Panebianco e le basi teoriche di uno ‘stato disumanitario’

immigrato

A. Panebianco e la soluzione da lui pensata per il problema delle migrazioni: occorre decidersi tra due modalità di comportamento, l’accoglienza e la convenienza

l’accoglienza è buonista, e siamo a posto!  la convenienza o l’interesse sembra a lui il criterio migliore (ancorché ci faccia un po’ vergognare, ma non più di tanto!) per decidere quali immigrati fare entrare e quali no: solo quelli che fanno al nostro interesse, e al diavolo quelli che vengono perché hanno l’acqua alla gola

gli risponde per le rime R. Robecchi su ‘il Fatto quotidiano’ odierno:

Troppe ipocrisie sugli immigrati

di Angelo Panebianco

in “Corriere della Sera” del 13 gennaio 2014

La richiesta di Matteo Renzi di inserire la riforma della Bossi-Fini fra i temi del contratto di

governo, al di là delle motivazioni del neosegretario del Pd, potrebbe essere una occasione da

cogliere per dare basi più razionali alla nostra politica dell’immigrazione. Dobbiamo solo limitarci a

tamponare e contenere i flussi migratori o abbiamo bisogno di interventi più attivi e, soprattutto, più

selettivi? Una domanda che diventa possibile se ci si lascia alle spalle le ambiguità e le ipocrisie che

hanno fin qui dominato il campo. Le ambiguità dipendono dal fatto che sembriamo incapaci, a

causa di certe sovrastrutture ideologiche, di decidere una volta per tutte a quale criterio appendere la

politica dell’immigrazione: la convenienza oppure l’accoglienza (il dovere di accogliere i meno

fortunati di noi)? Troppo spesso i due criteri vengono mescolati, l’immigrazione viene giustificata

alla luce di entrambi. Se non che, si tratta di criteri fra loro in contraddizione. Ne deriva

l’impossibilità di formulare proposte coerenti.

 

Le ragioni della convenienza sono note: abbiamo bisogno di contrastare l’invecchiamento della

popolazione, abbiamo bisogno – almeno se la ripresa economica, come si spera, prima o poi arriverà

– di forza lavoro aggiuntiva e di nuovi consumatori. Ma a queste ragioni, ispirate alla convenienza,

ne vengono sovente aggiunte altre di diversa natura, di ordine umanitario (le ragioni

dell’accoglienza). I piani si confondono rendendo impossibile fare scelte razionali. L’appello

all’accoglienza ha una chiara origine ideologica, nasce dalla confusione, propria di certi cattolici

(ma non tutti), e anche di un bel po’ di laici, fra la missione della Chiesa e i compiti degli Stati. È la

confusione fra il messaggio evangelico e la politica, fra l’universalismo della Chiesa, che parla a

tutti gli uomini, e l’inevitabile particolarismo dello Stato che risponde a un insieme definito di contribuenti.

L’accoglienza non può essere il criterio ispiratore di una seria politica statale. Perché si scontra con l’ineludibile problema della «scarsità »: quanti se ne possono accogliere? Qual è il tetto massimo?

Quante risorse possiamo mettere a disposizione dell’accoglienza se la vogliamo decente? A chi e a quali altri compiti toglieremo queste risorse?

L’unico criterio su cui è possibile fondare una politica razionale dell’immigrazione, per quanto arido o «meschino» possa apparire a coloro che non apprezzano l’etica della responsabilità, è dunque quello della convenienza , della nostra convenienza . Una volta adottato con franchezza ci consente di porci il problema – che altri Stati si sono già posti – di come selezionare gli immigrati. È evidente che se usiamo il criterio dell’accoglienza non possiamo selezionare. Invece, possiamo, e dobbiamo, farlo alla luce delle convenienze. Di quali immigrati abbiamo bisogno? Con quali

caratteristiche, con quali eventuali competenze? Oggi il problema forse non si pone data l’elevata

disoccupazione intellettuale giovanile (che resta grave, anche facendo la tara alle statistiche ufficiali

che, fraudolentemente, imbarcano fra i disoccupati anche gli studenti).

Però, domani potremmo avere bisogno di importare mano d’opera qualificata, per esempio in

settori tecnici lasciati sguarniti dai nostri giovani. In quel caso, una politica dell’immigrazione

lungimirante cercherebbe di attirare quel tipo di mano d’opera a scapito di altri tipi. Considerando

inoltre che un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa mano

d’opera non qualificata. Oltre una certa soglia, non può assorbirla nei mercati legali, finendo così

per favorire quelli illegali, gestiti dalla criminalità. Un effetto collaterale di una politica ispirata alla

convenienza è che faremmo star bene anche gli immigrati che accogliamo.

E poi ci sono altre considerazioni che dovrebbero entrare nelle valutazioni di chi decide la politica

dell’immigrazione. Per esempio, certi gruppi, provenienti da certi Paesi, dovrebbero essere

privilegiati rispetto ad altri gruppi, provenienti da altri Paesi, se si constata che gli immigrati del

primo tipo possono essere integrati più facilmente di quelli del secondo tipo. È possibile che

convenga favorire l’immigrazione dal mondo cristiano-ortodosso a scapito, al di là di certe soglie, e

tenuto conto del divario nei tassi di natalità, di quella proveniente dal mondo islamico. Quanto

meno, questo dovrebbe essere un legittimo tema di discussione.

Una politica realistica , fondata sulla convenienza, si dovrebbe insomma porre problemi di scelta,

di selezione (da monitorare e rivedere nel tempo, alla luce dell’esperienza). Non si tratta di

inventare nulla. Altri Paesi hanno già imboccato questa strada.

 

La selezione di Panebianco ”Sì agli immigrati, solo se utili”

di Alessandro Robecchi

in “il Fatto Quotidiano” del 15 gennaio 2014

Meno male, gente, tirate un sospiro di sollievo! Ora che Angelo Panebianco dalla tolda del Corriere

della Sera, da cui scruta l’orizzonte in servizio di avvistamento, ci illumina su come gestire il

complesso tema dell’immigrazione, i nostri problemi sono finiti. Finalmente uno sguardo lucido.

Finalmente un ribaltamento delle prospettive . Basta con le pippe umanitarie e l’accoglienza di chi

fugge a guerre e carestie, dittature, fame, tortura. Magari attraversa il deserto, magari se ne sta in

qualche galera libica per mesi e anni, magari carica donne e bambini su barconi malmessi tirando a

sorte con la propria vita. Basta con queste “troppe ipocrisie”, ci dice Pane-bianco.

Il fatto è che siccome abbiamo delle “sovrastrutture ideologiche” (malattia grave, si direbbe), non

sappiamo decidere tra due linee di comportamento, che sarebbero l’accoglienza e la convenienza.

Cioè l’accoglienza sarebbe una specie di malinteso cattolico e/o buonista che confonde messaggio

evangelico e politica. Insomma, ci ammonisce Panebianco con un immaginifico giro di parole, bello

il messaggio evangelico di aiutare gli ultimi, ma i contribuenti? Le tasse? Il nostro amato

tornaconto? Noi cosa ci guadagniamo?

E invece, perbacco, la convenienza sì che è un criterio valido! Perché persino Pane-bianco si rende

conto di alcune cosucce: che siamo vecchi, che l’immigrazione ci serve, che quando finirà la crisi

avremo bisogno di nuova forza lavoro (astenersi vecchi e bambini, quindi) e persino di nuovi

consumatori per il nostro mercato interno. Non ha dubbi, il guardiano delle frontiere Pane-bianco: il

criterio da seguire è quello della convenienza (e dice: “per quanto arido e meschino possa

sembrare”, excusatio non petita e coda di paglia infiammabile). E dunque, via con la selezione. Sì,

proprio: così la selezione dell’immigrato. Sa fare l’idraulico? Prego si accomodi, ci può servire. Lei

invece è stata torturata e violentata dagli sgherri di una dittatura africana? Spiacenti, non c’è posto.

Non fa una grinza, diciamolo. Panebianco pone finalmente, senza se e senza ma, e anche senza

vergogna, le basi teoriche dello Stato “disumanitario”. Davanti all’universo di gente, uomini, donne,

persone che fuggono dai posti in cui non riescono a vivere, vuole fare una selezione. La selezione

della specie, appunto. Sui criteri di selezione, si può aprire il dibattito, certo, e Panebianco dice la

sua. Per esempio lui vorrebbe che immigrasse qui da noi “mano d’opera specializzata”. Ingegneri

spaziali, biologi molecolari, esperti di nanotecnologie. Pure muratori e camerieri non gli vanno più

bene, perché, spiega, “un Paese economicamente avanzato non può permettersi di importare troppa

mano d’opera”.

Insomma, astenersi perditempo. Ma poi, per non irrigidire troppo la selezione, si può procedere a

grandi linee. Per esempio, dice il Panebianco al culmine della sua requisitoria, sarebbe meglio

importare immigrati di cultura cristiana-ortodossa, piuttosto che islamici che poi vogliono un posto

per pregare e incasinano il piano regolatore con le moschee. Ecco sistemato l’antico dubbio su cosa

scegliere tra accoglienza e convenienza: la prima è un lusso per mollaccioni cattolici e laici

stupidamente umanitari, la seconda è un affarone. Sulla convenienza di avere pensatori come

Panebianco, invece, il dibattito è aperto: lo stato disumanitario che gli piace tanto sarà abbastanza

cinico da apprezzarlo.

 

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resoconto caricaturale del dibattito pubblico

Nomadi, tutti d’accordo: “Non c’è aggressione mediatica”. La discussione s’infiamma

Fazzi: “Avrei potuto far di più”

Turri: “Aiutandoli si risparmia”

Colmegna: “Testa sotto la sabbia”

così G. Testa resoconta il ‘dibattito pubblico’ sul progetto di riorganizzare il ‘campo di transito’ dei sinti e rom a Lucca:

    • le mie considerazioni sul rapporto rispettoso e non ‘manageriale’ con loro: ridotte a questione di sentimenti
    • la relazione di S. Bontempelli: neanche menzionata
    • le riflessioni di un non relatore (l’ex sindaco Fazzi) valorizzate in primo piano e più di quelle dei relatori
    • la denuncia da più parti venuta (dal Toschi e da me) di una vera e propria aggressione mediatica negata spudoratamente

… e uno si domanda: ha ancora un po’ di consistenza e valore l’onestà professionale?

LUCCA, 14 gennaio

Recriminazioni, proposte, analisi. Il dibattito sulla questione dei campi nomadi di Lucca si accende. E contemporaneamente si cercano di abbattere paure e preconcetti. Mentre la Caritas locale avanza le sue proposte, torna a parlare l’ex sindaco Pietro Fazzi. Don Luciano, il cappellano che segue rom e sinti, punta alle relazioni e ai sentimenti. Mentre don Virginio Colmegna critica l”atteggiamento diffuso di chi “nasconde la testa sotto la sabbia”. Alla fin fine nessuno se la prende davvero con i giornalisti. Anzi, in molti leggono nell’attenzione mediatica un’opportunità. Un’occasione per discutere, analizzare, dibattere. E magari – perché no? – trovare anche una risposta adeguata.
Di questo si è parlato nel corso del doppio appuntamento in programma oggi a Villa Bottini. Il tema principale non era quello dei nomadi, bensì il concetto di inclusione. Ma il riferimento è inevitabile. E così sul tema è intervenuto anche l’ex sindaco Pietro Fazzi. “Come ex primo cittadino riconosco di non essere stato perfettamente adeguato al mio ruolo”, confessa. “Per il campo nomadi non ho potuto fare tutto quello che avrei voluto”. Il suo mandato si sarebbe concluso prima di qualsiasi passo concreto.
Ma se fosse potuto intervenire, cosa avrebbe fatto Fazzi? Ce lo spiega lui stesso. “Era in corso la ricerca di accordi”, dice. “Volevamo dare a ciascuno una sistemazione. Mi riferisco a chi abitava i campi di via della Scogliera e via delle Tagliate”. L’obiettivo di Fazzi era quindi quello di attuare una delocalizzazione concordata. “Del resto il regolamento urbanistico lo consentiva”, aggiunge. “Eravamo alla ricerca di una collocazione decorosa. Volevamo prima di tutto attenuare il più possibile i problemi igienici. Del resto , se si vuole, questo è un problema che si risolve in poche settimane. Teoricamente è sufficiente un provvedimento ordinario”. Le linee di Fazzi? Si basavano sue due linee di intervento: nessuna demolizione e nessuna deportazione. “Arrivare nel campo con le ruspe non mi sta bene. In nessun caso”, precisa l’ex sindaco. “Una cosa del genera non l’avrei mai fatta. Avrei effettuato spostamenti concordati. E’ invece discutibile il fatto che ci siano idee illuminate da seguire sulle questioni abitative”.
Sulle scelte condotte finora dall’attuale amministrazione, Fazzi si mostra critico soprattutto sul coinvolgimento e la partecipazione del primo cittadino: “Perché non se ne occupa in prima persona? Questo è un tema che ha segnato la storia della città per più di quarant’anni. La gestione non dovrebbe essere rimandata ad altri. Soprattutto quando alla fine si fa affidamento alla Caritas. Su questo non sono per niente d’accordo”.
La replica arriva direttamente da Donatella Turri, direttore di Caritas Lucca e relatrice dell’evento organizzato a Villa Bottini: “Tra la Caritas e il Comune di Lucca c’è la collaborazione su un percorso di supporto alla scolarizzazione che ormai va avanti da quindici anni. Stiamo solo proseguendo un intervento ‘storico’ che si rinnova di anno in anno. Tutte attività che proseguono in continuità con le amministrazioni precedenti. In questo senso il problema proprio non esiste”.
Poi la Turri si sposta sui contenuti. “E’ importante disegnare uno scenario realistico, capace di spostare il dibattito dal piano dell’emotività a quello della discussione aperta e lucida. L’obiettivo? Favorire l’inclusione”. L’attenzione si concentra soprattutto su obiettivi a breve termine. “Prima di tutto occorre risolvere le situazioni di emergenza, come quella sanitaria all’interno del campo e l’inclusione scolastica”, spiega la Turri. “Ci sono già molti interventi che proseguono da anni. La strategia su sinti e rom prevede infatti quattro linee di intervento: scolastica, lavorativa, sanitaria e la politica dell’abitare. Le parole chiave? Accompagnamento e mediazione. Con la cittadinanza è infatti possibile attivare percorsi più razionali sull’accesso ai servizi sanitari”.
Nel tentativo si spiegare l’utilità di queste azioni, per farsi capire il direttore della Caritas punta anche al portafogli: “Dal campo nomadi si rivolgono sempre al pronto soccorso”, dice. “Ma se rispondiamo subito è possibile attuare interventi destinati a un utilizzo più razionale delle risorse. Lasciare le cose così come sono significa pesare sulla collettività. Perché tutto ha un costo. Se provassimo a dare risposte diverse, in modo concertato e partecipativo, sicuramente potremmo risparmiare anche parecchi soldi”.
Su una cosa Fazzi e Turri sono d’accordo: il problema non è dei media. “Sui giornali non c’è aggressione, si parla in maniera civile”, dice l’ex sindaco. “Nel trattare l’argomento, mediaticamente non c’è stato alcun atteggiamento razzista”, spiega il direttore Caritas. “Semmai la città ha molta paura. Quando si fa leva su quella senza agire sulla comprensione, be’, tutto diventa più complicato. Riconosco all’amministrazione Tambellini di aver messo mano con coraggio al tema dell’abitare. Un passaggio necessario per affrontare la questione delle minoranze. Ma per raggiungere una reale inclusione c’è ancora molta strada da fare. Riconosco a questa amministrazione la voglia di lavorare. Mi auguro che la tempesta mediatica non faccia posare definitivamente una pietra sulle possibili azioni, facendo venir meno la voglia di fare qualsiasi cosa”.
Al di là delle questioni locali, don Virginio Colmegna affronta il problema da un’altra prospettiva. Lui offre una fotografia diversa della popolazione rom, una delle più grandi minoranze svantaggiate in Europa. Del resto si parla pur sempre di circa 12 milioni di persone. “Spesso si ragiona con la pancia e non con elementi che ci fanno confrontare serenamente”, dice. “Spesso hanno aspettative di vita più breve, vivono in alloggi svantaggiati. E’ un pezzo di umanità e di storia che ci appartiene. E’ un gruppo fortemente discriminato e molte situazioni sono lasciate degradare”. Ma com’è possibile affrontare i problemi? “Occorre innanzitutto avviare un confronto sul piano degli investimenti, valutando i possibili risultati”, sostiene Colmegna. “Quello che non vogliamo è mettere la testa sotto la sabbia e fare finta di nulla. Non lo possiamo fare per rispetto di tutti i cittadini, perché poi cresce la paura. Sono convinto che lavorare per l’integrazione è un’opportunità. Non dobbiamo abbandonare questa strada…”.

gianluca testa

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