il vecchio H. Kung e la sua ‘battaglia della libertà’ anche per il momento terminale

la libertà di morire

l’ultima battaglia di Hans Küng

KUNG

LA LIBERTA’ DI MORIRE

articolo pubblicato sul Qn (il Giorno, la Nazione, il Resto del Carlino), edizione del 6 settembre 2015

Un’altra provocazione. La più scandalosa, tragica, intima. L’ultima. Passato alle cronache per la contestazione del dogma dell’infallibilità pontificia e la ferma contrarietà alla santificazione di Karol Wojtyla, Hans Küng, fra i principali teologi cattolici contemporanei, in ‘‘Morire felici?’’ (Rizzoli) ingaggia con i vertici della Chiesa una strenue battaglia a favore dell’eutanasia su base volontaria. Sullo sfondo l’aggravarsi del morbo di Parkinson, che di recente l’ha costretto al ricovero in una struttura protetta, e tre esperienze – il decesso del fratello, la lettura degli scritti della psichiatra Elisabeth Kubler Ross su pazienti clinicamente morti e poi usciti dal coma, la lunga agonia dell’amico filologo Walter Jens – che hanno convinto Küng «a decidere da solo quando e come morire».

CONSAPEVOLE  di affrontare un tema tabù nella nostra società, così restia a parlare di morte figurarsi di suicidio assistito, il sacerdote svizzero àncora la sua tesi alla dottrina cattolica. In linea con il magistero, Küng si dice fermamente convinto che la vita sia una dono di Dio. È un regalo che, come asserisce anche il Catechismo, comporta la responsabilità di ciascuno sulla propria vita. E allora, ecco l’interrogativo bruciante, perché derogare a questo impegno proprio nell’ultima fase del transito terrestre? A detta di Küng è da irresponsabili il suicidio per una delusione amorosa o per la perdita del posto di lavoro. Altro è il discorso di chi deve fare i conti con una patologia incurabile, all’orizzonte non ha che un progressivo scivolamento lungo il pendio della demenza e per questo consapevolmente sceglie di ‘riconsegnare’ al Padre la sua esistenza.

«NESSUNO mi convincerà che rassegnarmi a una vita in stato vegetativo sia la volontà di Dio», incalza il teologo ribelle che professa «una fede ragionevole» nell’Aldilà. Il Padre è il Signore della misericordia e della carità, non un tiranno assetato di sangue. La croce di Gesù resta incomparabile. Il senso della sua sequela -– sostiene Küng – non può essere il patire le stesse sofferenze del Cristo, accettandole stoicamente o cercandole con intenti masochistici. Non è una mera imitazione, ma una vita in correlazione col Nazareno. Da condurre con responsabilità. Sino in fondo.

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nonostante tutto sono davvero esseri umani … !

 

Sono esseri umani. Un semplice fatto che abbiamo dimenticato

sono esseri umani.

un semplice fatto che abbiamo dimenticato

 il commento di Owen Jones apparso sul Guardian il 28 agosto scorso


Non sono esseri umani: nessuno sopporterebbe di sentir parlare di persone che affogano in continuazione. Nella migliore delle ipotesi sono statistiche terribili ma intangibili, oggetto di un po’ di sdegno prima che la banale vita quotidiana riprenda il suo corso. Per altri sono uno sciame indesiderato che la Fortezza Europa deve tenere lontano: brulicante di aspiranti sanguisughe che non meritano niente e per cui non c’è posto in Occidente. Nella gerarchia della morte, chiunque sia etichettato come “migrante” deve prendere il suo posto in qualche punto vicino al fondo. È una parola disumanizzata: per fin troppe persone è sullo stesso piano di “piccolo criminale” e chi piange i piccoli criminali?

Quando la notizia di oltre 200 profughi morti annegati al largo della Libia filtra frettolosamente tra le informazioni dei media, l’unica garanzia è che ne annegheranno altri. E quando arriva la notizia di oltre 70 profughi trovati morti su un camion in Austria – cercare di immaginare i loro ultimi istanti di vita provoca una sensazione orribile alla bocca dello stomaco – sappiamo che altri cadaveri saranno trovati in altri camion. Chi di noi vuole un trattamento più compassionevole nei confronti delle persone che fuggono da situazioni disperate non è riuscito a convincere l’opinione pubblica e il costo di questo fallimento è la morte.

Per quanti pensano che l’ostilità verso gli esseri umani provenienti da altri Paesi che hanno perduto alla lotteria della vita sia in qualche modo innata, c’è la prova del contrario. La Germania accoglie circa quattro volte più profughi della Gran Bretagna; e per ogni siriano che cerca asilo ricevuto dalla Gran Bretagna, la Germania ne prende 27. E nonostante la generosità tedesca venga paragonata con la nostra, metà dei tedeschi secondo un sondaggio si è detta favorevole a far entrare un numero maggiore di profughi.

Questa è una discussione che non può essere vinta con i numeri. Possiamo dire alla gente che chi raggiunge l’Europa non rappresenta che una minuscola parte della popolazione di profughi del mondo; che mentre dieci anni fa i Paesi in via di sviluppo ospitavano circa il 70% dei profughi oggi quella cifra è pari all’86%. Paesi di gran lunga più piccoli e più poveri di noi accolgono molti più profughi, come il Libano che ha all’interno dei suoi confini 1 milione e 300mila profughi siriani. Ma tutto questo non cambierà gli atteggiamenti della gente. Dobbiamo cambiarli con le storie, umanizzando profughi altrimenti senza volto.

A parte una minuscola porzione di sociopatici, la nostra specie è per sua natura empatica. È solo quando strappiamo l’umanità alle persone – quando smettiamo di pensarle umane quanto noi – che quella nostra natura empatica viene indebolita. Questo ci permette di accettare la miseria altrui o addirittura di infliggerla. I giornali di destra danno la caccia a notizie estreme e sgradevoli riguardanti i profughi e noi rispondiamo con le statistiche. Invece dobbiamo mostrare la realtà dei profughi: i loro nomi, i loro volti, le loro ambizioni e paure, i loro amori, e ciò da cui sono scappati.

Sì, la soluzione alla miseria globale non è liberare un piccolo numero di persone fortunate e paracadutarle in Paesi più ricchi. È necessario che l’Occidente si assuma la responsabilità dei disastri che ha contribuito a creare, come in Libia e in Iraq. Dovremmo fare pressione sui nostri governi affinché facciano di più per risolvere quelle situazioni che costringono gli esseri umani a fuggire. Alle comunità con più alto numero di migranti e di profughi dovrebbero essere destinate più risorse e sostegno. Ma fino a quando ci sarà miseria, le persone fuggiranno e una minuscola porzione arriverà fino a qui. Se vogliamo aiutarli, dobbiamo cambiare l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti dei profughi, umanizzandoli. Se non ci riusciremo, sempre più donne, uomini e bambini passeranno le loro ultime ore annegando in mare o soffocando nei camion. È proprio così. Ed è terribile.

 

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si fa presto a dire Dio …

IL DIO IN CUI NON CREDO 

di Carlo Molari


“CHE DIO MI LIBERI DA DIO”

otto immagini di Dio “in cui non credere”

di Carlo Molari

prego Dio che mi liberi da Dio: sembra una contraddizione perché se preghi Dio credi in Lui e non puoi chiedere di fare senza di Lui. La formula viene da un mistico, un teologo domenicano vissuto a cavallo tra il secolo XIII e XIV, nato nel 1260 e morto nel 1327, Meister Eckhart. Eckhart come credente ha detto: Prego Dio che mi liberi da Dio per superare tutte le immagini di Dio, per giungere a quella esperienza profonda dove Dio si fa presente nel fondo dell’anima, come lui dice

 

È un discorso difficile, lui stesso ne era consapevole e infatti afferma: “vi prego per amor di Dio di comprendere se potete questa verità. Se poi non la comprendete non vi affliggete per questo, perché io parlo di una verità tale che solo poche persone buone la comprenderanno” (ib. p. 131). Dice ancora: “Chi non comprende questo discorso non affligga il suo cuore, perché l’uomo non può comprendere questo discorso finché non diventa uguale a questa verità”, cioè finché non la vive al punto da essere questa verità. “Infatti si tratta di una verità senza veli, che giunge immediatamente al cuore di Dio. Dio ci aiuti a vivere in modo da poterla conoscere in eterno. Amen” (ib. p. 139). Il luogo interiore dove Dio si incontra, per Eckhart, è il fondo dell’anima: là non c’è nessuna immagine perché è il luogo dove prendi contatto con la forza creatrice, con l’azione di Dio che ti rende figlio. Eckhart utilizza questa espressione: “Dio genera in te il figlio”. Vuol dire “la parola che un giorno in Gesù si è espressa, in te ora viene generata”, tu cresci come figlio. E in quel luogo non c’è nessuna immagine. Tudiventa l’immagine e non avrai bisogno di nessun’altra immagine, sarai luogo dove Dio si rivela. Non dove Dio fa qualcosa per te, dove Dio fa teimmagine sua.
Vorrei aggiungere un’altra breve riflessione preliminare sul significato del confronto con gli atei. Oggi molti cominciano a parlare di Dio, se si va nelle librerie laiche si trovano moltissimi libri che parlano di Dio scritti da atei o agnostici, che però sentono il dovere, la necessità di parlare di Dio. Si potrebbe dire che oggi i teologi si stanno avviando al silenzio, nel senso che scoprono che è meglio non parlare troppo di Dio, perché tutto quello che diciamo o è senza senso o, se ha un senso, conduce al silenzio, cioè all’adorazione, a liberarci da tutte le parole e da tutte le immagini; mentre gli atei si stanno avviando nella direzione di parlare di Dio. Per dire che non c’è. E siccome quel Dio che negano è spesso il Dio che anche noi neghiamo, succede che ci troviamo a camminare insieme. Il cammino che noi stiamo facendo anche nel confronto con gli atei è un cammino comune di credenti e non credenti, per un nuovo umanesimo, perché l’umanità risponda alle esigenze attuali. Infatti la situazione in cui oggi ci troviamo è quella di una svolta epocale, nel senso che la forza creatrice, la forza della vita, i processi evolutivi richiedono un salto qualitativo. Mentre nei passaggi precedenti – fisici, chimici e biologici – c’erano leggi ben determinate ora il salto sta avvenendo nell’ambito culturale e spirituale, dove qualcosa di nuovo sta sorgendo, ma non sappiamo che cos’è, non sappiamo che forma assumerà. Dobbiamo essere consapevoli che insieme lo possiamo far nascere, desiderandolo, attendendolo e accogliendolo, cioè diventando noi luogo di questa emergenza.
Il tema Dio è un ambito attraverso il quale la riflessione e l’attesa del nuovo acquista una efficacia straordinaria. Non semplicemente per l’apporto dei credenti, bensì anche dei non credenti, di coloro che soffrono, che lavorano per la giustizia, che giungono ad amare in modalità corrispondenti alle esigenze della nostra stagione storica. Dopo queste premesse esamino gli dei in cui non credo: otto immagini di Dio che non sono efficaci.
1. Il Dio della pura ragione: in questo Dio non credo, non merita fede, non merita fiducia, non è sufficiente. C’è un ateo convertito, morto nell’aprile scorso, un filosofo molto noto, Anthony Flew, che a quindici anni aveva fatto la scelta dell’ateismo. Quando nel 2004 fu chiamato negli Stati Uniti in un grande teatro per confrontarsi come ateo con tre teologi, prima di cominciare il dialogo dichiarò di aver cambiato idea. Successivamente ha giustificato il suo cammino razionale. In realtà Flew è giunto alla credenza in Dio attraverso la riflessione filosofica, ma non è giunto alla fede in Dio, cioè a considerare Dio come riferimento delle proprie decisioni, per giungere a conoscere e ad amare in un modo nuovo. Se non scopri che è un Dio che ti ama e che ti consente di giungere ad una forma nuova di vita, un Dio che salva a che ti serve? Anche il Cardinale Ruini, nel dicembre 2009 dopo aver proposto diversi argomenti per dimostrare l’esistenza di Dio, ha detto: “La difficoltà dell’approccio metafisico nel contesto culturale contemporaneo, aggiungendosi all’aporia derivante dall’esistenza del male nel mondo, sono le ragioni di fondo di quella «strana penombra (sono parole di Ratzinger che egli cita) che grava sulla questione delle realtà eterne». Perciò l’esistenza di un Dio personale, pur solidamente argomentabile, non è oggetto di una dimostrazione apodittica, ma rimane (e qui cita ancora Ratzinger) «l’ipotesi migliore, che esige da parte nostra di rinunciare ad una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile»”. L’atteggiamento dell’umile ascolto serve appunto per creare il silenzio interiore, per pervenire al ‘fondo dell’anima’ dove la forza creatrice sta alimentando il nostro cammino. Questa è l’esperienza da compiere in ordine alla fede. Per questo il Dio della ragione non è sufficiente.
2. Non credo nel Dio che opera nella creazione e nella storia inter-venendo, modificando le situazioni, completando le creature, rimettendo in funzione i meccanismi della creazione e della storia quando si inceppano. L’azione di Dio è un’azione creatrice che offre possibilità, che alimenta il processo, ma che non si sostituisce mai alle creature, proprio perché fa esistere ed operare le creature. La storia umana è fatta solo di azioni umane, come il processo cosmico è costituito solo da meccanismi di creature fisiche, biologiche, alimentate e sostenute dalla potenza divina. Siccome Dio molti praticanti pensano ancora che Dio intervenga all’interno dei processi, credo sia urgente chiarire l’inconsistenza di un tale modo di immaginare Dio. È un passaggio difficile ma necessario. Dobbiamo diffondere una immagine libera da queste ipoteche della ‘provvidenza’. Dio è provvidente non nel senso che risolve tutti i problemi, ma nel senso che, ovunque l’uomo si venga a trovare, il suo amore è tale che può condurlo al suo compimento. Dio perché non può risolvere alcun problema storico se non ci sono creature che aprendosi alla sua azione indicano e realizzano la soluzione. Il “dio tappabuchi” non può essere il Dio della fede.
3. Non credo nel Dio che punisce i peccati, che manda le pestilenze per far ravvedere gli uomini. Per moltissimo tempo si è pensato così. San Carlo Borromeo, in occasione di una pestilenza a Milano, organizzò una grande processione. Il santo portava la pesante croce di legno col sacro chiodo davanti a tutti invocando la misericordia di Dio. Scrisse poi al cardinale di Bologna esprimendo la sua gioia perché le chiese non erano mai state piene come in quei giorni. La peste, a suo giudizio, era stata lo strumento di Dio per il ravvedimento del popolo. Il segno chiaro che questa interpretazione era giusta stava nel fatto che “nonostante l’assembramento numeroso della gente che si era raccolta a pregare, non si era verificato nessun altro caso di peste”.
4. Non credo nel Dio che cambia atteggiamento per la preghiera degli uomini. Come se noi pregando sollecitassimo Dio a fare qualcosa di nuovo. È una pretesa insensata, un modello antropomorfico. La preghiera ha un grande valore perché mette in moto in noi dinamiche di novità e di cambiamento, non perché modifica l’atteggiamento di Dio. Noi pregando acquistiamo la capacità di vedere in modo più profondo il reale, e di amare in modo inedito. Quando giungiamo a sperimentare attraverso la preghiera le qualità nuove che fioriscono in noi, comprendiamo che la forza della vita contiene ricchezze ancora non espresse, qualità umane che possono fiorire e che domani avranno forme per noi ora non immaginabili. Il silenzio interiore, l’atteggiamento di ascolto e di accoglienza sono essenziali per l’efficacia della preghiera. Ma non perché diciamo a Dio di fare qualcosa di nuovo, ma perché noi accogliamo la sua azione in modo molto più profondo e ricco.
5. Non credo in un Dio che può fare le cose perfette dall’inizio, perché la creatura è tempo e può accogliere il dono solo a frammenti, nella successione. Dio è eterno, è pienezza di vita, è perfezione compiuta, ma la creatura è tempo e non può accogliere l’offerta divina tutta in un solo istante. Non ci può essere una creatura perfetta all’inizio. Nella prospettiva evolutiva si capisce bene che Dio alimenta il processo continuamente, cioè la creazione continua tuttora. Il compimento è il traguardo del cammino, la perfezione piena è solo alla fine.
6. Non credo nel Dio che vuole la riparazione del male attraverso la croce di Cristo o per mezzo di coloro che si uniscono alla sua sofferenza. Dio non vuole che gli uomini siano nel dolore, e quando qualcuno soffre Dio è dalla sua parte per sostenerlo nel suo cammino, perché possa giungere ad amare anche in quella condizione. I santi che hanno attraversato grandi sofferenze si sono santificati per l’amore a cui sono pervenuti. Lo stesso Gesù è giunto ad un amore supremo sulla croce e per questo è risorto. Amando Gesù ci ha salvato: è redentore non perché ha sofferto, ma perché la sofferenza è stata l’ambito in cui l’amore è fiorito in forme sublimi.
7. Non credo al Dio che parla all’uomo con parole umane. Dio parla nel silenzio perché non pronuncia parole umane, bensì divine, per noi silenziose. La sua Parola però alimenta la nostra vita come forza creatrice. Il contatto con Lui ci rigenera. Ma questo contatto non diventa parola, non diventa idea, non diventa immagine, bensì diventa esperienza vitale, evento di storia. Certo, l’esperienza può essere narrata, ma quando viene tradotta in parole umane viene anche in parte tradita, modificata, confusa, per cui la Parola divina è sempre da cercare oltre le parole umane. Quando diciamo che la Scrittura è ‘parola di Dio’ dobbiamo intendere la formula in senso analogico cioè di relazione. La Parola è quella forza di vita che ha suscitato gli eventi di salvezza, narrati dagli uomini secondo i modelli con cui li hanno vissuti e interpretati, e trascritta secondo i modelli culturali del tempo. Il processo che ci consente di cogliere il senso della Parola è rivivere le esperienze di fede che hanno caratterizzato l’evento narrato, coglierne la trama divina, e percepire nel silenzio la presenza che le ha rese possibili.
8. Non credo nel Dio del Progetto intelligente (Intelligent Design), come lo presentano i gruppi statunitensi che si battono per introdurre nelle scuole l’insegnamento alternativo all’evoluzionismo neo-darwinista. Dio della fede non è semplicemente il Dio delle origini ma del processo nella sua interezza. Le cause dei processi cosmici sono imperfette e il male accompagna sempre lo sviluppo della vita sulla terra. Il caos e la complessità caratterizzano molti eventi, perché Dio non interviene con azioni puntuali nelle situazioni della storia. L’azione divina in ogni circostanza offre molte possibilità per cui la casualità ha una parte importante nel divenire cosmico e negli eventi della storia. Il progetto salvifico si può realizzare anche attraverso fallimenti, vicoli ciechi, eventi casuali e imprevedibili che costellano il cammino evolutivo.

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augurissimi, don Ciotti!

don Ciotti

settant’anni tra solidarietà e ribellione

“oltre alla deriva xenofoba, mi preoccupano il dilagare delle mafie e della corruzione. E soprattutto la mancanza di risposte concrete da parte dello Stato e della politica”

ritratto di un religioso sempre in prima linea

di Mario Lancisi

Don Ciotti, settant'anni tra solidarietà e ribellione

quella foto del piccolo Aylan Kurdi, trascinato morto dal mare sulle rive turche, don Luigi Ciotti ce l’ha sempre davanti agli occhi. Commozione, dolore, ma anche una grande rabbia, un’indignazione senza fine i sentimenti che lo agitano. “Basta, va posto fine al massacro degli innocenti. Sull’immigrazione tante parole, ma fatti zero. Quello dei profughi era un fenomeno prevedibile, ma l’Europa se ne è lavata le mani. La politica anche in Italia ha pensato ai voti, al consenso, non a risolvere il problema dell’immigrazione”.

Don Ciotti, fondatore del gruppo Abele e di Libera, l’associazione contro le mafie, compirà settanta anni il prossimo 10 settembre. Momento di bilanci, di sguardi sul futuro. Sguardi preoccupati: “Oltre alla deriva xenofoba, mi preoccupano il dilagare delle mafie e della corruzione. E soprattutto la mancanza di risposte concrete da parte dello Stato e della politica. Ripeto, parole tante, ma fatti pochi, davvero pochi”. Non fa nomi, non attacca Renzi o Salvini: è tutta la politica a deluderlo.

Ma don Ciotti ha anche sguardi aperti alla speranza: “La vedo annidarsi nel cuore dei giovani. Ribelli ma creativi. Confido in loro, nella loro ribellione non violenta ma capace di aprire nuove strade”. Ecco, strada, strade. La password che aiuta a capire la vita di questo prete di settant’anni sempre in prima fila tra impegno religioso e civile.

Quando nel 1972 fu ordinato sacerdote, l’allora vescovo di Torino, il cardinale Michele Pellegrino gli disse: “Luigi, la parrocchia che ti affido è la strada”. E di strada don Ciotti ne ha percorsa molta, prima e dopo la tonaca.

Nato a Pieve di Cadore nel 1945, il 10 settembre, appunto, la famiglia di Luigi si trasferisce a Torino in cerca di fortuna quando ha appena cinque anni. Lì, nella città sabauda, il babbo fa il muratore nei cantieri per la costruzione del Politecnico e la famiglia vive in una baracca. Poverissimi. A tal punto che il piccolo Luigi va a scuola senza grembiule. Un giorno la maestra lo riprende in malo modo: “Ma cosa vuoi tu, montanaro?”. Luigi, allora in prima elementare, non ci vede dalla rabbia: tira fuori un calamaio dal banco e lo scaraventa contro la maestra. Ha solo sei anni, ma già quel carattere ribelle contro le ingiustizie che si porterà dietro per tutta la vita. Non a caso, a metà mese, uscirà anche in Italia, edito da Piemme, il suo nuovo libro “Non tacerò”, curato da Nello Scavo e Daniele Zappalà.

La svolta della vita don Luigi ce l’ha a 17 anni, quando andando a scuola, per conseguire il diploma in telefonia, rimane un giorno colpito da un barbone. Scoprirà poi che era un medico caduto in depressione e povertà. Il giovane Luigi si ferma, una mattina. «Posso offrirle un caffè?». Il barbone non risponde. Un thè? Silenzio. Per 12 giorni va avanti un dialogo ad una sola voce. Il barbone-medico tace e guarda fisso un bar davanti alla scuola. Lì andavano i ragazzi a farsi una “bomba”: alcool e pasticche. Anche Luigi decide di andare in quel bar. E capisce la vocazione della sua vita: farsi prete e dedicarsi ai drogati.

Nel 1955 nasce il gruppo Abele e quarant’anni dopo, Libera. Dalla droga all’impegno contro la mafia: “L’idea di libera è nata nell’estate del 1992, l’estate in cui furono uccisi Paolo Falcone e Paolo Borsellino. La molla è stato il desiderio di fare qualcosa di più, di non cedere allo sgomento, alla rabbia e alla rassegnazione”, racconta don Ciotti nel libro di Libera, uscito per il ventennale (“Cento passi verso un’altra Italia”, edito da Piemme).

Un’altra Italia, ma anche un’altra Chiesa. Prete di strada ma amico anche di personaggi dell’alta società, a cominciare da Giovanni Agnelli (al quale dava del tu) e del figlio Edoardo, di cui ha celebrato i funerali, nel 2000, don Ciotti è stato spesso criticato dalle gerarchie ecclesiastiche per le sue posizioni sociali e politiche non linea con l’ortodossia vaticana. Un rapporto quasi da separato in casa, nella sua Chiesa. Che solo papa Francesco ha ricucito quando nel marzo del 2014, appena eletto al soglio di Pietro, partecipa alla giornata della memoria di Libera e abbraccia don Ciotti. Che commenta : “Ora ci sentiamo meno soli”.

Qualche mese dopo, la condanna a morte di Totò Riina che dal carcere lancia la minaccia: “Uccidiamo don Ciotti, come già don Puglisi”. Da allora la scorta del prete è stata rafforzata: “Paura? Non parlerei di paura, e non perché sia incosciente o temerario, ma perché non do peso alla mia vicenda personale. L’io è soltanto un mezzo, non un fine. Il fine è la giustizia sociale. Le minacce più grandi non solo quelle dei boss, ma i ritardi, le inerzie, i compromessi nel realizzarla”, conclude don Ciotti nell’introduzione al libro di Libera.

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er Piotta e Elio Germano parlano di rom

Er Piotta con Elio Germano: lo sapevate che i rom…?

 

Diceva Bernard Shaw: «L’Americano bianco relega il negro al rango di lustrascarpe: e ne conclude che è capace solo di lustrare scarpe». Negli anni Cinquanta, invece, i giudici minorili svizzeri aprirono un dibattito sull’esagerato coinvolgimento dei minori italiani in procedimenti penali. Ci si chiese, allora, se non vi fosse una propensione culturale della popolazione italiana al furto. Un’idea avvalorata da molti studi europei. Quel dibattito si esaurì man mano che gli italiani immigrati in Svizzera diventavano gelatai e aprivano pizzerie, mentre la giustizia minorile doveva passare ad occuparsi dei nuovi immigrati (prima i portoghesi, poi gli jugoslavi ed infine i turchi). Prima si diceva: «Piove? Governo ladro». Ora la vulgata è: «Piove? Sono gli zingari». Ma la vulgata è, appunto, una vulgata. E pure piuttosto volgare, un po’ come quella secondo cui i rom sono tutti ladri o rubano i bambini, dimenticando per esempio la ricerca dell’Università di Verona e della Fondazione Migrantes che ha analizzato scientificamente tutti i casi dal 1986 al 2007 di rom indicati come responsabili di sparizioni di bambini e ha mostrato che in nessuno l’accusa si è poi rivelata fondata.

Il problema è che, a furia di ripeterla, la vulgata diventa vera, ingabbiandoci in una serie di barriere mentali . Lo sapevate che in Italia c’è una delle percentuali di rom più basse di tutta Europa (0,25%, pari a 180mila)? Che solo uno su cinque vive nei campi? Che la metà ha la cittadinanza italiana, quasi tutti iure sanguinis perché in Italia dal 1400, con punte del 90% in Emilia Romagna? Che il 97% dei rom in Italia non è nomade (l’eccezione sono i circensi)? Ce lo ricorda l’intervista doppia realizzata da Er Piotta e Elio Germano. È stata realizzata per la campagna di raccolta firme “Accogliamoci” (www.accogliamoci.it), per promuovere due delibere di iniziativa popolare a Roma per il superamento definitivo dei campi nomadi e la riforma dei centri di accoglienza per richiedenti asilo politico. Questa iniziativa è portata avanti da Radicali Roma, Arci, Asgi, Associazione 21 luglio, A buon diritto, Cir, È possibile, Un ponte per, ZaLab; tra i politici che hanno sottoscritto la proposta, i deputati Khalid Chaouki e Pippo Civati ed Emma Bonino. Sì, perché decenni di vulgate stereotipate e semplificatorie hanno prodotto, in buona o cattiva fede, interventi sbagliati. Come quella dei campi “nomadi”: sono una scelta di politica abitativa delle città italiane, non c’entrano nulla con una presunta cultura rom. «Enclave di segregazione» è la definizione usata dall’Onu per criticare questi luoghi del disagio con il timbro delle autorità.

Negli anni ’50 e ’60, quando a Roma c’erano le baracche raccontate da Pasolini, quasi tutti gli ospiti dell’allora carcere minorile venivano da lì. La storia di quelle periferie insegna che integrazione, scuola (il 60% dei rom è minorenne), lavoro, casa sono l’unico modo per ridurre la microcriminalità. La condizione dei rom è un problema europeo, non solo italiano, ma l’Unione lo ha capito. Nel 2011 ha delineato quattro assi portanti e relativi fondi di finanziamento: inserimento nel mondo del lavoro, politica di alloggi, accesso alle cure e all’istruzione. Alcuni Stati ci stanno provando:

a Madrid, dove vivevano 70mila rom (in una sola città quasi la metà di quelli in tutta Italia) di cui 12mila nei campi, nel 2011 il Comune ha deciso di chiudere i campi e di investire sulla scuola. Finora sono stati chiusi 110 insediamenti e 9mila persone hanno avuto accesso ad alloggi e a percorsi di integrazione; l’obiettivo è chiudere definitivamente tutti i campi entro il 2017.

In Italia, la Strategia Nazionale voluta nel 2012 dal ministro Riccardi aveva indicato la strada suggerita dall’Europa. E invece, nelle grandi città italiane, si continua a spendere milioni di euro per finanziare i campi “nomadi” per famiglie che non sono più nomadi da decenni.

Uno dei simboli è La Barbuta, che a Roma è stato il centro del Piano nomadi del ministro dell’Interno della Lega Nord Roberto Maroni. Per costruirlo, a disposizione dell’allora sindaco Alemanno vennero messi 30 milioni di euro. Era l’idea di mandare i rom fuori dal Raccordo anulare: eppure l’isolamento aumenta la marginalità. A Milano, invece, quando Matteo Salvini governava con la Giunta Moratti (2006-11), continuava a ripetere «Ruspa!», perché – diceva – se sono “nomadi” bisogna farli circolare (peccato che non lo fossero). Gli sgomberi furono più di 500, costarono milioni di euro di soldi pubblici, non risolsero il problema (lo spostavano di pochi chilometri in un “gioco dell’oca” tra le periferie della città). Bambini come Cristina, 9 anni, vennero sgomberati venti volte in un anno, mentre altri, come Samuel, furono costretti a cambiare otto scuole. Se non sono nomadi, perché vengono sempre etichettati come nomadi? Anche gli afroamericani evocati da Bernard Shaw erano capaci di altre professioni oltre a quella di lustrascarpe…

Una delle ragioni dell’odio nei confronti di rom e sinti è la loro presunta non integrabilità. Il nomadismo calza bene con questo concetto: non sono legati al territorio, quindi sono asociali. “Asociali” li chiamavano anche i nazifascisti che giustificarono il loro internamento e sterminio sostenendo che possedevano il gene del Wandertrieb, “l’istinto al nomadismo”. Abbiamo iniziato parlando di “negri lustrascarpe”, giudici svizzeri e criminali italiani poi divenuti gelatai, borgatari romani. Er Piotta ed Elio Germano ci hanno ricordato che quelli che noi etichettiamo come “zingari” sono solo una minoranza dei rom e sinti presenti in Italia. Poi siamo passati alla vulgata dei “chiamati nomadi anche se non più nomadi da generazioni” e alle politiche sbagliate attuate in base a questo pregiudizio. L’Uomo Nero è una nostra invenzione, magari alimentata da qualcuno interessato per altri fini. Al contrario, gli appartenenti a questo popolo sono belli e brutti, intelligenti e stupidi, modesti e arrivisti, sinceri e falsi, aperti e chiusi come tutti noi, come i nostri parenti e i nostri vicini di casa.

 

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il commento al vangelo della domenica

FA UDIRE I SORDI E FA PARLARE I MUTI

commento al Vangelo della ventitreesima domenica del tempo ordinario (6 settembre 2015) di p. Alberto Maggi

maggi

Mc 7, 31-37

[In quel tempo] Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

Se ogniqualvolta leggiamo il Vangelo dobbiamo sempre tener presente che i Vangeli non riguardano la cronaca, ma la fede, che non riguardano la storia, ma la teologia, che non sono un elenco di fatti, ma di verità, questo è tanto più vero in un episodio del genere. Un episodio completamente strampalato, sconclusionato.
Vediamo che in questo episodio Gesù non viene nominato, non sono nominati i discepoli, non c’è nessuna reazione da parte del personaggio che viene guarito, e, soprattutto, inizia l’evangelista con un itinerario inverosimile, sconclusionato. Leggiamo.
Di nuovo “uscito dalla regione di Tiro”, Tiro è al sud, “passando per Sidòne”, quindi Gesù sale su al nord a Sidòne, ma poi dice “venne verso il mare di Galilea”, quindi torna giù, “in pieno territorio della Decàpoli”. Un itinerario completamente inverosimile, sconclusionato. Perché l’evangelista inizia con queste indicazioni cosi strane?
Vuole indicare l’azione di Gesù con i popoli pagani, perché il messaggio d’amore di Gesù è un messaggio d’amore universale, che incontra, però, la resistenza dei suoi discepoli. E questo è il significato del brano.
“Gli portarono…” – chi sono costoro? Sono i collaboratori di Gesù che l’evangelista all’inizio del Vangelo ha definito “angeli”, sono coloro che hanno compreso e accettato il messaggio di Gesù e collaborano con lui.
Gli portano un sordo, non muto, ma balbuziente. E’ l’unica volta che nel NT appare questo termine “balbuziente” (mogil£loj) e appare nell’AT una sola volta, per indicare la liberazione dall’esodo di Babilonia (“La lingua del balbuziente griderà di gioia”, Is 35,6 LXX). Quindi è un’immagine di liberazione. Attenzione, non è una guarigione tanto del fisico, ma una guarigione interiore quella che Gesù sta facendo.
“E lo pregarono di imporgli le mani”. “Lo prese in disparte..”; sette volte nel Vangelo di Marco troviamo l’espressione “in disparte” (kat’ „d…an), e ben sei riguardano i discepoli, l’incomprensione dei discepoli, come anche questa volta.
“.. lontano dalla folla e gli pose le dita…” L’azione di Gesù è violenta, Gesù gli stura le orecchie. L’evangelista, per indicare le orecchie, adopera il greco “òta” (ðta), da cui deriva l’italiano “otite”, che conosciamo tutti quanti, e vedremo poi il perché.
“…con la saliva” – La saliva veniva considerata come alito condensato, immagine dello Spirito – “gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo” – il cielo è la comunione con Dio – “emise un sospiro” – E’ l’unica volta in tutto in NT che Gesù sospira (™stšnaxen), per la resistenza che i suoi discepoli gli oppongono, nella figura di questo sordo balbuziente – “e gli disse «Effatà»”. Ecco, quando nel Vangelo di Marco appare un termine in lingua aramaica, vuol dire che l’episodio si rivolge soltanto a coloro che provengono dal giudaismo, non è per i pagani. 
“Cioè «Apriti!»” L’invito di Gesù non riguarda soltanto le orecchie, ma riguarda tutto l’individuo, è tutto l’individuo che si deve aprire perché ha questa chiusura.
“E subito gli si aprirono … “. Ecco, prima abbiamo detto che l’evangelista adopera il termine “orecchi”, (ðta), qui adopera un altro termine greco (¢koa…), che indica l’udito. Era questo il problema: non era un problema fisico, un problema degli orecchi, ma era un problema di comprensione, come diciamo con un’espressione italiana: “non c’è peggior sordo di chi non vuol capire”.
“Gli si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente”. Quindi l’incapacità di esporre il messaggio era perché non ascoltava, sono i discepoli che non ascoltano il messaggio di Gesù.
E Gesù l’aveva detto: “siete anche voi così privi di intelletto?”
“Ma Gesù comandò loro di non dirlo a nessuno”. Gesù sa che ancora il lavoro di liberazione dei discepoli non è completo, ma sarà lungo e faticoso, e continuerà per tutto il Vangelo.
“Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano, e pieni di stupore dicevano «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti»”. L’evangelista adopera gli stessi termini che nel Libro del Genesi  indicano l’azione del Creatore, che, per ogni cosa che crea dice “Ha fatto bella ogni cosa”, “Vide che era cosa buona”.
Quindi in Gesù si prolunga l’azione creatrice nel dare pienezza di vita agli uomini.

la ‘lettura’ del vangelo a partire da un piccolo bambino in cerca di vita ma che arriva dal mare morto …

il ‘lettore’ è p. Agostino Rota Martir abituato a ‘leggere’ da tanti anni il vangelo da un’area di marginalità e di disagio abitata da rom

p. agostino

EFFATA’

Gesù continua il suo viaggio, un itinerario un po’ strano perché esce dai confini di Israele, poi ci rientra, per poi attraversare di nuovo i suoi confini..allora non c’erano i controlli e permessi da chiedere, altri tempi..

venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decapoli.”

Territorio pagano, impuro, abitato da stranieri, regione vista con sospetto e diffidenza da Israele.

E’ un Gesù a tutto campo, avrà avuto i suoi validi motivi, forse l’ottusità dei suoi stessi discepoli e dei suoi compaesani, dei farisei che ormai si opponevano al suo annuncio del Regno, quello di un Dio che manifesta il suo amore verso tutti, che manifesta il suo volto ai poveri e peccatori, un Dio che sconfina dal Tempio di Gerusalemme lasciandosi toccare anche dai lebbrosi, samaritani e stranieri.

Meglio cambiare aria, e nello stesso tempo mostrare ai suoi discepoli che Dio non fa preferenza di persone, che ama tutti e nessuno è escluso dalla sua compassione. Gesù già lo aveva capito con una donna siro fenicia, al punto di rimanere edificato dalla sua grande fede. I discepoli lo capiranno più tardi, a suo tempo!

Sente il bisogno di lasciarsi contagiare anche dalla libertà del Regno che annuncia, di fuggire dalla “fortezza” di Israele che imprigionava Dio dentro gli schemi di puro e impuro, di osservanze a precetti religiosi fatti dall’uomo. Per scoprirlo deve frequentare la regione di Tiro e di Sidone.

Dio non è un tappo che chiude ermeticamente il suo Spirito, ma è energia di vita che si sprigiona, libera, rimette in cammino, apre cammini, consola..

Passa ancora anche oggi dentro di noi, dentro le nostre comunità perché tutti abbiamo bisogno di essere “sturati” dal cerume dell’indifferenza dell’ ipocrisia e da tutto ciò che ci impedisce di ascoltare la Parola. La nostra sordità verso i fratelli nasce anche dalla nostra incapacità di ascoltare Dio, che ci parla dalla sua Parola, ma anche attraverso la storia, i fatti e oggi i migranti sono “parlanti” di Dio. Lui passa in tanti modi..

Questa foto che tutti abbiamo visto in questi giorni, in un certo modo è la testimonianza eloquente della nostra sordità all’uomo e a Dio che passa. Attraverso questa immagine tragica Dio “ci prende in disparte, lontano dal blaterare della folla, ci pone le dita negli orecchi e con la saliva ci tocca la lingua..e ci dice: Effatà, cioè Apriti!”

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Quelle onde, in un certo senso hanno mostrato più compassione di tanti uomini, come ad adagiare delicatamente il corpo, senza vita di Aylan, piccolo profugo Siriano, in fuga dalla guerra insieme la sua famiglia, disteso come stesse dormendo, con i vestite e le scarpe in ordine, ben composto proprio come fa ogni mamma con il suo bambino tra le sue braccia.

Anche il mare sembra avere, in questa occasione un sussulto di quella pietas che l’essere umano sta accantonando,

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perché per molti di noi contano di più i numeri, le quote, gli interessi, i trattati, la nostra sicurezza..un mare stanco di essersi trasformato in un cimitero di poveri disgraziati e non più ponte di incontro, di salvezza, di dialogo.

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Vi restituisco questo angelo, nella carezze delle onde, composto e indifeso perché voi uomini possiate aprire, sturare (Effatà) il vostro cuore per comprendere il linguaggio di Dio che è Vita.

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4 Settembre 2015

Campo Rom della Bigattiera (Pisa)

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tre foto sono l’immagine odierna dei nostri fallimenti

MIGRANTI

migranti marchiati, segregati e ignorati tre foto simbolo raccontano un giorno di ordinaria catastrofe umanitaria

tre immagini per descrivere un giorno di ordinaria catastrofe umanitaria. Foto-simbolo che raccontano un’Unione Europea molto diversa da come l’avevano immaginata i Padri fondatori

Dalla stazione dei treni di Keleti a Budapest al sud della Moravia in Repubblica Ceca, fino alla spiaggia di Bodrum, l’antica Alicarnasso un tempo culla della civiltà greca. Qui l’Europa assume connotati razzisti nella gestione dell’emergenza migranti. Sono immagini forti che, ancora una volta, condanno l’Ue alle sue responsabilità: uomini segregati, donne marchiate e bambini annegati. Ma tutti accomunati dal desiderio di raggiungere il suolo europeo.

Nella stazione di Keleti la pressione dei migranti aumenta giorno dopo giorno. Sono lì bloccati, o meglio segregati, dopo la decisione di Budapest di non permettere ai migranti, in gran parte siriani, di salire sui treni e raggiungere la Germania. Berlino è la meta più ambita dai profughi che gridano “Shukran Merkel”, dopo l’annuncio della cancelliera tedesca di sospendere il trattato di Dublino per chi arriva dalla Siria. Stamattina in circa 600 erano ancora accampati fuori dalla stazione mentre altri circa 1.200 erano sistemati all’interno in una cosiddetta “zona di transito”. Le autorità ungheresi, che contestano i regolamenti europei e in particolare la linea tedesca, per ora non hanno riaperto la stazione ai migranti per impedire che salgano a bordo dei convogli diretti in Germania e in Austria. Nonostante molti siano muniti di regolari biglietti ferroviari.

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se questa immagine …

se questa immagine  di un bambino siriano

annegato su una spiaggia del nostro Mediterraneo 

non cambierà il nostro atteggiamento  verso i rifugiati

e le troppe tragedie dei nostri giorni  cosa potrà mai riuscirci?

piccolo

Cosa ci sta succedendo?
Cosa siamo diventati?
 Queste immagini devono essere viste.
Da tutti. Fino a quando non ritroveremo  la nostra umanità. 
  Guardiamola questa immagine!
Anche se è straziante. Anche se ci fa stare male.
   Guardiamoci dentro.
E domandiamoci se stiamo facendo tutto quello che è giusto fare.
  Lasciamo scorrere le nostre lacrime. 
E chiediamo perdono per quello che non abbiamo fatto. 
Non possiamo sempre fare finta di niente!
Non ci possiamo sempre voltare dall’altra parte.
Non possiamo sempre chiudere gli occhi.

Perugia, 3 settembre 2015 – www.perlapace.it – T 335.6590356 – 075.5736890

bambino siriano

quel bambino che ci accusa

di Christine Pedotti
in “temoignagechretien.fr” del 3 settembre 2015


quel bambino ci accusa

Fino a quando, fino a quando? È il grande grido dei profeti d’Israele, è il grido che lanciamo anche noi. Bisogna sentirlo. Bisogna lanciarlo, sentirlo, e reagire. Dobbiamo reagire. L’immagine insostenibile di quel bambino morto, annegato, col volto nella sabbia di una spiaggia turca saprà generare in noi un sussulto, uno slancio di umanità? Sapremo dire NO? Non ci sono ragioni che tengano, né economiche, né di sicurezza, che valgano la morte di quel bambino. Sì, bisogna cedere all’emozione perché è il meglio di noi stessi ed è la sola capace di abbattere i nostri terribili egoismi. Ascoltiamo il nostro cuore, il nostro miglior consigliere. Quel bambino è nostro figlio, nostro nipote, il nostro figlioccio, il nostro piccolo vicino, il figlio di non so chi, ma è nostro figlio. Apriamo i nostri cuori e le nostre porte. Non accusiamo i governi, accusiamo le nostre paure, di cui i governi sono i nostri portavoce.

la candela di Ago

la candela di p. Agostino per i profughi mai arrivati

 

una candela per i piccoli e grandi profughi mai arrivati tra noi

questa mattina ho acceso una candela sulla spiaggia di Marina di Pisa, pregando in silenzio perché il dolore soffocava rabbia, idee e parole..
Che Dio  perdoni la nostra ipocrisia.
Ago

la newsletter di Combonifem:

 Se servisse la tua immagine sulla spiaggia, bambino mio, per scuotere gli animi, far capire l’orrore, aprire le frontiere, organizzare navi che traghettino la disperazione da un lato all’altro del mare, la pubblicheremmo ogni giorno. Passeremmo notti intere a tappezzarne i muri delle città, le ambasciate e le chiese, i palazzi istituzionali e le scuole. Cosicché l’orrore di vederti disteso con quella tua magliettina rossa e pantaloncini blu, quei capelli che sembrano pettinati dalla mano compassionevole del mare, possa cambiare lo scorrere degli eventi, evitare che la tua morte e tantissime altre avvengano ancora. > Se servisse l’immagine di quel tuo sonno eterno, adagiato su un arenile di un’estate in cui il mare è gioia di schiamazzi di bimbi che si rincorrono, di castelli di sabbia, di nuotate e sole, passeremmo le giornate a inviare mail affinché tutti condividessero quella ultima parte del tuo viaggio, affinché (come già sta accadendo sui social) diventi virale. Ma sai, bambino mio, pochi giorni fa circolavano foto di altri corpicini come il tuo e non è accaduto nulla. > Nulla ha evitato che altri bimbi come te, più fortunati di te, venissero marchiati con dei numeri, riportando alla memoria altre storie e dolori. Nulla ha evitato che si continuino a innalzare i muri, che uomini, donne e minori si rimpallino, come oggetti sgraditi, da un Centro di “accoglienza” a un altro, tra Paesi europei che si puntano il dito l’un l’altro per stabilire a chi tocchi farsi carico di altri numeri…  Oggi, diversi giornali pubblicano la tua foto, i direttori delle testate cercano di giustificare la scelta. Una giustificazione che nasce dall’intima consapevolezza che non è giusto. Dicono che è una foto che scuoterà l’Europa, shoccherà i potenti. Affermano che così non si potrà dire non sapevamo, che non si potrà più far finta di nulla. A noi pare che occorra pietas, che occorra ricordarsi che la morte necessita dignità sempre, che se fossi davvero un bimbo dei “nostri”, se ti vivessimo come tale, sentendo empatia e rispetto nei tuoi confronti, non saresti in prima pagina e non ci sarebbero parole per avvalorare una scelta differente. > Ancora si è convinti che una foto possa scuotere. La verità è che di foto, in questo tempo, ne abbiamo viste tante. E tutte ci hanno straziato il cuore. Tutte, compresa la tua. E ogni volta il senso di vuoto e impotenza, la sensazione di pugno allo stomaco è andata aumentando. Ma sai, bambino mio, niente è cambiato. Sembra che l’asticella dell’esposizione al dolore si possa alzare sempre di più. E la nostra paura è che arrivi un domani in cui esporre un piccolo corpo non provochi più alcun dolore, che l’assuefazione abbracci anche quel che di più caro ha questo mondo: le bambine e i bambini.  

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anche i rom disponibili ad accogliere i profughi

capo rom

rom e sinti di Prato pronti ad accogliere i profughi

i rom e i sinti di Prato sono pronti ad accogliere i profughi. A sostenerlo, in una nota, è il presidente della comunità pratese, Ernesto Grandini, che e’ anche membro del coordinamento di Left Lab, un’associazione locale della sinistra.

“La comunita’ rom e sinti di Prato- scrive-, come le altre diffuse su tutto il territorio nazionale, conosce bene la violenza verbale (e non solo) che alimenta odio, paura e razzismo nei confronti del diverso. Abbiamo sempre reclamato maggiori diritti per le minoranze, non solo per le nostre, ci siamo sempre battuti per l’eguaglianza, per il contrasto alla xenofobia e per il diritto ad una vita dignitosa per tutti. Come cittadini italiani e pratesi (perche’ questo siamo), come europei e come sinti, non possiamo continuare a guardare con indifferenza tutto quello che sta accadendo. La mia comunita’ e’ quindi disponibile ad accogliere i profughi, nella misura in cui puo’ essere per noi sostenibile e per loro dignitosa”. L’idea di Grandini e’ che i rom e i siti diventino soggetti attivi nella gestione del fenomeno dei profughi: “Siamo portatori incessanti di una domanda di accoglienza e tolleranza nei nostri confronti- aggiunge Grandini-. Oggi vogliamo provare a dare invece il nostro piccolo contributo in una citta’ come Prato, che rispetto a tante altre della Toscana sta accogliendo un gran numero di migranti. Non sara’ certo un gesto risolutivo ma potrebbe cambiare la vita a qualcuno ed e’ nostro dovere, come cittadini italiani, dare un contributo di solidarieta’ ai problemi che vive il territorio in cui viviamo e una risposta diversa dalla paura”.

il capo dei sinti: “Basta con le strumentalizzazioni politiche”

Ernesto Grandini replica a Lega e Fi di Prato critici verso la disponibilità della comunità ad accogliere i profughi nei campi: “Non vogliamo lucrare sull’accoglienza nè faremo tendopoli. C’è chi soffia sul fuoco dell’intolleranza” 

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 “Stiamo assistendo ad una strumentalizzazione a fini politici rispetto alla disponibilità della mia comunità ad essere luogo di accoglienza per i profughi a Prato. Lega e Forza Italia soffiano sul fuoco dell’intolleranza ipotizzando tendopoli di profughi a fianco dei campi nomadi e dicendo che vogliamo lucrare sui profughi. Nulla di tutto questo era indicato nel comunicato di ieri”. E’ la presa di Ernesto Grandini, presidente associazione Sinti italiani Prato e coordinamento LeftLab che non più tardi di ieri, mercoledì 2 settembre, aveva lanciato la proprosta di accogliere i profughi nei quattro campi del territorio.

 

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l’immagine della nostra indifferenza

il bambino di Kobane, rimasto senza assistenza

 

Il “Manifesto” di giovedì 3 settembre 2015 ha dedicato la prima pagina alla drammatica foto del bambino curdo siriano, ritrovato annegato sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Su Facebook il quotidiano ha così spiegato la decisione di mettere una immagine così scioccante, e orribile, in prima pagina. ” Ne abbiamo discusso molto a lungo ma alla fine #laprima è questa. Non ha nome, non avrà terra: è l’immagine choc del piccolo profugo siriano trovato cadavere sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, dopo l’ennesimo naufragio nel Mediterraneo. E mentre l’Unione europea si dissolve sulla chiusura delle frontiere, il governo della Repubblica Ceca identifica i migranti «marchiandoli» con dei numeri”.

Nelle ore successive è emersa la storia del bambino annegato, la cui immagine è stata ripresa da moltissimi media. Un’agenzia turca ha scritto come il corpo sia stato identificato da un parente. Si tratta di Aylan Kurdi, un bambino di 3 anni che proveniva da Kobane, in Siria. Aylan era scappato insieme alla madre Rihan e al suo fratello Gallip di 5 anni dall’orrore dell’ISIS. Kobane è l’enclave curda assediata per molte settimane dalle milizie del califfato islamico nell’autunno del 2014. La città, a causa della guerra siriana, dell’arrivo dell’ISIS nelle zone vicine e per il successivo assedio, ha perso la gran parte dei suoi residenti. Fuggiti da una persecuzione religiosa, da una guerra, per un concreto pericolo di vita. Condizioni che, in ogni Paese firmatario della Convenzione di Ginevra, come tutti quelli che aderiscono all’Unione Europea, garantiscono il diritto d’asilo. Aylan è morto per il capovolgimento dell’imbarcazione su cui viaggiava, partita da Bodrum in direzione di Kos, isola greca e nota meta turistica. Il bambino di Kobane è deceduto insieme ai suoi familiari.

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