scontro tra cardinali sull’eucarestia ai divorziati

VATICAN-SIRYA-POPE-PRAYER

Muller, Marx, Maradiaga: confronto aperto sull’Eucarestia ai divorziati risposati

nervi tesi fra il G8 vaticano e il custode dell’ortodossia cattolica. A due mesi dalle critiche al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Gehrard Muller, da parte dell’arcivescovo di Monaco, Reinhard Marx, uno degli otto porporati che consigliano il papa, scende in campo lo stesso coordinatore della commissione cardinalizia.  In una lunga intervista al quotidiano tedesco Koelner Stadt-Anzeiger, l’arcivescovo di Tegucigalpa, Oscar Rodriguez Maradiaga, stigmatizza il rigore del titolare dell’ex Sant’Uffizio. <Muller è un professore di teologia tedesco, nella sua mentalità c’è solo il vero e il falso… – affonda il colpo l’honduregno -. Però, fratello mio, il mondo non è così, tu dovresti essere un po’ flessibile, quando ascolti altre voci… Per ora, tuttavia, ascolta solo il suo gruppo di consiglieri>.
SOTTO la cenere delle polemiche brucia il nodo dell’Eucarestia ai divorziati risposati, uno degli argomenti del prossimo Sinodo sulla famiglia. Come è noto, Muller, dopo aver difeso sull’Osservatore romano  il divieto alla Comunione per gli irregolari (23 ottobre 2013), a novembre ha chiesto all’arcidiocesi tedesca di Friburgo di ritirare il documento pastorale con il quale si dava facoltà ai preti di ammettere al sacramento il coniuge risposato che <in coscienza> avesse deciso di comunicarsi. La censura non piacque a Marx. E, così, qualche giorno il cardinale, a margine di un incontro ecclesiale in Baviera, espresse pubblicamente il suo dissenso nei confronti del prefetto: <Muller non può mettere fine alla discussione>. La posizione di Marx venne condivisa con forza da altri vescovi  della Germania. Fra i più agguerriti, monsignor Gebhard Fürst (Stoccarda) che all’ex Sant’Uffizio lanciò un appuntamento dal sapore provocatorio: a marzo l’episcopato tedesco avrebbe adottato le proposte dell’ufficio diocesano di Friburgo in occasione della sessione plenaria. Se non era una sfida, poco ci mancava.
A QUESTO punto sembrava che il braccio di ferro fosse destinato ad interessare solo il Sant’Uffizio e la Chiesa di Germania. In verità non era ancora intervenuto Maradiaga che dalle colonne del Koelner Stadt-Anzeiger ha fatto sentire la sua voce.  Rispondendo a una domanda sui sacramenti ai divorziati risposati, il cardinale ha lasciato intravedere margini di modifica della pastorale in materia: <La Chiesa è tenuta ai comandamenti di Dio e a ciò che Gesù dice sul matrimonio: ciò che Dio ha unito, l’uomo non deve separarlo. Ci sono diversi approcci per chiarire questo. Dopo il fallimento di un matrimonio ci possiamo per esempio chiedere: gli sposi erano veramente uniti in Dio? Lì c’è ancora molto spazio per un esame più approfondito. Però non si va nella direzione per cui domani è bianco ciò che oggi è nero>.
NON LA CITA espressamente, ma Maradiaga, per venire incontro alle richieste di riforma, sembra percorrere la via dell’allargamento delle cause di nullità delle nozze attraverso l’inserimento dell’impedimento della ‘mancanza di fede’. Una soluzione affacciata già da Benedetto XVI nell’Incontro con il clero di Aosta (2005) e probabilmente apprezzata anche da Muller. Non a caso il custode dell’ortodossia così scriveva sull’Osservatore romano: <I matrimoni sono probabilmente più spesso invalidi ai nostri giorni di quanto non lo fossero in passato, perché è mancante la volontà di sposarsi secondo il senso della dottrina matrimoniale cattolica e anche l’appartenenza a un contesto vitale di fede è molto ridotta. Pertanto, una verifica della validità del matrimonio è importante e può portare a una soluzione dei problemi>.MA I VESCOVI tedeschi sono d’accordo? Per fortuna l’appuntamento con il Sinodo è ancora abbastanza lontano e il dibattito intraecclesiale, sopito per troppi decenni, con papa Francesco ha ripreso slancio. Persino con qualche asprezza di troppo, tipica di chi non è abituato a confrontarsi sotto la luce del sole. D’altra parte le soluzioni sul tappeto non mancano. Si va, come abbiamo visto, dall’approccio giurisdizionale alla libertà di coscienza, passando per la prassi ortodossa (benedizione delle seconde nozze dopo un cammino penitenziale) fino al rimando al Concilio di Nicea (325). Quest’ultimo, come racconta lo storico della Chiesa Giovanni Cereti (Divorzio, nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva, edizioni Dehoniane, 1977) al canone 8, imponeva ai novaziani (i seguaci del prete Novaziano che nel III secolo contese il papato a Cipriano) di riammettere alla Comunione i lapsi (gli apostati nella persecuzione) e gli adulteri. Ossia chi aveva ripudiato il coniuge per sposarne un altro.Giovanni Panettiere
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Miguel, ragazzo sinto orgogliosamente tale,ma anche ‘lucchese’

Miguel

«Macché integrato, io sono lucchese»

si racconta, Miguel, in questo dialogo con la giornalista del Tirreno, racconta la sua origine a Lucca, la bellezza e la difficoltà di dovere da sempre alternare una vita in appartamento a una vita al campo dei sinti in momenti di grande povertà
non sembra molto convinto nel rispondere, a precisa domanda, sulla sua ‘integrazione’: sembra suonargli un po’ equivoca questa parola e deludendo l’intervistatrice che vorrebbe fargli riconoscere come positiva e apprezzabile questa condizione, fa un deciso passo indietro con un sonoro ‘macché
è contento , però, della casa dove si trova ora, ma è contento soprattutto del percorso di ‘attivista’ che sta facendo e vorrebbe in seguito coinvolgersi in un impegno attivo di superamento delle difficoltà che sta vivendo il suo popolo a Lucca:
La storia di Miguel, storia di un’integrazione riuscita. Anche se, in realtà, alla parola “integrazione”,      Miguel cambia sguardo e precisa. «Ma integrazione di che? Io sono italiano, sono lucchese. Tifo Juve, tifo l’Italia ai      Mondiali, mi emoziono a sentire l’inno di Mameli, lavoro, ho amici, ho una mia vita». Fiorello Miguel Labbiati, all’anagrafe      Fiorello, al campo, tra i parenti e tra gli amici conosciuti fuori la scuola, Miguel, che era il nome preferito dalla mamma,      proprio come Miguel Bosè. Per gli amici stretti, invece, solo Vè. Trentun’anni, una figlia di dieci, fidanzato con      una ragazza “gagi”. Cioè non nomade, il modo con cui i sinti identificano coloro che non sono rom e che non      sono sinti. Miguel è nato a Fucecchio, da madre di Empoli e papà di Castelnuovo. Annovera dentro e prima di sé      ben quattro discendenze sinte (tedesca, lombarda, piemontese e francese) e una rom, da parte di nonno. È cresciuto tra      il campo di Nave, quello di Sant’Anna in via delle Tagliate e la casa della nonna, a San Vito. Da un po’ vive in una casa      sua e da quattro mesi convive con Martina. «La vita in casa mi piace molto – racconta – non ho avvertito      il distacco dal campo, perché fin da piccolo sono stato in un appartamento; a periodi vivevo con mia nonna che abitava      a San Vito nelle case popolari. La mia casa è il mio mondo e non la cambierei con qualcos’altro, anche se a volte ripenso      alla campina (la roulotte). Non ho ricordi negativi della vita con mia mamma al campo, anche quando non c’era la luce e si      stava con le candele per giorni. La casa è un’altra cosa: ho il giardino, un pezzo di terra dove posso fare l’orto, ho      i miei spazi per dipingere e realizzare sculture. «Da piccolo mi sono spostato tante volte – continua – Questo      perché cambiavamo città o più semplicemente quartiere. No, le superiori non le ho fatte, ma a settembre vorrei      iscrivermi al serale per prendere il diploma. Lavoro da quando ho 16 anni, facendo ogni tipo di attività: ho iniziato      nel calzaturiero e guadagnavo 300mila lire al mese. Poi sono entrato nell’edilizia, all’inizio mi facevano fare le pulizie.      Dopodiché ho cominciato a fare lo stucchino, nel frattempo sono diventato papà. Per un periodo ho fatto ogni tipo      di lavoro, poi è arrivata la crisi, l’edilizia è morta e sono entrato anche io in crisi. «Preso dalla disperazione      andai al Culto Evangelico a Pisa dove c’era un incontro per parlare della condizione dei rom e dei sinti. Un signore diceva      come non ci fossero rom e sinti nelle giunte comunali e come i sinti non fossero interessati alla politica. Pensai: ma che      dice questo? Ho fatto manifestazioni nella mia città, mi sono sempre interessato di politica, ma come italiano, non come      rom. Ci parlai, poi mi richiamò dopo una settimana e mi propose la possibilità di partecipare a uno scambio culturale      in Romania con altri ragazzi di diversi paesi europei sulla questione rom e sinti. E lì è cambiato tutto: in dieci      giorni mi è montata una voglia incredibile di raccontare il mio popolo e di lavorare per i sinti e per i rom». Così      a 29 anni ha preso parte all’Avs (anno di volontariato sociale) in Caritas, ha seguito diversi progetti, soprattutto con i      bimbi disabili e fino a entrare in Caritas con un contratto. Ora segue il corso di formazione per attivisti rom e sinti, organizzato      e promosso dall’Associazione 21 luglio che ha sede a Roma. «Vado nelle scuole, parlo dei rom e dei sinti. Per me è      un orgoglio la mia appartenenza, lo dico sempre a tutti. Ho sempre lavorato e non mi sono mai guadagnato da vivere rubando.      Quando parlo nelle scuole mi chiedono perché gli zingari rubano. Non mi dà fastidio, perché è vero che      esiste l’illegalità. Anche nella mia famiglia. Ed è vero che ci sono persone in carcere o agli arresti domiciliari      per furto o per spaccio. Per me non esiste il male o il bene di per sé, esistono le opportunità, le necessità,      le condizioni di vita e le amicizie. Una persona non è che ruba in quanto rom. Io sono un sinto che ha voglia di fare      e sono fortunato. Secondo me l’istruzione è tutto, con le scuole speciali per rom e sinti hanno alimentato l’emarginazione      e creato generazioni di analfabeti e delinquenti». E per il futuro? «Finito il corso per attivista – conclude      – vorrei occuparmi della situazione di Lucca. Mi sto accorgendo che le realtà fuori da Lucca sono tremende e molto      peggiori. Qua la situazione è abbastanza positiva, ci sono tanti ragazzi che conducono una vita normale e che si sono      inseriti nella città, anche se per alcune cose siamo indietro. «Questo, secondo me, è un momento maturo per      creare una situazione definitiva per le famiglie che vivono al campo, partendo da un percorso condiviso e partecipato con      le famiglie stesse. È importante farli sentire importanti. Mi piacerebbe che la mia città diventasse un’avanguardia      e un esempio per tutta Italia, ne ha le carte. Basta che creda nei suoi giovani sinti e rom».
Nadia Davini – il Tirreno
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la vera domanda per il ‘giorno della memoria’

 

memoria e memorie

auswitz

il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l’orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell’abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall’altra

M. Ovadia nel fare memoria delle varie shoah (compreso il porrajmos, la shoa del popolo zingaro) pone la vera domanda: non:come abbiamo potuto arrecare danno a loro, ma: come abbiamo potuto arrecare un così grave danno a noi stessi:

 Moni Ovadia

in “l’Unità” del 25 gennaio 2014

 

Un paio d’anni fa fui invitato dall’associazione Beneruwanda a partecipare ad una giornata di memoria del genocidio del popolo Tutsi, nel ricorrere del suo anniversario. In quell’occasione ebbi modo di incontrare la signora Yolande Mukagasana, testimone del genocidio del suo popolo, militante della Memoria e candidata al Premio Nobel per la Pace. Yolande nel genocidio ha perduto marito e figli, lei stessa si è salvata miracolosamente grazie all’aiuto di una donna Hutu.

Incontrandola, rimasi profondamente impressionato dalla luce intensa del suo volto e dalle sue parole pacate e ferme nell’esprimere il dolore per l’ignobile opera di negazionismo che è stata avviata anche nei confronti del genocidio dei Tutsi.

Ebbene sì! Può suonare incredibile ma il negazionismo non è rivolto solo contro il martirio gli ebrei, ma anche contro altre vittime di stermini. Mentre parlavo con Yolande Mukagasana, un singolare dettaglio mi colpì, il fatto che lei portasse al collo, come ciondolo, una vistosa stella di Davide. Vincendo il riserbo le chiesi perché indossasse quella stella e lei mi rispose: «Noi dobbiamo fare come gli ebrei!».

Evidentemente Yolande si riferiva al Senso della Memoria che ha permesso al popolo ebraico di non soccombere alla violenza, all’annientamento e all’oblio, ma di rispondere alle tenebre dell’odio con una cultura di conoscenza e di vita. Per uscire da un equivoco molto diffuso, ovvero che l’istituzione del Giorno della Memoria sia ad usum degli ebrei, è bene chiarire con fermezza che non è così! Lo specifico ebraico della memoria vive nelle sinagoghe e nelle case di studio. La teoria e la Pratica della Memoria ebraica nascono 3500 anni fa in occasione del primo scampato sterminio progettato nel deserto del Sinai dal re Amalek, il progenitore di tutti gli antisemiti irriducibili. A seguito di quell’evento viene consegnato ai b’nei israel, i figli di Israel, il monito «yizkhor!», (ricorderai!). Questa e la ragione del suo carattere originale ed irrinunciabile, 3500 anni di pensiero.

Il Giorno della Memoria deve servire all’Europa che, in misura maggiore o minore, ha nutrito e accolto nelle proprie fibre intime carnefici, collaborazionisti, delatori zone grigie ed indifferenti, deve indurre a riflettere criticamente pro bono della qualità del presente e del futuro sollecitando a porsi la grande domanda che non è «perché abbiamo fatto questo agli ebrei, ai rom, ai menomati , agli omosessuali, agli slavi, agli anti fascisti, ai testimoni di Geova», bensì «perché abbiamo fatto questo a noi stessi? Come abbiamo potuto ridurci a questo infame degrado?».

Quanto agli ebrei devono capire che la memoria della Shoah non deve garantire primazie, ma deve illuminare tutti i genocidi e gli stermini, quelli di prima e quelli di dopo e portarli in primo piano, non relegarli sullo sfondo, inoltre bisogna capire che ogni uso strumentale, propagandistico, bassamente retorico della Shoah è il miglior modo per destituirla di verità e di universalità

porraimos

L’“altra” Shoah la devastazione del popolo rom

di Moni Ovadia e Marco Rovelli

in “il Fatto Quotidiano” del 25 gennaio 2014

Il Giorno della Memoria è stato istituito nel giorno in cui 69 anni fa i soldati dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del lager di Auschwitz e vi entrarono rivelandone l’orrore. E sacrosanto è stato aver stabilito un giorno in cui ricordare quell’abisso incancellabile. Ma, come per ogni ritualizzazione, quella ferita sanguinante si scontra con il rischio della museificazione da una parte e della falsa coscienza dall’altra.

Le attività e le manifestazioni di questa Giornata riguardano in maniera soverchiante la Shoah, ovvero lo sterminio degli ebrei, al punto da oscurare quasi gli eccidi e le sofferenze subìte dalle altre vittime della ferocia nazista: i rom, gli omosessuali, i menomati, gli antifascisti a vario titolo, i testimoni di Geova, gli slavi, i militari italiani che rifiutarono di servire il governo fantoccio di Salò.

NESSUN POLITICO AD AUSCHWITZ. HA MAI DETTO: “MI SENTO ROM”

razzismo rom

Ricordare l’unicità della Shoah non può essere l’alibi per dimenticarsi degli altri. I rom, in particolare, sono stati per lunghissimo tempo misconosciuti nel loro status di vittime: e se oggi non c’è quasi un politico occidentale che non voglia mostrarsi amico degli ebrei e soprattutto degli israeliani, quasi nessuno di essi è disposto a identificarsi con i rom. Nessuno dei rappresentanti politici dei paesi occidentali ha il coraggio di uscire da una visita al lager di Auschwitz dichiarando: “Mi sento rom”; molti, però, si affrettano ad affermare: “Mi sento israeliano”. Ora sia chiaro, nessuno vuole ignorare o sottovalutare lo specifico antisemita del nazifascismo e sminuire l’immane dimensione della Shoah. Ciò che è inaccettabile è il deliberato sottacere delle sofferenze dei rom e dei sinti anch’essi destinati al genocidio. È intollerabile che si discrimini fra le sofferenze di esseri umani che subirono la stessa tragica sorte. I rom sono vittime secolari dell’occultamento della loro identità e della loro memoria, oltre che essere vittime di un’antichissima persecuzione. Essi non hanno terra, non hanno un governo potente che parli per loro, sono tuttora gli “zingari” reietti: perché mai dunque riconoscere piena dignità alle loro inenarrabili sofferenze? La cultura orale dei rom, del resto, diversamente dalla cultura ebraica fondata sulla Scrittura, ha facilitato il compito della dimenticanza: non c’è stato che un soffio di vento, niente più che questo, nulla che sia conservato e degno di conservazione. Solo con fatica si è imposto il nome dello sterminio nazista dei rom: Porrajmos. Il merito di questo va al grande intellettuale rom inglese Ian Hancock, linguista e fra le altre cose  rappresentante del popolo rom presso le Nazioni Unite. Il termine “Porrajmos”, nella lingua di alcuni romanì, “devastazione”. Ma la lingua romanes ha molte articolazioni, corrispondenti alla disseminazione dei suoi numerosissimi gruppi e sottogruppi: perciò capita che un significante abbia significati diversi per diversi rom. Da Jovica Jovic, grande fisarmonicista rom serbo, abbiamo appreso che quel termine, nel “suo” romanes, ha un significato sessuale osceno. Così per Jovica quel termine è inusabile, e offensivo: impossibile per lui ricordare i suoi zii morti ad Auschwitz con quel termine. Una vicenda paradossale, questa, direttamente legata alla dispersione e alla secolare marginalizzazione e inferiorizzazione dei rom. Per rispetto nei confronti dei rom come Jovica crediamo dunque che dovremmo cominciare a trovare un altro termine, che non sia l’ennesimo affronto alla memoria proprio là dove la memoria dovrebbe essere sacralizzata e conservata.

Samudaripen è il termine alternativo che molti rom propongono: significa “tutti morti”, e non ha implicazioni imbarazzanti per nessuno. Per domani le associazioni 21 luglio e Sucar Drom hanno organizzato un convegno a Roma intitolato proprio Samudaripen: può essere un buon inizio, per avere finalmente un nome, e un nome giusto, per l’Orrore dimenticato.

 divieto ai nomadi

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