in quale Dio merita credere

IL DIO CON CUI STO

discorso tenuto ad Assisi da Raniero La Valle  il 21 agosto 2015 al 73° Corso di studi cristiani sul tema “Responsabili dell’immagine di Dio”

La Valle

Mi era stato chiesto di raccontare “Il Dio in cui credo, il Dio in cui non credo”. Ma questo voleva dire aprire l’armadio di tutte le definizioni di Dio, di tutte le fantasie su Dio, e scegliere fior da fiore, per ricostruire il Dio che mi piace, ed escludere i connotati del Dio che non mi piace. Ma chi sono io per fare questa cernita?
Invece vi parlerò del Dio con cui sto. E’ chiaro che c’è un rapporto tra il Dio in cui si crede e il Dio con cui si sta. Ma non sempre coincidono. Se si crede in un Dio che sulla croce apre le braccia a tutti e poi in nome di Dio si mettono sul rogo gli eretici, è chiaro che non si tratta dello stesso Dio. Il boia sta con un altro Dio.
La storia è piena delle macerie provocate dal contrasto tra la fede creduta e le opere compiute in suo nome. Tutta la storia del popolo di Israele nell’Antico Testamento è attraversata da questa tragedia. Il Dio dei profeti non è il Dio nel cui nome le città cananee erano votate allo sterminio.
E oggi il dramma storico è tale e così tragico l’abuso per cui Dio viene innalzato sulle picche degli assassini, con la testa dei decapitati in suo nome, che la salvezza non viene se ci mettiamo a discutere sulle nostre diverse professioni di fede, ma se il Dio con cui decidiamo di stare non è il Dio della morte ma il Dio della vita, non è il Dio che fa uccidere gli infedeli ma è il Dio nel quale non c’è il nemico.
Il male più grande viene da chi sta con un Dio sbagliato, che corrisponda o no al Dio in cui dice di credere.
Ma c’è anche il problema di chi segue come se fosse un Dio qualcuno o qualcosa che sa benissimo non essere un Dio.
Quelli ad esempio che stanno col Dio denaro sanno benissimo che quello non è un Dio, ma un idolo; però ci stanno lo stesso, perché se non fosse un idolo non potrebbero offrirgli sacrifici umani, come fanno gli Stati che chiudono le porte dell’Europa provocando l’eccidio di migliaia di profughi o come hanno fatto i potentati europei, a cominciare dal nostro governo. dandogli la Grecia in sacrificio
Sono questi i motivi per cui preferisco parlare del Dio con cui sto.

Credere e amare

Del resto il credere non è la prima fase del rapporto con Dio. La prima fase è l’incontro. Nei Vangeli la gente seguiva Gesù senza sapere che fosse il Figlio di Dio. E a me sembra che la questione prioritaria oggi sia quella del Dio che decidiamo di amare. Questo mi pare il vero problema interreligioso ed ecumenico. E questa mi pare che sia la scelta che papa Francesco sta proponendo al mondo: prima credere o prima amare?
La sua risposta è che prima bisogna amare. Perché questo è quello che fa Dio, ci ama prima ancora di preoccuparsi se noi abbiamo fede in lui. Papa Francesco sempre dice che Dio ci precede nell’amore. Per questo Dio è misericordia. Francesco dice che Dio ci precede nell’amore, e lo dice prendendo in prestito dallo spagnolo, e dallo slang di Buenos Aires, una parola che significa arrivare per primo, amare per primo, magari anche picchiare per primo: la parola è primerear . “Il Signore ci primerea, sempre è primo, ci sta aspettando. Come la fioritura del mandorlo di cui parla Geremia, perché è il primo a fiorire, così è il Signore”.
Questo però non lo dice solo papa Francesco, lo dice tutta la tradizione. Ancora non ero formato nel ventre di mia madre, dice Geremia, e tu già mi conoscevi (Ger.1,5); il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fin dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome, dice Isaia (Is.49,1). Con l’avvento del Verbo incarnato, cioè con il cristianesimo, questa realtà di Dio che ama per primo diventa una rivelazione pubblica e universale, che non riguarda solo un individuo, un profeta, un salmista, o un popolo, ma vale per tutta l’umanità e tutti i popoli. Dio ci ha amati per primo, dice la prima lettera di Giovanni; e Paolo ai Romani dice che Dio ci ha amato, fino a morire con Cristo sulla croce, quando noi eravamo ancora peccatori, e quando ancora non credevamo in lui. Dio ci primerea nell’amore, prima ancora della nostra fede; è anzi dall’amore che nasce la fede, e non viceversa; prima ancora che crediamo in lui, lui sta con noi. Dopodiché la fede con cui crediamo in lui può essere più o meno adeguata, più o meno atta a rappresentarlo e a conoscerlo, più o meno ortodossa, ma intanto lui sta con noi e noi stiamo con lui, e l’amore sta prima. Dunque la sequela sta prima della fede, lo stare con Dio viene prima del credere in Dio.
Dunque veniamo al tema: il Dio con cui sto.

Un Dio sacrificale

Il Dio con cui stavo da bambino era un Dio sacrificale. Non so da dove era venuto. Avevo avuto una sommaria formazione religiosa da buona famiglia borghese, quando a otto anni ebbi il dolore della morte di mio padre. Non so perché sulla pagina bianca del mio diario di quel giorno, il 3 giugno 1939, io disegnai una croce molto scura e scrissi una sola parola: sacrificio. Perché a otto anni interpretassi la morte di mio padre come un sacrificio non lo so. Subito dopo arrivò la guerra e per la piccola famiglia superstite, una vedova e tre bambini, fu dura la lotta per sopravvivere. Io vissi quella fine di infanzia come una vita di responsabilità precoce e di sacrificio; i primi rudimenti della fede che mi furono offerti in quel tempo andavano in quella direzione. Essi mi giunsero anzitutto dal cardinale Massimo Massimi che, come facevano a Roma molti cardinali che al lavoro di curia univano un servizio pastorale, aveva riunito molti giovani per bene in una Congregazione eucaristica e, come diceva lui, “arcimariana”. Era il prefetto della Segnatura apostolica, un grande giurista, ma umilissimo; era un cardinale molto conservatore ma antifascista, ci faceva il catechismo e ci faceva confessare dal famoso gesuita padre Riccardo Lombardi, che divenne poi “il microfono di Dio”. Secondo la spiritualità del tempo Dio era tutto, e noi non eravamo niente, la vita cristiana era un’espiazione, nell’insegnamento che quel santo cardinale ci impartiva “La nostra legge” era anche più importante de “La nostra fede” – i due libri che aveva scritto per noi – e andava da sé che il mondo non potesse essere amato, perché il mondo si manifestava in quegli anni di guerra a Roma con il suo volto peggiore: c’erano i bombardamenti alleati e c’erano le retate tedesche, che ci minacciavano perfino in piazza San Silvestro, dove andavamo per la messa la domenica nella chiesa di San Claudio; c’erano la povertà e la fame, i lavori precari che mia madre ed io riuscivamo a fare per vivere, la minestra che si andava a prendere a turno e la borsa nera in cui un po’ si comprava e un po’si vendeva. Dio stava lì fermo e osservava la nostra buona condotta. E quando mi fecero fare il disegno di un rifugio durante i bombardamenti, io che non sapevo disegnare, feci le pareti del rifugio squadrate col righello, e vi ricalcai sopra uno sproporzionato santino di un Sacro Cuore di Gesù trafitto.
Finita la guerra padre Lombardi andò a predicare sulle piazze e i rapporti con il cardinale Massimi si diradarono un po’, sia perché non potevamo più incontrarci nella villa moresca che aveva in viale Parioli, da cui lo avevano sfrattato perché cominciava la speculazione edilizia, sia perché io andai alla FUCI, che a lui non piaceva perché era troppo progressista e moderna e c’era promiscuità tra ragazzi e ragazze.
Anche alla FUCI la percezione sacrificale e repressiva della fede continuò, anzi si fece più circostanziata e consapevole, perché veniva veicolata dalla liturgia, a cui fummo introdotti, e di cui comprendevamo le parole perché sapevamo il latino; ogni giorno sia nella liturgia eucaristica sia nella liturgia delle ore, ci veniva incontro un Dio che giustamente ci puniva; a Compieta ogni sera, prima di coricarci, lo invocavamo perché ci difendesse dal diavolo che come un leone ruggente ci assediava per divorarci e in ogni caso per rovinare le nostre notti, e c’era un Dio a cui nelle collette della Messa di san Pio V offrivamo le nostre sofferenze mentre proclamavamo che “giustamente” eravamo “afflitti a causa del nostro operare, a causa dei nostri eccessi”, e che ci meritavamo tutti quei dolori, perché grande era la nostra colpa, e solo Dio poteva salvarci; il giogo del peccato ci teneva sotto il peso della vecchia servitù, perfino la morte era per colpa nostra, altrimenti saremmo stati immortali, il mondo era una valle di lagrime, noi dovevamo disprezzare le cose terrene e le prosperità del mondo, e cercare solo quelle celesti.
Il richiamo a un atteggiamento ascetico e di severità morale era poi accentuato, nel passaggio dalla congregazione del cardinale Massimi alla FUCI, da quella che non a caso il cardinale considerava con sospetto, cioè la promiscuità tra ragazzi e ragazze, che era una meraviglia ma anche una tentazione. Nessuno ci aveva detto, come ha detto papa Francesco ai ragazzi in piazza Vittorio il 21 giugno scorso a Torino, che la castità consiste nel non usare l’altra o l’altro per il proprio piacere. E nessuno ci aveva proposto la castità in punta di piedi, chiedendo perdono, sapendo di dire una cosa impopolare, di chiedere una cosa non facile, perché “tutti nella vita siamo passati per momenti in cui questa virtù è molto difficile”. Se queste parole di papa Francesco avessero potuto essere ascoltate allora, il fantasma di un Dio severo, moralista, che ci metteva addosso la paura del sesso, non avrebbe turbato i nostri rapporti giovanili e forse non ci avrebbe infelicitato la vita prima e dopo il matrimonio, e forse la vita intera sarebbe stata più feconda anche di figli.
Insomma prendendo tutti insieme – il cardinale Massimi, la congregazione eucaristica di San Claudio, la FUCI, ma si potrebbe dire anche la GIAC di Arturo Paoli o il cattolicesimo militante e insieme ascetico di Dossetti, ossia il migliore cattolicesimo che si viveva in Italia prima del Concilio – si potrebbe dire che esso stava con un Dio che toglieva l’aria. E questo vuol dire che senza un vento nuovo non poteva che deperire.
Quello che personalmente mi salvò fu lo spirito critico che contestualmente la FUCI mi insegnò, ma anche il fatto che essa mi gettò nel mondo. Essere gettati nel mondo per noi allora voleva dire il confronto aspro con il cattolicesimo sanfedista di Gedda e dei Comitati civici, voleva dire il confronto politico nel mondo universitario in cui si facevano le prime prove di democrazia, voleva dire l’elaborazione di alternative culturali più aperte che sviluppavamo sul giornale della FUCI, “Ricerca”, di cui ero il redattore.
Per reggere il confronto con il mondo bisognava stare con un Dio diverso, un Dio non dolorifico, un Dio non pentito delle sue creature, non geloso della bellezza, dell’amore, un Dio non invidioso della libertà dei suoi figli, un Dio amante della vita.

I varchi per un Dio diverso

C’erano dei varchi attraverso cui irrompeva questo Dio. Uno di questi varchi fu per me l’incontro con il monachesimo camaldolese, e in particolare col più grande monaco del XX secolo, padre Benedetto Calati, dal quale ero andato casualmente a san Gregorio al Celio per farmi benedire, manco a dirlo, una croce di maiolica che avevo comprato con la mia fidanzata Cettina.
Il Dio di padre Benedetto era un Dio di una dolcezza infinita, che alla confessione prima ancora che io potessi formulare un peccato, già mi perdonava, sicché ben presto in quelle confessioni, dei peccati non ci si ricordò più, e si parlava solo di san Gregorio Magno che apriva ai nuovi popoli, e ai poveri di Roma faceva distribuire “cibi già cotti, frumento e vino” e anche “salse e balsami” ( “pigmenta et alia delicatoria commercia”), si parlava dei Padri della Chiesa che interpretavano tutta la storia come storia della salvezza, si parlava della Scrittura che cresce con chi la legge, e di Dio che, per dire la cosa più bella di lui, padre Benedetto diceva che “(Dio) è un bacio”.
Poi un giorno a Bologna, dove mi trovavo per un congresso della FUCI, che noi del Centro nazionale avevamo preparato con l’idea che fosse molto rivoluzionario, sentii in cattedrale un’omelia dell’arcivescovo cardinale Lercaro, e mi sembrò di non avere mai sentito parlare di Dio così. Forse non era vero, forse era il mio modo di ascoltare che era cambiato. Ma certamente lì c’erano parole in cui era evocato un Dio molto simile al Dio con cui volevo stare e perciò alla rivelazione nuova di Dio che veniva dal basso, dall’esperienza cioè della mia vita, si aggiunse una rivelazione nuova di Dio, un modo nuovo di parlare di Dio che veniva dall’alto, dalla stessa gerarchia della Chiesa, da un cardinale. E così quel giorno adottai il cardinale Lercaro come mio vescovo, anche perché allora non c’era la minima idea che il papa a Roma fosse anche il suo vescovo, e quindi io come fedele romano avevo in qualche modo la casella libera. Decisi che il Dio del cardinale Lercaro, il Dio della riforma liturgica, il Dio delle nuove chiese di periferia, il Dio dei ragazzi poveri che vivevano e studiavano in casa con l’arcivescovo, era il Dio con cui volevo stare. Il destino volle che poi il cardinale Lercaro diventasse il mio vescovo davvero, perché fui chiamato a dirigere “L’Avvenire d’Italia”, il giornale che usciva a Bologna, e perciò a Bologna ci andai a vivere, e fu lì che irruppe il Concilio.

Un nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo

Il Concilio fu il vero nuovo annuncio di Dio per l’umanità del XX secolo. Sulle prime non ce ne accorgemmo perché si pensò che il Concilio non avesse valenza teologica, che avesse il suo unico scopo nella riforma della Chiesa e nell’aggiornamento della pastorale intesa come veicolo e non come sostanza della fede. E invece era proprio una nuova comprensione e un nuovo annuncio di Dio “nelle forme che i nostri tempi esigono”, che papa Giovanni aveva chiesto al Concilio e che del Concilio doveva diventare il tesoro più prezioso, l’aggiornamento più profondo e duraturo. Occorre rovesciare il luogo comune che ha fuorviato la comprensione del Concilio: esso è stato un grande Concilio teologico, e proprio perciò “pastorale”.
Il Dio del Concilio è radicalmente un Dio non sacrificale. Non è un Dio mortalmente offeso dal peccato originale per cui debba essere soddisfatto e risarcito dal sacrificio del Figlio e dal sacrificio anche nostro, non è un Dio a cui sia dovuta l’espiazione delle lacrime e sangue degli uomini, non è un Dio che si è vendicato della disobbedienza di Eva e del suo compagno comminando loro la morte, il lavoro come sudore e come pena, la sessualità come concupiscenza e impurità, i parti con dolore, la terra che invece di frutti produce cardi e spine. Espiazione, come ha spiegato Carlo Molari su Rocca, non significa pagare un prezzo, ma essere perdonati, ricevere la purificazione da Dio, e del resto la parola placatio, di un Dio che dovesse essere placato nella sua ira, che era una parola chiave della teologia preconciliare, non compare mai nei testi del Concilio. Il Figlio di Dio non si è incarnato per pagare un debito al Padre, come sosteneva la dottrina di s. Anselmo (“Cur Deus homo?”) sempre ripetuta dalla Chiesa, ma per spiegare agli uomini i segreti di Dio (D.V. n. 4), per togliere le maschere antropomorfe e terribili che sfiguravano il volto di Dio, per non lasciare gli uomini soli ma al contrario “senza interruzione alcuna” fornire loro gli aiuti per la salvezza (D.V. n. 3), per unirsi in qualche modo ad ogni uomo (G. S. n. 22), per entrare in modo definitivo nella storia umana (Ad Gentes, n. 3), e rendere tutte le cose sacre, comuni. Paolo VI avrà un bel dire che il Concilio non aveva abbandonato la dottrina del peccato originale; in realtà la teoria anselmiana del Dio che risarcisce se stesso nel Figlio e nei figli è del tutto rovesciata.
Il Dio del Concilio è un Dio che fa a pezzi l’idolo che le religioni e le Chiese avevano costruito per onorarlo, che libera dai fraintendimenti di cui era vittima il Dio che, come canterà padre Turoldo, subiva “il carico di errate preghiere”, onde si credeva di rendergli onore.
Non è più il Dio che salva solo i suoi, per cui fuori della Chiesa, della Chiesa visibile e gerarchica, non vi sarebbe salvezza. Non è il Dio che diserta le altre Chiese cristiane. Non è il Dio cui non potranno mai avere accesso, nella beatitudine eterna, i bambini morti senza battesimo: questa dottrina, che si voleva fosse sancita dai Padri, non fu nemmeno presa in considerazione dal Concilio, tanto che poi il Limbo fu abolito; il Dio del Concilio non è un Dio che non ha lasciato tracce di sé e semi della sua Parola nelle altre religioni, ma tutti gli uomini e le donne, “nel modo che lui conosce”, ha associato al mistero pasquale, e fa sì che nel loro cuore lavori invisibilmente la grazia (G.S. n.22).
Il Dio del Concilio non è un Dio invidioso dell’uomo, che lo tiene per le briglie col ricatto di bollarlo come prometeico ed eretico se prova ad essere adulto; e nemmeno è il Dio che ha abbandonato l’uomo a se stesso mettendolo “in mano al suo proprio volere”, come si è fatto dire, con cattive traduzioni bibliche, anche della CEI, a un versetto del Siracide, ma ha messo l’uomo “in mano al suo consiglio”, come traduce la Gaudium et Spes, cioè lo ha fatto responsabile di se stesso e del mondo, sicché basterebbero uomini più saggi, dice il Concilio, per far fronte a una situazione in cui è in pericolo il futuro del mondo. (G.S. n.15, n.17).
Il Dio del Concilio è un Dio perciò fonte e garanzia della libertà umana, un Dio che parla attraverso la coscienza (G. S. n. 16), un Dio che non agisce con la costrizione e con la violenza ma che sceglie la via della povertà e della abnegazione, un Dio che dopo avere creato l’amore non lo mette in ceppi per farlo servire solo alla procreazione, ma lo fa traboccare in uomini e donne perché serva alla loro comunione, alla loro tenerezza, alla loro fecondità e alla loro gioia.

La fede nicena

Questo Dio il Concilio non se lo è inventato, ma lo ha recuperato da tutta la grande tradizione della Chiesa. Il Vaticano II ha riproposto la cristologia dei primi quattro Concilii, e in particolare ha riproposto la fede nicena, che in Cristo Gesù ha riconosciuto non “un Dio in seconda”, fatto dal Padre, ma un vero Dio, coeterno col Padre, della stessa essenza del Padre. Questo cardine della fede fu espresso dal Concilio di Nicea nel 321 sotto la forma non di una definizione dogmatica, ma di una professione di fede, ed è infatti giunto fino a noi in forma di preghiera, nella forma di un Credo. C’è un bellissimo libro di Giuseppe Ruggieri, “Della fede”, in cui si spiega che questo è stato il processo di formazione della fede nelle comunità primitive, come racconto e come preghiera, e non come dogmatica e come dottrina; ciò ha permesso il convivere di diversi racconti, come sono diversi i Vangeli, tant’è che fino a Nicea non c’è traccia di una formula di fede unica per tutte le comunità cristiane, che invece irrompe a Nicea, ma in forma di preghiera, nella forma di un Credo. È solo con il Concilio di Calcedonia, nel V secolo,che avviene uno slittamento strutturale, e si passa dalla fede alla dottrina sulla fede, tant’è che mentre le prime parole del niceno-costantinopolitano erano: “noi crediamo che”, le prime parole della definizione di Calcedonia suonano: “noi insegniamo che”, e comincia una storia di ortodossia dottrinale che è anche una storia di esclusione.
Ma indipendentemente dall’irrigidimento dogmatico la professione di fede di Nicea, ripresa dal Concilio Vaticano II (“Colui dunque, per opera del quale aveva creato anche l’universo, Dio lo costituì erede di tutte quante le cose, per restaurare tutto in lui”, dice ad esempio il decreto Ad Gentes, n. 3), è decisiva per noi perché rende universale la storia della salvezza e mostra come nel Cristo coeterno al Padre tutti gli uomini abbiano avuto accesso alla salvezza anche prima che Gesù fosse concepito e anche fuori del succedersi delle generazioni del popolo di Israele (“Indubbiamente lo Spirito Santo operava nel mondo prima ancora che Cristo fosse glorificato”, dice il decreto Ad Gentes n. 4) e che anche dopo il Gesù storico, la salvezza di Dio in Cristo può traboccare in tutti gli uomini e in tutte le culture anche fuori del filone giudeo-cristiano. Per questo si potrebbe dire che il cristianesimo sia una religione post-biblica, che reca non solo l’unità dei due Testamenti, ma l’unità di tutti i Testamenti. Noi spesso ci dimentichiamo di essere niceni e ci rappresentiamo una storia della salvezza secondo una linea di successione che dalla creazione giunge ad Abramo, a Mosè, ai profeti e attraverso Gesù Cristo passa nel nuovo Israele che è la Chiesa. Ma la fede di Nicea ci dice che, fin dall’inizio, Dio è stato il Dio di tutta l’umanità e di tutta la Chiesa, non per successione o sostituzione del Dio di Israele. Ed è per questo che cambia tutta la prospettiva del Concilio sia riguardo all’ecumenismo sia riguardo alle religioni non cristiane, sia riguardo al primato della coscienza e alla libertà religiosa, ma anche riguardo al rapporto col mondo e con la storia, che fin dall’inizio giacciono in Cristo e non giacciono nel Maligno.
Ed è questo, dice il Vaticano II, il Dio con cui stare, il Dio che sta con noi fin dalla fondazione del mondo, non solo dal momento dell’incarnazione di Cristo come secondo Adamo, ma fin dall’inizio, perché fin dalla creazione del mondo Cristo è lì, il primo Adamo è lui.

Dopo il Concilio

Lo splendore di questo Dio del Concilio si è però ben presto appannato, non è stato questo il Dio che è stato predicato dopo il Concilio, ed è proprio per questo che i cinquant’anni che sono seguiti sono stati anni di deserto. E molti, anche tra i cattolici più aperti, hanno finito per disamorarsi del Concilio, per esserne delusi, e infine abbandonarlo.
Io sono rimasto col Concilio, e mano a mano che più lo scoprivo, più mi rallegravo del fatto che proprio quel Dio che il Concilio aveva ritrovato e messo a fermentare nei suoi documenti era il Dio con cui volevo stare.
E’ stato così che tutte le cose che io ho fatto dopo il Concilio mi sono riuscite facili, perfettamente serene e pacificanti dalla parte di Dio, tanto quanto erano dure, controverse, conflittive dalla parte degli uomini.
Così è stato per la lotta per il NO nel referendum sul divorzio, e non con l’argomento profano della separazione tra Chiesa e Stato, ma con l’argomento cristiano della misericordia (che fu la motivazione del No, dopo una notte di preghiera, di Fratel Carlo Carretto), perché non può lo Stato per far contenta la Chiesa infliggere una vita di inferno ai suoi cittadini.
Così è stato per la scelta di rompere l’unità politica dei cattolici e dare legittimità politica ai comunisti, perché non c’era nessun Dio degli eserciti a disporre e a dividere le truppe nella battaglia, e andava recuperata la compatibilità ma anche la reciproca libertà tra fede e politica.
Così è stato per la prima legge che mi sono trovato a dover fare in Parlamento, la legge sull’aborto, che siamo riusciti a fare non come una legge che cambia un reato in diritto, come voleva la cultura radicale di Adele Faccio e della Bonino, ma come una legge che cura le ferite e allevia il dolore sociale, e come tale è riuscita a sopravvivere fino ad oggi.
E così è stato, naturalmente nelle battaglie contro i missili a Comiso, per i palestinesi, contro i regimi militari cattolici dell’America Latina, contro la guerra del Golfo, contro la guerra della Jugoslavia, per la difesa della Costituzione, fino alla battaglia in corso per impedire che governanti e parlamentari corrotti dal potere distruggano Costituzione, rappresentanza, scuola e diritti del lavoro e portino l’Italia fuori dalla democrazia e la Grecia fuori dall’Europa.
In tutte queste circostanze, il Dio con cui sto mantiene una sua presenza discreta e fedele. Non è il Dio dei tormenti di coscienza e delle ascensioni mistiche ma piuttosto il compagno di stanza con cui ci si confida e ti incoraggia.
Il Dio con cui sto può anche essere il Dio che non dice niente, che non si fa sentire; esperienza questa che non è solo dei cristiani comuni, ma anche dei mistici: racconta Leonardo Boff che un giorno trovò Arturo Paoli in chiesa, e gli domandò: “Fratello Arturo, tu senti Dio quando, dopo il lavoro, vieni a pregare qui in chiesa? Lui ti dice qualcosa?” E Arturo gli rispose: “Non sento niente. Molto tempo fa ho sentito la sua voce. È stato affascinante. Riempiva i miei giorni di musica e luce. Oggi non sento più niente. Soffro di tenebre. Forse Dio non vuole più parlarmi”.
Perciò io non sono d’accordo con certi linguaggi che per rendere più razionale il discorso su Dio non lo chiamano per nome ma lo descrivono con un’astrazione, come “forza vitale”, come “forza creativa”, come “offerta di vita”, come “fonte di energia” e simili. A me un Dio indistinto, liquido, pura astrazione del pensiero, non interessa, preferisco l’ateismo; il Dio con cui sto è un Dio che sia un Tu e un Dio tale per cui io sia un tu per lui, e noi siamo le sue immagini, i suoi figli, i suoi “califfi”. Un Dio capace di amore. In questo senso un Dio persona. Perché se è vero, come ha detto papa Francesco ai Movimenti Popolari in Bolivia il 9 luglio scorso, che ”non si amano né i concetti né le idee, si amano le persone”, è anche vero che solo se si è persona si ama; perciò Dio è persona.

Il Dio di papa Francesco

Ed ecco che questo Dio si è aperto l’ultimo varco, e anche questo dall’alto, nella predicazione di papa Francesco.
Riprendendo quello che era stato il munus più proprio e meno compreso del Concilio, papa Francesco ha offerto alla Chiesa e al mondo, un nuovo annuncio di Dio,”in quella forma che la nostra età esige”. E la nostra età – ma io credo ogni età – ha bisogno di un Dio come Gesù lo ha rivelato, come il Vangelo lo ha custodito, come la Chiesa degli apostoli e dei discepoli l’ha tramandato fin qui, e come papa Francesco lo racconta: un Dio di misericordia, che ama per primo, che non si stanca mai di perdonare, Padre universale, che non ammette né esclusione, né scarti, un Dio non violento, libero e umano, guardiano non della legge ma della vita, un Dio iconoclasta.
Si è fatta un’obiezione a questo Dio della misericordia: la misericordia va bene, ma dov’è il giudizio? Un Dio che non giudica, dice il senso comune, sarebbe un Dio dimezzato, non sarebbe un vero Dio.
C’è una cosa molto giusta che dice un libro recente del biblista Gerhard Lohfink, “Gesù di Nazaret. Cosa volle – Chi fu”. È un libro che non mi persuade perché fa di Gesù talmente un personaggio ebreo, e del Vangelo talmente una glossa della Legge e dei Profeti, che non si capisce che bisogno c’era che Dio rimettesse tutto in gioco con l’Incarnazione. Però ha ragione Lohfink quando dice che nel nostro annuncio del Dio del Vangelo, spesso censuriamo il Dio del giudizio, mentre il tema del giudizio era parte essenziale del discorso sul Regno fatto da Gesù.
Questa critica però non si può fare nei confronti del Dio della misericordia di cui parla Francesco; il giudizio sul mondo di papa Francesco è durissimo, e si può dire che senza questo giudizio non ci sarebbe nemmeno l’annuncio della misericordia. Basta pensare alla sua denuncia sull’economia che uccide, alla condanna di un sistema che non ha volto e scopi veramente umani, alla critica del denaro che governa, della cultura dello scarto, della globalizzazione dell’indifferenza.
Però nell’annuncio cristiano di papa Francesco non c’è la minaccia del giudizio di Dio, ma c’è la constatazione evangelica che il mondo è già giudicato, come dice Gesù nel vangelo di Giovanni, che è il mondo stesso che è giudice contro se stesso, e che se dal giudizio non passerà alla conversione sarà perduto.
La distruzione della natura che stiamo operando è il paradigma esemplare di questo. La crisi ecologica è il giudizio sul nostro operato nel mondo, la fine siamo noi a procurarla, l’enciclica Laudato sì lo ha reso manifesto.
Quello che l’Europa ha fatto alla Grecia è il giudizio di condanna che l’Europa ha pronunciato su se stessa.
Il fecondo Mezzogiorno d’Italia che non fa più figli, col tasso di natalità più basso degli ultimi 150 anni, è il giudizio che condanna l’ “inequità” delle politiche economiche.
Una generazione di giovani perduta e senza lavoro è il giudizio pronunziato sull’abbandono di qualsiasi idea di bene comune come ragione e fine della politica.
Il governo vanesio e fascistizzante di Renzi è il giudizio che punisce il lungo tradimento della Costituzione con cui, a partire dal 1989, la classe politica italiana ha risposto alla caduta del muro di Berlino.
Lo Stato d’Israele con le sue violenze è il giudizio che grida contro la deformazione idolatrica della fede biblica.
Lo Stato islamico, la tragedia del Medio Oriente, i 232 milioni di migranti internazionali sono il giudizio su un mondo che non vuole conoscere ciò che giova alla sua pace.
Il mondo è già giudicato, ma la misericordia lo può salvare, il chirografo che ci era avverso è stato inchiodato sulla croce.
Questo è il messaggio di papa Francesco. E dice Scalfari: questo è un papa profetico. Ed io aggiungo: non solo profetico ma messianico, perché il suo annunzio, in quanto annunzio messianico, è che il regno di Dio, cioè il regno di misericordia, è vicino.
Ma neanche ora col Concilio Vaticano II, con papa Francesco, il processo di comprensione del Dio con cui stare è concluso. Ci sono delle cose che Pietro non capì di Gesù che lavava i piedi nell’ultima cena e Gesù gli disse: tu ora non capisci, ma dopo capirai. Il monaco camaldolese Innocenzo Gargano in vista del Sinodo dei vescovi ha proposto una nuova interpretazione del detto di Gesù sull’indissolubilità del matrimonio, nel senso che Gesù non parlava da giurista e, pur proponendo un ideale più alto, “scritto nelle stelle”, non avrebbe abrogato la legge di Mosè che facendosi carico della durezza di cuore dei coniugi aveva concesso il divorzio. Un cattolico zelante ha sbeffeggiato padre Innocenzo, perché dopo duemila anni proponeva una lettura nuova del Vangelo, come se fino ad ora si fosse sbagliato a capirlo. Eppure proprio questa è la dinamica dello Spirito nella storia della fede: quello che finora non avete capito ecco ora lo comprendete.
Ed è in questo spazio tra il già e il non ancora di ciò che abbiamo capito di Dio che c’è tutta l’eccedenza del Dio con cui stiamo rispetto al Dio in cui crediamo, perché il Dio che sta con noi è sempre al di là di qualsiasi cosa noi possiamo pensare e credere di lui.

Raniero La Valle

Assisi, 21 agosto 2015

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contraddizioni della nostra chiesa

 ‘chiesa contraddittoria, assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati!’

intervista al biblista Maggi

 

 

<la chiesa  assolve gli omicidi, ma non i divorziati risposati!>.

Il biblista Alberto Maggi affida a un’esclamazione il suo più totale disappunto per quella che considera <una lampante contraddizione> nell’insegnamento del popolo di Dio. Con il pensiero rivolto a Cristo, <che più che unire sfascia le famiglie>, pur se non è solito discorrere del Sinodo, il religioso dei Servi di Maria accetta di buon grado di rispondere ad alcune domande sull’assise ormai alle porte. <Non mi attendo molto dal Sinodo>, ma, in quest’anno di Giubileo della misericordia indetto dal Papa, <spero in gesti concreti a favore dei risposati, dei preti uxorati e degli omosessuali>. Tre categorie <umiliate ed emarginate dalla Chiesa>.  

fra’ Maggi, quanto l’appassiona il dibattito pre sinodale?                                  

<Non più di tanto. I cambiamenti nella Chiesa vengono sempre dalla base e non dai vertici. I mutamenti sono rifiutati, ostacolati e contrastati dalle gerarchie. Poi, dopo un lungo lasso di tempo, vengono accolti… Quando ormai è troppo tardi>.

Al Sinodo quali cambiamenti potrebbero passare?                                                

<In ogni situazione, in ogni controversia, bisogna tenere presente il comportamento di Cristo: lui, tutte le volte che si è trovato a dover scegliere tra l’obbedienza alla Legge divina e il bene concreto dell’uomo, senza esitare ha sempre scelto quest’ultimo. Facendo il bene dell’uomo si è certi di fare anche quello di Dio>.

Un principio pìù sulla carta che nei fatti? 

<Troppo spesso per l’onore di Dio si è disonorato l’uomo e per il bene di Dio si è causata sofferenza agli uomini>.

In una recente intervista sul Sinodo, Francesco ha parlato di attese <eccessive>. Condivide?  

<Se lo dice il Papa… Lui conosce bene l’ambiente, sente sulla pelle le resistenze curiali al suo impegno per un cambiamento evangelico, ogni giorno si trova di fronte a muri di gomma e a veri e propri dispetti>.

Che tra il Pontefice e parte della Curia non corra buon sangue è risaputo.

<Proprio per questo Bergoglio va sostenuto e non lasciato solo, perché la sola cosa che frena i suoi avversari, come ai tempi di Gesù i sommi sacerdoti, è che ‘temevano la folla…’>.

Dal punto di vista biblico, quale è il filo rosso che unisce Antico e Nuovo Testamento sulla famiglia?

<Non c’è alcuna continuità e il messaggio di Gesù è il meno adatto per sostenere la famiglia patriarcale. Cristo più che unire le famiglie le sfascia…>.

Ovvero?

<Lui viene da una triste esperienza e da brutti rapporti con i suoi che lo hanno creduto pazzo e hanno tentato di rapirlo. Giovanni nel suo Vangelo non esita a scrivere che neanche i fratelli credevano in lui. E Gesù invita a liberarsi, per causa sua e del Vangelo, anche dai vincoli familiari più stretti quali quelli tra marito e moglie, genitori e figli>.

Quali sono le principali discrepanze che evidenzia fra l’insegnamento attuale della Chiesa sulla famiglia e quanto trasmette la Bibbia?

<Non credo che la Chiesa abbia l’autorità di mettere il naso nelle faccende familiari. Una Chiesa, che ha impiegato ben duemila anni per ammettere che nel matrimonio è importante anche l’amore dei coniugi oltre che la procreazione dei figli, sarebbe bene che tacesse su questioni per le quali non ha ricevuto alcun mandato dal Cristo>.

Nessun mandato? Vuole dire che quello di ottobre sarà un Sinodo illegittimo?

<La legittimità la dona lo Spirito Santo. Tanto più gli orientamenti, le scelte e le decisioni del Sinodo saranno all’insegna di una profonda umanità tanto più in queste si manifesterà il divino che alimenta e mantiene in vita la Chiesa>.

Intanto, sui mezzi di comunicazione il dibattito pre sinodale è tutto concentrato sul nodo dell’accesso ai sacramenti per i divorziati risposati. Come se lo spiega?

<Perché è lampante la contraddizione di una Chiesa che rivendica giustamente il mandato del Cristo di poter perdonare i peccati, ma poi è incapace di concedere il perdono a chi, fallito il primo matrimonio, tenta una nuova unione. La Chiesa assolve gli omicidi ma non i divorziati risposati! Spero che in questo anno della misericordia ci siano gesti concreti a favore di tre categorie di persone umiliate ed emarginate dalla Chiesa: i preti sposati, gli omosessuali, i divorziati. Non è solo una questione di misericordia ma di giustizia>.
                                                                                                                            Giovanni Panettiere

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invasione? per uno sguardo meno allarmistico

l’invasione immaginaria

lo scorso anno sono sbarcati in Italia 170 mila migranti (lo 0,28% della popolazione italiana). quest’anno sono sbarcate circa 103 mila persone (0,17%) un migliaio in meno rispetto allo stesso periodo 2014

alessandro bechini *
d’estate l’immigrazione si prende il centro dell’attualità mediatica. Purtroppo non tanto come utile e proficua discussione sociologica, ma in quanto generico allarme per una Invasione che, anno dopo anno, sembra sempre più imminente e inevitabile. Il risultato è che un battaglione di politici e giornalisti riaprono una immaginaria Fortezza Bastiani e prendono a scrutare l’Orizzonte, in attesa di un’epica invasione dell’Europa da parte dei discendenti del terribile Saladino.  

Chi tuttavia scegliesse di guardare i freddi numeri senza pregiudizi o preconcetti, farebbe fatica a capire le ragioni dell’allarme. Lo scorso anno sono infatti sbarcati in Italia 170 mila migranti (pari allo 0,28% della popolazione italiana). Quest’anno (1 gennaio – 15 agosto) sono sbarcate circa 103.000 persone (lo 0,17% della popolazione italiana), un migliaio in meno rispetto allo stesso periodo 2014. Molti di loro utilizzano l’Italia come un molo di sbarco, scendono e proseguono verso altri lidi. Gli “invasori” che attualmente sono rimasti nel nostro sistema di accoglienza sono 89.083 (lo 0,14% della popolazione italiana). Possono numeri come questi giustificare il termine Invasione usato da media e alcune forze politiche con quotidiana disinvoltura?    

È difficile dire sì, mentre è più facile riconoscere che, da molto tempo, la politica ha smesso di analizzare i fatti con i dati, per alimentare (deformandola) la percezione della realtà da parte dei cittadini, con la conseguenza che fenomeni complessi e di difficile gestione come i flussi migratori diventano una minaccia per la nostra civiltà, un attentato al nostro benessere e un rischio per la nostra sicurezza. Anzi, peggio, sono un “genocidio della nostra cultura”, se non addirittura della nostra “razza”.   

Ma se il livello del dibattito politico/mediatico si rivela inadeguato e strumentale, cosa può fare una organizzazione della società civile, per arginare il suo continuo avvitarsi verso il basso, sfidando ogni volta le leggi della gravità e del buon senso, ed eventualmente invertirne la rotta? Forse si deve provare a partire dal racconto di una storia diversa. I fenomeni migratori sono processi naturali sempre esistiti, e da sempre hanno alimentato la diffidenza verso lo straniero, spesso a torto. A quelli che immaginano muri o blocchi navali, andrebbe ricordato che in realtà siamo di fronte alla terza dimensione della globalizzazione. Dopo la libera circolazione di capitali e merci, adesso è il momento di affrontare quello di intere porzioni di umanità, che fuggono da guerre e indicibili livelli di povertà.    

Davvero vogliamo e possiamo permettere che il livello di benessere di ogni essere umano debba essere irrimediabilmente deciso dal luogo di nascita? Forse bisogna accettare che ciascuno possa ambire ad una vita migliore anche scegliendo un Paese diverso da quello di nascita dove costruire il proprio futuro. E poi va aggiunto che gli immigrati possono diventare una straordinaria opportunità per la crescita del nostro paese, che senza l’apporto dei nuovi cittadini, ormai da un decennio, avrebbe un saldo negativo tra morti e nuovi nati. Certo un paese che invecchia è portato, quasi naturalmente, a chiudersi in sé stesso, a difendersi invece che a scommettere sul futuro. Eppure l’8% delle nostre imprese è gestito da immigrati. E creano lavoro anche per gli italiani. Il sistema pensionistico, gravato da uno squilibrio in termini di rapporto tra anziani e forza lavoro (se limitata agli italiani) ha nei contributi versati dei cittadini stranieri un’àncora di salvezza formidabile. Anche alla luce di queste considerazioni, dovremmo rapidamente ripensare la maniera sbrigativa con la quale dividiamo i migranti tra economici e non.   

Quello che serve davvero è un nuovo quadro normativo sull’immigrazione. La legge Bossi/Fini asseconda l’idea che l’immigrato sia sostanzialmente un invasore e pone una miriade di ostacoli a quei percorsi di integrazione che trasformano gli immigrati da problema in risorsa. Chiediamo disperatamente da anni di migliorare il sistema di accoglienza: non è accettabile che servano 8 mesi per il primo colloquio con la Commissione che deve stabilire se il migrante ha diritto allo status di rifugiato e che ne trascorrano altri 12 per discutere l’eventuale ricorso a fronte di una decisione avversa rispetto al primo colloquio. Il collasso del nostro sistema di accoglienza è in gran parte determinato da queste tempistiche.   

È uno spreco che i richiedenti asilo in attesa che sia valutato il loro status, non possano lavorare per i primi 6 mesi dal loro arrivo o svolgere attività di volontariato per la comunità che li accoglie, senza sottostare alla giungla di assicurazioni, permessi ecc., tipica della nostra burocrazia. È così difficile estendere le assicurazioni per i lavoratori socialmente utili anche ai richiedenti asilo? Sono loro che chiedono di lavorare e sentirsi utili, mentre devono restare confinati in un limbo senza senso.    

Non si può pensare di fermare i flussi migratori se non si creano nei paesi di origine condizioni di dignità minima dei migranti. Siria, Libia e Somalia sono stati falliti, inesistenti. Chi oggi li vuole aiutare a casa loro, può forse spiegarci perché quando era al governo ha azzerato i fondi per la Cooperazione alla Sviluppo che ha come mandato quello di creare un maggior benessere nei Paesi più poveri. Come si può pensare che le persone non vogliano fuggire da lì, per cercare un futuro migliore per sé e per i propri figli? L’Europa dei diritti non può diventare una Fortezza senz’anima. Eppure tutti sanno che le società che si chiudono sono quelle destinate alla decadenza e alla capitolazione. Dall’Impero Romano fino ai giorni nostri.  

Come società civile dobbiamo batterci perché i diritti di tutti vengano rispettati. Possiamo però fare di più in questa nuova narrativa: dobbiamo raccontare come le società aperte siano quelle, dati alla mano, che hanno avuto e hanno un maggiore sviluppo sociale ed economico e che in questa chiave anche gli immigrati sono stati e sono una risorsa essenziale. La Germania si prepara a inserire nel proprio sistema di accoglienza 700.000 richiedenti asilo e noi assistiamo a risse televisive continue per un numero che è quasi dieci volte inferiore.   

La vera sfida non può essere quella di combattere in maniera più efficace un’immaginaria invasione o lo spettro del nemico alle porte, ma quella tra una società chiusa e impaurita che non crede più nel proprio futuro e una che invece vuole crescere, assumendosi i giusti rischi e sfruttando le opportunità che le si presentano davanti. In attesa di convincere gli ultimi irriducibili ad abbandonare la Fortezza Bastiani dei nostri giorni.   

*Direttore di Oxfam  

 

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migranti e misericordia evangelica

vangelo della misericordia e fenomeno dei migranti e rifugiati

mons. Nunzio Galantino, segretario generale della CEI (presentato dagli ignoranti di turno come capo dei vescovi italiani) e persino papa Francesco si sono meritati negli ultimi tempi gli strali di quanti, professionisti della politica e dunque interessati alla raccolta di consenso facile e remunerato, hanno criticato le posizioni della Chiesa cattolica sul fenomeno dei migranti.

Qualcuno, incautamente, ha gettato lì anche l’interrogativo-accusa di cosa faccia la Chiesa di concreto per tale problema globale che affligge il nostro tempo. A costui già sono state date, con cifre alla mano, risposte adeguate sull’impegno ecclesiale ai diversi livelli a favore della carità. E non da oggi, visto che per esempio la prima giornata annuale di sensibilizzazione sul fenomeno della migrazione con relativa colletta per le opere pastorali per gli emigrati Italiani e per la preparazione dei missionari d’emigrazione risale al 21 febbraio 1915!
 
Come si legge in un bollettino della Sala Stampa vaticanaMigranti e rifugiati ci interpellano. La risposta del Vangelo della misericordia” sarà il tema che Papa Francesco ha scelto per la 102esima Giornata mondiale del Migrante e del Rifugiato che si celebrerà il 17 gennaio 2016. “Con la prima parte del tema, “Migranti e rifugiati ci interpellano”, si vuole fare presente la drammatica situazione di tanti uomini e donne, costretti ad abbandonare le proprie terre. Non si devono dimenticare, per esempio, le attuali tragedie del mare che hanno per vittime i migranti.” “Con la seconda parte del tema, “La risposta del Vangelo della misericordia”, si vuole collegare in modo esplicito il fenomeno della migrazione con la risposta del mondo e, in particolare, della Chiesa. In questo contesto, il Santo Padre invita al popolo cristiano a riflettere durante il Giubileo sulle opere di misericordia corporale e spirituale, tra cui si trova quella di accogliere i forestieri. E questo senza dimenticare che Cristo stesso è presente tra i “più piccoli”, e che alla fine della vita saremmo giudicati dalla nostra risposta d’amore (cfr. Mt 25,31-45)”.
 
A tal proposito il Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti “Suggerisce che la giornata giubilare sia celebrata particolarmente a livello diocesano e nazionale, nell’ambito più vicino ai migranti e rifugiati, con la loro partecipazione, e coinvolgendo anche le comunità cristiane”; “propone che l’evento giubilare centrale sia proprio il prossimo 17 gennaio 2016, nella ricorrenza della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato”; “incoraggia le diocesi e comunità cristiane, che ancora non lo fanno, a programmare delle iniziative, approfittando dell’occasione che offre questo Anno della Misericordia”; “invita a non dimenticare l`aspetto della sensibilizzazione nelle comunità cristiane al fenomeno migratorio; “auspica che l’attenzione verso i migranti e la loro situazione non si riduca ad un’unica giornata”; “ricorda che è anche importante realizzare segni concreti di solidarietà, che abbiano un valore simbolico, e che esprimano la vicinanza e l’attenzione ai migranti e rifugiati”.
 
Un coinvolgimento fattivo, dunque, dunque della comunità ecclesiale locale, per aiutare anche quanti, all’ombra del campanile, stentano ad aprire il Vangelo in tema di accoglienza come giustamente rileva il priore della Comunità di Bose, Enzo Bianchi.
 
 
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commento al vangelo della domenica

DA CHI ANDREMO? TU HAI PAROLE DI VITA ETERNA

commento al Vangelo della domenica ventunesima del tempo ordinario (23 agosto 2015) di p. Alberto Maggi:

 
Gv 6, 60-69

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e cp. Maggihi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

L’evangelista registra con amarezza come il lungo discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao , tutto incentrato sull’Eucaristia, sia stato un gran fallimento.
Ridicolizzato dai capi religiosi che non capiscono come quest’uomo parli di mangiare la sua carne e bere il suo sangue, Gesù non viene compreso neanche dai suoi discepoli.
Scrive l’evangelista che “molti dei suoi discepoli dopo aver ascoltato dissero ‘questa parola è dura’”. Il termine tradotto qui con ‘duro’ è il greco ‘skleros’ (skleros), che significa cioè quello che è insolente, quello che è offensivo. Cos’è questa parola dura?
Anzitutto il distacco che Gesù ha preso dalla tradizione dei padri, mentre i discepoli seguono i padri di Israele, Gesù invita a seguire il Padre, ma poi soprattutto hanno capito, loro che seguono Gesù per ambizione – ricordiamo che lo seguono perché vogliono che Gesù diventi il re del popolo – hanno capito che, se vogliono seguire Gesù, come lui devono farsi dono, devono farsi pane per gli altri. Questo ‘duro’ significa inaccettabile.
E quindi mormorano contro di lui. Hanno mormorato i giudei, mormora la folla e anche i discepoli mormorano contro Gesù.
Allora Gesù dichiara “questo vi scandalizza?” Lo scandalo è la morte del Messia. Non possono accettare un Messia che vada incontro alla morte e dice Gesù “se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dove era prima?”. La morte era considerata una discesa nel regno dei morti e la risurrezione una salita. Ma per salire bisogna passare attraverso la morte, Gesù passerà attraverso la morte più scandalosa, più infamante, la crocifissione, riservata ai maledetti da Dio.
Ed ecco l’indicazione importante e preziosa che Gesù dà, e l’evangelista ci sottolinea, sul significato dell’Eucaristia. “E’ lo Spirito che da la vita, la carne non giova a nulla”. Cosa vuol dire Gesù? Mangiare il pane, è il significato dell’Eucaristia, la carne, senza poi farsi pane per gli altri, questo non serve a nulla. Una partecipazione all’Eucaristia nella quale l’amore che viene ricevuto non si trasformi anche in amore comunicato, non serve assolutamente a nulla.
Ma Gesù garantisce “le parole che io vi ho detto sono Spirito e sono vita”. Chi accoglie questo pane e si fa pane per gli altri, scopre dentro di sé la potenza generatrice di queste parole che sprigionano energie vitali.
“Ma tra di voi” aggiunge Gesù “vi sono alcuni che non credono”. E’ i fallimento di Gesù, molti replicano che il suo discorso è duro, molti non credono, addirittura aggiunge “tra di voi c’è addirittura uno che mi avrebbe tradito”. Il fallimento totale di Gesù. Ma Gesù non intende cambiare il programma, anzi provoca i suoi discepoli “che da quel momento”, sottolinea l’evangelista, “tornarono indietro e non andavano più con lui”, Gesù non li rincorre. Gesù è disposto a rimanere solo pur di non cambiare il programma, ma li provoca e dice ai Dodici “volete andare via anche voi?” Loro seguono Gesù per la propria convenienza, per la propria necessità e non hanno capito che invece per seguire Gesù bisogna proiettare la propria vita per il bene e la necessità degli altri.
“Gli risponde Simon Pietro” – ricordiamo che questo discepolo si chiama Simone, ha un soprannome negativo, Pietro, che gli evangelisti indicano quando è in opposizione a Gesù. Quando viene presentato con il nome e il soprannome significa che questo discepolo da una parte è d’accordo con Gesù e dall’altra no – “Signore da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”.
Ecco Pietro, Simone ha compreso che le parole di Gesù che si sono fatte carne in lui sono quelle che comunicano la vita capace di superare la morte. Ma, ecco la parte negativa “noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”.
Il Santo di Dio è un’espressione che indica il Messia della tradizione che è apparso altre volte nei vangeli sempre in un contesto negativo, in Marco e in Luca, in bocca agli spiriti impuri o ai demòni e al Messia dell’aspettativa popolare, cioè quello che avrebbe dovuto restaurare la monarchia, quello che avrebbe dovuto dominare i pagani e soprattutto quello che avrebbe dovuto rispettare e imporre la legge.

Questo è il Messia che Pietro desidera e questo sarà il motivo che lo porterà al suo tradimento. 

 

 

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non c’è fine alla creatività contro gli zingari

contro l’arrivo dei nomadi il sindaco fa scavare trincee

 

il primo cittadino di un Comune francese vuole impedire così che decine di roulottes si installino negli spazi verdi del paese

ne avevamo viste di tutti i colori, per scoraggiare la presenza dei nomadi: ordinanze comunali, fiaccolate e cartelli stradali, ma le trincee ancora erano inedite.

Eppure nel nord-est della Francia c’è un sindaco che contro gli insediamenti di rom, sinti e caminanti ha deciso di intervenire nel modo più deciso: scavando veri e propri fossati anti-caravan. A Wavrin, paese di settemila anime a ridosso del confine con il Belgio, il primo cittadino Alain Blondeau, indipendente di destra, ha fatto scavare delle trincee ai bordi degli spazi verdi cittadini. L’opposizione denuncia la spesa non proprio modica che sarebbe stata sostenuta: 28mila euro.

Secondo il quotidiano locale La Voix du Nord, in città l’iniziativa ha suscitato molte polemiche anche perché, sostengono diversi residenti, i nuovi fossati deturpano l’estetica del verde pubblico.

Blondeau, però, si giustifica: “In paese mi sono ritrovato con una carovana di oltre cento roulottes, quando normalmente non sono più di trenta – spiega – Anche se si tratta delle persone più educate del mondo, bisogna comunque fare delle pulizie, fornire elettricità e acqua corrente, si tratta di un costo per la città. Non ho terreno per accoglierli, al momento.”

In Francia una legge vecchia di anni impone alle città con più di cinquemila abitanti di garantire aree di sosta e di accoglienza per i nomadi. Il sindaco di Wavrin ha già presentato due progetti al prefetto competente ed è in attesa del responso, che dovrebbe giungere entro fine anno.

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quando i politici hanno il coraggio dell’onestà …

monsignor Galantino ha ragione: la politica harem di cooptati e furbi

 

GALANTINO
 

 monsignor Galantino ha ragione. “Un puzzle di ambizioni personali all’interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi “. Non avrei trovato definizione migliore. Nessuno escluso.

La politica vista da dentro, vissuta nei corridoi e nelle stanze fumose alle quali non hanno accesso nemmeno i più vispi sguardi e le orecchie più attente del giornalismo nostrano, è uno spettacolo deprimente, un esercizio di cinismo e ambizioni personali che nulla hanno a che vedere con l’ispirazione e la speranza per la quale molti di noi si sono avvicinati all’impegno civile e politico.

Non si prova solo nostalgia per De Gasperi, (come per Dossetti, La Pira, Zaccagnini e tanti altri), per il loro pensiero e per i maestri che lo hanno ispirato, ma si prova inquietudine e profonda solitudine in un ambiente dominato da metodi spietati di prevaricazione sull’altro e da un certo pragmatismo avaloriale che nel migliore dei casi induce al disincanto se non all’adattamento. Qui il cristiano – ma qualunque altro cercatore di Dio – impegnato in politica non può che sentirsi straniero, come nella lettera a Diogneto.

“Il nichilismo e il sarcasmo regnano nelle nostre società”, scriveva profeticamente Olivier Clément. Oggi assistiamo a una politica show business in cui conta apparire, in cui si ricerca continuamente la telecamera e la visibilità, in cui assurgono al ruolo di leader coloro che collezionano più presenze nei talk show, si ricerca la battuta che funziona in tv, al fine di mera promozione di un individualismo o di un consorzio di individualismi si creano movimenti , partiti e correnti fino ai tormentoni, gli slogan. Nel vuoto culturale ed ideologico conta solo l’appartenenza, fedele, scaltra, furba a filiere personali e alle opportunità del momento.

Così la superficialità diventa un paradigma, ricercata e calcolata finemente da un consigliere comunale milanese e dai suoi tristi epigoni locali a Roma e in giro per l’Italia, o dai vari populisti che da eroi dei due mondi o semplici leoni da tastiera decidono di puntare tutto sul risentimento, sul razzismo latente e sulla disinformazione, niente più logos, solo pathos, “è talmente sconvolgente che deve essere vero”, perché esasperare i toni “funziona”. Non a caso alcuni di questi casi sono passati per i provini di un talent o di un reality show, quello che conta è arrivare davanti alla telecamera, ammiccare, saperci restare, affermare sé stessi nel maldestro tentativo di colmare un vuoto esistenziale che con queste premesse non può che essere destinato a rimanere tale.

Si fa fatica a scorgere come tanta mal dissimulata abnegazione al servizio di se stessi possa contribuire a “svolgere il piano di Dio nella storia dei popoli” secondo la massima di Giorgio La Pira. Dov’è la speranza, dov’è lo spendersi senza riserve, fino a bruciarsi per gli altri, dov’è il servizio, dove la promessa di lasciare un mondo almeno un poco migliore di come lo si è trovato? Che spazio rimane per progettualità e missione?

Scriveva ancora Olivier Clément che “La chiesa, o il “consiglio delle chiese”, a seconda dei tempi e dei luoghi, è chiamata a diventare a suo rischio, con umiltà e fermezza, la coscienza della società. Coscienza che propone senza imporre, a rischio di un’emarginazione manifesta, quando non addirittura di una persecuzione, più o meno scoperta”. Il grande merito di mons. Galantino, vista anche l’origine di gran parte delle critiche, è aver rimesso in tutti i sensi “la chiesa al centro del villaggio”.

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figlia di un poliziotto si innamora di uno zingaro

dove sta il problema?

Mary, nel campo nomadi “per amore del mio pirata”

di LUIGI SPEZIA

 Bolognese, 25 anni, ha lasciato la casa di famiglia per vivere con la sua roulotte in un accampamento. Il padre lavora nelle forze dell’ordine: “Mi sono innamorata e sono diventata una gaggia”, come i sinti chiamano tutti gli altri. “Credo che per un vero cambiamento bisogna superare i pregiudizi. E smetterla di accorgersi di noi solo dopo che sono morti quattro bambini”

 
 
 
   

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i migranti e le esigenze basilari dell’umanità e del vangelo


«Chi respinge i migranti ignora il Vangelo e nega la democrazia». Intervista a mons. Perego

«Chi respinge i migranti ignora il Vangelo e nega la democrazia».

intervista a mons. Perego

rilasciata a Luca Kocci:

Perego

«Penso che noi italiani dovremmo un poco di più imparare a distinguere il percepire dal reale. Cosa intendo dire? Noi qui sentiamo dire e sentiamo parlare di “insopportabilità” del numero di richiedenti asilo: guardate, questo, secondo me, è un atteggiamento che viene, in questi giorni, purtroppo alimentato da questi quattro “piazzisti” da quattro soldi che pur di prendere voti, di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse!»

 così mons. Nunzio Galantino, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, lo scorso 10 agosto, in un’intervista alla Radio Vaticana al termine del suo viaggio in Giordania («la Giordania ha una popolazione che è di circa 6 milioni, 6 milioni e mezzo, ma sapete che lì ci sono due milioni e mezzo di profughi che vengono accolti?»), ha liquidato – senza fare nomi – i vari Matteo Salvini, Luca Zaia e Beppe Grillo che, anche negli ultimi giorni, hanno invocato misure draconiane contro gli immigrati che arrivano in Italia attraverso il Mediterraneo.

Il 12 agosto ha poi aggiunto a Famiglia Cristiana (che però in serata ha rimosso l’intervista dal sito internet e ha cercato di smorzare, senza tuttavia smentire: «Le dichiarazioni attribuite a mons. Galantino sono state riportate in modo esagerato nei toni all’interno di un colloquio confidenziale con il nostro giornalista»): il governo «è del tutto assente sul tema immigrazione», «non basta salvare i migranti in mare per mettere a posto la coscienza nazionale», le nostre leggi – «prima la Turco-Napolitano e adesso la Bossi-Fini» – di fatto «respingono gli immigrati e non prevedono integrazione positiva. Rispedendo al mittente – a Salvini e a Zaia – le accuse rivolte alla Chiesa di guadagnare con gli immigrati: si tratta, ha detto Galantino, «una banalità spaventosa», «ci sono vescovi che ospitano immigrati a casa propria e non si sono mai riempiti le tasche di soldi, anzi. Lo fanno anche Salvini, Zaia e Grillo?» E ribadendo: «I piazzisti sono molti, piazzisti di fanfaronate da osteria, chiacchiere da bar che rilanciate dai media rischiano di provocare conflitti».

«Non sono sorpreso dalle polemiche sollevate da alcuni esponenti politici», spiega ad Adista mons. Gian Carlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes, l’organismo pastorale della Cei che si occupa di migrazioni. «Del resto già in altre occasioni alcuni esponenti della Lega Nord avevano evidenziato un vuoto assoluto di proposta politica e un’incapacità di formulare proposte concrete per fare fronte ad uno dei drammi del nostro tempo. Le parole di mons. Galantino cercano solo di contrastare qualunquismo e vuoto politico».

Insomma si tratta di piazzisti da quattro soldi…

«Ognuno colora come meglio crede le proprie espressioni e il proprio sdegno di fronte ad affermazioni insensate, pericolose per la vita delle persone e irrispettose di un diritto, che è il diritto di asilo. In ogni caso mons. Galantino non ha fatto altro che ribadire quello che sostiene anche il magistero sociale della Chiesa dalla Populorum progessio in poi : tutelare un richiedente asilo, che non può essere etichettato come clandestino prima di averlo incontrato e ascoltato, e tutelare la vita delle persone, perché respingere in mare significa uccidere. Del resto già nel 2011 l’Italia fu condannata dal Tribunale dei diritti umani dell’Europa quando furono respinti alcuni migranti che poi trovarono la morte in mare».

Salvini chiede di portare gli immigrati in Vaticano. Zaia dice che se la Chiesa interviene lo fa perché guadagna sui migranti. Come risponde?

«Noi facciamo il nostro dovere accogliere e di sostenere migranti, rifugiati, richiedenti asilo e persone in povertà. È un dovere che ci viene dal Vangelo: “Ho avuto fame – dice Gesù – e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito”, dice Gesù. Ma c’è dell’altro…».

Cosa?

«Sulla questione immigrazione, la politica sta evidenziando gravi carenze e inadempienze, per cui spesso la Chiesa, con le proprie strutture, si trova a fare opera di supplenza di uno Stato assente, che non ha saputo organizzare un piano di accoglienza, di assistenza e di asilo richiesto dagli accordi di Dublino. Sono le Prefetture che ci chiamano, ci chiedono di accogliere le persone e ci pregano di fare quello che non stanno facendo Stato, Regioni e Comuni. E anche le risorse che arrivano non vanno alla Chiesa ma sono per gli operatori, alcuni dei quali hanno trovato lavoro anche in seguito a questa situazione. Il direttore della Caritas di Bergamo, per fare un unico esempio, mi ha detto di aver assunto 70 persone impegnate nei servizi di accoglienza».

Cosa rimprovera alla politica?

«Stato centrale, Regioni e Comuni non sono capaci di collaborare per organizzare e gestire l’accoglienza. Inoltre dal 2011 ad oggi ancora non c’è stata quella pianificazione richiesta di alcuni luoghi dove tutelare il diritto di asilo. Si tratta oggi di 85mila persone che, spalmate su 8mila Comuni, non avrebbero l’impatto drammatico che si vuole far credere».

Nel mondo politico, oltre ai negligenti, ci sono anche i seminatori di odio…

«Alcuni politici e alcune forze politiche non fanno nulla perché hanno paura di perdere consenso, oppure alzano la voce e sfruttano le paure delle persone per raggranellare un po’ di voti. E questo è davvero vergognoso»

Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha accusato la Chiesa di parlare ma di non agire, perché, per esempio, potrebbe ospitare i migranti nei conventi vuoti…

«Prima di tutto vorrei dire al presidente del Veneto che non può scaricare su altri quelli che sono compiti istituzionali propri. Quindi deve innanzitutto fare il proprio dovere, che oggi mi pare molto debole. Ripeto: oggi sta facendo supplenza alle mancanze di Stato, Regioni e Comuni, e in diversi territori, seminari e conventi sono stati aperti ai migranti, molte comunità religiose stanno adeguando alcune strutture per l’accoglienza. Poi ovviamente si può fare di più e meglio: ogni comunità, per esempio, dovrebbe riuscire a creare al proprio interno uno spazio e un luogo di accoglienza, e non limitarsi solo a fare catechesi».

La Lega Nord difende il crocefisso nelle scuole e chiede di respingere i migranti. Non le pare una contraddizione?

«Non metto in dubbio la fede dei singoli. Esprimo però il mio giudizio su alcune idee che fanno a pugni non solo con il Vangelo, ma con l’idea stessa di democrazia. Il diritto di asilo nasce con la democrazia, negarlo significa cadere in una sorta di medioevo della democrazia».

Non le sembra che in passato ci sia stata grande indulgenza da parte della Chiesa nei confronti di alcune forze politiche, come per esempio la Lega, che potevano essere utili alleati per altre battaglie su temi cari ai vescovi?

«Bisogna distinguere il magistero dalla politica. Noi oggi, di fronte al dramma dell’immigrazione, chiediamo di governare questo fenomeno, nel rispetto della dignità della persona e del diritto di asilo. Allo stesso modo, sul tema della famiglia, chiediamo la tutela della famiglia fondata sul matrimonio. E questo indipendentemente da collateralismi con una o un’altra forza politica».

La Chiesa fa politica?

«Se fare politica significa interessarsi della città, della dignità di ogni persona, della giustizia sociale allora in questo momento la Chiesa sta facendo politica, indipendentemente da qualsiasi formazione partitica. E mi rendo conto che questo può dare fastidio a chi ha idee diverse».

Quello dell’immigrazione è un problema non solo italiano ma europeo…

«E va affrontato anche a livello europeo. Rimettendo in discussione la chiusura di Mare nostrum che ha provocato il 30% di morti in più. Ridefinendo gli accordi di Dublino così da permettere una libera circolazione dei migranti in tutta Europa. E prevedendo una reale condivisione dell’accoglienza da parte di un’Europa di 500 milioni di abitanti che non può trovarsi in ginocchio per 200mila persone che arrivano dal Mediterraneo. Occorre una nuova politica europea sul tema delle migrazioni. Diversamente la chiusura e il ritorno dei nazionalismi non faranno altro che provocare un effetto domino che riporterà l’Europa indietro di 50 anni».

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il commento al vangelo della domenica

LA MIA CARNE E’ VERO CIBO E IL MIO SANGUE VERA BEVANDA

commento al vangelo della ventesima domenica del tempo ordinario (16 agosto 2015) di p. Alberto Maggi:

p. Maggi

Gv 6, 51-58

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

L’evangelista ci presenta la conclusione del lungo discorso tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, tutto incentrato sull’Eucaristia.
Giovanni è l’evangelista che non ha il racconto della cena Eucaristica, ma in realtà è l’evangelista che, più degli altri, ne esplora i ricchissimi significati. Vediamoli.
Gesù, rivendicando la condizione divina con il nome “Io sono”, afferma di essere questo “pane vivo che discende dal cielo. Chi lo mangia vivrà per sempre”, quindi è un pane che consente una vita di una qualità tale che neanche la morte potrà scalfire, e, dichiara Gesù “il pane che vi darò è la carne per la vita del mondo”.
Qual è il significato di questa espressione? ‘La Carne’ indica l’uomo nella sua debolezza. La vita di Dio non si può dare al di fuori della realtà umana. Non può esserci comunicazione dello Spirito dove non ci sia anche il dono della carne. I doni dello Spirito passano attraverso l’umanità, più si è umani e più si scopre il divino che è in sé. 
Ebbene “i Giudei” – ricordo che con questo termine si indicano le autorità religiose, i capi – non accettano questo, si mettono a discutere aspramente e dicono “come può costui” – notiamo come i giudei si rivolgano sempre a Gesù con disprezzo, ed evitano sempre di nominarlo –  “darci la sua carne da mangiare?”
Un Dio che, anziché pretendere i doni si fa lui dono per la vita del mondo, questo è inaccettabile per un’istituzione religiosa che ha creato un Dio a sua immagine e somiglianza, e come essa sfruttatrice dei bisogni dell’uomo.
Ebbene, ecco la dichiarazione di Gesù “in verità, in verità vi dico” – affermazione importante che significa ‘vi assicuro, con certezza’ – “se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita”. Questa carne e sangue sono un tema molto caro all’evangelista, che rimanda a Gesù quale  Agnello di Dio. Gesù è stato presentato fin dall’inizio di questo vangelo come l’Agnello di Dio, cioè l’agnello dell’esodo pasquale, quell’agnello di cui, secondo le indicazioni di Mosè,  bisognava mangiare la carne per avere la forza di iniziare questo esodo e il cui sangue avrebbe liberato dalla morte nella notte dello sterminio dei figli degli egiziani.
Ebbene Gesù viene presentato da questo evangelista come il vero Agnello, la carne darà la capacità di perpetuare questo esodo fino al suo pieno completamento e il sangue non libererà dalla morte terrena, da una morte fisica, ma libera dalla ‘morte per sempre’, cioè consentirà di vivere una ‘vita per sempre’.
E Gesù, a questa espressione già difficile da accettare per i giudei, mangiare la carne, aggiunge qualcosa che stride per la cultura e la mentalità ebraiche, cioè bere il sangue. Per evitare che intendano in maniera simbolica, in maniera metaforica, Gesù dice “chi mastica”. Qui l’evangelista per il verbo ‘mangiare’, usa il greco ‘trogo’ (trogo), che già dà l’idea di qualcosa di molto rude che significa ‘triturare’, ‘masticare’, quindi Gesù vuole evitare che ci sia un’adesione ideale; no, l’adesione deve essere completa.
“Chi mastica la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna”. Di nuovo Gesù torna sul tema che gli è molto caro: la vita eterna non è collocata nel futuro, come una ricompensa per il buon comportamento tenuto nel presente, ma un’esperienza nel presente. Chi dà adesione a Gesù e come lui si fa carne per la vita degli uomini, si fa pane per il bene degli uomini, questo ha già una vita di una qualità tale che la morte non potrà interromperla.
E continua Gesù “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”. Il progetto di Dio è quello di fondersi con l’uomo. Mentre l’istituzione religiosa allontana  Dio dall’uomo per mettersi come unica mediatrice, Dio vuole fondersi con l’uomo e diventare una sola cosa con lui. Dichiara Gesù “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui”, c’è questa fusione tra Dio e l’uomo.
L’unico vero santuario nel quale si irradia l’amore di Dio da questo momento è l’uomo che lo ha accolto.
E, continua Gesù, “come il Padre, che ha la vita”  – è la prima volta nel vangelo il Padre viene dichiarato il Padre vivente, colui che comunica vita – “ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me”. Non è soltanto la causa, ma è anche l’effetto. Chi mangia di Gesù vivrà grazie a lui, ma vivrà per lui. Come il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per essere testimone di un Dio ESCLUSIVAMENTE BUONO, di un amore fedele, così questo sarà  il destino e la missione di tutti quelli che accolgono Gesù.
L’unico vero santuario dove si manifesta l’amore di Dio è dove questo amore non esclude nessuno. E poi Gesù di nuovo ritorna sull’affondo “questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono”. Ricorda il fallimento dell’esodo che è avvenuto perché non hanno ascoltato la voce di Dio. “Chi mangia questo pane vivrà in eterno”, l’esodo di Gesù è destinato a realizzarsi pienamente.

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