Papa Francesco incontra Arturo Paoli

Papa Francesco incontra Arturo Paoli, antifascista e teologo di 101 anni

Papa Francesco incontra Arturo Paoli  antifascista e teologo di 101 anni

“Vengo a sapere che papa Francesco ha ricevuto questa sera Arturo Paoli, 101 anni e padre spirituale della Teologia della liberazione”

Lo scrive su Facebook lo scrittore e filosofo Vito Mancuso precisando che “l’incontro e’ durato circa 40 minuti ed e’ stato all’insegna della piu’ cordiale sintonia”.     “Forse – ipotizza Mancuso – sta nascendo un Magistero della liberazione! Adelante Francisco!”.     Amico personale di Paolo VI, Arturo Paoli ha trascorso gran parte della sua vita in America Latina, soprattutto in Argentina e Venezuela. Sacerdote dal 1940 durante gli anni della guerra partecipo’ alla rete di protezione “Delasem” per nascondere gli ebrei perseguitati dal nazifascismo. Arrestato e poi rilasciato, rischio’ la vita per salvare un ebreo.     Per queste ragioni, nel 1999 riceve a Brasilia il riconoscimento di Giusto tra le nazioni dallo Stato di Israele e nel 2006 la medaglia d’oro al valore civile dalla Presidenza della Repubblica Italiana. Nel 1949 la Segreteria di Stato del Vaticano lo chiama a Roma come vice assistente nazionale della Gioventu’ cattolica, dove collabora con Carlo Carretto, del quale seguira’ poi la vocazione religiosa tra i figli di De Foucauld.     Nel 1954, a causa delle sue posizioni riguardo all’impegno dei cattolici in politica, viene pero’ allontanato e incaricato di imbarcarsi come cappellano in una nave di emigranti italiani in Argentina.       In quel primo viaggio matura la decisione di diventare religioso dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld che lo destinano prima in Sardegna tra i minatori di Iglesias e poi in Argentina, dove finisce nell’elenco dei condannati a morte dal regime.     Si salva in Venezuela, da dove nel 1985 si trasferisce in Brasile, prima a Sao Leopoldo poi a Foz do Iguacu. In tutti i paesi da lui animatore di progetti sociali e di promozione umana e contribuisce a una elaborazione in dialogo della teologia della liberazione.     Nel 2005, 93enne, decide di tornare definitivamente in Italia. Ritorna nella sua citta’ d’origine, Lucca, dove l’arcivescono monsignor Italo Castellani gli offre la chiesa di San Martino in Vignale, con annessa abitazione che Paoli intitola Casa Beato Charles de Foucauld.     Ogni giorno la sua casa e’ crocevia di persone di ogni eta’, condizione sociale, credo religioso, stato civile. La dimensione contemplativa e’ il filo sotterraneo che ha sostenuto la sua intensa azione, generatrice di ricerca, di amicizia, di speranza. (AGI) .  

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se l’Italia è indietro coi diritti civili la colpa è anche della chiesa

diplomazia vaticana

 

Filoramo: ‘Diritti civili, Italia arretrata. Chiesa responsabile’

Paolo Barbieri intervista il docente di Storia del Cristianesimo e presidente del Centro di Scienze delle religioni presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino

professore ordinario di Storia del Cristianesimo presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Torino e presidente del Centro di Scienze delle religioni presso la medesima università, Giovanni Filoramo è uno dei maggiori studiosi di storia delle religioni. Dirige, per le case editrici Laterza e Dell’Orso, tre collane di scienze religiose. Tra i suoi libri: Di che Dio sei? Tante religioni un solo mondo; La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori; Il sacro e il potere. Il caso cristiano; La Chiesa e le sfide della modernità.

Il pluralismo religioso ha assunto dimensioni e implicazioni inedite. L’Italia è preparata a questo fenomeno?

Occorre distinguere tra pluralità e pluralismo religioso. Oggi in Italia, per effetto dei processi di immigrazione che hanno cambiato il volto del paese, esiste una pluralità di fenomeni e tradizioni religiosi, impensabile una generazione orsono. Questa pluralità religiosa può rimanere ghettizzata (come avviene in genere nella prospettiva comunitaristica) oppure trasformarsi in un fattore dinamico. In Italia, paradossalmente, la presenza della Chiesa può essere un fattore positivo, così come è avvenuto grazie ad organizzazioni cattoliche nell’accoglienza dei migranti. Anche dal punto di vista giuridico abbiamo un quadro costituzionale “aperto” che è contrario a una forma di laicité alla francese e auspica un riconoscimento pubblico delle presenze religiose. Per sua natura, infine, il fondo cattolico tipico della cultura italiana è incline ad aperture e ibridazioni.

Il confronto che la Chiesa cattolica sta sostenendo con una serie di sfide poste dalla modernità rischia di trasformarsi in un conflitto?

Difficile dirlo. Molto dipende dalle scelte che farà il nuovo papa. Mi sembra che egli stia abbandonando la linea dottrinale (ad tuendam fidem, ”a difesa della fede”) fortemente e pericolosamente identitaria portata avanti dai due precedenti pontefici. Se così è, verrà meno una causa conflittuale di fondo: la difesa di un’identità fondata su di una concezione di legge di natura di origine divina e immutabile, che non può resistere agli attuali progressi della scienza. Il nuovo papa, poi, come dimostra l’ultima esortazione evangelica, apre alle culture locali in una prospettiva globale. In questo modo verrebbe meno, se questa politica fosse confermata, un altro motivo radicale di conflitto: l’accentramento eurocentrico e la difesa a ogni costo della tradizione.

Quanto pesa l’ingerenza delle gerarchie ecclesiali in campi, dalla politica alla indagine scientifica che la Costituzione italiana affida unicamente all’iniziativa statale?

Moltissimo: ma questo era vero per la Cei soprattutto sotto la presidenza del cardinal Ruini. Sotto Bagnasco questa linea si è oggettivamente indebolita. Anche in questo caso penso che il nuovo pontefice stia incidendo profondamente per una trasformazione in senso più pastorale e meno politicizzato della Cei.

Dopo la sconfitta al referendum sul divorzio, Aldo Moro affermò che per i cattolici iniziava il tempo della testimonianza. Bisogna rimpiangere la laicità di quella classe politica?

Temo di sì. La laicità di quella classe politica è stata in molti casi dubbi, ma in altri, meno numerosi, a cominciare da De Gasperi, significativa. Certo, oggi, mancando un analogo della Dc è più difficile fare un confronto; inoltre, il caso degli atei devoti o dei politici, a partire da Berlusconi, che hanno tentato accordi con la Chiesa a scopi politici, ha contribuito in modo determinante a cambiare le regole del gioco. Rimane il problema, che intellettuali cattolici rigorosamente laici come Pietro Scoppola avevano lucidamente posto, per un cattolico impegnato in politica, di fare della propria coscienza – e non del rapporto con la gerarchia – il luogo ultimo delle proprie scelte.

Per quanto riguarda i diritti civili siamo un paese arretrato. Pensa che il Vaticano abbia responsabilità per questa arretratezza?

Certamente. Basterebbe pensare ai diritti civili che riguardano le unioni coniugali di fatto e in genere tutti quei diritti civili che minacciano la concezione della “famiglia naturale”. Da questo punto di vista, il fatto che la Chiesa, soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, sia diventata paladina di quei diritti umani che aveva fino ad allora aspramente combattuto, non ha cambiato la sua posizione per quanto riguarda il fatto che questa difesa si fonda su una concezione di Legge naturale oggi non difendibile.

In questi anni c’è stato un dibattito acceso su scuola pubblica e privata. Intanto la politica dei tagli ha messo in crisi il sistema scolastico statale per non parlare dell’università. Come giudica lo stato della scuola e dell’università italiane?

Purtroppo la mia risposta è pessimistica. È una situazione disastrosa sotto molteplici punti di vista, ben noti perché dovuti ad analisi impietose e convincenti. Forse il fattore più preoccupante è lo spazio sempre più esiguo che ha nell’università attuale la ricerca. Nel campo umanistico, poi, si sta distruggendo una tradizione di cui l’Italia poteva andare orgogliosa. I piccoli settori di ricerca, in cui la ricerca italiana spesso eccelleva, oggi o sono scomparsi o hanno un futuro precario. La conferma: i giovani migliori o cambiano mestiere o sono costretti ad emigrare.

La corruzione è un cancro della società italiana. Lei pensa che la chiesa abbia qualche responsabilità se in Italia non c’è una cultura del bene comune?

Questa è stata a lungo una delle accuse, a partire almeno da Machiavelli, che è stata avanzata contro una cultura ecclesiastica (e gesuitica) casuistica e strumentale, che subordinava il bene comune di tutti al bene comune della chiesa. Ma oggi mi sembra un’accusa difficilmente sostenibile per l’incidenza profonda e capillare dei processi di secolarizzazione: il potere di incidenza della chiesa nella formazione della coscienza morale degli italiani (e di conseguenza il suo eventuale grado di responsabilità) mi sembra francamente inesistente.

La politica ha perso credibilità. Che giudizio dà della protesta a volte rabbiosa che dilaga nel paese?

Ritengo, come comune cittadino, che oggi questo sia, tra i tanti mali che funestano il nostro tessuto civile, il peggiore. Alle cause strutturali di crisi della democrazia liberale e rappresentativa, a cominciare dai partiti, si è aggiunta in Italia questa crisi gravissima, ormai di dominio pubblico: la politica come carriera al servizio dei propri più meschini interessi di arraffamento (le mutande di Cota sono esemplificative). La protesta è giustificata anche se personalmente ritengo che l’unica soluzione sia politica.

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l’intolleranza ultranazionalista imbarbarisce anche il popolo ebraico

Moni Ovadia accusa la Comunità ebraica romana: fascista e stalinista

Moni Ovadia

M. Ovadia accusa, ma non è il solo, anche l’altro ebreo italiano di rilievo Gad Lerner: per loro il popolo ebraico italiano deve ormai subire una netta divisione fra ebrei democratici ed ebrei (buona parte della comunità ebraica romana) che agiscono come fascisti e stalinisti

Una buona parte della Comunità ebraica romana si comporta come i fascisti o, per chi preferisce, come gli stalinisti. La clamorosa provocazione rivolta agli ebrei del ghetto di Roma non arriva dal solito barbaro leghista in mutande verdi, ma da Salomone “Moni” Ovadia, il celebre attore teatrale e scrittore di origini bulgare e, soprattutto, ebreo e fiero di esserlo. Almeno per questa volta, dunque, nessuna strumentale accusa di antisemitismo potrà essere mossa ad una discussione che si preannuncia infuocata, visto che Ovadia si spinge ben oltre la definizione, quasi blasfema per un ebreo, di “fascista”.

Dietro la polemica rilanciata dall’artista si nasconde una questione ancora più importante: la possibile scissione della Comunità ebraica romana, lacerata tra progressisti e quelli che, secondo Ovadia, “sostengono senza alcuna capacità o volontà critica l’attuale governo di estrema destra israeliano”.

Con un’intervista al Fatto Quotidiano, Ovadia denuncia l’assenza di democrazia all’interno della comunità diretta da Riccardo Pacifici, prendendo spunto da due fatti di cronaca accaduti all’interno del ghetto negli ultimi giorni: il pestaggio da parte di una ronda in kippah  e mazze da baseball di alcuni ragazzi, colpevoli di aver strappato un manifesto in onore del defunto Ariel Sharon; il clima da rissa che ha impedito a Giorgio Gomel (altro noto esponente della Comunità) di partecipare alla presentazione del libro Sinistra e Israele.

“È arrivato il momento di separarci e formare una comunità di ebrei tolleranti – dice Ovadia al Fatto – perché ciò che è accaduto questa settimana nel ghetto ebraico di Roma mostra il livello non più sostenibile di fascismo o, se preferite, stalinismo, a cui gran parte della Comunità romana è arrivata”. Parole affilate come rasoi che, se pronunciate dal Borghezio di turno, sarebbero valse la patente di antisemita a vita. Peccato che la resa dei conti sia un affare interno al mondo ebraico, di cui Moni Ovadia è uno dei più conosciuti esponenti. D’altronde, l’ipotesi scissione non l’ha certo formulata il drammaturgo di Plovdiv. Prima di lui era stato Gad Lerner, ebreo anche lui, a postare sul suo blog l’idea di formare “una nuova Beit Hillel, una Keillah che però potrà nascere solo dopo un atto di dissociazione collettivo rispetto all’attuale organizzazione dell’ebraismo di Roma”.

Sia Lerner che Ovadia se la prendono con la gestione Pacifici, ritenuta intollerante alle critiche. Il secondo, nell’intervista bomba al quotidiano di Padellaro, si azzarda a ribadire che “non bisogna confondere il sionismo con l’ebraismo”, una separazione storicamente accettata, venuta però meno negli ultimi anni. Ma non si ferma qui. Gli ebrei romani, a suo modo di vedere, si comportano come i governi ultranazionalisti israeliani, spietati con i palestinesi, ma anche con gli ebrei più tolleranti. “Si tratta della stessa tipologia di persone – ribadisce – che detestava e detesta Rabin e lo scherniva ritraendolo con la svastica al braccio e la kefiah in testa”.

Ovadia sogna una Comunità democratica, tollerante, basata su Torah e Talmud, ma anche sulla Costituzione italiana. E invece “qui c’è gente che pensa di avere la verità in tasca e chi ha idee diverse è da ostracizzare”. L’artista milanese di adozione non ha dubbi sul fatto che si è arrivati a questo livello di violenza perché “si è confuso il mantenimento dell’identità ebraica con il nazionalismo” praticato da Netanyahu in Israele. Ovadia non ha paura di essere additato come il traditore e di fare la fine di Rabin, neanche quando aggiunge che furono i fascisti a volere gli ebrei riuniti in un’unica Comunità e che “durante i primi anni del Ventennio gran parte del notabilato ebraico italiano era fascista”.

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la modernità sfida la chiesa a pensarsi in modo nuovo

 

diplomazia vaticana

Di fronte alle sfide della modernità, Mons. Albert Rouet invita a pensare la Chiesa diversamente  

fonte: J.B.in “www.cath.ch” del 18 gennaio 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)

 nelle chiesa il potere è stato sacralizzato, non è più al servizio del popolo di Dio: le strutture parrocchiali  sono centripete, tutto gira attorno al prete, i laici restano spesso come dei minorenni
così mons. Rouet, l’arcivescovo emerito di Poitiers, con la chiarezza e l’incisività che lo contraddistingue, alle ‘giornate tematiche’ sull’apostolato dei laici: occorre inventare e immaginare la chiesa diversamente
 in un mondo sempre più globalizzato, di fronte ai colpi violenti della modernità che non risparmiano la Chiesa, Mons. Albert Rouet ha invitato i partecipanti alle “Giornate tematiche” della Communauté Romande de l’Apostolat dei Laïcs (CRAL) ad “inventare ed immaginare la Chiesa diversamente” 

I circa cinquanta laici che hanno partecipato all’incontro previsto per il 18 e il 19 gennaio al Foyer franciscain di Saint-Maurice, sono stati interpellati energicamente da Mons. Albert Rouet, forte personalità che non usa rimanere nell’ “ecclesiasticamente corretto”. Nulla di più stimolante per delle giornate intitolale “Il respiro della Chiesa passa attraverso la creatività dei laici. La creatività dei laici dà respiro alla Chiesa”

Nato nel 1938 in una zona agricola, specialista di pastorale sacramentale, a lungo a contatto con i giovani – come cappellano di liceo a Parigi fino al 1968, direttore di una équipe di preti con incarichi a favore dei giovani, delegato per il mondo scolastico e universitario – Mons Rouet è stato dal 1994 al 2011 a capo dell’arcidiocesi di Poitiers, nella regione francese del Centro-Ovest. Forte della sua lunga esperienza pastorale a Poitiers, dove ha tentato l’esperienza di una chiesa di comunione nel solco del Concilio Vaticano II – proponendo una struttura diversa che evita la centralizzazione ed inventa altre modalità di esercizio del ministero presbiterale – l’arcivescovo emerito è molto sollecitato per tenere conferenze in tutte le parti del mondo. “Viaggio molto, ha confidato sabato all’Apic, e vedo che la domanda del ruolo e del posto dei laici nella Chiesa si pone ovunque in tutti i continenti. Ci sono luoghi in cui la parola è soffocata. Progressivamente, le aperture del Concilio Vaticano II riguardanti i laici sono state canalizzate, anzi spesso ristrette.

Per Mons. Rouet, in questo mondo secolarizzato “in cui siamo diventati insignificanti”, è urgente ripensare la Chiesa diversamente, non sacralizzare il potere gerarchico, ma al contrario promuovere  piccole comunità fraterne, a dimensione umana, in cui tutti si conoscono. “Come possiamo  chiamare fraternità la nostra Chiesa, mentre si continua a centralizzare a tutta forza? Gli accorpamenti di parrocchie concentrano alcuni convinti in un luogo geografico dato, ma tolgono forze vive ad altre località, che ne avrebbero invece bisogno per resistere. Se si vuole essere significativi in questo mondo, bisogna invece decentralizzare per potersi parlare tra fratelli che si conoscono. C’è una misura affinché la fraternità possa esistere!” L’arcivescovo ritiene che la Chiesa debba d’ora in avanti basarsi sui battezzati. Bisogna avere fiducia dei laici e “smetterla di funzionare sulla base di una suddivisione medioevale del territorio”.

Basandosi sui Vangeli e citando san Paolo, rileva che il prete non deve essere visto in una relazione verticale, gerarchica, ma deve al contrario costituire un legame tra i credenti, creare la comunione, la comunità. “Le strutture parrocchiali sono centripete, tutto gira attorno al prete… Il prete è visto come un capo. Si è copiata l’organizzazione civile. Se vi introducete un laico, è come se ci fossero  due coccodrilli in un pantano: il conflitto è sicuro, questione di potere! Il potere è stato sacralizzato, da qui la guerra per il potere tra clero e laici!”

Se i laici restano dei minorenni, la Chiesa non è credibile, insiste Mons. Rouet. A suo avviso bisogna quindi cambiare la logica, uscire dallo schema di potere, passare dai laici come aiutanti di un prete al centro di tutto, a delle comunità locali responsabili, costituite da un’équipe di base animatrice, con un prete a servizio delle relazioni tra i fedeli. Essendo segno di comunione, il prete è a servizio della comunione, nello specifico presiedendo l’eucaristia e i sacramenti. “La comunione non richiede che lui faccia tutto. Lo pone al punto di incontro. Per questo, le strutture devono cambiare.”

L’arcivescovo emerito constata che il problema deriva dalle strutture ereditate dalla storia: la parrocchia, nel passato, era vista come un territorio, un feudo, e il parroco vi restava fino alla morte. Prima, il numero dei preti era alto in Europa o in Canada, mentre ne mancavano in altre parti del mondo.

“Oggi, da noi, mancano preti, e la Chiesa vorrebbe mantenere le stesse strutture… Allora, si fa appello a preti che vengono da paesi sufficientemente poveri per avere un numero sufficiente di vocazioni, tutto questo per non cambiare la sacralizzazione del potere”.

“Ma è questo che ha voluto Cristo, è questo che ci dice il Vangelo?”, si chiede Mons. Rouet. E cita la Costituzione dogmatica Lumen Gentium, promulgata dal Concilio Vaticano II, che dice che non c’è “nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché « non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è né schiavo né libero, non c’è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.; cfr. Col 3,11). Mons. Rouet difende l’idea di una chiesa costituita fraternamente”.

I 2500 vescovi convenuti a Roma per il Concilio con l’idea di una Chiesa come “società gerarchica sacra” sono ripartiti “convertiti”, con l’idea di una “Chiesa sacramento del Regno”, sottolinea l’arcivescovo emerito di Poitiers. “Questa conversione dovrebbe trovare oggi la sua realizzazione sul terreno, ma ne siamo ancora lontani! Siamo davvero pronti ad attuare le intuizioni del Concilio?”. “Finché avremo ancora i mezzi, le cose non cambieranno, c’è la forza dell’abitudine, l’incapacità di pensare qualcosa di diverso da quello che si conosce. Quando, ad esempio, avremo una diocesi con solo 3 parrocchie e 5 preti, quando ciò toccherà direttamente il borsellino, allora bisognerà ben dirsi che si può fare diversamente”.

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