali, non pacificabili. E allora, per tentare di capire e stabilire rapporti con i rom e i sinti, bisogna varcare il confine ed entrare nel loro territorio, culturale e fisico, in modo diverso, opposto rispetto a sindaci, istituzioni, studiosi, progettatori del bene altrui.  Bisogna entrarci da “traditori” della propria parte, per consegnarsi all’altra parte, senza riserve, per scelta di campo e non per farci escursioni istituzionali e di studio. Bisogna imparare concretamente, sulla propria pelle, la rinuncia a convinzioni e valori secolari e radicati, alla mentalità che dà per scontato che l’Occidente e i suoi “valori” siano il metro di misura di ogni cultura, civiltà, società, democrazia, stato, modello di sviluppo, ecc., per poter guardare il mondo con altri occhi e altri valori e prospettive anche pratiche, per acquisire altre mentalità, per conoscere, pensare, progettare, se dovesse essere, con l’altra parte, al suo seguito, sempre un passo indietro e non al suo posto e mai per guidare e fare i salvatori. Se ci vai  da “traditore”, tra i rom, stabilisci uno scambio ineguale, in perdita; ti ci insedi come  infima minoranza immigrata ed esule, in una società remota da quella di origine. E  realizzi  un rapporto rovesciato rispetto a quello che i rom hanno con la società gagì; sei tu l’ospite, l’immigrato, lo straniero, il nomade di passaggio, l’irregolare, dai costumi diversi e strani, quello che non ha la loro lingua e da cui non ci si può attendere molto, perché precario ed estraneo alla loro cultura, anche se vieni accolto e trattato con gentilezza e rispetto. Sei tu il  barbaro. Bisogna andarci liberi, senza progetti di nessun tipo per e sui rom. Ma non devi neanche diventare il loro gagiò.  E il rapporto con loro deve restare gratuito e senza secondi fini che vadano oltre il rapporto stesso. In altre parole chi “tradisce”  non deve “occuparsi” dei rom. E neppure preoccuparsene. C’è già troppa gente, oltretutto, che lo fa e che cerca di redimerli, salvarli, civilizzarli. 

Non sono il Paradiso Terrestre

Non vado in cerca del paradiso terrestre né di un’umanità speciale. I rom donne e uomini come tutti; hanno solo stili di vita diversi da quelli diffusi tra noi, ma in questi giochi sulle loro teste e contro di loro, ci mettono anche del loro: i loro errori, opportunismi, calcoli sbagliati, egoismi,  rivalità e divisioni al loro interno, paure e frustrazioni, pregiudizi, che contribuiscono a far crescere le diffidenze e il clima di ostilità intorno a loro, tra pregiudizi positivi e negativi. Sarebbe un errore idealizzare a vita dei rom. Sono donne e uomini come tutti. E ci sono  molte sofferenze, molte forme di oppressione, molta ingiustizia e violenza nella realtà quotidiana di rom e sinti, subite e fatte subire. Ci sono disuguaglianze insopportabili, forme di prepotenza e di soggezione gravi (e non mi riferisco ai bambini che vanno a chiedere l’elemosina). In poche parole è molto faticoso vivere da rom e non ci sono per loro maggiori garanzie di una vita disinteressata, altruistica, solidale di quante non ce ne siano per noi e lo stereotipo del rom fiero, generoso e libero non ha molto a che fare con la realtà. Non ci sono insomma molti zingari felici.

Una visione minoritarie e originale del mondo

Eppure, al di là di tutto, hanno elaborato per tutti, anche per noi, senza volerlo, una visione minoritaria, originale, del mondo; strategie e modi per sopravvivere e salvarsi che non hanno bisogno, prescindono della potenza e dal potere istituzionalizzati. Fondamentale, la loro dimensione conviviale, se così si può dire, dell’esistenza, che diventa profetica e critica del presente, la sola che possa permetterci di “possedere la terra” e di salvarla, e anche la loro “deconnessione”, cioè il loro rifiuto di accogliere la nostra civiltà e i suoi modelli di vita all’interno della loro, senza riadattarseli, modificandoli  e stravolgendoli, sottraendosi cioè ai modelli di produzione, di lavoro, di consumo e di rapporti con gli uomini e l’ambiente propri delle società stanziali industriali e postindustriali. In altre parole: i loro stili di vita, totalmente altri rispetto ai nostri e con caratteristiche non esportabili facilmente in altre situazioni, attestano però che l’uomo può organizzare in positivo, la sua esistenza, nella società occidentale dei consumi (ma non solo in questa, anche se è rispetto a questa che i loro modelli ci interessano), in modo “deconnesso” (Samir Amin),  senza farsi fagocitare da essa. Anche se potrebbe darsi che, alla fine, i rom  decidano o siano costretti ad aderire senza riserve ai nostri modelli di vita, così invasivi e forti; è già successo – delle 12 tribù di Israele, ne tornarono solo due da Babilonia -, ma per ora non sembra.
Abituati a resistere Rom e sinti, non devono essere civilizzati e salvati da niente, hanno solo bisogno di essere rispettati in amicizia, riconosciuti come umanità a pieno titolo che, come il resto degli uomini, ha un suo patrimonio culturale, spirituale e di esperienze da poter scambiare alla pari. Sono loro, semmai,  che ti stanno salvando, nel momento stesso in cui, con grande presunzione, pensi di aver qualcosa da insegnargli. Sono loro che ti insegnano qualcosa, senza saperlo e senza intenzione, a relativizzarti, non perché siano portatori di chissà quale saggezza antica e segreta o di qualche autenticità e spontaneità ancestrali, ma, perché rifiutano di diventare come noi, i nostri modelli e progetti, non opponendosi esplicitamente e direttamente, ma vanificandoli rendendoli impraticabili, per il solo fatto di restare se stessi. Sono abituati a resistere.

 
Cosa vado a farci? Niente

Ecco perchè a chi mi domanda cosa vado a fare tra i rom e i sinti e cosa faccio per loro, rispondo. – “Niente”. Non faccio niente e non voglio fare niente. Mi piace frequentarli, prendere il caffè con loro, partecipare a qualche festa, chiacchierare di tutto e niente, stare ad ascoltarli, scoprire come loro vedono il mondo, prendere coscienza della diversità e della marginalità che riguardano anche me, senza scandalizzarmi, senza pretendere di insegnargli niente, senza volerli redimere, senza volerli alfabetizzare, senza volergli imporre la mia morale. Solo se c’è da difendere dei diritti… Certo dietro tutto questo c’è anche la mia storia
personale, che forse mi ha aiutato a fare queste scelte. Quando vado in un campo, sono ospite e in casa d’altri, e devo avere ben chiaro questo. Devo rispettare chi mi ospita, la sua casa, i suoi modi di vivere, i suoi segreti. Quello che vedo, sento, capisco deve restare tra me e me, per rispetto; non devo  divulgarlo, non devo comunicarlo ad altri. Come quando si va in casa di amici, se vedo qualcosa che non mi piace, non per questo lo vado a dire in giro e mi permetto di criticare i miei ospiti. Sono io che devo adattarmi a loro, per amicizia, altrimenti posso decidere di non andarci più. Quando vado da loro, so di restare gagiò, diverso, ma scelgo di essere solidale con loro, con i loro diritti fondamentali, il loro diritto alla libertà e all’autodeterminazione, come con degli amici. Non faccio progetti su di loro e comunque sia, anche un eventuale fare, lo può insegnare solo la frequentazione. M. P.

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la saggezza umana ed evangelica di p. E. Bianchi

“sui gay la Chiesa è meglio che taccia”

p. Enzo Bianchi

 

 enzo bianchi il priore della comunità monastica interconfessionale di Bose già in passato si era espresso contro “l’ipocrisia religiosa di una chiesa complice con la xenofobia“: questa volta alla sua Chiesa suggerisce, non proprio pacatamente, di “tacere” su questioni delicatissime come l’omosessualità

intervenendo all’Assemblea pastorale diocesana di Bolzano, Enzo Bianchi ha rilasciato dichiarazioni che hanno fatto scalpore: come riferisce l’Adige, parlando dei divorziati risposati il religioso ha spiegato che

“se due persone dello stesso sesso si vogliono bene e sono propense ad aiutarsi ed a sostenersi reciprocamente è giusto che lo Stato preveda una regolarizzazione del loro rapporto”

non solo:

“in una realtà in cui tutto è precario, dal lavoro alle relazioni, non possiamo aspettarci che l’amore o la famiglia non lo sia. Su questo, però, non possiamo permetterci in alcun modo di giudicare, né, tantomeno, di escludere”

durissime le parole riservate alla Chiesa sulla questione dell’omosessualità:

“Se Cristo nel Vangelo parla del matrimonio come unione indissolubile – ha chiosato Bianchi – nulla dice in merito all’omosessualità. L’onestà, quindi, ci obbliga ad ammettere l’enigma, a lasciare il quesito senza una risposta. Su questo, io vorrei una Chiesa che, non potendo pronunciarsi, preferisca tacere”.

 

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primati di vergogna!

“le crociate hanno provocato più morti dell’Isis”

Enzo Bianchi

 

enzo biANCHI Gli attentati di Parigi hanno riaperto il problema, quanto mai serio, del rapporto mai semplice, del mondo islamico con quello occidentale. Si tratta di una relazione delicata.

ne parla il priore di Bose Enzo Bianchi.

 Bianchi stigmatizza fermamente chi in nome del suo Credo sparge sangue:

“Io sono convinto che oggi nell’ Islam esiste certamente una frangia radicale, estremista e violenta. Questa parte radicalizza ogni discorso e strumentalizza la religione a fini che nulla hanno a che spartire col sacro”.

ma, sottolinea Enzo Bianchi, l’islam nel suo insieme non è violento e ricorda che ogni religione, compresa quella cristiana, ha scritto pagine nere:

“Pensate che i cristiani siano venuti meno a questa brutta  tradizione? Le guerre di religione e le crociate che non furono passeggiate di salute hanno fatto morti ugualmente e probabilmente più dell’ Isis, dunque occorre imparzialità ed equilibrio”.

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i migranti: i nostri maestri

 il magistero dei migranti

Lidia Maggi

Lidia Maggi

 la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di quanti sono stati costretti a viaggiare in cerca di un futuro. Accogliere i migranti oggi è un atto di solidarietà ma anche una necessità teologica.
Il SIGNORE disse ad Abramo: «Va’ via dal tuo paese, dai tuoi parenti e dalla casa di tuo padre, e va’ nel paese che io ti mostrerò» (Genesi 12, 1)

 

«Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come straniero con poca gente e vi diventò una nazione grande, potente e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci oppressero e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore udì la nostra voce, vide la nostra oppressione, il nostro travaglio e la nostra afflizione, e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con potente mano e con braccio steso, con grandi e tremendi miracoli e prodigi, ci ha condotti in questo luogo e ci ha dato questo paese, paese dove scorrono il latte e il miele. E ora io porto le primizie dei frutti della terra che tu, o Signore, mi hai data!» (Deuteronomio 26, 5-10)
 
Di che cosa abbiamo bisogno per comprendere la Bibbia? Ho provato a porre questa semplice domanda alla mia comunità. Le risposte ricevute oscillano da ingredienti spirituali, come la fede e l’amore, a strumenti più concreti come un traduttore, qualcuno che la spieghi, ecc. Tutti elementi utili, alcuni indispensabili.
 
Oggi, tuttavia, vorrei soffermarmi su una categoria di persone che, nella chiesa, è chiamata ad aiutare i credenti a comprendere meglio la Parola. Parlo dei dottori che Paolo, nella chiesa, nomina al terzo posto, dopo gli apostoli e i profeti (I Cor. 12, 28). Ma che cosa c’entrano i dottori con il cammino, la via? Per intuire il legame che intercorre tra i dottori della chiesa e la fede come viaggio è necessaria un’altra uscita, dal momento che abbiamo trasformato la figura dei dottori in persone erudite e piene di titoli di studio. È evidente che, per comprendere la Bibbia, occorrano persone preparate, se non altro perché la Parola di Dio si consegna come testo scritto, letterario. Mi chiedo, tuttavia, se Paolo, parlando di dottori, pensasse ai nostri teologi preparati nelle università o nei seminari. Per non cadere in anacronismi interpretativi, occorre che ogni generazione si interroghi su chi siano, oggi, i profeti della chiesa e i suoi dottori.
 
Forse uno dei criteri di discernimento per identificare il senso del carisma del dottore può essere ricercato nella capacità di saper aiutare chi crede, o chi cerca di credere, a cambiare prospettiva, a modificare il proprio sguardo per provare a vedere il mondo dal punto di vista della narrazione biblica. I dottori sono coloro che ci sollecitano a comprendere che il nostro punto di vista non coincide con quello della Bibbia; e non soltanto perché viviamo una distanza cronologica e geografica con un testo composto nell’arco di differenti secoli in una regione del mondo che non abitiamo. Piuttosto, perché la Bibbia è scritta e narrata dalla prospettiva dei migranti, di coloro che sono costretti a lasciare la propria terra per le ragioni più diverse: carestie, persecuzioni, una chiamata, una cacciata…
 
La storia biblica non è solo la vicenda di un popolo migrante, ma è soprattutto la storia raccontata dal punto di vista dei migranti.
 
Un migrante non lascia la propria terra per turismo, per curiosità, ma per ricercare una vita vivibile. Nella saga di Giuseppe, Giacobbe dice ai suoi figli in piena carestia: «Perché state a guardarvi l’un l’altro? Ho sentito dire che c’è grano in Egitto, scendete là a comprarne, così vivremo e non moriremo» (Gen. 42, 1-2). L’immobilismo porta alla morte; mettersi in viaggio apre a possibilità di vita. Il migrante affronta il rischio del viaggio alla ricerca di una nuova possibilità, quando tutte le vie gli appaiono sbarrate. A volte è meglio affrontare il deserto, piuttosto che rimanere su una terra dove i propri figli sono condannati a morte e il lavoro è solo schiavitù.
 
Non è anche di questo che parla l’evento fondatore della storia di Israele, l’esodo? Fuggire dal genocidio, dalla schiavitù, per sottrarsi alla persecuzione. Meglio il deserto, che una terra apparentemente ricca ma segnata da un governo ingiusto.
 
La Bibbia, in quanto storia di migranti, affronta tutte le questioni che i migranti ancora oggi affrontano, quando arrivano in una nuova terra. A iniziare dalla lingua. La Bibbia è uno strano testo, composto da una miscellanea di lingue: ebraico, aramaico, greco. Noi non ci poniamo il problema della traduzione solo per rendere fruibile questo libro a chiunque voglia leggerlo. La questione è presente nel testo stesso. Come mai le parole di Gesù, che parla in aramaico, un dialetto ebraico, vengono riportate dai suoi testimoni in greco, ovvero tradotte in una lingua straniera? Al di là della risposta tecnica, mi interessa qui segnalare che, nello stesso testo biblico, esiste un passaggio da una lingua a un’altra. Tema che non affronta una cultura stanziale. Chi nasce, vive e muore nello stesso posto, non si trova sollecitato a dover ricercare una mediazione linguistica che, invece, è di vitale importanza per tutti coloro che emigrano. Il migrante deve imparare la lingua del posto, oltre ai diversi usi e costumi. Si trova di continuo a dover definire i propri confini culturali, tra desiderio di integrazione (come Israele in Egitto, ai tempi di Giuseppe), scelta del nascondimento (come la regina Ester, che non rivela la sua identità religiosa e culturale) o differenziazione (come Israele al tempo di Mosè: «Lascia andare il mio popolo!» – come nella vicenda di Daniele e dei suoi amici, alla corte di Babilonia, che rifiutano di nutrirsi con il cibo regale). Tutto il libro del Levitico, pur presentando leggi arcaiche a noi perlopiù incomprensibili, può essere percorso con questa categoria: la necessità di un popolo, in una terra abitata da altri popoli, di differenziare la propria identità – un po’ come succede al protestantesimo in Italia che, sentendosi accerchiato da un contesto culturale a maggioranza cattolico, differenzia se stesso definendo la propria fede in contrapposizione all’altro. Una medesima strategia connota il Levitico, il libro della santità, della separazione: persino questo testo lo si comprende differentemente, se lo si considera un codice di migranti, preoccupati di perdere la propria memoria culturale.
 
È dal punto di vista del migrante che è raccontata la vicenda della terra promessa, poiché quel territorio è già occupato da altra gente, non è libero, vuoto. Questo genera conflitti, tensioni, che devono essere affrontati per tentare una convivenza non sempre facile.
 
Il Dio biblico è il Dio dei migranti. Li chiama a uscire, a lasciare la propria terra (Abramo), li forza a scappare da una situazione di morte (l’esodo) e si mette in viaggio con loro (i patriarchi e le matriarche, ma anche con il popolo in esilio, a Babilonia). Il protagonista divino si sente più a proprio agio in case precarie, nelle tende dei beduini, che nelle mura del tempio. È quanto intuisce il saggio Salomone, per quanto sia proprio lui a costruire un tempio per Dio: «Ma è pro- prio vero che Dio abiterà sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non ti possono contenere; quanto meno questa casa che io ho costruita!» (I Re 8, 27).
 
Per comprendere questo Dio e la sua Parola, narrata dalla prospettiva dei migranti, abbiamo bisogno di metterci in viaggio, di diventare a nostra volta migranti; oppure abbiamo bisogno di dottori, uomini e donne che ci aiutino a leggere la realtà dalla prospettiva degli stranieri. I dottori della chiesa sono oggi proprio i migranti che con la loro stessa esistenza preservano la memoria dello sguardo biblico. Accoglierli tra noi non è solo un atto di solidarietà, ma una necessità teologica: abbiamo bisogno del loro magistero!
 
Noi che rischiamo di farci un’idea del mettersi in cammino sui tapis roulants delle nostre chiese statiche, abbiamo bisogno di chi ha sperimentato realmente che cosa significhi essere dislocato, come i nostri padri, aramei erranti (Deut. 26, 5), come Gesù che non aveva dove posare il capo (Mt. 8, 20).
da Riforma n. 38 del 9 ottobre 2015
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consacrato vescovo il mio compagno di passeggiate

padre Giovanni Roncari ordinato Vescovo

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 «La Chiesa fiorentina ti deve tanto»

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«Il sacrificio di perderti è grande, ma nella Chiesa non c’è spazio per possessi egoistici, e quindi con fiducia ti affidiamo al tuo nuovo popolo e al suo presbiterio»

 così il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, si è rivolto a padre Giovanni Roncari, vescovo eletto di Pitigliano Sovana e Orbetello, che ha ricevuto l’ordinazione episcopale nella cattedrale di Santa Maria del Fiore.

 
Padre Giovanni Roncari ordinato Vescovo. Betori: «La Chiesa fiorentina ti deve tanto»

nell’omelia, Betori ha sottolineato la gratitudine »di tutta la Chiesa fiorentina, che tanto ti deve, specialmente i suoi sacerdoti che, come me, non ti cancelleranno mai dal loro cuore»

A imporre le mani su Padre Roncari anche i due immediati predecessori alla guida della diocesi di Pitigliano-Sovana-Orbetello, Guglielmo Borghetti e Mario Meini, in segno di continuità e comunione. Nel Duomo di Firenze anche moltissimi preti della diocesi di Firenze, dove padre Roncari ha ricoperto negli ultimi anni l’incarico di vicario episcopale per il clero, i parrocchiani di San Francesco e Santa Chiara a Montughi dove è stato prima viceparroco e poi parroco per oltre trent’anni, i suoi studenti della facoltà teologica dell’Italia centrale dove da molti anni insegnava storia della Chiesa, e tantissimi suoi confratelli della Provincia toscana dei frati cappuccini e delle altre congregazioni della famiglia francescana. Presenti anche sacerdoti e fedeli della sua nuova diocesi, tra cui alcuni sindaci dei comuni del territorio, arrivati per fare festa insieme al loro nuovo vescovo.

Nella festa di Cristo Re, Betori ha ricordato che Gesù definisce la propria regalità come una testimonianza alla verità: «possiamo allora pensare il ministero del vescovo come un farsi carico del cammino del gregge che ti viene affidato, caro padre Giovanni, per illuminarlo secondo la verità di Cristo, per condurre la tua gente alla condizione di uomini e donne liberi di camminare lungo le strade del bene».

«Un’esigenza alta – ha proseguito – che Papa Francesco, come è noto, ha esemplificato nell’invito ai vescovi a stare uniti al loro gregge, nel triplice atteggiamento della guida che ne orienta il cammino, del fratello che ne condivide gioie e sofferenze, soprattutto quelle dei più poveri, del servitore che raccoglie i dispersi ma anche si lascia indirizzare dal senso di fede del popolo. Questa esperienza di condivisione di fede, speranza e carità con il tuo popolo di Pitigliano-Sovana-Orbetello imploriamo oggi per te, caro padre Giovanni, e per questo invochiamo lo Spirito del Signore su di te».

Al termine della celebrazione padre Roncari ha ringraziato i suoi genitori, la famiglia francescana, i vescovi, i sacerdoti, i laici, della diocesi di Firenze con cui ha camminato per tanti anni, e il popolo della diocesi di Pitigliano, Sovana e Orbetello a cui ha chiesto: «fatemi spazio nel vostro cuore, cammineremo insieme nelle vie del Signore».

Il nuovo vescovo farà ingresso nella cattedrale di Pitigliano il prossimo 29 novembre, prima domenica di Avvento: la sua nuova diocesi, nel sud della Toscana, copre un vasto territorio che va dal Monte Amiata all’Isola del Giglio.

Nato a Verona il 19 agosto 1949, è arrivato ancora bambino a San Piero a Ponti. Ha frequentato il Seminario dei Frati Minori Cappuccini, iniziando nel 1966 il noviziato. Il 20 agosto 1972 ha fatto la professione solenne e il 22 marzo 1975 è stato ordinato sacerdote.

«In caritate et laetitia»:è un motto dal sapore molto francescano quello scelto da padre Giovanni Roncari. Nel suo stemma, realizzato dal grafico araldista Giuseppe Quattrociocchi, oltre al simbolo dell’ordine francescano (ossia la mano di Cristo incrociata con la mano di san Francesco, entrambe segnate dalle Stimmate) anche un ponte, che richiama il paese di san Piero a Ponti da cui padre Roncari proviene, la stella mariana e il giglio di Firenze, la città dove per tanti anni ha svolto il suo ministero.

 

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